In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

La discarica nell'oasi

Quei grossi buchi sul terreno che la Regione Veneto vorrebbe riempire di amianto, non sono naturali. Li scavarono i bisnonni degli abitanti di quella che allora non era ancora la Roverchiara che conosciamo oggi, per impastarne l’argilla e modellare i “quarei” – i tipici mattoni – che servirono a costruire le rustiche abitazioni. Poi l’area fu abbandonata e questa fu anche la sua fortuna. Oggi, attorno alle 14 larghe pozze riempitesi nel corso degli anni di acqua di falda, la natura ha provveduto a ripristinare quella tipica vegetazione padana che oramai è quasi del tutto scomparsa. In questi 90 mila metri quadri si trova più biodiversità che in tutto il resto della piana, coperta com’è da una urbanizzazione diffusa che lascia spazio solo a coltivazioni intensive.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.

Da Dakar a Murano. Arte senza frontiere

“Mi chiamo Moulaye Niang e sono nato a Dakar, in Senegal. Sono figlio di due artigiani. Mia madre faceva tessuti e bambole di tessuto. Mio padre era stato un militare in Francia; ma poi, dal momento che non gli piaceva prestare servizio militare, tornò in Africa e iniziò a creare gioielli in oro e argento”. La storia di Moulaye Niang inizia così. Come un romanzo d’avventura dell’ottocento. Un’avventura che comincia una quindicina di anni or sono, quando Moulaye lascia Dakar per l’Italia. E’ un migrante, Moulaye. E come tutti i migranti ha un cammino di sogni e speranze da percorrere. Ma di lui, Hugo Pratt avrebbe scritto che “aveva un appuntamento”. Moulaye ha lasciato l’africa per andare a Murano e diventare maestro vetraio.
“Perché il vetro? Perché è terra, aria, acqua e fuoco che si amalgamano obbedendo alla volontà creativa dell’artista: lo spirito che dà forma fisica alla materia. Puoi anche chiamarla magia, se preferisci”. Moulaye è un artista. Uno di quelli che ti vien voglia di guardargli le mani per cercare di scoprire che hanno di più. Nel suo laboratorio in calle Crosera, di fianco al campo della Bragora - nel cuore del popolare sestiere di Castello - sono appesi alcuni suoi dipinti realizzati con una tecnica che meriterebbe più spazio. “In Senegal li facevo con l’aglio. Sì, l’aglio. Se lo spremi diventa una specie di colla. In Africa, perlomeno. Ma qui a Venezia non funziona. Non so perché. Allora uso lo stucco da barche. Il risultato è pressappoco lo stesso”. Il materiale, per un artista, non è mai solo un semplice mezzo per esprimere la propria creatività. “Il vetro ha un’anima sai? E vive proprio, qui, a Murano. Lo so. In tutto il mondo si lavora il vetro. Io stesso ho aperto una scuola a Dakar per aiutare i miei fratelli africani. Ma non c’è verso di rifare in un’altra parte del mondo le cose che riescono a fare solo a Murano. Solo qui il vetro fonde a 600 gradi invece di mille. E parliamo di vetro biologico. Senza quelle porcherie chimiche che ci mettono in altri paesi. Tu pensa solo al color rosso. Quanti rossi ci sono al mondo, secondo te? Beh, a Murano un maestro vetraio sa tirare fuori un milione di rossi diversi. Basta impastare un minuto prima o un minuto dopo, basta che il vento butti a bora o a scirocco, che giri l’acqua e il risultato è diverso”. Ha fatto di tutto, Moulaye prima di arrivare a poter lavorare col vetro. Operaio in una ditta di cromature, facchino, pulizie... “La notte lavoravo come portiere d’albergo a Venezia. La mattina prendevo il battello per andare a Murano, alle fornaci, e chiedere ai maestri che mi facessero vedere come si lavora il vetro. ‘Torna domani”, mi dicevano ‘Oggi non abbiamo tempo’. Per tre anni, nessuno mi voleva neppure vendere il vetro o gli attrezzi per lavorarlo”. Perché sei nero? “No, perché sono veneziano. Tu sei di qua. Lo sai cosa dicono i muranesi dei veneziani, no?” Vediamo se indovino: loro sono degli inarrivabili artisti e noi dei meschini commercianti. “Che traggono profitto del loro genio. E ci han ragione. Non era razzismo il loro, ma business. ‘Se ti insegniamo, poi tu apri una attività a Venezia e ci fai concorrenza’ mi dicevano. Cosa che, tra l’altro, è puntualmente avvenuta. Anche se io non faccio lavori industriali ma seguo la tradizione muranese sposandola con la mia ‘africanitudine’, se mi passi il termine. Le forme e i disegni della mia terra d’origine con le lucentezze e i colori del vetro più bello del mondo”. Ma come sei riuscito a scardinare quel muro di omertà che circonda il vetro di Murano? “Dopo due anni da invisibile, improvvisamente una ragazza di nome Perla mi ha rivolto la parola. ‘Ma tu che ci fai in questa giungla?’ mi ha detto ‘Dai, che ti porto da mio zio’. Suo zio è Davide Salvadore, uno dei più grandi maestri vetrai del mondo. Il giorno dopo, Murano per me era un’altra isola. Tutti mi conoscevano come el Muranero, il muranese nero. Potevo comperare il materiale, entrare nella scuola Abate Zanetti, artisti come Pino Signoretto ed Egidio Costantini mi davano consigli e mi incoraggiavano. Geni assoluti che mi spiegavano la magia e i misteri del vetro di Murano. Per dieci anni ho studiato e lavorato il vetro con loro. Adesso le scolaresche veneziane vengono nel mio laboratorio a vedere come si lavora a lume”. Tu sei uno dei pochi che lavora all’aperto. “E’ vero. Murano lavorano sempre al chiuso. Sprangano pure le finestre. Cosa vuoi? Per secoli, per difendere i segreti del vetro, i maestri non potevano neppure lasciare l’isola, pena la morte. Ma io ha anche un’anima africana che mi spinge a tenere sempre la porta spalancata. Sono muranese ma anche nero. Muranero, appunto”. E sei diventato un maestro riconosciuto del vetro. “Ah, non scherzare... dopo solo dieci anni? Sono solo un artigiano che cerca di dare forma al suo estro e che continua ad imparare tutti i giorni dai veri maestri muranesi. Torna da trent’anni. Quando anche io, forse, saprò tirar fuori da quel milione di rossi il rosso più bello”.

Il Veneto verso il voto

“Vinciamo anche da soli”. Assessori ed esponenti del Carroccio lo ripetono a chiunque chieda loro delle prossime amministrative. Potete domandare che ne pensano di una alleanza con i centristi, con la destra estrema o anche con lo stesso Popolo delle Libertà. “Vinciamo anche da soli” ripetono. E i sondaggi dan loro ragione. Luca Zaia, volto pulito della Lega lumbard – perlomeno a raffrontarlo con altri personaggi del Carroccio appesantiti da pacchi di condanne per razzismo alle spalle (imputabili ai soliti giudici meridionalisti) – sta giocando una partita a poker con tutti gli assi nella sua mano. Silurato Giancarlo Galan, ritiratosi obbedientemente dalla mischia, da quel bravo dipendente di Publitalia che è sempre stato, anche tutti gli ex fedelissimi galaniani, che pure avevano minacciato le barricate contro Zaia, hanno presto abbassato la coda.
“In fondo, eravamo una squadra. Mica c’era solo Galan!” hanno dichiarato. Tutti pronti a giurare fedeltà al nuovo Governatore. La vera questione, a questo stato dell’arte, è solo la difesa del posto in consiglio regionale o in uno dei tanti enti baraccone regionali. Un problema non da poco, perché la Lega stavolta non lascerà niente a nessuno. Addirittura tra i consiglieri uscenti del Pdl girava l’ipotesi balorda di rivolgersi ad un notaio per ratificare, prima dell’apertura delle urne, l’assegnazione delle poltrone che contano per timore di non avere più posti in cui poggiare il sedere dopo il conteggio delle percentuali dello spoglio. Per intanto la Lega ha silurato l’Udc che pure, in questa legislatura, sembrava un cadetto a West Point: “Signorsì! Signore!”. E il centro sinistra? Il Pd è a tocchi. In Italia come nel Veneto. Il problema, diciamocelo, è che non rappresentano una vera alternativa alla destra. Parliamo di politiche sociali? Di grandi opere inutili e devastanti? Di migranti? Di ambiente? Le posizioni dei Democratici nel Veneto sono uguali a quelle del centrodestra. Con una differenza. Alla riunione del comitato civico contro l’inceneritore locale, nessun democratico si spreca a spiegare che il problema dei rifiuti non si risolve incenerendoli, mentre l’esponente del Carroccio racconta che, sì l’inceneritore è indispensabile e non ha alternative, ma va costruito lontano da qua. E che la colpa è del federalismo che non c’è e di Roma ladrona. Spaccia balle e ricava consenso.
Questo Pd senza politica ha fatta subito tramontare la candidatura “pulita” della sindaca di Montebelluna, Laura Puppato, che pure godeva un forte appoggio tra la base ma non tra i vertici del partito. Quindi ha cercato di stringere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Che è come passare dall’acquasanta al diavolo. La verità è che i vertice veneti dei democratici son convinti che si può vincere nel Veneto solo allenandosi all’Udc e chiudendo le porte agli “estremismi” verdi e comunisti. In attesa magari, che si spezzi l’asse Bossi Berlusconi e che ci si possa alleare o con la Lega o con il Pdl. Ma anche l’ipotesi De Poli ha avuto vita breve. I centristi san fare i loro conti: correndo da soli perdono ma si portano a casa più consiglieri che in coalizione. Inoltre, nel corso della legislatura avranno sempre la possibilità di risalire nel carrozzone del Governatore vincente. A sfidare Zaia come si sfida un mulino a vento, ecco arrivare Giuseppe Bortolussi, 61 anni, paladino degli artigiani e del popolo delle “partite iva”. Come dire il terreno da cui è nata la Lega. Un candidato che non ha fatto fatica ad incassare l’appoggio degli ambientalisti che in lui hanno visto un volto nuovo della politica, perlomeno lontano dai vertici di un partito democratico pronto a dannarsi l’anima solo per stare a galla.

Margherite al cromoesavalente

Sulla sponda sinistra dell’elegante fiume Brenta, dove ai tempi della Serenissima fiorivano le ville palladiane, sorge oggi un ridente paesino padano dove le margherite crescono con tre teste.
Per ammirare questi originali esempi botanici di frankenstein genetici basta farsi una passeggiata – ma noi non ve lo consigliamo - a Tezze sul Brenta, una decina di chilometri a sud di Bassano. Cittadina che da una decina di anni a questa parte si è guadagnata la non edificante nomea di “paese più inquinato d’Italia”. L’aria che tira da queste parti non si può certo definire salutare. In questo paese dove la Lega raggiunge percentuali che neanche nella Romania di Ceausescu e la colpa di tutto è sempre di “Roma ladrona”, le patologie tumorali al cervello e ad altri organi sono tra le più alte d’Italia.

E senza neanche bisogno di una centrale nucleare. Al posto dell’uranio, qui preferiscono il cromo esavalente. Per vent’anni, una pestilenziale ditta di cromature ha scaricato in pieno centro residenziale quintalate di questo inquinante che definire un potente cancerogeno è fargli un complimento. Per vent’anni, la ditta Tricom, poi Galvanica Pm, ha avvelenato le falda acquifere di Tezze ammazzando lentamente i residenti che perdevano i capelli e si ustionavano la pelle solo a farsi la doccia. Per vent’anni, la Galvanica ha assassinato i suoi operai costringendoli a lavorare a contatto diretto col cromo. Secondo il Pm, i morti accertati tra i dipendenti sono stati, sino ad oggi, ben 17. Tutti e 17 migranti extracomunitari che, tra l’altro, lavoravano in condizioni di precarietà e senza tutele sindacali. Per quel che può servire la tutela del sindacato a uno che sa che dopo un anno di lavoro gli viene il cancro.
Ma a parte una eredità di milioni di euro di bonifiche tutte da fare, che la Regione Veneto continua a rimpallarsi da una finanziaria all’altra, Tezze ci ha regalato anche una delle poche condanne per reati ambientali affibbiate nel nostro Paese, notoriamente indulgente e comprensivo con chi inquina.
Nel 2006, il tribunale ha affibbiato a Paolo Zampierin, titolare della ditta assassina, due anni e sei mesi ma imputandogli solo il reato di avvelenamento della falda. Va anche detto che la galera, il suddetto imprenditore, l’ha solo vista da lontano, grazie all’indulto. Tutto qua. E i 17 operai morti avvelenati? E tutta la gente che abitava nelle vicinanze della galvanica che si è ammalata di tumore? Non si sono arresi, i comitati contro l’avvelenamento da cromo di Tezze che hanno continuato a lottare perché anche alle vittime venisse resa giustizia. Non si è arresa chi questi comitati li ha costituiti: la signora Gabriella Bragagnolo, infermiera in pensione, vittima anch’essa dell’avvelenamento da cromo. I giornali locali, con poca fantasia, l’hanno ribattezzata la Erin Brockovich italiana dipingendola spesso come una macchietta di colore locale. Ma in tutti questi anni, la Bragagnolo non ha mai smesso di lottare fino a che, è notizia di questi giorni, il sostituto procuratore Giovanni Parolin ha rinviato a giudizio – e stavolta per omicidio colposo – lo Zampierin e altri tre responsabili della Galvanica. Una lotta dura, quella della signora Bragagnolo, e non solo contro il plotone di avvocati e di politici schierati dagli inquinatori. “Oggi mi trovo conti di migliaia di euro da pagare tra avvocati, spese processuali, periti e laboratori chimici – spiega –. Sono ammalata e debbo continuare a vivere in una strada che non si sa se e quando sarà bonificata. E non posso neppure vendere la casa perché la zona è stata dichiarata inquinata. In Comune, invece di aiutare e difendere me e gli altri residenti, mi hanno sempre osteggiata e mi considerano come la matta che non ha voluto stare zitta e ha spiattellato ai giornali gli affari del paese. Quasi fosse colpa mia. Quasi fossi io che ho inquinato e che ho fatto chiudere quella ditta di onesti imprenditori che dava lavoro a tutti!»

Destini sospesi

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“Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino ma promettimi, o dio, che non lascerai che finisca la primavera”. Così Zaher Rezai scriveva nel suo taccuino, al buio, nascosto dentro una cella frigorifera nel grande ventre di quella nave che da Patrasso lo portava a Venezia. “Giardiniere apri la porta del tuo giardino. Io non sono un ladro di fiori. Io stesso mi sono fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi”. Lontano dalla guerra in Afghanistan e da quelli che i generali chiamano i suoi effetti collaterali. Lontano dalla fame, dalla miseria con solo quindici anni di vita alle spalle. “Questo mio corpo così assetato forse non arriverà all’acqua del mare”. Era solo un ragazzino, Zaher Rezai, quando è finito stritolato sotto le ruote di un camion, nella banchina del porto.
Cercava di eludere i controlli della polizia doganale. Quella polizia che, lui lo sapeva bene, lo avrebbe rimandato a Patrasso invece di aiutarlo e di dargli quell’assistenza umanitaria cui lui aveva due volte diritto: come profugo e come minorenne. “E se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo, chi si occuperà della mia sepoltura? Chi cucirà il mio sudario?”



Le poesie di Zaher oggi sono diventate un libro: ”Il porto dei destini sospesi” che raccoglie anche tutto il seminato della rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti cui va il merito di aver sollevato davanti ad una opinione pubblica che non vedeva o non voleva vedere, il caso dei profughi provenienti dai paesi in guerra. Profughi che rientrano a pieno titolo nella definizione di Rifugiato sancita dalla convenzione di Ginevra ma che continuano ad essere respinti - illegalmente respinti – dai porti di Venezia e di Ancona. Sono tanti come Zaher. Tanti che come lui ci hanno lasciato la pelle, oltre che la dignità, in un viaggio infernale che dura in media due o tre anni. Afghanistan, Pakistan, Turchia, Grecia e poi, nascosti nelle stive di qualche grande nave da carico, Venezia e l’Europa. Un lungo rosario di violenze, privazione e sopraffazioni. Due anni per poi venire rispediti da qualche solerte doganiere a Patrasso, in un campo profughi che pare un lager nazista, e da là ancora indietro, sino a riconsegnarti alle autorità del tuo paese natale che non ti perdoneranno di essere scappato. Indietro verso un futuro di galera, tortura, morte.
Uno scrittore di cui, mi perdonerete, ho scordato il nome, ha osservato che al giorno d’oggi non ci sono più viaggiatori ma solo turisti. Si sbagliava. Eccoli qua i veri viaggiatori del mondo globalizzato.
Il libro realizzato a più mani dagli attivisti della rete contiene, oltre alle poesie trovate nel taccuino, un fumetto di Claudio Calia, che ha raccontato con il suo stile secco ed essenziale, la storia di Zaher. La prefazione è di Gianfranco Bettin. L’introduzione dell’assessora verde alla Pace del Comune, Luana Zanella, che è riuscita nella non facile impresa di finanziare la stampa del volume. L’intero ricavato infatti, andrà a coprire le iniziative della rete, tra le quali, non dimentichiamolo, il ricorso al tribunale europeo, dichiarato “ammissibile” dalla corte, e che vedrà l’Italia e la Grecia nel banco degli imputati per violazione dei diritti umani. “Il porto dei destini sospesi” raccoglie anche le corrispondenze da Patrasso scritte da Alessandra Sciurba per Melting Pot quando, assieme ad altri attivisti per i diritti umani, ha raggiunto la città greca per documentare con foto, filmati ed interviste le condizioni vergognose in cui sono trattenuti i profughi in attesa del rimpatrio forzato. Il libro, la cui copertina è stata realizzata dall’artista veneziano Luigi Gardenal, è stato scritto con il preciso intento di descrivere la situazione di illegalità diventata legge grazie alle omertà, alle deresponsabilizzazioni, all’arbitrarietà e al menefreghismo che imperano in quella sorta di limbo giuridico che è diventato la frontiera portuale italiana. E’ un libro che scandalizza questo. Un libro che ci fa provare la vergogna di vivere tranquilli da “questa” parte della frontiera. Che ci mette davanti gli occhi mucchi di brutte cose che non vorremmo vedere. Cose che non dovrebbero esistere perché non hanno neppure una giustificazione utilitarista e il male fatto senza scopo è ancora più cattivo.
Il porto dei destini sospesi sarà presentato questa mattina alle ore 11 nella cornice di tutto rispetto dell’Ateneo Veneto, a due passi dal teatro La Fenice di Venezia. Oltre ai già citati Luana Zanella, Gianfranco Bettin e Luigi Gardenal, sarà presente, come ospite d’onore, lo scrittore Moni Ovadia. Ci saranno che gli attivisti della rete che, tra tante difficoltà, hanno voluto realizzare questo volume per dar voce a chi voce non ha e raccontare la storia di Zaher e degli altri profughi afghani. Raccontare la storia di queste dolorose e profonde ingiustizie perché altri non abbiano a patirle ancora. Sono loro, quelli che si sono occupati della sepoltura di Zaher. Sono loro che hanno cucito il suo rosario.

Una Idea per il Veneto

Il nome pare pensato apposta per la gioia dei titolisti dei quotidiani, che potranno sbizzarrirsi tra “Che bella Idea” oppure “Una Idea vincente”. Per tacere della famosa canzone di Patty Bravo “Che pazza Idea”. L’acronimo, o più esattamente l’acrostico, sta per Italia Democratica Etica Ambientalista. Ecco qua la nuova Idea per l’Italia. Una Idea che non a caso nasce nel Veneto. Regione tradizionalmente in mano al centrodestra ma ricchissima di associazioni, volontariato, movimenti, comitati, negozi equosolidali, gruppi di acquisto... insomma tutto quel variegato arcipelago ambientalista e sociale al quale questa nuova Idea di politica vuol dare voce.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.

Regione a rischio

Qualche giorno di piogge, intense ma tutt’altro che eccezionali, abbattutesi in questi giorni nella pianura e nelle montagne venete sono stati sufficienti per mobilitare la protezione civile e a portare molti Comuni sull’orlo dell’emergenza ambientale. I sempre più rapidi mutamenti del clima fanno intendere che la situazione nell’immediato futuro non migliorerà di sicuro. Di fronte a queste prospettive l’unica cosa certa è che la Regione Veneto e le amministrazioni locali non soltanto sono assolutamente impreparate ad affrontare una possibile situazione di emergenza ma difettano radicalmente di una politica capace di prevedere e pianificare interventi di contenimento dei rischi.
Una recente ricerca di Legambiente e della Protezione Civile, condotta tramite un questionario denominato “Ecosist

ema rischio” diffuso tra gli enti locali, ha portato alla luce una situazione che dovrebbe far riflettere qualsiasi amministratore, tanto di destra quanto di sinistra. Nel 79 per cento dei Comuni italiani sono presenti abitazioni in aree esposte al pericolo di frane e alluvioni, nel 28 per cento dei casi sono presenti in tali aree interi quartieri e nel 54 per cento fabbricati e insediamenti industriali. Nel 20 per cento dei Comuni inoltre, strutture ricettive turistiche sono all’interno di aree classificate a rischio idrogeologico. Da sottolineare che molte amministrazioni hanno candidamente dichiarato di “non avere strutture in aree a rischio” per il semplice motivo di non aver mai attivato qualsivoglia politica di prevenzione e catalogazione dei rischi. Come dire: occhio non vede, cuore non duole.
“Eppure, a fronte di una totale assenza di interventi preventivi per la mitigazione del rischio, assistiamo ogni volta alla corsa ai finanziamenti straordinari per calamità naturale – ha dichiarato Michele Bertucco presidente di Legambiente Veneto – per dimenticarsi subito dopo i buoni propositi e ricadere nei vecchi vizi. Si torna, quindi, a richieste assolutamente controproducenti, come la deperimetrazione di qualche porzione di area a rischio idraulico per riuscire a concedere nuove costruzioni o a proposte prive di conoscenze tecniche come quelle di sindaci che chiedono l’escavazione di inerti. Un’operazione, questa, non solo vietata per legge, ma con l’unico risultato di aggravare la situazione, minando le fondamenta dei ponti e aumentando l’instabilità degli argini”. Legambiente Veneto ha pubblicamente chiesto agli enti locali, a partire dai Comuni, di creare un’alleanza che coinvolga tutti gli attori in gioco, lo Stato, la Regione, le Autorità di bacino, ma anche le associazioni, per programmare per tempo gli interventi di prevenzione e difesa da frane e esondazioni. “La vera emergenza ha concluso Bertucco - è il superamento della cultura degli interventi post-disastri. Gli enti gestori del territorio devono fare un generale ‘mea culpa’ e cominciare ad impostare una gestione organica e sistemica del suolo in tutti i suoi aspetti, urbanistici, ambientali, sociali. E’ questa la vera grande opera pubblica da chiedere al Governo, al posto di dannosi e inutili miraggi come il ponte sullo stretto di Messina”.

Progetto oasi al Cavallino

Ci sono progetti che nascono dall’alto. Sono sempre progetti costosissimi, quasi sempre imposti alle amministrazioni locali e comunque sempre malvisti dalla cittadinanza. Sono calati da un governo centrale per ragioni che stanno “oltre” i reali bisogni dei residenti. Favoriscono cordate di amici di amici cui riempiono le tasche private con denaro pubblico. Sono sempre progetti fortemente impattanti, se non addirittura devastanti per il territorio, e totalmente slegati dalla cultura e dalla tradizione locale. Come se non bastasse, sono progetti immancabilmente inutili se non addirittura controproducenti rispetto allo scopo di intervento prefissato.

Poi ci sono i progetti che vengono dal basso. Progetti amorevolmente elaborati da associazioni e comitati cittadini. Progetti a basso costo, sempre sostenibili, rispettosi delle specifiche del territorio di cui recuperano tradizioni culturali e di rapporto con l’ambiente.
Il progetto Oasi fa indiscutibilmente parte di questa seconda categoria.
Siamo nel Comune di Cavallino Treporti; una sorta di penisola tra il mare Adriatico a est e la laguna di Venezia a ovest. Il progetto Oasi nasce nel lungomare San Felice, sulle sponde della bocca più settentrionale della laguna veneziana, punta Sabbioni. Un nome che, un tempo, suonava come un avvertimento per i marinai che rischiavano di perdere l’imbarcazione tra le grandi secche di sabbia in continuo movimento. Tempi in cui la laguna era ancora viva e respirava seguendo i ritmi delle maree. Oggi il Mose sta trasformando Punta Sabbioni in un braccio di mare aperto e le “barene” stanno morendo. Ma all’interno del lungomare di San Felice è ancora possibile riscoprire tutta quelle vegetazione e quella fauna tipiche di quell’equilibratissimo ecosistema formatosi a cavallo tra acqua dolce e acqua salata che era la peculiarità dell’ambiente lagunare veneto.
L’area è demaniale con, all’interno, una struttura abitativa di proprietà del Consorzio Basso Piave. Una casupola semidiroccata, da decenni abbandonata all’incuria. E’ qui che nasce il progetto Oasi: trasformare questa struttura e l’habitat che la circonda in un'area ambientale protetta che possa fungere da punto di partenza per escursioni, avvistamenti, di incontro per le associazioni impegnate a difendere l’ambiente lagunare.
Un aspetto importante è che l’oasi confina con i contorni di quel parco della laguna disegnati dal Comune di Venezia che gli ambientalisti continuano ad invocare ma che si scontra con gli interessi cementificatori della maggioranza di centrodestra che governa la Regione Veneto che ha sempre opposto un netto rifiuto a qualsiasi ipotesi di tutela ambientale della laguna più famosa del mondo. L’oasi del Cavallino potrebbe costituire un trampolino anche per il parco lagunare, dimostrando che anche un progetto costruito dal basso, oltre che preservare l’ambiente, può rivelarsi un efficace volano per una economia sostenibile.
L’idea nasce da tre associazioni locali - Verdelitorale, Gaia onlus, Un Mondo di Gente – che hanno lanciato una petizione popolare già sottoscritta da numerosi cittadini per chiedere al sindaco di Cavallino di dare il via al progetto, peraltro già deliberato dal consiglio comunale nell’agosto del 2009. “Anche il consorzio di bonifica ha già dato un parere favorevole al nostro progetto di costruire un’Oasi – spiega Gianluigi Bergamo di Vedelitorale, promotore dell’iniziativa – Attendiamo adesso che si pronunci il demanio. Sappiamo che l’area, che pur è di alto pregio naturalistico, è inutilizzata e abbandonata a se stessa. Ci auguriamo che dimostrino la sensibilità necessaria a permetterci di recuperarla”. Dare nuovo impulso alla raccolta di firme e far pressione sugli enti preposti alla gestione dell’area, è il senso dell agioranta di mobilitazione popolare e di presentazione del progetto Oasi che si svolgerà oggi alle ore 10, nella sala Airone di via Concordia a Ca’ Savio. Interverranno il sindaco di Cavallino Treporti Erminio Vanin, il redattore del progetto Oasi Marco Favaro, Walter Mescalchin dell’associazione Libera, Enrico Trevisiol di Banca Etica, don Enrico Torta dell’associazione Gaia, Giovanni Quagliati, responsabile Basi scout Agesci. “Le oasi sono tra gli ultimi lembi di territorio del nostro paese dove ancora si può entrare in contatto con la bellezza di una natura incontaminata – spiega Bergamo -. Sono aree indispensabili per tutelare campioni di ecosistemi rari e minacciati e habitat di specie in via di estinzione oltre che per l’osservazione e lo studio della natura circostante”. Informazioni sul progetto sono reperibili sul sito di www.verdinrete.it/verdelitorale dove è anche possibile firmare on line la petizione.
Da non sottovalutare anche l’aspetto educativo culturale del progetto. Ce ne parla Aldo Rossetti di Gaia: “Tutelare l’ambiente del litorale, come si è detto, è il principale obiettivo del progetto. Ma ci preme sottolineare anche la nostra volontà di costruire iniziative che abbiano come soggetti i giovani, in particolare. Sono numerose le attività che potremmo svolgere nell’Oasi; dalle escursioni guidate a scopo ludico e didattico, sino ad incontri informativi, con proiezioni di film, audiovisivi e vere e proprie lezioni teoriche condotte da docenti specializzati. Ma stiamo pensando anche a campi scuola estivi per scolaresche, scout o ragazzi appartenenti ad associazioni ambientaliste. L’Oasi del cavallino potrebbe diventare un efficace punto di diffusione della cultura ambientalista. Perché la natura. lo sappiamo bene, è sempre la migliore delle scuole”.

Brutto clima attorno al Mose

Tutti assolti, fatta eccezione per Luca Casarini, gli attivisti del No Mose che nel settembre del 2005 avevano occupato i cantieri di San Nicolò, al Lido di Venezia. “La sentenza del tribunale ha fatto crollare tutto un impianto accusatorio costruito ad arte per criminalizzare chi si oppone alla realizzazione di questo ecomostro – spiega Luciano Mazzolin, portavoce dell’assemblea No Mose -  Sono cadute tutte le imputazioni assurde come quella di ‘sabotaggio’, neanche fosse stata una azione di guerra, per la quale la Regione Veneto ci aveva chiesto 100 mila euro di danni.
Spiace solo la condanna a 3 mesi e 4 mila euro a Luca, condannato per minacce a Galan soltanto per aver risposto alle provocazioni del presidente della giunta regionale. Faremo comunque regolare ricorso”. La sentenza emessa dal tribunale giovedì scorso cade in un momento in cui tanto gli studi scientifici quanto lo stesso mare Adriatico sta confermando le previsioni degli ambientalisti. Il documento tecnico della società Principia ha sollevato seri dubbi sulla funzionalità del sistema di chiusura dei portelloni in certe condizioni atmosferiche. Inoltre, recenti studi del Cnr hanno dimostrato come il sistema Mose è inefficace nel difendere la laguna nell'ipotesi che i livelli del mare si inalzino nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici. Una sentenza della Corte dei Conti inoltre ha evidenziato tutte le anomalie e lacune emerse in relazione al progetto ed a tutte le attività che vi gravitano intorno. “Il Mose è figlio di un regime di monopolio che dura da oltre vent’anni contrario a tutte le normative europee e nazionali; costi lievitati a dismisure, incarichi, consulenze e collaudi  affidati con scarsa trasparenza, progetti e lavori senza Valutazione d’impatto ambientale positiva, mancanza di un progetto esecutivo generale – spiega Luciano Mazzolin –. E questi signori hanno avuto la faccia tosta di denunciare noi per danni!” Solo i danni prodotti per il solo cantiere S. Maria del Mare sono stati quantificati da esperti del Comune di Venezia in cento milioni di euro! Chi li pagherà? Gli ambientalisti No Mose chiedono alla magistratura di avviare un procedimento ad ampio spettro sia sulle abnormi lievitazioni dei costi sia sulle moltissime irregolarità che si ravvedono in tutta la vicenda senza farsi condizionare dalla potentissima lobby di aziende ed imprese del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dell’opera, che hanno messo le mani sui fondi della Legge Speciale  e che  stanno  fagocitando 4,2 miliardi di euro per costruire un'opera vecchia, inutile e dannosa non solo per gli attuali delicati equilibri idrogeologici lagunari, ma anche alla luce delle variazioni climatiche che si prospettano per i prossimi decenni. Intanto, con i lavori di scavo alle bocche di porto che continuano, Venezia va sempre più a fondo. Anche oggi un metro e dieci di marea. Un metro e dieci ieri e un metro e dieci pure l’altro ieri. Domani le previsioni parlano di un metro e quaranta. Neanche gli stivali saranno sufficienti per uscire. La gente comincia a domandarsi cosa succederebbe se il Mose fosse già operativo. Le paratoie blindate sarebbero state alzate per un mese consecutivo trasformando in uno stagno quella che era la laguna dei dogi e paralizzando l’attività del porto? Ci si domanda che ne sarà allora di quel delicatissimo ecosistema lagunare creatosi pazientemente nel corso degli ultimi millenni, e che respirava ogni sei ore seguendo i ritmi della luna e del mare.

A Treviso la cava più profonda

Esattamente un anno fa, i comitati contro le cave nella marca trevigiana organizzarono una protesta davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto. In quell’occasione, i portavoce dei manifestanti consegnarono ad ogni consigliere regionale impegnato a votare la finanziaria, un piccolo scrigno di legno. Il cofanetto era riempito di sassi. In una targhetta si leggeva “Chiediamo che questa sia l’ultima ghiaia estratta nel nostro territorio”.
La protesta, per quanto originale, non ha ottenuto lo scopo prefissato. Un anno dopo, siamo ancora qua a scrivere di cave, progetti di nuove cave e di ampliamenti di cave già esistenti. E ogni volta tocca usare superlativi ed iperboli. Poco eleganti dal punto di vista dello stile e che rischiano pure di perdere efficacia nella loro continua ripetizione. Ma che altro potremmo scrivere della “cava più profonda d’Italia”? Ben 65 metri sotto il piano della campagna per un estratto di oltre 8 milioni e 800 mila metri cubi. Se preferite un esempio più visivo, pensate ad una voragine che potrebbe contenere un grattacielo di 23 piani scavata su una estensione pari a quella dell’aeroporto di Venezia. La colossale cava, giustificata come il solito “ampliamento” di una cava già esistente, in questo caso la Morganella, dovrebbe sorgere a cavallo tra i Comuni di Paese e Ponzano, entrambi in provincia di Treviso. Anche in questo caso, l’iter autorizzativo è tutt’altro che originale. Le ditte Biasuzzi Cave Spa, Calcestruzzi Spa e Superbeton Spa presentano un progetto al Via. I comitati si mettono in agitazione e fanno pressione sui rispettivi Comuni. Sindaci e assessori, maggioranza e opposizione tuonano contro lo scempio del territorio e promettono battaglia. Un fervore che dura poco: chi conta in Regione Veneto sta dalla parte dei cavatori e i Comuni non possono che chinare la testa e approvare una decisone che già presa da altri. Così vanno le cose nella marca trevigiana che dal monocolore democristiano è saltata in toto sul Carroccio leghista. Per gli assessori regionali “lumbard” non è gran fatica rimetter in riga i loro amministratori locali su una battaglia che, si capisce, è già persa in partenza. E così dopo l’iniziale fuoco e fiamme, il sindaco di Ponzano, Giorgio Granello, attende la vigilia di Natale per convocare un consiglio il 31 dicembre e far ingoiare l’ampliamento, con conseguente stupro del territorio, ai suoi concittadini ed elettori assieme al panettone delle feste. Il sindaco di Paese, Francesco Pietrobon, che pure si era impegnato a contrastare il progetto della Morganella chiedendo ufficialmente al Via una inchiesta pubblica alla quale potessero partecipare tutti i cittadini di Paese, qualche giorno dopo la richiesta spedisce una disdetta. Scusate, abbiamo scherzato. I comitati lo vengono a sapere dalla segreteria della commissione che, il giorno della convocazione, non è neppure il caso di comperare tutti quei biglietti per Venezia. Con una Regione così e due Comuni colà, ai cittadini di Paese e di Ponzano non è rimasta che la soddisfazione di intasare di mail di protesta i server dei loro amministratori.
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