In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Ripartiamo dal Congo

Dura la vita per i bambini della “Padania”! Intendiamo quelli poveri: i figli dei migranti, dei senza lavoro “padani” o no, o di chi il lavoro ce l’ha ma solo per portare a casa quattro soldi che andare al sindacato si ottiene solo di restare a casa e finire per perdere pure il permesso di soggiorno. Un tempo si parlava di sfruttamento e si gridava all’ingiustizia sociale. Ma un tempo si diceva anche che i bambini sono tutti uguali, che tutti hanno diritto all’istruzione e alla salute.
E ora eccoci qua, in un nordest dove sindaci eletti da maggioranze bulgare pretendono che non si canti Bella Ciao ma la canzone del Piave per festeggiare il 25 aprile. Eccoci qua a scrivere di bambini che non possono iscriversi all’asilo perché se il padre è clandestino son clandestini pure loro o di cadaveri di neonati che devono essere riesumati perché i oro genitori li hanno seppelliti con la testa rivolta verso la Mecca, offendendo l’anima cattolica di qualcuno. E sono solo alcuni casi. Potremmo anche parlare dei 16 scolari elementari di Verona, la città di Romeo, Giulietta e Tosi, fatti scendere dal bus scolastico da un integerrimo assessore perché i loro genitori non avevano “schei” per pagare gli abbonamenti. Di bimbi rimasti a digiuno in terra padana, nella leghistissima Adro (Brescia), ne abbiamo già parlato nello scorso numero del nostro supplemento Nordest. E neanche quello era un caso isolato: lo stesso è accaduto a Padova dove il Comune – che, per quel che vale, sarebbe anche amministrato da una sorta di centrosinistra - ha rifiutato la proposta di rateizzazione del debito di una mamma e ha chiuso la refezione dell’asilo al figlioletto rispedendolo a casa con un foglietto in mano in cui si chiedeva alla donna di provvedere immediatamente a saldare il dovuto. E gli è andata anche meglio del suo coetaneo di Montecchio messo direttamente a pane e acqua dal sindaco del Carroccio. E potremmo anche raccontare del capogruppo leghista della Lombardia che ha invitato i tifosi a fischiare i venti bambini rom che il presidente dell’Inter Massimo Moratti ha fatto sfilare allo stadio prima della partita come segnale contro la violenza. Ecco. Tutte queste situazioni in terra padana non indignano più. Ma per fortuna non è così in tutto il mondo. Veniamo a leggere che a Bunyatenge, nel Congo, i bambini della scuola locale hanno raccolto 600 euro per aiutare i loro coetanei di Adro rimasti a stomaco vuoto. E allora grazie, bambini di Bunyatenge. Grazie perché ci avete ricordato che c’è ancora gente che certe cose gli fanno schifo.

Tre firme per l'acqua

Privatizzare l’acqua significa mercificare un diritto. Ma i diritti non si mercificano, si tutelano. Perché i diritti non possono essere né venduti né comprati. Questo è quanto ha ribadito il centinaio di persone che giovedì pomeriggio, 22 aprile, si sono dati appuntamento al teatro adiacente la storica chiesa dei Frari di Venezia, per discutere e coordinare la campagna referendaria nella provincia di Venezia.
Tre quesiti per un unico scopo: respingere il tentativo del governo di privatizzare un bene comune come l’acqua e aprire la strada ad una sue gestione più consapevole e partecipata. “Nella sola Venezia – ha spiegato Francesco Penzo, uno dei coordinatori della raccolta firme – contiamo di raccogliere perlomeno 10 mila firme. Già moltissime organizzazioni sociali e sindacali, associazioni ambientaliste e politiche, ci hanno dato ampia disponibilità ad organizzare banchetti e a raccogliere adesioni. Ma la cosa più bella è stata vedere studenti, giovani e anche persone meno giovani che prima di oggi non avevano mai partecipato ad una campagna come attivisti, farsi avanti e chiederci come potevano essere utili”. Grazie alla disponibilità del neo assessore comunale all’ambiente Gianfranco Bettin, che non ha caso ha ottenuto dal sindaco Giorgio Orsoni la delega ai Beni Comuni, il centro pace coordinato da Luigi Barbieri si è messo a disposizione del coordinamento come centro logistico. Un problema, considerato la grande partecipazione all’assemblea preparatoria, è stata la scarsa disponibilità di moduli per la raccolta firme a disposizione. In attesa dei “rinforzi”, sarà indispensabile usufruire al meglio del materiale disponibile riempiendo ogni singola casella di ogni singolo modulo. “Questa battaglia referendaria è una occasione storica per riscoprire e rilanciare uno spazio di iniziative dal basso non soltanto per riportare al centro del dibattito politico la tutela dei beni comuni – ha commentato il verde Beppe Caccia - ma anche per aprire una discussione su come questi beni devono essere gestiti per garantire tanto l’accessibilità da parte di tutti quanto un utilizzo ottimale”. Non dimentichiamo che il Comune di Venezia è stato tra i primi ad introdurre nel suo statuto grazie ad una delibera portata in consiglio da verdi e Rifondazione il 18 gennaio 2010, il riconoscimento dell’acqua come bene pubblico la cui gestione “è un servizio pubblico di locale privo di rilevanza economica” e pertanto “non soggetto alla disciplina della concorrenza”. “L’acqua – si legge nella premessa alla delibera – è un bene essenziale ed insostituibile per la vita. Pertanto la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi costituiscono un diritto inviolabile dell’uomo, un diritto universale, indivisibile che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’articolo 2 della Costituzione”.

Venezia, giunta e polemiche

C’è da dire che il primo nemico del Pd è sempre il Pd stesso. Se ne deve essere reso conto anche il neo eletto sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che per varare la giunta comunale ha dovuto improvvisare uno slalom da sciatore olimpico tra i tanti, troppi, correntoni democratici, finendo per non accontentarne nessuna ma, in compenso, per scontentare tutta la base che ora chiede le dimissioni in toto della classe dirigente veneziana del partito.
E per fortuna che hanno vinto le elezioni al primo turno! Ma su chi ne abbia il merito, è tutto da discutere. Orsoni può togliersi lo sfizio di sbattere sul tavolo le migliaia di preferenze ottenute in più della somma dei voti delle liste che lo appoggiavano. Voti “suoi” o voti “contro Brunetta” che siano, il neo sindaco è riuscito a farli pesare e ad escludere dalla lista degli assessori, così come aveva promesso in campagna elettorale, tutto quel “cimitero degli elefanti democratici” che era, per lo più, la giunta Cacciari. Fuori pezzi da novanta come, per dirne uno, l’ex vice sindaco Michele Mognato, oppure l’ex presidente provinciale trombato Davide Zoggia . “Non per volontà di escludere – ha spiegato il sindaco – ma per dare un segnale di rinnovamento”. Rinnovamento non gradito né dalle correnti Pd, che da tre giorni si stanno vicendevolmente pesando le deleghe tra i vari assessorati a colpi di manuale Cencelli, né dalla base che parla esplicitamente “dell’evidente incapacità del Pd di rappresentare se stesso … in questo schifo complessivo”. Citiamo una delle tante lettere inviate ai giornali a firma di iscritti. Nel conteggio finale, il Pd si porta comunque a casa 5 assessori tra i quali un vicesindaco sufficientemente imbottito di deleghe, Sandro Simionato, l’unico nome della vecchia guardia giubilato da Orsoni. Le altre novità sono sostanzialmente tre. La prima riguarda l’Udc ritornata a occupare una sedia in giunta con Ugo Bergamo (sempre in sella!) che è riuscito a ritagliarsi un super assessorato che si mangia l’intero pacchetto trasporti, compreso il discutibile progetto della sublagunare. Il secondo punto è l’esclusione tutta politica della federazione della Sinistra. Il solo eletto in consiglio, ex Rifondazione, era anche il solo assessore papabile. Nel caso, avrebbe dovuto lasciare il posto al secondo tra i non eletti, proveniente dalle file del Pdci. Pesati i pro e i contro, il consigliere ha preferito rimanere fuori della Giunta in cambio di una delega forte come quella sul lavoro. La terza novità che completa il cosiddetto Laboratorio Venezia, è la lista In Comune che ottiene la nomina del verde Gianfranco Bettin ad assessore all’Ambiente e alla Città sostenibile. Per l’ambientalista che già aveva rivoluzionato il settore delle politiche sociali, nel suo precedente mandato con la prima giunta Cacciari, si prospetta una nuova sfida su temi vitali come la battaglia contro l’inceneritore di prodotti tossici Sg31 che la Regione intende realizzare a Marghera.
Dall’altra sponda del canal Grande a palazzo Balbi, il varo della giunta regionale si è rivelato molto meno traumatico. Qui c’è poco da dire. I partiti sono solo due. E tra questi, uno è quello comanda. E dentro questo, a dettar legge – da Roma - c’è un unico leader. E’ bastato il “nyet” del senatùr che il governatore Zaia si è immediatamente rimangiato la delega all’Agricoltura che aveva assegnato a Massimo Giorgetti del Pdl, destituito prima ancora di essere nominato. Bisogna capirli. In questi anni di governo padano dell’agricoltura veneta, la Lega si era ritagliata i suoi bei carrozzoni clientelari, vere e proprie macchine da guerra per gestire fondi, posti da dirigente e serbatoi di voti. Galan ministro ci avrebbe messo volentieri le mani sopra, se non altro per pareggiare i conti con i lumbard che lo hanno sfrattato da palazzo Balbi. Ma perché favorirlo con la nomina di un assessore compiacente? Che diamine! Se vogliono le banche, i lumbar, vorranno anche qualcosa da metterci dentro.

I profughi truffati di Padova

Sono scappati dalla guerra. Hanno affrontato un viaggio durissimo. Hanno sofferto fame, privazioni e umiliazioni. Sono approdati in Italia come un naufrago si aggrappa all’ultima scialuppa. E qui sono stati truffati e derubati di quel poco che ancora possedevano da un furbacchione tutto nostrano.
La storia dei 17 ragazzi somali di Padova è emblematica di come (non) funziona l’accoglienza in questa nostra Italia.


Sono tutti giovani sui vent’anni, a parte due di loro che hanno passato di poco i trenta. Sono fuggiti da un paese in cui la guerra è combattuta da bande armate più che da eserciti regolari. E qui vale solo la pena di ricordare che la politica estera dei cosiddetti paesi “sviluppati” non è affatto innocente per quanto riguarda la situazione in cui versa la Somalia. Sono scappati semplicemente per restare vivi e per far restare vivi i loro famigliari che contano sul denaro inviato dai migranti per tirare a campare. Un viaggio di inferno, lungo circa tre mesi, che ha gli ha prosciugato risorse, salute e dignità: dal Sudan alla Libia, dove si sono fermati per il tempo necessario a guadagnare i circa mille euro che servono per comperare un passaggio dagli scafisti. E poi il viaggio notturno in gommone sino a Lampedusa e una lunga permanenza nel centro assistenza rifugiati dell’isola dove, a differenza di tanti altri profughi come loro ma meno fortunati di loro, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento di rifugiati politici previsto dalle normative internazionali e comunitarie. Con un permesso di soggiorno in mano, i giovani somali si sono spinti a nord, sino alla Svezia, in cerca di lavoro ma le autorità locali li hanno rimandati in Italia sostenendo che spetta al Paese che ha concesso l’asilo provvedere ai rifugiati. Un po’ per caso e un po’ per necessità si sono ritrovati a Padova. Era la settimana pasquale e il freddo si faceva ancora sentire. Ma le strutture della Caritas in cui alloggiavano avevano già chiuso i battenti. Come tutti i disperati, si sono rifugiati alla stazione dei treni. E qui li ha avvicinati un distinto signore che ha proposto di affittare loro, per la modica cifra di 100 euro al mese, la grande abitazione nel quartiere Mortise che aveva “appena ereditato dallo zio”. I ragazzi hanno accettato subito, pagando in contanti un mese anticipato, felici di avere perlomeno risolto a costo contenuto, considerato le cifre che gli avevano sparato gli altri proprietari, il problema della casa. Ma era solo la solita truffa alla Totò. Con la sola differenza che mentre Totò vendeva fontane di Trevi ai miliardari americani, i truffatori di oggi vendono posti letto di case non loro a poveri cristi. Il che ci potrebbe indurre a riflettere su come sia cambiato il mondo in questi ultimi cinquant’anni. Ma torniamo alla nostra storia. Immediatamente “sfrattati” dal vero proprietario tornato dalle ferie, i 17 ragazzi somali si sono ritrovati sulla strada. E vai a pescare il tipo che gli ha fregato gli ultimi euro! “Non avevamo cuore di rimanere con le mani in mano e far finta che queste persone non esistano – spiega Bertolino – così li abbiamo ospitati nei locali della nostra sede, al Portello. Certo, non è una sistemazione ideale: lo spazio è poco, non ci sono letti, non c’è cucina. Ma che altro potevamo fare? Lasciarli ancora per la strada?” Razzismo Stop ha organizzato una assemblea pubblica, svoltasi mercoledì 14, gratificata dalla presenza di tanti studenti, cittadini, attivisti di altre associazioni di volontariato. Un gruppo di studenti universitari ha già organizzato un corso di italiano, per aiutare i giovani somali ad esprimersi nella nostra lingua. Altri si sono dati da fare per trovare coperte, brandine e materassi. “E’ chiaro però – spiega Luca Bertolino – che deve essere la pubblica amministrazione a dare una risposta che vada oltre la prima accoglienza perché il diritto di asilo a questi rifugiati sia un atto concreto e non solo formale. Abbiamo preparato un appello al sindaco Flavio Zanonato e chiediamo a tutti, associazioni, partiti, cittadini di firmarlo e di aiutarci a creare una rete di solidarietà attorno a questi ragazzi”.

Il battello dei sogni perduti

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Che un battello ormeggiato ad una riva diventi un “abuso edilizio” con conseguente obbligo di “demolizione e ripristino dello stato precedente del luogo” poteva accedere solo a Venezia. La storia che andiamo a raccontare comincia venti anni fa, quando una coppia danese, Anna e Mike Kiersgaard, fa quella che si dice “una scelta di vita” e acquista un vecchio vaporetto classe ’35, il “nonno” dei battelli attualmente in navigazione nel canal Grande considerato che si tratta di uno dei primi dieci mezzi pubblici acquei messi in funzione dall’amministrazione comunale e i suoi “nipoti”, attualmente in navigazione, ancora ne rispecchiano la tradizione costruttiva. Per circa mezzo secolo il vaporetto aveva solcato le placide acque del canal Grande lungo l’immutabile rotta che dal ponte degli Scalzi porta all’isola del Lido e viceversa, trasportando i genitori dei veneziani di oggi, oltre a quel mezzo mondo di visitatori che, perlomeno una volta nella vita, si è fatta una passeggiata all’ombra del campanile di piazza San Marco.


Poi il vecchio vapore era stato pensionato e, dopo qualche vicissitudine, abbandonato a marcire sui fanghi di una barena. Anna e Mike l’hanno trovato così. Ristrutturarlo da cima a fondo sino a farne un’accogliente abitazione con una stanza per i due bambini – Buster e Amedeo - che nel frattempo erano venuti al mondo, dove un tempo c’era la sala motori, è stata una avventura lunga 5 anni. Il vaporetto, con tanto di tendine sui finestrini e vasi di fiori sui bottazzi, è ormeggiato da oltre quindici anni, all’isola della Giudecca, lungo il rio della Palada, circondato dalle barche dei pescatori. La coppia danese, diventata oramai e a pieno titolo veneziana d’adozione, si è integrata perfettamente nella vita dell’isola e la loro casa - battello oggi è una delle mille “curiosità veneziane” che rendono questa nostra città diversa da tutte le altre. Ma il battello è anche, per chi ci vive, una casa come tutte le altre. E così i Kiersgaard hanno chiesto e ottenuto, l’allacciamento alla rete elettrica e ad altri servizi come l’acqua e il gas. Inoltre pagano regolarmente l’affitto dello spazio acqueo al Comune di Venezia come tutte le altre imbarcazioni ormeggiate. Per regolarizzare a tutti gli effetti la loro posizione, la famiglia danese ha chiesto anche un numero civico: 500/A. Un indirizzo che alla Giudecca è diventato proverbiale. Questo è successo circa 15 anni fa. Il resto è cronaca recente. Le case galleggianti sono riconosciute e tutelate da specifiche normative in tutta Europa tranne… l’Italia. Qualche zelante burocrate,un paio di settimane fa, si è accorto che all’anagrafico 500/A non corrispondeva la concessione di nessuna opera edilizia. Fare due più due e tirare le conclusioni, per il nostro tecnico del catasto che di sicuro non ha mai vissuto alla Giudecca, è stato inevitabile: un civico privo di concessione edilizia è per forza di cose un abuso edilizio. Da qui la lettera formale con la richiesta d’immediata “demolizione e ripristino dello stato precedente del luogo”. E vai a spiegare tu che si tratta di un vaporetto! La legge non contempla le case galleggianti e un vuoto legislativo è un vuoto legislativo che la burocrazia aborrisce e inconcepisce come per Aristotele la natura fa col vuoto fisico. Ma a difendere quello che hanno poeticamente chiamato “la casa del battello dei sogni” è scesa in campo l’intera Giudecca. Gli amici del vaporetto di rio della Palada hanno fatto girare per la rete un toccate appello cui ha significativamente aderito anche il neo sindaco Giorgio Orsoni in cui si invitano il sindaco – per l’appunto – i tecnici del comune e gli avvocati civici, “a sedersi in una di queste giornate primaverili alle sei di sera lungo la fondamenta della Palada, e ad osservare il reale rapporto di quest'opera d'arte viva e vissuta con l'ambiente che la circonda e si completa con la sua presenza. E convincersi che ogni soluzione che preveda la rimozione del battello è avvilente”. Perché “il battello di Anna, Mike, Buster e Amedeo è ormai parte imprescindibile del paesaggio della Giudecca e come tale va tutelato. Un richiamo vivente al reale rapporto della città con le sue acque, lontano anni luce dalle finzioni plastiche che addormentano il nostro immaginario”.

Cytotec, per disperazione

Si chiama Cytotec. E se il nome vi suona nuovo significa che nella vita siete state fortunate. Le enciclopedie mediche spiegano che è un farmaco usato per curare gastriti e prevenire ulcere gastriche. Ma di notte, in quella specie di mercato nero in cui si trasformano le nostre stazioni ferroviarie, lo potete acquistare senza ricetta medica a circa il doppio del prezzo stampato sulla scatola. Perché? Perché l’assunzione in forti dosi di questo medicinale provoca forti contrazioni dell’utero e conseguentemente pericolose e violente emorragie sino all’espulsione del feto. Il Cytotec è l’aborto delle disgraziate.
E’ la soluzione chimica – rischiosa ma comunque una soluzione – che permette l’interruzione della gravidanza ad una donna che non può rivolgersi ai consultori. Non può perché i medici dell’Usl sono tutti obiettori e la lista d’attesa infinita. Non può perché è clandestina e ha paura. Oppure non è clandestina ma ha comunque paura di perdere il lavoro. “Volete un esempio? Prendiamo una delle tanti badanti che lavorano in Italia. Se resta incinta è matematico che perde il lavoro. Se perde il lavoro, perde il permesso di soggiorno. E se perde il permesso di soggiorno sarà costretta a rientrare in patria, povera come era partita e con un figlio in più da provvedere. In un altro paese europeo, questa donna potrebbe essere aiutata con la Ru486. In Italia è costretta a ricorrere al Cytotec”, ci spiega Jeny Villa. Jeny è colombiana di origine e lavora come mediatrice culturale per l’associazione Migramentes convenzionata col Comune di Venezia. “Quando sento le dichiarazioni di Zaia sulla Ru486 mi vengono i brividi. Mi chiedo se sappia di cosa sta parlando. E mi chiedo anche come facciamo le donne italiane ad accettare che un uomo parli di cose che solo una donna può capire. Ma non si rende conto che se una donna arriva al punto di voler abortire il problema della legalità non la sfiora nemmeno? Se una donna decide di interrompere una gravidanza, il suo problema è soltanto sui metodi. Che la cosa sia legale o meno, non ha nessuna importanza per lei. Quello che lo Stato può fare è solo decidere se starle vicino e aiutarla o complicarle ulteriormente la vita. Tutto qua. Il resto sono solo discorsi di uomini che non vogliono neppure provare a considerare il problema da un punto di vista femminile”. L’uso improprio del Cytotec è oramai ampiamente dimostrato dall’aumento esponenziale di casi di “aborto spontaneo” dovuto ad emorragie che si registrano nei ricoveri d’urgenza al pronto soccorso. Il farmaco è praticamente libero: oltre che nelle stazioni, può essere acquistato per internet, fatto arrivare dall’estero o direttamente prescritto da un medico di casa compiacente. Per tacita ipocrisia, il Cytotec non attira tutti gli strali e gli anatemi con i quali cercano di colpire la Ru486, anche se dubitiamo che qualcuno in Italia lo abbia mai utilizzato per curarsi la gastrite. E’ un farmaco che provoca forti dolori, richiede l’ospedalizzazione – pure se spesso si fa “tutto in casa”, specie se la paziente è irregolare - e mette a rischio la vita stessa della donna. Si chiede Jeny: “Non basterebbe guardare questa realtà per mettere subito in circolazione la Ru486?”

L'aborto è tornato clandestino

Altro che RU481! Ce lo diciamo o no, che l’aborto è praticamente ritornato nella clandestinità? Basta dare un’occhiata alle percentuali di obiettori presenti nei reparti di ginecologia del Veneto, per rendercene conto. Vediamo qualche numero. Usl 1 Belluno: 8 ginecologi, tutti obiettori. Usl 3 Bassano: 11 obiettori su 14 ginecologi. Usl 9 Treviso: 14 su 15. Azienda ospedaliera di Padova 15 obiettori su 18. A Venezia, Usl 12, troviamo la percentuale più favorevole: solo 6 su 8. A Verona, Usl 20, sono tutti obiettori. A Legnano, Usl 21, pure. Chioggia, Usl 14, Adria, Usl 19, Vicenza, Usl 6, stessa musica: tutti obiettori.
Come può in queste strutture una donna interrompere la gravidanza? E’ costretta ad attendere che arrivi un medico esterno. Una volta alle settimana se va bene, una volta ogni 15 giorni se va male. In ogni caso, le liste d’attesa sono chilometriche, i tempi si allungano, ed il rischio di sforare i termini prescritti dalla legge sempre più concreto. Perché c’è una percentuale così alta di obiettori? “Perché per un ginecologo assunto in una struttura ospedaliera pubblica dichiararsi obiettore significa soprattutto due cose: risparmiare lavoro e non compromettersi la carriera” commenta la dottoressa Pervinca Rizzo. “Facciamoci caso: le percentuali più alte sono nelle Usl dove la Lega è più forte e le nomine, anche negli ospedali, sono tutte politiche. Dichiararsi abortista significa, per un ginecologo fresco di laurea, rinunciare a diventare un domani, primario e, quasi sicuramente finire tra quegli, diciamocelo pure, sfigati costretti a girare come trottole da un ospedale all’altro per fare il lavoro che gli anti abortisti si rifiutano di fare”. Pervinca Rizzo esercita nell’entroterra veneziano ed è quelle che potremmo definire una dottoressa da “combattimento”: ogni anno guida le “brigate mediche” dell’associazione Ya Basta in Chiapas, per portare aiuti e solidarietà nei pueblos zapatisti. Pervinca ha formato decine e decine di “promotoras de salud” (promotrici di salute), specie di infermiere volontarie indigene che si incaricano di diffondere pratiche contraccettive e nozioni sulla tutela della salute femminile nei villaggi più sperduti della selva Lacandona. Ma torniamo in Italia. Cosa può fare una donna costretta ad interrompere la gravidanza, di fronte a tutte quelle difficoltà che le frappone proprio quella struttura pubblica che, al contrario, dovrebbe aiutarla? Se la donna in questione è di “razza caucasica” e ben provvista di soldi, si rivolge a qualche struttura privata, dove magari ritrova – ma in veste di paziente pagante – quel medico che nel pubblico si era dichiarato antiabortista. Ma se la donna ha i soldi contati o, peggio del peggio, è una migrante? “Semplicemente al consultorio non ci va – spiega Pervinca -. Con tutto lo straparlare di denunciare i clandestini che si è fatto, i migranti, pure quelli regolari hanno paura a rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche. Pure se i medici non possono denunciare nessuno per una evidente questione di segreto professionale, la paura rimane. Il risultato è che ogni etnia si è organizzata per conto suo. La clandestinità, la paura ha riportato in auge le mammane e i ferri da calza. Oramai d’aborto si ritorna a morire”.

Casta padana

Non sempre si impara dalle proprie sconfitte. Chi si chiede come sia potuto succedere che i lumbard abbiano sbancato il settentrione e continua ad analizzare il fenomeno leghista come una “anomalia” nel panorama della politica italiana, farebbe bene a riflettere sui fatti. Di anomalo la Lega oramai ha solo il linguaggio che continua ad essere allo stesso tempo di lotta e governo. Così non stupisce che Luca Zaia, neo governatore veneto, nella sua seconda uscita pubblica (la prima l’ha dedicata a ribattere che la RU 486 non troverà spazio nelle strutture pubbliche venete perché non vuole “banalizzare l’aborto”) tuoni contro quello stesso governo di cui è ministro, chiedendo riforme e federalismo.
Ma per il resto la Lega è un partito come un altro, con la sola eccezione che, mantenendo una struttura stalinista nelle gerarchie interne e nella gestione tutt’altro che democratica del dissenso interno, ed essendo per sua natura poco portato per la democrazia, risulta, tra tutti i partiti italiani, quello meno toccata dalla crisi che ha colpito il sistema democratico basato sui partiti. Tutto qua. Per il resto, la Lega ha saputo cogliere l’eredità dei due grandi partiti ottocenteschi che hanno impostato il modello economico veneto. Ha occupato il territorio – sagre paesane, centri culturali, feste tradizionali, sezioni stile case del popolo – come faceva il vecchio partito comunista, e nello stesso tempo ha saputo occupare anche i consigli di amministrazione di enti e municipalizzate come, prima di Tangentopoli, solo la vecchia balena bianca, la Democrazia Cristiana, sapeva fare.
Oramai, per seguire le ramificazioni della Casta Padana, da Milano a Roma, ci vuole un geografo. Doppi incarichi, conflitti di interesse, confusioni tra politica, appartenenza ad uno schieramento e gestione del servizio, sono all’ordine del giorno. Il tutto si traduce – quando va bene - in sprechi, inefficienze, e aumenti dei costi a carico dei cittadini.
Luigi Calesso, portavoce di Un’Altra Treviso, ha disegnato nel blog dell’associazione (http://unaltratreviso.splinder.com) una precisa mappa dell’occupazione “militare” del Carroccio nel territorio della marca trevigiana. “Un caso emblematico è quello dell’Actt, l’azienda di trasporto di Treviso, e delle sue partecipate – spiega Calesso –. Actt fa parte della cordata di aziende aggiudicataria del project financing per la realizzazione e la gestione del park interrato di piazza Vittoria. Ma questa società presieduta da Erich Zanata è proprietaria anche di Park Dal Negro Srl e Miani Park Srl che gestiscono gli omonimi e fallimentari parcheggi multipiano. ACTT, inoltre, fa parte di Trevisosta Srl, la società che ha in gestione il nuovo sistema di parcheggi “a sensori”. Questa pluralità di partecipazioni e la dipendenza dal Comune la pongono al centro di un groviglio di conflitti di interesse. Il primo si manifesterà quando inizieranno i lavori per il park interrato. Il cantiere della Parcheggio Piazza della Vittoria renderà inutilizzabili un centinaio di stalli nella piazza sottraendo per almeno due anni profitti a Trevisosta, ugualmente partecipata da ACTT. Inoltre, quando sarà realizzato, il park interrato inevitabilmente sottrarrà utenti al Dal Negro e al Miani che già versano in una situazione tutt’altro che florida.Nel caso in cui il Comune decidesse di bloccare la realizzazione del park interrato Actt che l’amministrazione controlla al 70%, si troverebbe nella scomoda posizione di avere un ‘proprietario’ che non vuole il parcheggio e di essere a sua volta comproprietaria di una società nata per realizzarlo”.

Al Brunetta, l'è andata proprio male!

Non è la Lega che lo ha tradito, Renato Brunetta, ma i sondaggi. Il primo, quello che lo ha spinto a candidarsi alla carica di Sindaco di Venezia, commissionato ancora al tempo delle primarie e che, a sentir lui, lo vedeva in vantaggio di quasi 10 punti sul candidato del centro sinistra. Il secondo, quello che girava per le redazioni a due settimane dal voto (e che, per i limiti di legge, non poteva essere pubblicato) che lo dava sopra il 51 per cento, con Giorgio Orsoni sotto il 45.
Va de sé che, con queste cifre, la sconfitta gli deve bruciare ancor di più. Se poi si considera che, leggendo dentro le cifre del sondaggio, i dati erano quasi tutti giusti se si esclude quello, sovrastimato, della Lega (16 contro l’effettivo 11,2 per cento) si inquadra meglio tutto il fiele che il ministro, giorno dopo giorno, non smette di riversare sul Carroccio lumbard. A voler essere pignoli, con un minimo di matematica si potrebbe dimostrare che, anche senza quei diecimila voti disgiunti (di elettori che hanno votato per lui ma per partiti fuori dalla coalizione che lo sosteneva), Giorgio Orsoni avrebbe vinto lo stesso. Certo che un candidato come lui, che ha riempiva gli schermi televisivi anche quando si parlava di cucina o di cronaca rosa, qualcosa di più se lo aspettava. Ed invece è arrivata la sconfitta. Dura, cruda, inaspettata e senza attenuanti. La terza consecutiva dopo il ballottaggio con Costa e la corsa per il senato. E maturata a casa propria, e in un contesto che ha visto trionfare la destra in tutto il Veneto. Di più, in tutto il nord Italia. Insomma, lo sfogo di Brunetta contro la Lega ha una sua motivazione, se pur non è quella dei numeri o del “voto pilotato”. Ogni giorno il ministro si inventa un epitteto nuovo per meglio definire gli alleati del carroccio che, a sentir lui, avrebbero fatto un accordo sotto banco con Orsoni: traditori, inaffidabili, miopi, egoisti… “Chi poteva immaginare che questi personaggi arrivassero a tanto?” E avverte, per bocca del consigliere Antonio Cavaliere, : «In questi cinque anni di amministrazione comunale non faremo nessuno sconto!” All’amministrazione? “Macché! Alla Lega! Giorgio Orsoni ha gioco facile ad ironizzare, con chi gli chiede se si aspetta dall’opposizione uno scontro e un dissenso duro, “Sì. Tra di loro”. Va da sé che la Lega, da partito di lotta e di governo qual è, gliele rimanda a dire tutte quante col tono di “Lui che ha perso cosa vuole insegnare a noi che abbiamo vinto?” Gian Paolo Gobbo parla senza mezzi termini di “candidato sbagliato” e di “personaggio antipatico”. Francesca Zaccariotto, presidente della provincia di Venezia, ricorda al ministro fantuttone che “un generale non addossa la colpa alle truppe se perde”. Lei che, aveva minacciato un rimpasto di Giunta nel caso il sindaco Brunetta non avesse dato la sedia di vicesindaco ad un leghista, torna ora a minacciare un altro rimpasto di Giunta per conformarsi ai nuovi equilibri. E la Lega pigliatutto si prepara ad incassare altre cariche. Intanto, a consolare il povero ministro Renato Brunetta, ci ha pensato Marco Marturano, presidente della Gm&p, che di mestiere fa lo stratega di campagne elettorali. Destra o sinistra, non importa. “Brunetta – dice – ha perso perché è troppo bravo. Gli elettori lo vedono bene ad occupare posti prestigiosi e non limitato a semplici incarichi amministrativi locali”. Insomma, fare il sindaco a Venezia sarebbe troppo poco per un personaggio di tale astronomica levatura. Ma tra quattro anni ci saranno le presidenziali Usa. Quell’extracomunitario di Obama è dato in calo. Quasi quasi, un pensierino…

Giorgio Orsoni sindaco di Venezia

Giorgio Orsoni è il nuovo sindaco di Venezia. Il tranquillo avvocato, procuratore di San Marco, ben visto dalla curia patriarcale e con l’hobby della vela, guiderà per i prossimi cinque anni la Stalingrado del nord Italia. Solo qui, in laguna, il centro sinistra ha portato a casa l’unico risultato vincente di questa tornata elettorale che ha visto la Lega recitare il ruolo dell’asso pigliatutto a rubamazzetto.
E proprio qui, nella laguna dei Dogi, dove i lombardi scendono ogni settembre per ripetere il teatrino del versamento dell’acqua del Po nei canali di questa che, a dir loro, dovrebbe essere la capitale della loro patria padana, il Carrocio non ha superato il tetto del 11 per cento. Il ministro - candidato, Renato Brunetta, ha perso e perso male proprio perché gli son mancate le percentuali che la lega ha ottenuto nelle altre provincie del Veneto. Fuori al primo turno con un misero 42,7 per cento (mentre scriviamo le sezioni scrutinate sono 286 su 303. I dati quindi possono variare solo nei decimali). Giorgio Orsoni vola col 52 per cento portatogli dal Pd (28,8 per cento), dall’Italia dei Valori (6,7), dall’Udc (4,6). La lista dei Verdi, In Comune con Bettin, ha recuperato un 3,8 per cento, appena sopra la federazione della Sinistra (Pdci e Rifondazione che in questa loro prima uscita elettorale totalizzano insieme il 3,3 per cento). Da segnalare, per completare il quadro delle liste che hanno sostenuto il neo eletto sindaco, il 3,8 dei socialisti che comunque va spiegato col fatto che il loro logo era l’unico con la scritta Orsoni e si trovava esattamente a fianco del nome del candidato. Completa il quadro veneziano la lista Brunetta (6,6) e il Pdl che col suo 22,8 si conferma il secondo partito della città con una percentuale di poco inferiore a quella incassata a livello regionale (24,7). Insomma, a Venezia è mancata solo la lega. E se vogliamo, è mancato anche un candidato capace di riscuotere le simpatie degli elettori come invece, a livello regionale, ha saputo fare l’altro ministro candidato: Luca Zaia. Faccia pulita, capelli brillantinati, discorsi neppure tanto razzisti e addirittura quasi sempre contenuti nel binario della buona educazione e della grammatica italiana. Il che non è poco per un leghista in campagna elettorale. Idee poche le sue, e spesso incoerenti (nuclearista a Roma e anti nuclearista a Venezia) ma comunque tutte centrate sul “fare”. Ad un Veneto squassato dalla crisi di un modello che aveva portato ricchezza e benessere, questo “fare” di un ministro che non ha avuto remore di farsi fotografare vestito da cuoco da Mac Italy, deve essere sembrato l’ultima ancora di salvezza. E così il Veneto dice addio a Galan, che si è fatto licenziare dal padrone, e non dagli elettori, come un qualsiasi dipendente di Publitalia con solo qualche mugugno di protesta, e addio anche a Brunetta, che comunque ha sempre un buon posto da ministro sotto il sedere e si risparmierà la faticaccia di venire nei fine settimana a sgobbare anche come sindaco di Venezia. Pur se lui non è un fannullone come noialtri.
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