In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Legalità e confini certi per la pace. Intervista con Nandino Capovilla

L’appartamento di padre Nandino Capovilla è esattamente come ci si aspetta che sia l’appartamento del coordinatore nazionale di Pax Christi: pieno zeppo di libri che parlano di pace e non violenza, di prodotti del commercio equo e solidale, e di colorati ninnoli che provengono dall’artigianato di popoli più o meno oppressi in più o meno tutte le parti del mondo. Siamo a Marghera. Esattamente dall’altra parte delle strada dello storico centro sociale Rivolta. Padre Nandino è appena tornato dalla Palestina dove ha organizzato una “presenza attiva” per difendere un boschetto di limoni che l’esercito israeliano aveva deciso di distruggere.
“Ma è finita che le ruspe son passate sopra lo stesso – spiega -. C’è poco da fare. Nei territori occupati la situazione è impossibile da descrivere se non la si vive di persona. E’ tutto una follia. Altro che discorsi di pace. La pace implica legalità e confini certi. In Palestina non c’è né l’uno né l’altro”. Ogni estate Pax Christi porta in Palestina una cinquantina di volontari per aiutare le famiglie palestinesi nella raccolta delle olive. “In un contesto in cui non hanno nessuna certezza, perché l’autorità palestinese semplicemente non conta niente e l’esercito israeliano fa il bello e il brutto tempo, la sola presenza di persone provenienti dall’Europa è importantissima per questa gente. Gli regala qualche giorno di tranquillità per completare il raccolto che è una dello loro poche fonti di guadagno. Dal nostro punto di vista lo scopo è duplice, aiutare i palestinesi ma anche fare vedere la realtà che si vive in Palestina a chi sente parlare del conflitto arabo israeliano solo dalla televisione. Ti assicuro che vista dal di dentro, le questione assume tutta un’altra valenza”. Tornati in Italia, i volontari di Pax Christi organizzano dibattiti, incontri con le scuole e stampa di materiali e libri. L’ultimo, scritto dallo stesso Nandino Capovilla, “Un parroco all’inferno” edizioni Paoline, racconta la storia di abuna Manuel Musallam (abuna significa prete) che ha vissuto dal di dentro l’assedio di Gaza. Tutta un’altra storia da quella raccontata dai nostri telegiornali. “L’assedio di Gaza è stato una punizione collettiva. Non si sono cercati i responsabili che hanno tirato i razzi contro i civili israeliani. Hanno voluto vendicarsi contro donne e bambini innocenti” spiega padre Nandino. “D’altronde, cosa significa ‘punire Hamas’? Hamas non è un gruppo di persona ben definito ma è dentro lo stesso tessuto sociale palestinese. E’ stato eletto democraticamente come risposta alla corruzione e all’incapacità che dominava nel paese quando governava Al Fatah. In Europa Hamas è presentato come il volto del terrorismo islamico. Ed è vero che c’è anche questa componente, ma è anche vero che – pur in un clima di totale chiusura come quello che si è trovato di fronte – Hamas ha cercato di governare e di ridare ordine ad una situazione caotica portando avanti progetti di pace come la costruzione di scuole e ospedali”. Stritolati tra integralismo islamico ed esercito israeliano, quale potrebbe essere una possibile via di uscita per i palestinesi? “Il processo di pace non va avanti. Questa è una verità innegabile. Non va avanti perché di pace non ha niente. Si rimanda, si rimanda… sino a che il processo si arrotola su se stesso per garantire che non venga mai fatto niente”. Padre Nandino riesce a recuperare sotto una pila di libri un grosso volume di piantine militari. “Sono le mappe dell’Onu. Se a Tel Aviv si accorgevano che le avevo in valigia mi arrestavano… comunque dai un’occhiata. Questa sarebbe la linea verde. Non significa nulla. Questi in blu gli insediamenti dei coloni. Sono dappertutto. Gerusalemme est è tutta una gru. E guarda quanto blu. Quando mai potrà diventare la capitale dello stato di Palestina? Mai! In queste condizioni, la gente si attacca alle piccole storie. Storie che non fanno notizia né nella Grande Storia né nelle cronache dei giornali. Sono vicende di ordinaria resistenza pacifica. Potrei farti centinaia di esempi: i contadini che si mettono davanti alle ruspe per difendere il campo, i sit in sotto il muro tutti i venerdì che puntualmente vengono repressi con violenza inaudita dai soldati. La scorsa settimana, l’esercito ha dichiarato zona chiusa proprio quei villaggi in cui si pratica la resistenza non violenta e dove il terrorismo non centrava niente. Significa che se c’è una resistenza popolare questa fa paura. Ma è anche un segnale che la pace è possibile”. Dall’altra parte del muro non ci sono segnali di pace? “Dal governo di Benjamin Netanyahu no di sicuro. Ma dalla società civile israeliana sì. Anzi, è una realtà che è in continua crescita. Ti faccio un solo esempio. Tu sai vero, che l’esercito dopo aver distrutto un villaggio vi costruisce sopra un parco per cercare di distruggerne anche la memoria? Beh, c’è un’associazione molto attiva che organizza gite con le scolaresche per raccontare la storia del villaggio distrutto e, dopo aver chiesto i regolari permessi, ci pianta un cartello con scritto ‘Qui sorgeva il villaggio tal dei tali raso al suolo il tal giorno del mese…’. Il giorno dopo il cartello sparisce misteriosamente ma la sera loro vanno subito a ripiantarlo. Vanno avanti così per mesi sino a che il cartello rimane al suo posto. Lo so. Fa sorridere. Ma sono storie come queste che danno un senso e una speranza ad una pace possibile”.

Quando il razzismo viene fatto "circolare". Intervista con Iside Gjergji

Il razzismo non si veste quasi mai da razzismo. Ha mille forme e mille facce. Una di queste è quella messa in atto dalla pubblica amministrazione. Iside Gjergji è nata a Durazzo ma vive in Italia dal ’91 dove si è laureata in giurisprudenza. Nel suo dottorato in sociologia ha svolto una interessate ed inedita ricerca sulle circolari amministrative in materia di immigrazione.
Come mai hai scelto questo tema?
Diciamo che sono state le circolari ad occuparsi di me quando, alcuni anni fa, feci domanda di carta di soggiorno alla questura. La mia richiesta venne rigettata sulla base di una circolare del Ministero che imponeva alcuni requisiti non previsti dalla legge. All’epoca ero studentessa di Giurisprudenza e su tutti i libri di esame mi veniva spiegato che le circolari amministrative non erano fonte di diritto, eppure a me veniva rigettata l’istanza sulla base di una circolare. Decisi di non arrendermi e il Tar del Lazio mi diede ragione: l’interpretazione della norma fornita dalla circolare del Ministero era illegittima. E così, dopo una lunga e costosa battaglia, ottenni la carta di soggiorno. Ho constato direttamente che gli operatori della pubblica amministrazione agiscono non tanto sulla base delle leggi, quanto sulla base delle circolari. Sono queste il loro "vero" - se non unico - riferimento normativo. Anche ora che la legislazione sull’immigrazione è quasi completa, le circolari continuano ad essere il “vero” riferimento giuridico. Il problema è che le circolari sfuggono ad ogni controllo, sia quello giurisdizionale sia quello della sovranità popolare. Sono sostanzialmente ordini di un “capo”, e come tali soggette al suo arbitrio.

E come sempre avviene con gli “ordini del capo”, nasce il peggio dal peggio.
Già. Si tratta sostanzialmente di ordini assunti in assenza di contradditorio e senza regole procedurali. Parliamo, insomma, di una sorta di diritto interstiziale che si insinua nelle pieghe dell’ordinamento assumendone le sembianze. La forza di questo “infra-diritto” sta nella struttura gerarchia della pubblica amministrazione che non consente la messa in discussione di un ordine del capo, bensì si aspetta che venga eseguito. Più gerarchica e autoritaria è la struttura organizzativa e maggiore forza acquisiscono gli ordini del capo. Con le riforme cosiddette “federaliste” di questi ultimi vent’anni le istituzioni pubbliche hanno conosciuto indubbiamente una sterzata di tipo autoritario. Ora il potere si concentra sempre più nelle mani dei sindaci, “governatori” e “premier”, a tutto scapito delle assemblee comunali, regionali e parlamentari.
Pensiamo alle ordinanze del sindaco di Firenze sui lavavetri, quella del sindaco di Milano che vietava ai minori stranieri, figli di irregolari, di iscriversi alle scuole materne, le ordinanze del sindaco di Vicenza sui mendicanti, quelle dei sindaci di Cittadella, Thiene e di Azzanno Decimo che impedivano l’iscrizione degli immigrati poveri all’anagrafe comunale, e poi quelle di 43 sindaci della provincia di Bergamo che impedivano il matrimonio degli stranieri senza permesso di soggiorno. Queste ordinanze hanno fatto da preludio a molte norme introdotte poi a livello legislativo con il “pacchetto sicurezza”, inaugurando nel contempo una stagione di razzismo istituzionale senza precedenti nella storia repubblicana.

Un problema che non è solo degli stranieri?
Al di là delle caratteristiche, più o meno razziste, delle singole disposizioni è il sistema di governo per circolari ad essere intrinsecamente e irrevocabilmente razzista. Ai segmenti di popolazione la cui esistenza è prevalentemente determinata e scandita mediante circolari amministrative, vengono di fatto negate quelle garanzie che l’ordinamento giuridico riconosce formalmente a tutti. Si tratta, insomma, di soggetti e “disciplinati” da un sottosistema normativo di tipo amministrativo che, in quanto tale, non può che fornire una pseudo-protezione giuridica. Di quale convivenza è possibile parlare a queste condizioni?
L’uso abnorme di circolari e ordinanze sono un modello anche per la regolamentazione della vita di tutti i cittadini. Penso, ad esempio, al divieto di assembramento di più di tre persone nei parchi dopo le undici di sera, alle norme sul “comportamento civile” o a quelle sulla prostituzione, che non riesco a non leggere come un tentativo della criminalizzazione della povertà. In altre parole, la negazione dei diritti degli immigrati ha anticipato la progressiva erosione dei diritti di tutti. Mi viene in mente una frase di James Baldwin che dice: “Dobbiamo proteggere la tua vita come se fosse nostra poiché se vengono a prenderti di giorno, da noi verranno nella notte”.

Il mondo accademico per i migranti

“Come può esistere chi non esiste” la domanda che si sono posti i lavoratori migranti di Rosarno è la questione centrale della giornata del primo marzo. Lo ha ribadito un folto gruppo di docenti delle università italiana che hanno sottoscritto una lunga lettera in appoggio alla manifestazione che proprio dai fatti accaduti in Calabria. In questo nostro Paese imperniato “da una forma pervasiva di razzismo istituzionale che permette e legittima forme di razzismo, intolleranza, xenofobia sociali che stanno ormai erodendo la vivibilità comune delle nostre città” si legge nel’appello, “Come possono esistere tutti e tutte coloro che, pur essendo ‘attori della vita economica di questo paese’, con differenti dispositivi sono continuamente sospinti verso una presenza marginale e una vita non vivibile costellata di mille ostacoli (dai tempi biblici del rinnovo del permesso di soggiorno all’assenza di ogni possibilità di regolarizzazione, dagli innumerevoli modi in cui si elude il riconoscimento dello stato di rifugiato alle norme che entrano in modo discriminatorio nelle scelte di vita affettiva concedendo ai migranti ‘affetti di serie b’, sino ai mesi di detenzione previsti per chi non ha o ha perso il permesso di soggiorno e all’ultima proposta del permesso di soggiorno a punti)?”
“Aderiamo a questa giornata perché riteniamo che questa domanda coinvolga la vita di tutti e di tutte, migranti e non, studenti, studentesse, lavoratori e lavoratrici, disoccupati e disoccupate, in Italia così come nel resto d’Europa e in altri paesi del mondo. In quanto docenti, sappiamo che nelle università, anziché come studenti e studentesse nelle nostre aule è più facile incontrare i/le migranti come lavoratori e lavoratrici delle cooperative di servizi, assunti/e con bassi salari e senza garanzie. La scandalosa difficoltà nell’accesso a un permesso di soggiorno per studi universitari, attraverso una politica delle quote anche nel campo del sapere che rende quest’ultimo esclusivo privilegio dei cittadini, è parte integrante della chiusura nei confronti dei/delle migranti che caratterizza il nostro paese. Per questo ci impegniamo a lottare anche per garantire la piena accessibilità dell’Università ai/alle migranti. Siamo più in generale convinti che soltanto cancellando il razzismo istituzionale e sociale come pratica quotidiana di sfruttamento sarà possibile costruire spazi di convivenza futuri”.
I docenti firmatari dell’appello, dove possibile, anche durante le ore di attività didattica nei giorni che precedono il primo marzo, leggeranno nelle aule la lettera dei lavoratori africani di Rosarno, invitando gli studenti a partecipare alle iniziative della giornata. Un altro appello a sostegno della manifestazione è stato lanciato da Cobas e Cesp, centro studi per la scuola pubblica: “Noi, nel nostro lavoro educativo, siamo invece sempre partiti dal principio e dalla rivendicazione dell’uguaglianza dei diritti, dal riconoscimento delle culture, dal diritto alla libertà di movimento delle persone”.

Cartoline contro la caccia

I verdi del Veneto hanno lanciato una campagna informatica contro la legge vergogna che consente alle Regioni di estendere a tutto l’arco dell’anno la stagione venatoria. Se la Camera in questi giorni confermerà il testo già approvato dal Senato, i cacciatori potranno sparare ininterrottamente dal primo gennaio al 31 dicembre. Una normativa questa, che non ha equivalenti in nessuno Stato d’Europa e che porterà altre pesanti sanzioni economiche al nostro Paese.
Così, dopo aver cementificato tutto quello che si poteva cementificare (e in qualche caso anche quello che non si poteva), dopo aver avvelenato l’aria, saccheggiato e mercificato l’ambiente, sdoganato il nucleare, inquinato e privatizzato l’acqua (e ci fermiamo qua), il Governo e la maggioranza di centrodestra si preparano a far piazza pulita degli ultimi, silenziosi testimoni di questa devastazione ambientale senza precedenti: gli animali selvatici. Ed è incredibile che proprio il senatore Giacomo Santini (Pdl), relatore della legge Comunitaria in commissione Politiche europee del Senato, invece di operare per allineare la legislazione italiana con quella europea ed evitare al nostro bilancio altre sanzioni, ha proposto questo assurdo emendamento che di fatto cancella i limiti alla stagione venatoria. Potranno essere abbattuti animali ancora cuccioli, debilitati dal gelo, uccelli nel momento della nidificazione e di ritorno sulle rotte migratorie.
Per far sentire la voce dei tanti italiani che oggi più che mai sono contro la caccia, i Verdi Idea del Veneto hanno predisposto una serie di cartoline informatiche da inviare ai capigruppo della Camera invitandoli a bocciare questa legge crudele ed incivile. I file in formato jpg - volutamente un po’ pesanti per rallentare se non per intasare le mail dei destinatari - e gli indirizzi mail dei deputati sono scarivabili dal sito www.verdiveneto.it.
Sono immagini formato cartolina turistica con foto di animali inquadrati da un mirino e sotto la scritta “No alla caccia tutto l’anno”. “Non può essere una minoranza di 700 mila persone, tanti sono stimati i cacciatori italiani, appena l’uno per cento della popolazione – ha dichiarato Gianfranco Bettin - a disporre a suo piacimenti di un bene comune come è la fauna selvatica, che la stessa legge definisce ‘patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale. Siamo in tanti a pensarla così, facciamoci sentire”.
I Verdi Idea invitano a spedire le cartoline informatiche anche agli onorevoli Antonio Di Pietro e Gabriele Cimadoro (Idv) che hanno “rilanciato” dalla sponda del centrosinistra la politica governativa tutta asservita alle lobby venatorie, presentando un progetto di legge in cui si propone addirittura di depenalizzare il bracconaggio trasformandolo da reato penale a reato civile. In pratica, i cacciatori potranno togliersi lo sfizio di cacciare specie protette dentro le aree protette dietro il pagamento di una semplice multa!

Zaia, l'atomo e la sindrome Nimby

Nuclearisti a Roma, ambientalisti a casa. Si può dire di tutto dei leghisti ma non che si facciano mettere sotto dalle contraddizioni. Luca Zaia è un Giano bifronte. La faccia del ministro nuclearista si gira immediatamente dal lato antinucleare quando assume il ruolo di candidato alla carica di Governatore veneto. A Roma ha approvato il piano atomico del governo. A Venezia, alle domande dei giornalisti, risponde che “L’atomo mi lascia perplesso. Prima che accetti una centrale nucleare nella mia regione dovrebbero dimostrarmi, dati alla mano, che non ci sono alternative in altre regioni. E comunque rimarrei in totale dissenso, considerato anche che il bilancio energetico del Veneto è in pareggio”.
La paura di dire una cosa e farne un’altra non fa perdere il sonno neppure ai suoi compagni di partito che siedono nei banchi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, che nell’ultima finanziaria hanno bocciato un emendamento dell’opposizione firmato da Verdi e comunisti, con il quale si chiedeva di prendere ufficialmente posizione contro il nucleare, così come hanno fatto altre Regioni italiane. All’ambiguità dei Lumbard fa da sponda la determinazione del Popolo della Libertà che non ha mezze misure per dichiararsi, per bocca dell’assessore Renzo Marangon, favorevolissimo alla scelta nucleare, auspicando anzi, che il Veneto sia una delle “fortunate” regioni selezionate dal Governo. Ma quali saranno queste regioni “fortunate”? Il ministro dello Sviluppo Claudio Sajola ripete: “Le popolazioni saranno informate e parteciperanno ad ogni fase del processo” ma non dice ancora dove sorgeranno le centrali. Specifica comunque che la decisione spetta al Governo e non alle Regioni. Il che suona come un avvertimento ai governatori ribelli, alla faccia di quella parola vuota da usare solo in campagna elettorale che è altro non il federalismo. I siti papabili a nord est rimangono sempre quelli già noti: Porto Tolle nel Polesine, Chioggia e Monfalcone (Trieste).
Pragmatico l’atteggiamento dello sfidante di Zaia per il centro sinistra, Giuseppe Bortolussi: “Il nucleare è inutile. Anche realizzando tutte le centrali previste dal Governo, queste coprirebbero al massimo un 6% del fabbisogno. Col l’energia idroelettrica ed i pannelli, otterremo molto di più”. Sul tema, Bortolussi si sgancia anche da molti dirigenti Democratici che sul nucleare hanno una posizione che quantomeno potremmo definire altalenante. “Per questo sarà indispensabile che i movimenti decisamente antinuclearisti ottengano un buon risultato alle prossime elezioni – ha dichiarato il verde Gianfranco Bettin -. In ambienti vicini al centro destra veneto, si ipotizza l’eventualità di localizzare una centrale tra Marghera e Chioggia oppure nel Polesine. Questa è una eventualità che dobbiamo bloccare sul nascere”. Anche per questo i verdi del Veneto hanno deciso di presentarsi con una lista, Idea (Italia democratica, etica e ambientalista), e un simbolo che richiamano la prima vittoriosa battaglia contro l’energia nucleare. Quel solo che ride color rosso e la scritta: Nucleare? No grazie. “Nel centrodestra sta prevalendo la scelta filo nucleare come logica continuità di una politica energetica che non ha mai prerso seriamente in considerazione le alternative pulite - ha concluso Bettin. - E’ una scelta arretrata, che inchioderebbe la nostra regione al peggio del passato e delle tecnologie attuali, che colpirebbe l’economia della pesca e del turismo e impedirebbe investimenti in settori compatibili con il territorio. Serve invece lo sviluppo di energie e tecnologie alternative. Non usciremo dalla crisi ricorrendo a investimenti vecchio stampo, pericolosissimi come il nucleare o nocivi come gli inceneritori, che portano poca occupazione e molti rischi, ma evolvendo in direzione radicalmente diversa, nel segno dell’innovazione, della logistica avanzata, delle nuove tecnologie, della green economy che è la vera bussola del nuovo, la nuova credibile frontiera del lavoro e dell’impresa”.

Caccia incatenato

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Un catenone che ci si potrebbe ancorare una nave e un lucchettone antiscasso. Con questi due strumenti, Beppe Caccia, consigliere comunale dei Verdi, ha chiuso una porta nel tentativo di aprirne un’altra. La porta, anzi il portone, chiuso è quello di palazzo Labia, storica sede della Rai di Venezia. La porta da aprire, meglio, da scardinare, è quella della libera informazione che, in casa Rai, hanno sbarrato da tempo. Ma veniamo ai fatti. Ieri mattina, Beppe Caccia accompagnato da una decina di attivisti verdi si è incatenato sul portone della televisione di Venezia, impedendone l’apertura, ha buttato le chiavi e là è rimasto. “Non ci fa piacere dover ricorrere a lucchetti e catene per attirare l’attenzione dei media - ha commentato Caccia - ma non abbiamo altro mezzo per denunciare una campagna mediatica scorretta e sbilanciata.



Da dieci giorni Angelo Bonelli sta facendo lo sciopero della fame a davanti alla sede Rai di Roma, per denunciare la disinformazione che regna sovrana nei nostri teleschermi e i media lo ignorano. Un esempio di questa malainformazione lo stiamo subendo a Venezia: non c’è un imbarcadero, un muro, una strada senza il faccione di Brunetta. Oggi il ministro ha acquistato 15 pagine su un giornale locale. Inoltre, dalla sua discesa in campo per occupare anche la poltrona di sindaco oltre che quella di ministro, lo vediamo in Tv in ogni trasmissione che ci racconta le sue amenità. Non ne possiamo più”. I verdi hanno consegnato una lettera aperta ai giornalisti dela Rai, costretti a passare dalla porta di servizio, per entrare in redazione, in cui si ribadisce il concetto che tale disinformazione mirata costituisca una vera e propria emergenza democratica. “Sotto questo bombardamento mediatico che non ha precedenti nella storia della Repubblica, la partita per le elezioni comunali a Venezia è truccata in partenza - ha concluso Beppe Caccia -. Anche a prescindere dalle tv, Brunetta ha occupato tutti gli spazi per le affissionim investendo almeno un milione di euro. Uno spreco indecente in tempi in cui tutti soffriamo le conseguenze della crisi. Pensiamo che il Comune ha fatto uno sforzo enorme per raccattare un fondo di 500 mila euro per le famiglie in difficoltà mentre Brunetta ha speso perlomeno il doppio, e in una sole settimana, soltanto per farsi propaganda”.

Vicenza, la base, la falda, i rischi

Lorenzo Altissimo non è mai sfilato per le strade di Vicenza battendo su un pentolone contro la base militare. Lui è di quelli che ritengono che un direttore responsabile della gestione di un centro di servizi regionale, come è il consorzio idrico di Novoledo, non deve parteggiare né per il sì né per il no. Il suo quindi, è il grido dall’allarme del tecnico che registra un dato di fatto: le falde acquifere del vicentino, monitorate dalla rete di sonde piezometriche del consorzio, si sono alzate molto meno dell’anno in corso. Colpa dei lavori di costruzione della base? “Non posso dirlo con certezza. Quella è zona militare e non abbiamo la possibilità di effettuare alcuna verifica dentro.
Posso solo notare, da tecnico, che l’intera area è una zona umida, poco adatta alla costruzione di un aeroporto. Quanto è successo quindi non ci sorprende: anzi lo avevamo in qualche modo previsto grazie ad un modello matematico che abbiamo messo a punto da alcuni anni. Ma, ripeto, non abbiamo strumenti per asserire che la colpa è delle palificazioni o di altro. Teniamo anche presente che il Vinca è stato fatto sui dati raccolti nell’area est, dove si doveva costruire inizialmente la base, e non sull’area ovest dove invece si sta costruendo adesso. Sappiamo che hanno piazzato dei piezometri anche là, ma i dati non ci sono mai stati mostrati”. Le dichiarazioni di Altissimo a Vicenza hanno avuto l’effetto di un sasso scagliato in uno stagno, riaprendo la questione dei costi ambientali della nuova base militare. “Io posso solo dire che il commissario straordinario Costa ha sempre dichiarato la sua disponibilità a far sì che i lavori seguano la massima trasparenza. Credo quindi che i sindaci i cui Comuni pescano dalla falda, dovrebbero farsi avanti per richiedere questi dati il prima possibile. Poi, se viviamo in un mondo in cui le opere militari non sono obbligate a sottostare al Via perché evidentemente non hanno nessuna incidenza sull’ambiente, io non posso che prenderne atto”.
Meno disponibile a limitarsi a “prendere atto del mondo in cui viviamo”, è la battagliera consigliera comunale dei No Dal Molin, Cinzia Bottene: ”Quanto afferma Altissimo e quanto verificato dal blitz degli attivisti, non fa altro che confermare che l’esattezza delle nostre previsioni. Non c’è da esserne contenti, purtroppo. Le condizioni di sofferenza in cui versa la falda dimostrano che le nostre denunce non erano allarmismi ma il frutto di una critica seria al progetto. E che abbiamo ragione, ce lo conferma anche il silenzio imbarazzato di Costa. Una settimana senza neppure un comunicato stampa di risposta… non è da lui!”
“Adesso che i fatti ci danno ragione – continua la Bottene - chiediamo quello che da sempre chiediamo e non abbiamo mai ottenuto: trasparenza e controlli. Quanto avviene nella base non può essere un buco nero a gestione di pochi che, nelle conseguenze, pagheremo tutti. Vogliamo sapere se la falda è a rischio. E non possono essere i committenti ma dei tecnici, terzi e affidabili, a rispondere”.
L’immediata e precauzionale chiusura del cantiere, in attesa di una risposta a questa domanda, è stata chiesta dal consigliere dei verdi, Gianfranco Bettin, in una interrogazione alla giunta regionale. “Il rischio drenaggio provocato dalle palificazioni – ha commentato l’ambientalista -sembra sia ormai una realtà, e c’è il rischio di danneggiare irreparabilmente la falda acquifera. Chiediamo la sospensione delle autorizzazioni fino a che non venga effettuata una nuova Vinca, così come da risposta della giunta all’interrogazione presentata il 12 febbraio scorso, che prevedeva proprio questo. Ritengo indispensabile che venga concesso il permesso ad un immediato sopralluogo, a cui far partecipare anche il Comune di Vicenza, per verificare lo stato dell’arte all’interno del cantiere stesso”.

Senza dimora

Freddo. Freddo cane. E sarebbe pure una nottata tiepida, questa, al confronto di quella di ieri, quando il termometro batteva i meno cinque e ti si congelava il gas nell’accendino. I ragazzi della cooperativa Caracol si intiepidiscono le mani sulle caraffe di caffè prima di versarle nei termos. Poi caricano le ceste di merendine e l’ultimo pacco di coperte nel furgone. Indossano la “divisa d’ordinanza” - giacca a vento che pare quelle dei pompieri e gilè giallo da stradino - e si preparano ad affrontare ancora una volta il freddo e il buio della notte. Scene consuete al centro sociale Rivolta di Marghera. Tre o quattro uscite ogni notte, per cento notti all’anno.
“Ogni città ha un suo numero caratteristico di notti in cui fa davvero freddo - mi spiega Vittoria -. Intendo notti in cui, se non hai una coperta, una tettoia o qualcos’altro che ti ripari dal vento, il freddo ti ammazza. A Venezia sono cento, le notti così”. E questa è proprio una notte così. Quest’inverno, a pochi chilometri da qui, il freddo ha già ammazzato. Un morto a Padova nella notte tra sabato e domenica, un altro a Mira tra domenica e lunedì. E il sindaco di Mira a dichiarare che gli spiace tanto ma che il “senza casa” in questione non si era mai rivolto ai servizi sociali del suo Comune. “Servizi che a Mira non ci sono. E comunque non ha capito niente del problema, il signor sindaco. Questa non è gente che chiede appuntamento agli assessori. Deve essere il servizio ad andare da loro”. Ed è proprio quanto fa la Caracol. La cooperativa è nata esattamente dieci anni fa da un gruppo di attivisti del Rivolta. Allora l’obiettivo era solo quello di tenere aperta la stazione di Mestre per permettere ai senza dimora di sopravvivere ad un inverno che pareva non finire più. Ma subito dopo i ragazzi si sono costituiti in una cooperativa che hanno chiamato Caracol perché, tra di loro, non ne peschi uno che non abbia trascorso perlomeno una o due estati a costruir turbine o a sistemar depuratori nel Chiapas rebelde. Oggi la Caracol siede al tavolo istituito dal Comune di Venezia per il progetto Senza dimora assieme ad altre associazioni come la Caritas, e gestisce un servizio “sulla strada” che opera 24 ore su 24. Ha un “telefono bianco” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini e degli assistenti sociali, mette in campo un furgone, una ventina di operatori qualificati tra volontari e dipendenti, e gestisce 24 posti letto all’interno degli spazi del centro sociale. Quando gela, esce tutte le notti con due squadre di operatori - una per Venezia e una per Mestre - che distribuiscono bevande calde, ciambelle, coperte. “Oramai li conosciamo tutti – mi spiega Vittoria –. Ci raccontano i loro guai, i loro problemi, le loro storie. Bugie e verità mescolate che neppure loro le san più distinguere. Il barbone coperto di stracci e con il fagotto sulle spalle è praticamente scomparso. Oggi sulle strade, troviamo malati psichici, alcolizzati, dipendenti da sostanze, ma anche marinai senza navi, disoccupati, migranti irregolari e tante persone che fino a poco tempo fa potevi considerare ‘normali’. Poi sono stati abbandonati dalle moglie o hanno perso il lavoro, la casa. In questa specie di agorà e nei cartocci di vino hanno trovato un sostituto di famigli”. La prima tappa è via Capuccina, dove ogni notte si accampa un gruppetto “storico” di senza dimora. Dopo le bevande calde, i ragazzi della Caracol fanno salire sul furgone quanti desiderano passare la notte al centro di accoglienza. Non tutti accettano l’invito. Gli alcolisti, soprattutto. Preferiscono passare la notte vicino ad un supermercato per poter correre a rifornirsi di alcol la mattina, appena dopo l’apertura. “Se vogliono vengono, se no stan qui. Queste persone hanno piena dignità e il diritto di decidere delle loro vite” mi dice Momo. E aggiunge scherzando: ”Qui siamo tutti del popolo della libertà! Viva la libertà, allora!” Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, è il responsabile della cooperativa. E’ un omone gioviale che non smette di scherzare con tutti quelli che incontra e che, d’altra parte, conosce da una vita. Lui è la sola persona che, commentando un fattaccio di cronaca accaduto a Venezia un mese fa, non ha detto “hanno cercato di dare fuoco a un barbone” ma “hanno cercato di dare fuoco a Michele”.
“Il nostro è un servizio. Non assistenza. Servizio. – mi puntualizza Momo -Abbiamo un contratto col Comune di Venezia, che, per fortuna è ben diverso da quello di Verona dove i vigili manganellano i senza casa, come abbiamo visto in tanti filmati diffusi su Youtube. Partecipiamo alle scelte dell’assessorato in tema di disagio sociale, proponiamo possibili soluzioni e fungiamo da operatori di strada per monitorare le nuove tendenze sociali della povertà estrema”. Nuove tendenze? “Certamente. Ogni anno abbiamo una new entry! Tre anni fa c’è stata l’annata dei rovinati dal videopoker. E’ grazie anche alle nostre segnalazioni se il Sert ha istituito una sezione per le dipendenze da gioco”. E la nuova tendenza di questo inverno, ci spiega Momo, è la “zona grigia”. I rovinati dalla crisi. Lavoratori licenziati e fuori mercato. Qualche italiano, ma per la maggior parte sono tutti migranti e clandestini. Quelli che “ci vorrebbe la tolleranza zero”, “bisogna mandarli a casa loro” o che “rubano il lavoro a noi italiani che già ce n’è poco”. Momo me ne presenta uno di questi ladri di lavoro. Rumeno, una sessantina di anni, irregolare. Per dieci anni ha lavorato in nero in un cantiere edile. Poi à caduto, si è rotto entrambe le caviglie e il padrone l’ha licenziato. Neanche in ospedale è potuto andare ed è rimasto storpio. Finiti i soldi per l’affitto (in nero pure questo), si è trovato sulla strada. Adesso spera che la stazione di Mestre non chiuda la sala attesa quanto il termometro scende. Tra i viaggiatori dell’ultimo treno che guardano schifati i senza dimora che si arrotolano nelle coperte della Caracol per difendersi dal freddo, sono in pochi quelli che si rendono conto che, in inverno, una stazione aperta o chiusa fa la differenza tra la vita e la morte. La sala d’aspetto di seconda classe di Mestre offre ospitalità ogni sera ad una 40ina di persone. A Venezia invece, i senza casa sono una dozzina. E’ una città particolare anche per loro, Venezia, perché sotto ponti scorre l’acqua e sull’acqua non si può dormire. Se si è disperati è meglio andare in terraferma. “In estate la comunità si disperde e le stazioni si svuotano – mi spiega Momo – perché i senza dimora trovano asilo nelle case abbandonate e hanno meno bisogno di noi. Ma col freddo, tutti cercano un posto caldo. E allora arriviamo anche a 70 o 80 contatti per notte”. Dopo aver distribuito caffè e coperte, gli operatori della Caracol riempiono le schede di monitoraggio e chiedono chi desidera passare la notte al centro di accoglienza. Ma i posti sono solo 24. Quando il termometro picchia, non bastano mai.
“Questa è la parte più brutta del nostro lavoro – mi dice sottovoce Momo -: dover scegliere chi portare al caldo e chi no. Noi cerchiamo di alternare e di dare sempre la precedenza ai malati, alle donne sole. Ma rimane comunque una ingiustizia. Loro non contestano mai. Guardali. Anche chi ì rimasto fuori e si deve accontentare di una tazza di caffè, ci saluta con un sorriso e ci dà appuntamento per domani”. Sospira Momo. “Ma un giorno io vincerò il Superenalotto e allora me li porto tutti ai tropici. Al caldo”.

Il traforo delle Torricelle è un'emergenza democratica

Un traforo, un raccordo autostradale e un’emergenza democratica. Tutto questo nella Verona del sindaco “lumbard” Flavio Tosi. Ma andiamo con ordine. Il raccordo è quello che dovrebbe collegare la Serenissima con l’altra autostrada che corre attorno alla città scaligera, quella del Brennero. Il traforo è quello da eseguire nelle colline delle Torricelle per farci passare detto raccordo. L’emergenza democratica – che non è un termine nostro ma del magistrato che ha accolto, come vedremo, il ricorso del comitato civico – è tutto il contorno di questa brutta faccenda. Siamo di fronte all’ennesimo capitolo della saga “grandi e costose opere per inutili devastazioni”.
Ecco in sintesi la vicenda. Di bucare le Torricelle per farci passare un’autostrada, se ne parla si dagli anni ’80, gli anni d’oro dei socialisti. Ed infatti il progetto era targato Garofano Rosso. Fu Tangentopoli allora a far tramontare l’idea di realizzare una corsia autostradale in mezzo alla città. Corsia che non avrebbe certo risolto il problema del traffico e dell’inquinamento che affligge una Verona in cui nessuna giunta ha mai portato seriamente avanti l’idea di una rete di trasporto alternativo a quello privato, ma al contrario lo avrebbe acuito riversando altri mezzi pesanti dentro le mura cittadine. Nei primi anni del nuovo secolo, il vecchio progetto è tornato alla ribalta saltando nel Carroccio dei lumbard. Carroccio che da queste parti ha lo stesso ruolo dell’asso pigliatutto nel rubamazzetto. Il sindaco Flavio Tosi in particolare sta pigiando sull’acceleratore di questo progetto presentato ancora una volta come deus ex machina per far respirare l’asfissiata città di Giulietta e Romeo. Progetto costosissimo, questo di bucare le Torricelle che l’amministrazione sta portando avanti sulle ali di un project financing assegnato a quella Technital che ha tra i suoi azionisti proprio la Mazzi Costruzioni. Quella stessa Mazzi Costruzioni che in campagna elettorale ha generosamente contribuito a finanziare il sindaco Tosi. “Non è un illecito questo, lo sappiamo bene. Ma riteniamo comunque poco elegante che una ditta che appoggia la campagna elettorale di un sindaco concorra poi al project financing del Comune e lo vinca” spiega Alberto Sperotto, portavoce del comitato civico contro il traforo. Il comitato si è fatto promotore di un referendum sulla Torricelle. Referendum sempre osteggiato dall’amministrazione.“Tosi si rifiuta di riceverci, di partecipare ai nostri incontri e risponde solo con querele e minacce. Dice che ha vinto le elezioni e si fa a modo suo. Ma questa non è più democrazia”. Per quattro volte il comitato si è rivolto al tribunale e per quattro volte il tribunale gli ha dato ragione riconoscendo che i tre garanti comunali (inizialmente due di nomina della maggioranza e uno dell’opposizione, ma recentemente quest’ultimo è stato sostituito dal legale di fiducia di Tosi) che, secondo statuto, hanno il potere di decidere sull’ammissibilità del referendum hanno deliberatamente perso tempo e operato per fare ostruzione contro il referendum. A giorni è attesa la quinta sentenza sull’ammissibilità del quesito, anche stavolta bocciato all’unanimità dai tre garanti. “Ci auguriamo che il tribunale ci dia ancora ragione e che si possa votare – spiega Sperotto – Una autostrada in mezzo alla città avrebbe un effetto disastroso su Verona. Ma la cosa che più ci preoccupa è la mancanza di cultura democratica. Vincere le elezioni non significa far tutto quello che si vuole. Ancora adesso non sappiamo dove passerà il tracciato. Non sappiamo quante saranno e compensazioni economiche che renderanno appetibile per il privato questo project financing. Si parla in questo senso di migliaia di metri cubi che saranno destinati a parcheggi, centri commerciali, fast food. Tosi risponde alle manifestazioni solo con gli schieramenti di polizia e si rifiuta di incontrare sia noi che il coordinamento degli espropriandi costituitosi dove, pare, sarà realizzata l’opera. E quanti saranno poi gli espropri? Gli assessori un giorno parlano di tremila, altri giorni di seicento. Tosi dice che tra un po’, quando sarà pronto, porterà il progetto completo nei quartieri. Ma certo non per discuterne con i cittadini. Capite perché a Verona siamo in piena emergenza democratica?”

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Il bluff della Pedemontana
Doveva essere un’opera al servizio del territorio, ma si è visto ben presto che in realtà si tratta di un’opera rivolta al traffico internazionale. Doveva servire ad alleggerire un’area intasata di traffico pesante, ma ci si è accorti subito che quella strada porterà altro traffico e altro inquinamento. Doveva essere un’opera ad impatto zero, ed invece si sta rivelando come l’ennesima devastazione volta a trarre profitto per pochi consumando il territorio di tutti. Stiamo parlando della Pedemontana. Oggi che i bluff sono svelati, i comitati civici invitano la popolazione alla mobilitazione. L’appuntamento è per questo pomeriggio, sabato 30, alle ore 14,30 in piazza Duomo di Montecchio Maggiore, Vicenza. “Siamo ancora in tempo a fermare questa devastazione” si legge nei volantini. Questa nuova e inutile autostrada a pagamento, che altro la Pedemontana non è, porterà nella valle inquinamento, difficoltà di spostamento, stravolgimento del tessuto naturale e civile, tumori, rumore continuo, distruzione del paesaggio, problemi per le falde acquifere, gigantesche cave (Rotte del Guà), chilometri di complanari, tunnel e rotatorie. Che sia una violenza al territorio ora lo ammettono, stando alle ultime dichiarazioni, anche i politici della Lega, del Pdl e della stragrande maggioranza del Pd che hanno voluto a tutti i costi l’opera, nonostante il parere contrario dei loro stessi amministratori locali. Affari, voti comprati, soldi sporchi e cemento hanno fatto piazza pulita di tutte le vuote promesse di democrazia partecipativa, difesa del territorio e sostenibilità con cui si riempiono la bocca in campagna elettorale. Eppure – nonostante quanto affermano questi signori - l’autostrada si può ancora fermare con un ricorso al Cipe. Questo chiederanno alla Regione i cittadini che scenderanno oggi in piazza: bloccare un’opera che, a parole, nessuno vuole.

La discarica nell'oasi

Quei grossi buchi sul terreno che la Regione Veneto vorrebbe riempire di amianto, non sono naturali. Li scavarono i bisnonni degli abitanti di quella che allora non era ancora la Roverchiara che conosciamo oggi, per impastarne l’argilla e modellare i “quarei” – i tipici mattoni – che servirono a costruire le rustiche abitazioni. Poi l’area fu abbandonata e questa fu anche la sua fortuna. Oggi, attorno alle 14 larghe pozze riempitesi nel corso degli anni di acqua di falda, la natura ha provveduto a ripristinare quella tipica vegetazione padana che oramai è quasi del tutto scomparsa. In questi 90 mila metri quadri si trova più biodiversità che in tutto il resto della piana, coperta com’è da una urbanizzazione diffusa che lascia spazio solo a coltivazioni intensive.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.
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