In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Caccia incatenato
9/02/2010Terra
Da dieci giorni Angelo Bonelli sta facendo lo sciopero della fame a davanti alla sede Rai di Roma, per denunciare la disinformazione che regna sovrana nei nostri teleschermi e i media lo ignorano. Un esempio di questa malainformazione lo stiamo subendo a Venezia: non c’è un imbarcadero, un muro, una strada senza il faccione di Brunetta. Oggi il ministro ha acquistato 15 pagine su un giornale locale. Inoltre, dalla sua discesa in campo per occupare anche la poltrona di sindaco oltre che quella di ministro, lo vediamo in Tv in ogni trasmissione che ci racconta le sue amenità. Non ne possiamo più”. I verdi hanno consegnato una lettera aperta ai giornalisti dela Rai, costretti a passare dalla porta di servizio, per entrare in redazione, in cui si ribadisce il concetto che tale disinformazione mirata costituisca una vera e propria emergenza democratica. “Sotto questo bombardamento mediatico che non ha precedenti nella storia della Repubblica, la partita per le elezioni comunali a Venezia è truccata in partenza - ha concluso Beppe Caccia -. Anche a prescindere dalle tv, Brunetta ha occupato tutti gli spazi per le affissionim investendo almeno un milione di euro. Uno spreco indecente in tempi in cui tutti soffriamo le conseguenze della crisi. Pensiamo che il Comune ha fatto uno sforzo enorme per raccattare un fondo di 500 mila euro per le famiglie in difficoltà mentre Brunetta ha speso perlomeno il doppio, e in una sole settimana, soltanto per farsi propaganda”.
Vicenza, la base, la falda, i rischi
6/02/2010TerraLorenzo Altissimo non è mai sfilato per le strade di Vicenza battendo su un pentolone contro la base militare. Lui è di quelli che ritengono che un direttore responsabile della gestione di un centro di servizi regionale, come è il consorzio idrico di Novoledo, non deve parteggiare né per il sì né per il no. Il suo quindi, è il grido dall’allarme del tecnico che registra un dato di fatto: le falde acquifere del vicentino, monitorate dalla rete di sonde piezometriche del consorzio, si sono alzate molto meno dell’anno in corso. Colpa dei lavori di costruzione della base? “Non posso dirlo con certezza. Quella è zona militare e non abbiamo la possibilità di effettuare alcuna verifica dentro.
Posso solo notare, da tecnico, che l’intera area è una zona umida, poco adatta alla costruzione di un aeroporto. Quanto è successo quindi non ci sorprende: anzi lo avevamo in qualche modo previsto grazie ad un modello matematico che abbiamo messo a punto da alcuni anni. Ma, ripeto, non abbiamo strumenti per asserire che la colpa è delle palificazioni o di altro. Teniamo anche presente che il Vinca è stato fatto sui dati raccolti nell’area est, dove si doveva costruire inizialmente la base, e non sull’area ovest dove invece si sta costruendo adesso. Sappiamo che hanno piazzato dei piezometri anche là, ma i dati non ci sono mai stati mostrati”. Le dichiarazioni di Altissimo a Vicenza hanno avuto l’effetto di un sasso scagliato in uno stagno, riaprendo la questione dei costi ambientali della nuova base militare. “Io posso solo dire che il commissario straordinario Costa ha sempre dichiarato la sua disponibilità a far sì che i lavori seguano la massima trasparenza. Credo quindi che i sindaci i cui Comuni pescano dalla falda, dovrebbero farsi avanti per richiedere questi dati il prima possibile. Poi, se viviamo in un mondo in cui le opere militari non sono obbligate a sottostare al Via perché evidentemente non hanno nessuna incidenza sull’ambiente, io non posso che prenderne atto”.
Meno disponibile a limitarsi a “prendere atto del mondo in cui viviamo”, è la battagliera consigliera comunale dei No Dal Molin, Cinzia Bottene: ”Quanto afferma Altissimo e quanto verificato dal blitz degli attivisti, non fa altro che confermare che l’esattezza delle nostre previsioni. Non c’è da esserne contenti, purtroppo. Le condizioni di sofferenza in cui versa la falda dimostrano che le nostre denunce non erano allarmismi ma il frutto di una critica seria al progetto. E che abbiamo ragione, ce lo conferma anche il silenzio imbarazzato di Costa. Una settimana senza neppure un comunicato stampa di risposta… non è da lui!”
“Adesso che i fatti ci danno ragione – continua la Bottene - chiediamo quello che da sempre chiediamo e non abbiamo mai ottenuto: trasparenza e controlli. Quanto avviene nella base non può essere un buco nero a gestione di pochi che, nelle conseguenze, pagheremo tutti. Vogliamo sapere se la falda è a rischio. E non possono essere i committenti ma dei tecnici, terzi e affidabili, a rispondere”.
L’immediata e precauzionale chiusura del cantiere, in attesa di una risposta a questa domanda, è stata chiesta dal consigliere dei verdi, Gianfranco Bettin, in una interrogazione alla giunta regionale. “Il rischio drenaggio provocato dalle palificazioni – ha commentato l’ambientalista -sembra sia ormai una realtà, e c’è il rischio di danneggiare irreparabilmente la falda acquifera. Chiediamo la sospensione delle autorizzazioni fino a che non venga effettuata una nuova Vinca, così come da risposta della giunta all’interrogazione presentata il 12 febbraio scorso, che prevedeva proprio questo. Ritengo indispensabile che venga concesso il permesso ad un immediato sopralluogo, a cui far partecipare anche il Comune di Vicenza, per verificare lo stato dell’arte all’interno del cantiere stesso”.
Posso solo notare, da tecnico, che l’intera area è una zona umida, poco adatta alla costruzione di un aeroporto. Quanto è successo quindi non ci sorprende: anzi lo avevamo in qualche modo previsto grazie ad un modello matematico che abbiamo messo a punto da alcuni anni. Ma, ripeto, non abbiamo strumenti per asserire che la colpa è delle palificazioni o di altro. Teniamo anche presente che il Vinca è stato fatto sui dati raccolti nell’area est, dove si doveva costruire inizialmente la base, e non sull’area ovest dove invece si sta costruendo adesso. Sappiamo che hanno piazzato dei piezometri anche là, ma i dati non ci sono mai stati mostrati”. Le dichiarazioni di Altissimo a Vicenza hanno avuto l’effetto di un sasso scagliato in uno stagno, riaprendo la questione dei costi ambientali della nuova base militare. “Io posso solo dire che il commissario straordinario Costa ha sempre dichiarato la sua disponibilità a far sì che i lavori seguano la massima trasparenza. Credo quindi che i sindaci i cui Comuni pescano dalla falda, dovrebbero farsi avanti per richiedere questi dati il prima possibile. Poi, se viviamo in un mondo in cui le opere militari non sono obbligate a sottostare al Via perché evidentemente non hanno nessuna incidenza sull’ambiente, io non posso che prenderne atto”.
Meno disponibile a limitarsi a “prendere atto del mondo in cui viviamo”, è la battagliera consigliera comunale dei No Dal Molin, Cinzia Bottene: ”Quanto afferma Altissimo e quanto verificato dal blitz degli attivisti, non fa altro che confermare che l’esattezza delle nostre previsioni. Non c’è da esserne contenti, purtroppo. Le condizioni di sofferenza in cui versa la falda dimostrano che le nostre denunce non erano allarmismi ma il frutto di una critica seria al progetto. E che abbiamo ragione, ce lo conferma anche il silenzio imbarazzato di Costa. Una settimana senza neppure un comunicato stampa di risposta… non è da lui!”
“Adesso che i fatti ci danno ragione – continua la Bottene - chiediamo quello che da sempre chiediamo e non abbiamo mai ottenuto: trasparenza e controlli. Quanto avviene nella base non può essere un buco nero a gestione di pochi che, nelle conseguenze, pagheremo tutti. Vogliamo sapere se la falda è a rischio. E non possono essere i committenti ma dei tecnici, terzi e affidabili, a rispondere”.
L’immediata e precauzionale chiusura del cantiere, in attesa di una risposta a questa domanda, è stata chiesta dal consigliere dei verdi, Gianfranco Bettin, in una interrogazione alla giunta regionale. “Il rischio drenaggio provocato dalle palificazioni – ha commentato l’ambientalista -sembra sia ormai una realtà, e c’è il rischio di danneggiare irreparabilmente la falda acquifera. Chiediamo la sospensione delle autorizzazioni fino a che non venga effettuata una nuova Vinca, così come da risposta della giunta all’interrogazione presentata il 12 febbraio scorso, che prevedeva proprio questo. Ritengo indispensabile che venga concesso il permesso ad un immediato sopralluogo, a cui far partecipare anche il Comune di Vicenza, per verificare lo stato dell’arte all’interno del cantiere stesso”.
Senza dimora
6/02/2010TerraFreddo. Freddo cane. E sarebbe pure una nottata tiepida, questa, al confronto di quella di ieri, quando il termometro batteva i meno cinque e ti si congelava il gas nell’accendino. I ragazzi della cooperativa Caracol si intiepidiscono le mani sulle caraffe di caffè prima di versarle nei termos. Poi caricano le ceste di merendine e l’ultimo pacco di coperte nel furgone. Indossano la “divisa d’ordinanza” - giacca a vento che pare quelle dei pompieri e gilè giallo da stradino - e si preparano ad affrontare ancora una volta il freddo e il buio della notte. Scene consuete al centro sociale Rivolta di Marghera. Tre o quattro uscite ogni notte, per cento notti all’anno.
“Ogni città ha un suo numero caratteristico di notti in cui fa davvero freddo - mi spiega Vittoria -. Intendo notti in cui, se non hai una coperta, una tettoia o qualcos’altro che ti ripari dal vento, il freddo ti ammazza. A Venezia sono cento, le notti così”. E questa è proprio una notte così. Quest’inverno, a pochi chilometri da qui, il freddo ha già ammazzato. Un morto a Padova nella notte tra sabato e domenica, un altro a Mira tra domenica e lunedì. E il sindaco di Mira a dichiarare che gli spiace tanto ma che il “senza casa” in questione non si era mai rivolto ai servizi sociali del suo Comune. “Servizi che a Mira non ci sono. E comunque non ha capito niente del problema, il signor sindaco. Questa non è gente che chiede appuntamento agli assessori. Deve essere il servizio ad andare da loro”. Ed è proprio quanto fa la Caracol. La cooperativa è nata esattamente dieci anni fa da un gruppo di attivisti del Rivolta. Allora l’obiettivo era solo quello di tenere aperta la stazione di Mestre per permettere ai senza dimora di sopravvivere ad un inverno che pareva non finire più. Ma subito dopo i ragazzi si sono costituiti in una cooperativa che hanno chiamato Caracol perché, tra di loro, non ne peschi uno che non abbia trascorso perlomeno una o due estati a costruir turbine o a sistemar depuratori nel Chiapas rebelde. Oggi la Caracol siede al tavolo istituito dal Comune di Venezia per il progetto Senza dimora assieme ad altre associazioni come la Caritas, e gestisce un servizio “sulla strada” che opera 24 ore su 24. Ha un “telefono bianco” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini e degli assistenti sociali, mette in campo un furgone, una ventina di operatori qualificati tra volontari e dipendenti, e gestisce 24 posti letto all’interno degli spazi del centro sociale. Quando gela, esce tutte le notti con due squadre di operatori - una per Venezia e una per Mestre - che distribuiscono bevande calde, ciambelle, coperte. “Oramai li conosciamo tutti – mi spiega Vittoria –. Ci raccontano i loro guai, i loro problemi, le loro storie. Bugie e verità mescolate che neppure loro le san più distinguere. Il barbone coperto di stracci e con il fagotto sulle spalle è praticamente scomparso. Oggi sulle strade, troviamo malati psichici, alcolizzati, dipendenti da sostanze, ma anche marinai senza navi, disoccupati, migranti irregolari e tante persone che fino a poco tempo fa potevi considerare ‘normali’. Poi sono stati abbandonati dalle moglie o hanno perso il lavoro, la casa. In questa specie di agorà e nei cartocci di vino hanno trovato un sostituto di famigli”. La prima tappa è via Capuccina, dove ogni notte si accampa un gruppetto “storico” di senza dimora. Dopo le bevande calde, i ragazzi della Caracol fanno salire sul furgone quanti desiderano passare la notte al centro di accoglienza. Non tutti accettano l’invito. Gli alcolisti, soprattutto. Preferiscono passare la notte vicino ad un supermercato per poter correre a rifornirsi di alcol la mattina, appena dopo l’apertura. “Se vogliono vengono, se no stan qui. Queste persone hanno piena dignità e il diritto di decidere delle loro vite” mi dice Momo. E aggiunge scherzando: ”Qui siamo tutti del popolo della libertà! Viva la libertà, allora!” Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, è il responsabile della cooperativa. E’ un omone gioviale che non smette di scherzare con tutti quelli che incontra e che, d’altra parte, conosce da una vita. Lui è la sola persona che, commentando un fattaccio di cronaca accaduto a Venezia un mese fa, non ha detto “hanno cercato di dare fuoco a un barbone” ma “hanno cercato di dare fuoco a Michele”.
“Il nostro è un servizio. Non assistenza. Servizio. – mi puntualizza Momo -Abbiamo un contratto col Comune di Venezia, che, per fortuna è ben diverso da quello di Verona dove i vigili manganellano i senza casa, come abbiamo visto in tanti filmati diffusi su Youtube. Partecipiamo alle scelte dell’assessorato in tema di disagio sociale, proponiamo possibili soluzioni e fungiamo da operatori di strada per monitorare le nuove tendenze sociali della povertà estrema”. Nuove tendenze? “Certamente. Ogni anno abbiamo una new entry! Tre anni fa c’è stata l’annata dei rovinati dal videopoker. E’ grazie anche alle nostre segnalazioni se il Sert ha istituito una sezione per le dipendenze da gioco”. E la nuova tendenza di questo inverno, ci spiega Momo, è la “zona grigia”. I rovinati dalla crisi. Lavoratori licenziati e fuori mercato. Qualche italiano, ma per la maggior parte sono tutti migranti e clandestini. Quelli che “ci vorrebbe la tolleranza zero”, “bisogna mandarli a casa loro” o che “rubano il lavoro a noi italiani che già ce n’è poco”. Momo me ne presenta uno di questi ladri di lavoro. Rumeno, una sessantina di anni, irregolare. Per dieci anni ha lavorato in nero in un cantiere edile. Poi à caduto, si è rotto entrambe le caviglie e il padrone l’ha licenziato. Neanche in ospedale è potuto andare ed è rimasto storpio. Finiti i soldi per l’affitto (in nero pure questo), si è trovato sulla strada. Adesso spera che la stazione di Mestre non chiuda la sala attesa quanto il termometro scende. Tra i viaggiatori dell’ultimo treno che guardano schifati i senza dimora che si arrotolano nelle coperte della Caracol per difendersi dal freddo, sono in pochi quelli che si rendono conto che, in inverno, una stazione aperta o chiusa fa la differenza tra la vita e la morte. La sala d’aspetto di seconda classe di Mestre offre ospitalità ogni sera ad una 40ina di persone. A Venezia invece, i senza casa sono una dozzina. E’ una città particolare anche per loro, Venezia, perché sotto ponti scorre l’acqua e sull’acqua non si può dormire. Se si è disperati è meglio andare in terraferma. “In estate la comunità si disperde e le stazioni si svuotano – mi spiega Momo – perché i senza dimora trovano asilo nelle case abbandonate e hanno meno bisogno di noi. Ma col freddo, tutti cercano un posto caldo. E allora arriviamo anche a 70 o 80 contatti per notte”. Dopo aver distribuito caffè e coperte, gli operatori della Caracol riempiono le schede di monitoraggio e chiedono chi desidera passare la notte al centro di accoglienza. Ma i posti sono solo 24. Quando il termometro picchia, non bastano mai.
“Questa è la parte più brutta del nostro lavoro – mi dice sottovoce Momo -: dover scegliere chi portare al caldo e chi no. Noi cerchiamo di alternare e di dare sempre la precedenza ai malati, alle donne sole. Ma rimane comunque una ingiustizia. Loro non contestano mai. Guardali. Anche chi ì rimasto fuori e si deve accontentare di una tazza di caffè, ci saluta con un sorriso e ci dà appuntamento per domani”. Sospira Momo. “Ma un giorno io vincerò il Superenalotto e allora me li porto tutti ai tropici. Al caldo”.
“Ogni città ha un suo numero caratteristico di notti in cui fa davvero freddo - mi spiega Vittoria -. Intendo notti in cui, se non hai una coperta, una tettoia o qualcos’altro che ti ripari dal vento, il freddo ti ammazza. A Venezia sono cento, le notti così”. E questa è proprio una notte così. Quest’inverno, a pochi chilometri da qui, il freddo ha già ammazzato. Un morto a Padova nella notte tra sabato e domenica, un altro a Mira tra domenica e lunedì. E il sindaco di Mira a dichiarare che gli spiace tanto ma che il “senza casa” in questione non si era mai rivolto ai servizi sociali del suo Comune. “Servizi che a Mira non ci sono. E comunque non ha capito niente del problema, il signor sindaco. Questa non è gente che chiede appuntamento agli assessori. Deve essere il servizio ad andare da loro”. Ed è proprio quanto fa la Caracol. La cooperativa è nata esattamente dieci anni fa da un gruppo di attivisti del Rivolta. Allora l’obiettivo era solo quello di tenere aperta la stazione di Mestre per permettere ai senza dimora di sopravvivere ad un inverno che pareva non finire più. Ma subito dopo i ragazzi si sono costituiti in una cooperativa che hanno chiamato Caracol perché, tra di loro, non ne peschi uno che non abbia trascorso perlomeno una o due estati a costruir turbine o a sistemar depuratori nel Chiapas rebelde. Oggi la Caracol siede al tavolo istituito dal Comune di Venezia per il progetto Senza dimora assieme ad altre associazioni come la Caritas, e gestisce un servizio “sulla strada” che opera 24 ore su 24. Ha un “telefono bianco” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini e degli assistenti sociali, mette in campo un furgone, una ventina di operatori qualificati tra volontari e dipendenti, e gestisce 24 posti letto all’interno degli spazi del centro sociale. Quando gela, esce tutte le notti con due squadre di operatori - una per Venezia e una per Mestre - che distribuiscono bevande calde, ciambelle, coperte. “Oramai li conosciamo tutti – mi spiega Vittoria –. Ci raccontano i loro guai, i loro problemi, le loro storie. Bugie e verità mescolate che neppure loro le san più distinguere. Il barbone coperto di stracci e con il fagotto sulle spalle è praticamente scomparso. Oggi sulle strade, troviamo malati psichici, alcolizzati, dipendenti da sostanze, ma anche marinai senza navi, disoccupati, migranti irregolari e tante persone che fino a poco tempo fa potevi considerare ‘normali’. Poi sono stati abbandonati dalle moglie o hanno perso il lavoro, la casa. In questa specie di agorà e nei cartocci di vino hanno trovato un sostituto di famigli”. La prima tappa è via Capuccina, dove ogni notte si accampa un gruppetto “storico” di senza dimora. Dopo le bevande calde, i ragazzi della Caracol fanno salire sul furgone quanti desiderano passare la notte al centro di accoglienza. Non tutti accettano l’invito. Gli alcolisti, soprattutto. Preferiscono passare la notte vicino ad un supermercato per poter correre a rifornirsi di alcol la mattina, appena dopo l’apertura. “Se vogliono vengono, se no stan qui. Queste persone hanno piena dignità e il diritto di decidere delle loro vite” mi dice Momo. E aggiunge scherzando: ”Qui siamo tutti del popolo della libertà! Viva la libertà, allora!” Davide Mozzato, meglio conosciuto come Momo, è il responsabile della cooperativa. E’ un omone gioviale che non smette di scherzare con tutti quelli che incontra e che, d’altra parte, conosce da una vita. Lui è la sola persona che, commentando un fattaccio di cronaca accaduto a Venezia un mese fa, non ha detto “hanno cercato di dare fuoco a un barbone” ma “hanno cercato di dare fuoco a Michele”.
“Il nostro è un servizio. Non assistenza. Servizio. – mi puntualizza Momo -Abbiamo un contratto col Comune di Venezia, che, per fortuna è ben diverso da quello di Verona dove i vigili manganellano i senza casa, come abbiamo visto in tanti filmati diffusi su Youtube. Partecipiamo alle scelte dell’assessorato in tema di disagio sociale, proponiamo possibili soluzioni e fungiamo da operatori di strada per monitorare le nuove tendenze sociali della povertà estrema”. Nuove tendenze? “Certamente. Ogni anno abbiamo una new entry! Tre anni fa c’è stata l’annata dei rovinati dal videopoker. E’ grazie anche alle nostre segnalazioni se il Sert ha istituito una sezione per le dipendenze da gioco”. E la nuova tendenza di questo inverno, ci spiega Momo, è la “zona grigia”. I rovinati dalla crisi. Lavoratori licenziati e fuori mercato. Qualche italiano, ma per la maggior parte sono tutti migranti e clandestini. Quelli che “ci vorrebbe la tolleranza zero”, “bisogna mandarli a casa loro” o che “rubano il lavoro a noi italiani che già ce n’è poco”. Momo me ne presenta uno di questi ladri di lavoro. Rumeno, una sessantina di anni, irregolare. Per dieci anni ha lavorato in nero in un cantiere edile. Poi à caduto, si è rotto entrambe le caviglie e il padrone l’ha licenziato. Neanche in ospedale è potuto andare ed è rimasto storpio. Finiti i soldi per l’affitto (in nero pure questo), si è trovato sulla strada. Adesso spera che la stazione di Mestre non chiuda la sala attesa quanto il termometro scende. Tra i viaggiatori dell’ultimo treno che guardano schifati i senza dimora che si arrotolano nelle coperte della Caracol per difendersi dal freddo, sono in pochi quelli che si rendono conto che, in inverno, una stazione aperta o chiusa fa la differenza tra la vita e la morte. La sala d’aspetto di seconda classe di Mestre offre ospitalità ogni sera ad una 40ina di persone. A Venezia invece, i senza casa sono una dozzina. E’ una città particolare anche per loro, Venezia, perché sotto ponti scorre l’acqua e sull’acqua non si può dormire. Se si è disperati è meglio andare in terraferma. “In estate la comunità si disperde e le stazioni si svuotano – mi spiega Momo – perché i senza dimora trovano asilo nelle case abbandonate e hanno meno bisogno di noi. Ma col freddo, tutti cercano un posto caldo. E allora arriviamo anche a 70 o 80 contatti per notte”. Dopo aver distribuito caffè e coperte, gli operatori della Caracol riempiono le schede di monitoraggio e chiedono chi desidera passare la notte al centro di accoglienza. Ma i posti sono solo 24. Quando il termometro picchia, non bastano mai.
“Questa è la parte più brutta del nostro lavoro – mi dice sottovoce Momo -: dover scegliere chi portare al caldo e chi no. Noi cerchiamo di alternare e di dare sempre la precedenza ai malati, alle donne sole. Ma rimane comunque una ingiustizia. Loro non contestano mai. Guardali. Anche chi ì rimasto fuori e si deve accontentare di una tazza di caffè, ci saluta con un sorriso e ci dà appuntamento per domani”. Sospira Momo. “Ma un giorno io vincerò il Superenalotto e allora me li porto tutti ai tropici. Al caldo”.
Il traforo delle Torricelle รจ un'emergenza democratica
30/01/2010TerraUn traforo, un raccordo autostradale e un’emergenza democratica. Tutto questo nella Verona del sindaco “lumbard” Flavio Tosi. Ma andiamo con ordine. Il raccordo è quello che dovrebbe collegare la Serenissima con l’altra autostrada che corre attorno alla città scaligera, quella del Brennero. Il traforo è quello da eseguire nelle colline delle Torricelle per farci passare detto raccordo. L’emergenza democratica – che non è un termine nostro ma del magistrato che ha accolto, come vedremo, il ricorso del comitato civico – è tutto il contorno di questa brutta faccenda. Siamo di fronte all’ennesimo capitolo della saga “grandi e costose opere per inutili devastazioni”.
Ecco in sintesi la vicenda. Di bucare le Torricelle per farci passare un’autostrada, se ne parla si dagli anni ’80, gli anni d’oro dei socialisti. Ed infatti il progetto era targato Garofano Rosso. Fu Tangentopoli allora a far tramontare l’idea di realizzare una corsia autostradale in mezzo alla città. Corsia che non avrebbe certo risolto il problema del traffico e dell’inquinamento che affligge una Verona in cui nessuna giunta ha mai portato seriamente avanti l’idea di una rete di trasporto alternativo a quello privato, ma al contrario lo avrebbe acuito riversando altri mezzi pesanti dentro le mura cittadine. Nei primi anni del nuovo secolo, il vecchio progetto è tornato alla ribalta saltando nel Carroccio dei lumbard. Carroccio che da queste parti ha lo stesso ruolo dell’asso pigliatutto nel rubamazzetto. Il sindaco Flavio Tosi in particolare sta pigiando sull’acceleratore di questo progetto presentato ancora una volta come deus ex machina per far respirare l’asfissiata città di Giulietta e Romeo. Progetto costosissimo, questo di bucare le Torricelle che l’amministrazione sta portando avanti sulle ali di un project financing assegnato a quella Technital che ha tra i suoi azionisti proprio la Mazzi Costruzioni. Quella stessa Mazzi Costruzioni che in campagna elettorale ha generosamente contribuito a finanziare il sindaco Tosi. “Non è un illecito questo, lo sappiamo bene. Ma riteniamo comunque poco elegante che una ditta che appoggia la campagna elettorale di un sindaco concorra poi al project financing del Comune e lo vinca” spiega Alberto Sperotto, portavoce del comitato civico contro il traforo. Il comitato si è fatto promotore di un referendum sulla Torricelle. Referendum sempre osteggiato dall’amministrazione.“Tosi si rifiuta di riceverci, di partecipare ai nostri incontri e risponde solo con querele e minacce. Dice che ha vinto le elezioni e si fa a modo suo. Ma questa non è più democrazia”. Per quattro volte il comitato si è rivolto al tribunale e per quattro volte il tribunale gli ha dato ragione riconoscendo che i tre garanti comunali (inizialmente due di nomina della maggioranza e uno dell’opposizione, ma recentemente quest’ultimo è stato sostituito dal legale di fiducia di Tosi) che, secondo statuto, hanno il potere di decidere sull’ammissibilità del referendum hanno deliberatamente perso tempo e operato per fare ostruzione contro il referendum. A giorni è attesa la quinta sentenza sull’ammissibilità del quesito, anche stavolta bocciato all’unanimità dai tre garanti. “Ci auguriamo che il tribunale ci dia ancora ragione e che si possa votare – spiega Sperotto – Una autostrada in mezzo alla città avrebbe un effetto disastroso su Verona. Ma la cosa che più ci preoccupa è la mancanza di cultura democratica. Vincere le elezioni non significa far tutto quello che si vuole. Ancora adesso non sappiamo dove passerà il tracciato. Non sappiamo quante saranno e compensazioni economiche che renderanno appetibile per il privato questo project financing. Si parla in questo senso di migliaia di metri cubi che saranno destinati a parcheggi, centri commerciali, fast food. Tosi risponde alle manifestazioni solo con gli schieramenti di polizia e si rifiuta di incontrare sia noi che il coordinamento degli espropriandi costituitosi dove, pare, sarà realizzata l’opera. E quanti saranno poi gli espropri? Gli assessori un giorno parlano di tremila, altri giorni di seicento. Tosi dice che tra un po’, quando sarà pronto, porterà il progetto completo nei quartieri. Ma certo non per discuterne con i cittadini. Capite perché a Verona siamo in piena emergenza democratica?”
Box
Il bluff della Pedemontana
Doveva essere un’opera al servizio del territorio, ma si è visto ben presto che in realtà si tratta di un’opera rivolta al traffico internazionale. Doveva servire ad alleggerire un’area intasata di traffico pesante, ma ci si è accorti subito che quella strada porterà altro traffico e altro inquinamento. Doveva essere un’opera ad impatto zero, ed invece si sta rivelando come l’ennesima devastazione volta a trarre profitto per pochi consumando il territorio di tutti. Stiamo parlando della Pedemontana. Oggi che i bluff sono svelati, i comitati civici invitano la popolazione alla mobilitazione. L’appuntamento è per questo pomeriggio, sabato 30, alle ore 14,30 in piazza Duomo di Montecchio Maggiore, Vicenza. “Siamo ancora in tempo a fermare questa devastazione” si legge nei volantini. Questa nuova e inutile autostrada a pagamento, che altro la Pedemontana non è, porterà nella valle inquinamento, difficoltà di spostamento, stravolgimento del tessuto naturale e civile, tumori, rumore continuo, distruzione del paesaggio, problemi per le falde acquifere, gigantesche cave (Rotte del Guà), chilometri di complanari, tunnel e rotatorie. Che sia una violenza al territorio ora lo ammettono, stando alle ultime dichiarazioni, anche i politici della Lega, del Pdl e della stragrande maggioranza del Pd che hanno voluto a tutti i costi l’opera, nonostante il parere contrario dei loro stessi amministratori locali. Affari, voti comprati, soldi sporchi e cemento hanno fatto piazza pulita di tutte le vuote promesse di democrazia partecipativa, difesa del territorio e sostenibilità con cui si riempiono la bocca in campagna elettorale. Eppure – nonostante quanto affermano questi signori - l’autostrada si può ancora fermare con un ricorso al Cipe. Questo chiederanno alla Regione i cittadini che scenderanno oggi in piazza: bloccare un’opera che, a parole, nessuno vuole.
Ecco in sintesi la vicenda. Di bucare le Torricelle per farci passare un’autostrada, se ne parla si dagli anni ’80, gli anni d’oro dei socialisti. Ed infatti il progetto era targato Garofano Rosso. Fu Tangentopoli allora a far tramontare l’idea di realizzare una corsia autostradale in mezzo alla città. Corsia che non avrebbe certo risolto il problema del traffico e dell’inquinamento che affligge una Verona in cui nessuna giunta ha mai portato seriamente avanti l’idea di una rete di trasporto alternativo a quello privato, ma al contrario lo avrebbe acuito riversando altri mezzi pesanti dentro le mura cittadine. Nei primi anni del nuovo secolo, il vecchio progetto è tornato alla ribalta saltando nel Carroccio dei lumbard. Carroccio che da queste parti ha lo stesso ruolo dell’asso pigliatutto nel rubamazzetto. Il sindaco Flavio Tosi in particolare sta pigiando sull’acceleratore di questo progetto presentato ancora una volta come deus ex machina per far respirare l’asfissiata città di Giulietta e Romeo. Progetto costosissimo, questo di bucare le Torricelle che l’amministrazione sta portando avanti sulle ali di un project financing assegnato a quella Technital che ha tra i suoi azionisti proprio la Mazzi Costruzioni. Quella stessa Mazzi Costruzioni che in campagna elettorale ha generosamente contribuito a finanziare il sindaco Tosi. “Non è un illecito questo, lo sappiamo bene. Ma riteniamo comunque poco elegante che una ditta che appoggia la campagna elettorale di un sindaco concorra poi al project financing del Comune e lo vinca” spiega Alberto Sperotto, portavoce del comitato civico contro il traforo. Il comitato si è fatto promotore di un referendum sulla Torricelle. Referendum sempre osteggiato dall’amministrazione.“Tosi si rifiuta di riceverci, di partecipare ai nostri incontri e risponde solo con querele e minacce. Dice che ha vinto le elezioni e si fa a modo suo. Ma questa non è più democrazia”. Per quattro volte il comitato si è rivolto al tribunale e per quattro volte il tribunale gli ha dato ragione riconoscendo che i tre garanti comunali (inizialmente due di nomina della maggioranza e uno dell’opposizione, ma recentemente quest’ultimo è stato sostituito dal legale di fiducia di Tosi) che, secondo statuto, hanno il potere di decidere sull’ammissibilità del referendum hanno deliberatamente perso tempo e operato per fare ostruzione contro il referendum. A giorni è attesa la quinta sentenza sull’ammissibilità del quesito, anche stavolta bocciato all’unanimità dai tre garanti. “Ci auguriamo che il tribunale ci dia ancora ragione e che si possa votare – spiega Sperotto – Una autostrada in mezzo alla città avrebbe un effetto disastroso su Verona. Ma la cosa che più ci preoccupa è la mancanza di cultura democratica. Vincere le elezioni non significa far tutto quello che si vuole. Ancora adesso non sappiamo dove passerà il tracciato. Non sappiamo quante saranno e compensazioni economiche che renderanno appetibile per il privato questo project financing. Si parla in questo senso di migliaia di metri cubi che saranno destinati a parcheggi, centri commerciali, fast food. Tosi risponde alle manifestazioni solo con gli schieramenti di polizia e si rifiuta di incontrare sia noi che il coordinamento degli espropriandi costituitosi dove, pare, sarà realizzata l’opera. E quanti saranno poi gli espropri? Gli assessori un giorno parlano di tremila, altri giorni di seicento. Tosi dice che tra un po’, quando sarà pronto, porterà il progetto completo nei quartieri. Ma certo non per discuterne con i cittadini. Capite perché a Verona siamo in piena emergenza democratica?”
Box
Il bluff della Pedemontana
Doveva essere un’opera al servizio del territorio, ma si è visto ben presto che in realtà si tratta di un’opera rivolta al traffico internazionale. Doveva servire ad alleggerire un’area intasata di traffico pesante, ma ci si è accorti subito che quella strada porterà altro traffico e altro inquinamento. Doveva essere un’opera ad impatto zero, ed invece si sta rivelando come l’ennesima devastazione volta a trarre profitto per pochi consumando il territorio di tutti. Stiamo parlando della Pedemontana. Oggi che i bluff sono svelati, i comitati civici invitano la popolazione alla mobilitazione. L’appuntamento è per questo pomeriggio, sabato 30, alle ore 14,30 in piazza Duomo di Montecchio Maggiore, Vicenza. “Siamo ancora in tempo a fermare questa devastazione” si legge nei volantini. Questa nuova e inutile autostrada a pagamento, che altro la Pedemontana non è, porterà nella valle inquinamento, difficoltà di spostamento, stravolgimento del tessuto naturale e civile, tumori, rumore continuo, distruzione del paesaggio, problemi per le falde acquifere, gigantesche cave (Rotte del Guà), chilometri di complanari, tunnel e rotatorie. Che sia una violenza al territorio ora lo ammettono, stando alle ultime dichiarazioni, anche i politici della Lega, del Pdl e della stragrande maggioranza del Pd che hanno voluto a tutti i costi l’opera, nonostante il parere contrario dei loro stessi amministratori locali. Affari, voti comprati, soldi sporchi e cemento hanno fatto piazza pulita di tutte le vuote promesse di democrazia partecipativa, difesa del territorio e sostenibilità con cui si riempiono la bocca in campagna elettorale. Eppure – nonostante quanto affermano questi signori - l’autostrada si può ancora fermare con un ricorso al Cipe. Questo chiederanno alla Regione i cittadini che scenderanno oggi in piazza: bloccare un’opera che, a parole, nessuno vuole.
La discarica nell'oasi
30/01/2010TerraQuei grossi buchi sul terreno che la Regione Veneto vorrebbe riempire di amianto, non sono naturali. Li scavarono i bisnonni degli abitanti di quella che allora non era ancora la Roverchiara che conosciamo oggi, per impastarne l’argilla e modellare i “quarei” – i tipici mattoni – che servirono a costruire le rustiche abitazioni. Poi l’area fu abbandonata e questa fu anche la sua fortuna. Oggi, attorno alle 14 larghe pozze riempitesi nel corso degli anni di acqua di falda, la natura ha provveduto a ripristinare quella tipica vegetazione padana che oramai è quasi del tutto scomparsa. In questi 90 mila metri quadri si trova più biodiversità che in tutto il resto della piana, coperta com’è da una urbanizzazione diffusa che lascia spazio solo a coltivazioni intensive.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.
L’area che a tutti gli effetti rientra nell’ambito della zone protette dalla convenzione Ramsar che tutela le aree umide, si colloca a ridosso di una decina di comuni veronesi, i più importanti dei quali sono Roverchiara, Legnago, Cerea e San Pietro di Morubio. Ad un solo chilometro di distanza si trova il sito di importanze comunitaria, Sic, del fiume Adige, e l’area in questione funge da raccordo ideale con l’oasi del Brusà, nel Comune di Cerea, che recentemente ha ottenuto il riconoscimento europeo.
Ebbene, proprio su queste polle d’acque di falda che ospitano varie specie di pesci, la Regione Veneto sta portando avanti un progetto di discarica d’amianto presentato agli uffici di valutazione ambientale il 20 ottobre del 2008, che prevede lo svuotamento delle vasche, lo sradicamento delle piante, lo scavo di ulteriori buche e la realizzazione di una collina alta si metri. “La discarica comporterebbe l’inevitabile distruzione di quanto di meraviglioso e complesso la natura ci ha regalato – spiega Massimo De Togni, primo firmatario dei un appello che il comitato civico Roverchiara No Amianto ha inoltrato alla Regione Veneto - Lo stridore di un’operazione del genere è ancora maggiore alla luce delle notevoli conoscenze che oggi si hanno riguardo l’importanza della biodiversità e l’esistenza di migliori ed alternativi metodi di smaltimento del rifiuto amianto, come suggeriti anche da Enea”. Metodi che hanno il solo svantaggio di essere più costosi. Ci riferiamo ad esempio all’impianto mobile denominato Icam, già sperimentato con successo da Enea. Considerato che i siti con presenze di amianto sono diffusi in tutto il territorio, l’ente nazionale per l’energia ha messo a punto un impianto mobile, utilizzabile solo per il tempo necessario a bonificare l’area, che stabilizza i rifiuti d’amianto in una matrice cementizia da riutilizzare in campo industriale. Alternative pulite insomma, ce ne sono. Per chiedere alla Regione di bloccare l’iter autorizzativo del progetto di trasformare l’area in una discarica di amianto e destinarla invece alla realizzazione di un’oasi naturale, il comitato civico Roverchiara No Amianto ha indetto una raccolta firme che ha già ottenuto quasi 5 mila adesioni. Sulla stessa posizione sono schierate tutte le amministrazioni dei Comuni interessati. Ce anche da sottolineare la presenza nell’area di vari esemplari di emys orbicularis, meglio conosciuta come tartaruga palustre. Si tratta di una specie minacciata che, in quanto tale è fortemente tutelata a livello internazionale sia dalla convenzione europea di Berna per la tutela della vita selvatica dalla convenzione di Washington che ha validità internazionale. Questa tartaruga viene anche protetta dalla direttiva Habitat della Cee che la inserisce nelle specie che richiedono “la designazione di zone speciali di conservazione” e “una protezione rigorosa”. Dando per accertato che farci una discarica di amianto sopra, le emys orbicularis, non rientra precisamente nei canoni europei di “protezione rigorosa”, il comitato è pronto a far sentire la sua voce anche in Europa pur di riuscire ad impedire questa ennesima devastazione di territorio che inoltre non porterebbe nessun beneficio ai residenti. Chi lo sa se sarà proprio questa tartarughina a salvare le belle polle di Roverchiara.
Da Dakar a Murano. Arte senza frontiere
30/01/2010Terra“Mi chiamo Moulaye Niang e sono nato a Dakar, in Senegal. Sono figlio di due artigiani. Mia madre faceva tessuti e bambole di tessuto. Mio padre era stato un militare in Francia; ma poi, dal momento che non gli piaceva prestare servizio militare, tornò in Africa e iniziò a creare gioielli in oro e argento”. La storia di Moulaye Niang inizia così. Come un romanzo d’avventura dell’ottocento. Un’avventura che comincia una quindicina di anni or sono, quando Moulaye lascia Dakar per l’Italia. E’ un migrante, Moulaye. E come tutti i migranti ha un cammino di sogni e speranze da percorrere. Ma di lui, Hugo Pratt avrebbe scritto che “aveva un appuntamento”. Moulaye ha lasciato l’africa per andare a Murano e diventare maestro vetraio.
“Perché il vetro? Perché è terra, aria, acqua e fuoco che si amalgamano obbedendo alla volontà creativa dell’artista: lo spirito che dà forma fisica alla materia. Puoi anche chiamarla magia, se preferisci”. Moulaye è un artista. Uno di quelli che ti vien voglia di guardargli le mani per cercare di scoprire che hanno di più. Nel suo laboratorio in calle Crosera, di fianco al campo della Bragora - nel cuore del popolare sestiere di Castello - sono appesi alcuni suoi dipinti realizzati con una tecnica che meriterebbe più spazio. “In Senegal li facevo con l’aglio. Sì, l’aglio. Se lo spremi diventa una specie di colla. In Africa, perlomeno. Ma qui a Venezia non funziona. Non so perché. Allora uso lo stucco da barche. Il risultato è pressappoco lo stesso”. Il materiale, per un artista, non è mai solo un semplice mezzo per esprimere la propria creatività. “Il vetro ha un’anima sai? E vive proprio, qui, a Murano. Lo so. In tutto il mondo si lavora il vetro. Io stesso ho aperto una scuola a Dakar per aiutare i miei fratelli africani. Ma non c’è verso di rifare in un’altra parte del mondo le cose che riescono a fare solo a Murano. Solo qui il vetro fonde a 600 gradi invece di mille. E parliamo di vetro biologico. Senza quelle porcherie chimiche che ci mettono in altri paesi. Tu pensa solo al color rosso. Quanti rossi ci sono al mondo, secondo te? Beh, a Murano un maestro vetraio sa tirare fuori un milione di rossi diversi. Basta impastare un minuto prima o un minuto dopo, basta che il vento butti a bora o a scirocco, che giri l’acqua e il risultato è diverso”. Ha fatto di tutto, Moulaye prima di arrivare a poter lavorare col vetro. Operaio in una ditta di cromature, facchino, pulizie... “La notte lavoravo come portiere d’albergo a Venezia. La mattina prendevo il battello per andare a Murano, alle fornaci, e chiedere ai maestri che mi facessero vedere come si lavora il vetro. ‘Torna domani”, mi dicevano ‘Oggi non abbiamo tempo’. Per tre anni, nessuno mi voleva neppure vendere il vetro o gli attrezzi per lavorarlo”. Perché sei nero? “No, perché sono veneziano. Tu sei di qua. Lo sai cosa dicono i muranesi dei veneziani, no?” Vediamo se indovino: loro sono degli inarrivabili artisti e noi dei meschini commercianti. “Che traggono profitto del loro genio. E ci han ragione. Non era razzismo il loro, ma business. ‘Se ti insegniamo, poi tu apri una attività a Venezia e ci fai concorrenza’ mi dicevano. Cosa che, tra l’altro, è puntualmente avvenuta. Anche se io non faccio lavori industriali ma seguo la tradizione muranese sposandola con la mia ‘africanitudine’, se mi passi il termine. Le forme e i disegni della mia terra d’origine con le lucentezze e i colori del vetro più bello del mondo”. Ma come sei riuscito a scardinare quel muro di omertà che circonda il vetro di Murano? “Dopo due anni da invisibile, improvvisamente una ragazza di nome Perla mi ha rivolto la parola. ‘Ma tu che ci fai in questa giungla?’ mi ha detto ‘Dai, che ti porto da mio zio’. Suo zio è Davide Salvadore, uno dei più grandi maestri vetrai del mondo. Il giorno dopo, Murano per me era un’altra isola. Tutti mi conoscevano come el Muranero, il muranese nero. Potevo comperare il materiale, entrare nella scuola Abate Zanetti, artisti come Pino Signoretto ed Egidio Costantini mi davano consigli e mi incoraggiavano. Geni assoluti che mi spiegavano la magia e i misteri del vetro di Murano. Per dieci anni ho studiato e lavorato il vetro con loro. Adesso le scolaresche veneziane vengono nel mio laboratorio a vedere come si lavora a lume”. Tu sei uno dei pochi che lavora all’aperto. “E’ vero. Murano lavorano sempre al chiuso. Sprangano pure le finestre. Cosa vuoi? Per secoli, per difendere i segreti del vetro, i maestri non potevano neppure lasciare l’isola, pena la morte. Ma io ha anche un’anima africana che mi spinge a tenere sempre la porta spalancata. Sono muranese ma anche nero. Muranero, appunto”. E sei diventato un maestro riconosciuto del vetro. “Ah, non scherzare... dopo solo dieci anni? Sono solo un artigiano che cerca di dare forma al suo estro e che continua ad imparare tutti i giorni dai veri maestri muranesi. Torna da trent’anni. Quando anche io, forse, saprò tirar fuori da quel milione di rossi il rosso più bello”.
“Perché il vetro? Perché è terra, aria, acqua e fuoco che si amalgamano obbedendo alla volontà creativa dell’artista: lo spirito che dà forma fisica alla materia. Puoi anche chiamarla magia, se preferisci”. Moulaye è un artista. Uno di quelli che ti vien voglia di guardargli le mani per cercare di scoprire che hanno di più. Nel suo laboratorio in calle Crosera, di fianco al campo della Bragora - nel cuore del popolare sestiere di Castello - sono appesi alcuni suoi dipinti realizzati con una tecnica che meriterebbe più spazio. “In Senegal li facevo con l’aglio. Sì, l’aglio. Se lo spremi diventa una specie di colla. In Africa, perlomeno. Ma qui a Venezia non funziona. Non so perché. Allora uso lo stucco da barche. Il risultato è pressappoco lo stesso”. Il materiale, per un artista, non è mai solo un semplice mezzo per esprimere la propria creatività. “Il vetro ha un’anima sai? E vive proprio, qui, a Murano. Lo so. In tutto il mondo si lavora il vetro. Io stesso ho aperto una scuola a Dakar per aiutare i miei fratelli africani. Ma non c’è verso di rifare in un’altra parte del mondo le cose che riescono a fare solo a Murano. Solo qui il vetro fonde a 600 gradi invece di mille. E parliamo di vetro biologico. Senza quelle porcherie chimiche che ci mettono in altri paesi. Tu pensa solo al color rosso. Quanti rossi ci sono al mondo, secondo te? Beh, a Murano un maestro vetraio sa tirare fuori un milione di rossi diversi. Basta impastare un minuto prima o un minuto dopo, basta che il vento butti a bora o a scirocco, che giri l’acqua e il risultato è diverso”. Ha fatto di tutto, Moulaye prima di arrivare a poter lavorare col vetro. Operaio in una ditta di cromature, facchino, pulizie... “La notte lavoravo come portiere d’albergo a Venezia. La mattina prendevo il battello per andare a Murano, alle fornaci, e chiedere ai maestri che mi facessero vedere come si lavora il vetro. ‘Torna domani”, mi dicevano ‘Oggi non abbiamo tempo’. Per tre anni, nessuno mi voleva neppure vendere il vetro o gli attrezzi per lavorarlo”. Perché sei nero? “No, perché sono veneziano. Tu sei di qua. Lo sai cosa dicono i muranesi dei veneziani, no?” Vediamo se indovino: loro sono degli inarrivabili artisti e noi dei meschini commercianti. “Che traggono profitto del loro genio. E ci han ragione. Non era razzismo il loro, ma business. ‘Se ti insegniamo, poi tu apri una attività a Venezia e ci fai concorrenza’ mi dicevano. Cosa che, tra l’altro, è puntualmente avvenuta. Anche se io non faccio lavori industriali ma seguo la tradizione muranese sposandola con la mia ‘africanitudine’, se mi passi il termine. Le forme e i disegni della mia terra d’origine con le lucentezze e i colori del vetro più bello del mondo”. Ma come sei riuscito a scardinare quel muro di omertà che circonda il vetro di Murano? “Dopo due anni da invisibile, improvvisamente una ragazza di nome Perla mi ha rivolto la parola. ‘Ma tu che ci fai in questa giungla?’ mi ha detto ‘Dai, che ti porto da mio zio’. Suo zio è Davide Salvadore, uno dei più grandi maestri vetrai del mondo. Il giorno dopo, Murano per me era un’altra isola. Tutti mi conoscevano come el Muranero, il muranese nero. Potevo comperare il materiale, entrare nella scuola Abate Zanetti, artisti come Pino Signoretto ed Egidio Costantini mi davano consigli e mi incoraggiavano. Geni assoluti che mi spiegavano la magia e i misteri del vetro di Murano. Per dieci anni ho studiato e lavorato il vetro con loro. Adesso le scolaresche veneziane vengono nel mio laboratorio a vedere come si lavora a lume”. Tu sei uno dei pochi che lavora all’aperto. “E’ vero. Murano lavorano sempre al chiuso. Sprangano pure le finestre. Cosa vuoi? Per secoli, per difendere i segreti del vetro, i maestri non potevano neppure lasciare l’isola, pena la morte. Ma io ha anche un’anima africana che mi spinge a tenere sempre la porta spalancata. Sono muranese ma anche nero. Muranero, appunto”. E sei diventato un maestro riconosciuto del vetro. “Ah, non scherzare... dopo solo dieci anni? Sono solo un artigiano che cerca di dare forma al suo estro e che continua ad imparare tutti i giorni dai veri maestri muranesi. Torna da trent’anni. Quando anche io, forse, saprò tirar fuori da quel milione di rossi il rosso più bello”.
Il Veneto verso il voto
30/01/2010Terra“Vinciamo anche da soli”. Assessori ed esponenti del Carroccio lo ripetono a chiunque chieda loro delle prossime amministrative. Potete domandare che ne pensano di una alleanza con i centristi, con la destra estrema o anche con lo stesso Popolo delle Libertà. “Vinciamo anche da soli” ripetono. E i sondaggi dan loro ragione. Luca Zaia, volto pulito della Lega lumbard – perlomeno a raffrontarlo con altri personaggi del Carroccio appesantiti da pacchi di condanne per razzismo alle spalle (imputabili ai soliti giudici meridionalisti) – sta giocando una partita a poker con tutti gli assi nella sua mano. Silurato Giancarlo Galan, ritiratosi obbedientemente dalla mischia, da quel bravo dipendente di Publitalia che è sempre stato, anche tutti gli ex fedelissimi galaniani, che pure avevano minacciato le barricate contro Zaia, hanno presto abbassato la coda.
“In fondo, eravamo una squadra. Mica c’era solo Galan!” hanno dichiarato. Tutti pronti a giurare fedeltà al nuovo Governatore. La vera questione, a questo stato dell’arte, è solo la difesa del posto in consiglio regionale o in uno dei tanti enti baraccone regionali. Un problema non da poco, perché la Lega stavolta non lascerà niente a nessuno. Addirittura tra i consiglieri uscenti del Pdl girava l’ipotesi balorda di rivolgersi ad un notaio per ratificare, prima dell’apertura delle urne, l’assegnazione delle poltrone che contano per timore di non avere più posti in cui poggiare il sedere dopo il conteggio delle percentuali dello spoglio. Per intanto la Lega ha silurato l’Udc che pure, in questa legislatura, sembrava un cadetto a West Point: “Signorsì! Signore!”. E il centro sinistra? Il Pd è a tocchi. In Italia come nel Veneto. Il problema, diciamocelo, è che non rappresentano una vera alternativa alla destra. Parliamo di politiche sociali? Di grandi opere inutili e devastanti? Di migranti? Di ambiente? Le posizioni dei Democratici nel Veneto sono uguali a quelle del centrodestra. Con una differenza. Alla riunione del comitato civico contro l’inceneritore locale, nessun democratico si spreca a spiegare che il problema dei rifiuti non si risolve incenerendoli, mentre l’esponente del Carroccio racconta che, sì l’inceneritore è indispensabile e non ha alternative, ma va costruito lontano da qua. E che la colpa è del federalismo che non c’è e di Roma ladrona. Spaccia balle e ricava consenso.
Questo Pd senza politica ha fatta subito tramontare la candidatura “pulita” della sindaca di Montebelluna, Laura Puppato, che pure godeva un forte appoggio tra la base ma non tra i vertici del partito. Quindi ha cercato di stringere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Che è come passare dall’acquasanta al diavolo. La verità è che i vertice veneti dei democratici son convinti che si può vincere nel Veneto solo allenandosi all’Udc e chiudendo le porte agli “estremismi” verdi e comunisti. In attesa magari, che si spezzi l’asse Bossi Berlusconi e che ci si possa alleare o con la Lega o con il Pdl. Ma anche l’ipotesi De Poli ha avuto vita breve. I centristi san fare i loro conti: correndo da soli perdono ma si portano a casa più consiglieri che in coalizione. Inoltre, nel corso della legislatura avranno sempre la possibilità di risalire nel carrozzone del Governatore vincente. A sfidare Zaia come si sfida un mulino a vento, ecco arrivare Giuseppe Bortolussi, 61 anni, paladino degli artigiani e del popolo delle “partite iva”. Come dire il terreno da cui è nata la Lega. Un candidato che non ha fatto fatica ad incassare l’appoggio degli ambientalisti che in lui hanno visto un volto nuovo della politica, perlomeno lontano dai vertici di un partito democratico pronto a dannarsi l’anima solo per stare a galla.
“In fondo, eravamo una squadra. Mica c’era solo Galan!” hanno dichiarato. Tutti pronti a giurare fedeltà al nuovo Governatore. La vera questione, a questo stato dell’arte, è solo la difesa del posto in consiglio regionale o in uno dei tanti enti baraccone regionali. Un problema non da poco, perché la Lega stavolta non lascerà niente a nessuno. Addirittura tra i consiglieri uscenti del Pdl girava l’ipotesi balorda di rivolgersi ad un notaio per ratificare, prima dell’apertura delle urne, l’assegnazione delle poltrone che contano per timore di non avere più posti in cui poggiare il sedere dopo il conteggio delle percentuali dello spoglio. Per intanto la Lega ha silurato l’Udc che pure, in questa legislatura, sembrava un cadetto a West Point: “Signorsì! Signore!”. E il centro sinistra? Il Pd è a tocchi. In Italia come nel Veneto. Il problema, diciamocelo, è che non rappresentano una vera alternativa alla destra. Parliamo di politiche sociali? Di grandi opere inutili e devastanti? Di migranti? Di ambiente? Le posizioni dei Democratici nel Veneto sono uguali a quelle del centrodestra. Con una differenza. Alla riunione del comitato civico contro l’inceneritore locale, nessun democratico si spreca a spiegare che il problema dei rifiuti non si risolve incenerendoli, mentre l’esponente del Carroccio racconta che, sì l’inceneritore è indispensabile e non ha alternative, ma va costruito lontano da qua. E che la colpa è del federalismo che non c’è e di Roma ladrona. Spaccia balle e ricava consenso.
Questo Pd senza politica ha fatta subito tramontare la candidatura “pulita” della sindaca di Montebelluna, Laura Puppato, che pure godeva un forte appoggio tra la base ma non tra i vertici del partito. Quindi ha cercato di stringere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Che è come passare dall’acquasanta al diavolo. La verità è che i vertice veneti dei democratici son convinti che si può vincere nel Veneto solo allenandosi all’Udc e chiudendo le porte agli “estremismi” verdi e comunisti. In attesa magari, che si spezzi l’asse Bossi Berlusconi e che ci si possa alleare o con la Lega o con il Pdl. Ma anche l’ipotesi De Poli ha avuto vita breve. I centristi san fare i loro conti: correndo da soli perdono ma si portano a casa più consiglieri che in coalizione. Inoltre, nel corso della legislatura avranno sempre la possibilità di risalire nel carrozzone del Governatore vincente. A sfidare Zaia come si sfida un mulino a vento, ecco arrivare Giuseppe Bortolussi, 61 anni, paladino degli artigiani e del popolo delle “partite iva”. Come dire il terreno da cui è nata la Lega. Un candidato che non ha fatto fatica ad incassare l’appoggio degli ambientalisti che in lui hanno visto un volto nuovo della politica, perlomeno lontano dai vertici di un partito democratico pronto a dannarsi l’anima solo per stare a galla.
Margherite al cromoesavalente
23/01/2010TerraSulla sponda sinistra dell’elegante fiume Brenta, dove ai tempi della Serenissima fiorivano le ville palladiane, sorge oggi un ridente paesino padano dove le margherite crescono con tre teste.
Per ammirare questi originali esempi botanici di frankenstein genetici basta farsi una passeggiata – ma noi non ve lo consigliamo - a Tezze sul Brenta, una decina di chilometri a sud di Bassano. Cittadina che da una decina di anni a questa parte si è guadagnata la non edificante nomea di “paese più inquinato d’Italia”. L’aria che tira da queste parti non si può certo definire salutare. In questo paese dove la Lega raggiunge percentuali che neanche nella Romania di Ceausescu e la colpa di tutto è sempre di “Roma ladrona”, le patologie tumorali al cervello e ad altri organi sono tra le più alte d’Italia.
E senza neanche bisogno di una centrale nucleare. Al posto dell’uranio, qui preferiscono il cromo esavalente. Per vent’anni, una pestilenziale ditta di cromature ha scaricato in pieno centro residenziale quintalate di questo inquinante che definire un potente cancerogeno è fargli un complimento. Per vent’anni, la ditta Tricom, poi Galvanica Pm, ha avvelenato le falda acquifere di Tezze ammazzando lentamente i residenti che perdevano i capelli e si ustionavano la pelle solo a farsi la doccia. Per vent’anni, la Galvanica ha assassinato i suoi operai costringendoli a lavorare a contatto diretto col cromo. Secondo il Pm, i morti accertati tra i dipendenti sono stati, sino ad oggi, ben 17. Tutti e 17 migranti extracomunitari che, tra l’altro, lavoravano in condizioni di precarietà e senza tutele sindacali. Per quel che può servire la tutela del sindacato a uno che sa che dopo un anno di lavoro gli viene il cancro.
Ma a parte una eredità di milioni di euro di bonifiche tutte da fare, che la Regione Veneto continua a rimpallarsi da una finanziaria all’altra, Tezze ci ha regalato anche una delle poche condanne per reati ambientali affibbiate nel nostro Paese, notoriamente indulgente e comprensivo con chi inquina.
Nel 2006, il tribunale ha affibbiato a Paolo Zampierin, titolare della ditta assassina, due anni e sei mesi ma imputandogli solo il reato di avvelenamento della falda. Va anche detto che la galera, il suddetto imprenditore, l’ha solo vista da lontano, grazie all’indulto. Tutto qua. E i 17 operai morti avvelenati? E tutta la gente che abitava nelle vicinanze della galvanica che si è ammalata di tumore? Non si sono arresi, i comitati contro l’avvelenamento da cromo di Tezze che hanno continuato a lottare perché anche alle vittime venisse resa giustizia. Non si è arresa chi questi comitati li ha costituiti: la signora Gabriella Bragagnolo, infermiera in pensione, vittima anch’essa dell’avvelenamento da cromo. I giornali locali, con poca fantasia, l’hanno ribattezzata la Erin Brockovich italiana dipingendola spesso come una macchietta di colore locale. Ma in tutti questi anni, la Bragagnolo non ha mai smesso di lottare fino a che, è notizia di questi giorni, il sostituto procuratore Giovanni Parolin ha rinviato a giudizio – e stavolta per omicidio colposo – lo Zampierin e altri tre responsabili della Galvanica. Una lotta dura, quella della signora Bragagnolo, e non solo contro il plotone di avvocati e di politici schierati dagli inquinatori. “Oggi mi trovo conti di migliaia di euro da pagare tra avvocati, spese processuali, periti e laboratori chimici – spiega –. Sono ammalata e debbo continuare a vivere in una strada che non si sa se e quando sarà bonificata. E non posso neppure vendere la casa perché la zona è stata dichiarata inquinata. In Comune, invece di aiutare e difendere me e gli altri residenti, mi hanno sempre osteggiata e mi considerano come la matta che non ha voluto stare zitta e ha spiattellato ai giornali gli affari del paese. Quasi fosse colpa mia. Quasi fossi io che ho inquinato e che ho fatto chiudere quella ditta di onesti imprenditori che dava lavoro a tutti!»
Per ammirare questi originali esempi botanici di frankenstein genetici basta farsi una passeggiata – ma noi non ve lo consigliamo - a Tezze sul Brenta, una decina di chilometri a sud di Bassano. Cittadina che da una decina di anni a questa parte si è guadagnata la non edificante nomea di “paese più inquinato d’Italia”. L’aria che tira da queste parti non si può certo definire salutare. In questo paese dove la Lega raggiunge percentuali che neanche nella Romania di Ceausescu e la colpa di tutto è sempre di “Roma ladrona”, le patologie tumorali al cervello e ad altri organi sono tra le più alte d’Italia.
E senza neanche bisogno di una centrale nucleare. Al posto dell’uranio, qui preferiscono il cromo esavalente. Per vent’anni, una pestilenziale ditta di cromature ha scaricato in pieno centro residenziale quintalate di questo inquinante che definire un potente cancerogeno è fargli un complimento. Per vent’anni, la ditta Tricom, poi Galvanica Pm, ha avvelenato le falda acquifere di Tezze ammazzando lentamente i residenti che perdevano i capelli e si ustionavano la pelle solo a farsi la doccia. Per vent’anni, la Galvanica ha assassinato i suoi operai costringendoli a lavorare a contatto diretto col cromo. Secondo il Pm, i morti accertati tra i dipendenti sono stati, sino ad oggi, ben 17. Tutti e 17 migranti extracomunitari che, tra l’altro, lavoravano in condizioni di precarietà e senza tutele sindacali. Per quel che può servire la tutela del sindacato a uno che sa che dopo un anno di lavoro gli viene il cancro.
Ma a parte una eredità di milioni di euro di bonifiche tutte da fare, che la Regione Veneto continua a rimpallarsi da una finanziaria all’altra, Tezze ci ha regalato anche una delle poche condanne per reati ambientali affibbiate nel nostro Paese, notoriamente indulgente e comprensivo con chi inquina.
Nel 2006, il tribunale ha affibbiato a Paolo Zampierin, titolare della ditta assassina, due anni e sei mesi ma imputandogli solo il reato di avvelenamento della falda. Va anche detto che la galera, il suddetto imprenditore, l’ha solo vista da lontano, grazie all’indulto. Tutto qua. E i 17 operai morti avvelenati? E tutta la gente che abitava nelle vicinanze della galvanica che si è ammalata di tumore? Non si sono arresi, i comitati contro l’avvelenamento da cromo di Tezze che hanno continuato a lottare perché anche alle vittime venisse resa giustizia. Non si è arresa chi questi comitati li ha costituiti: la signora Gabriella Bragagnolo, infermiera in pensione, vittima anch’essa dell’avvelenamento da cromo. I giornali locali, con poca fantasia, l’hanno ribattezzata la Erin Brockovich italiana dipingendola spesso come una macchietta di colore locale. Ma in tutti questi anni, la Bragagnolo non ha mai smesso di lottare fino a che, è notizia di questi giorni, il sostituto procuratore Giovanni Parolin ha rinviato a giudizio – e stavolta per omicidio colposo – lo Zampierin e altri tre responsabili della Galvanica. Una lotta dura, quella della signora Bragagnolo, e non solo contro il plotone di avvocati e di politici schierati dagli inquinatori. “Oggi mi trovo conti di migliaia di euro da pagare tra avvocati, spese processuali, periti e laboratori chimici – spiega –. Sono ammalata e debbo continuare a vivere in una strada che non si sa se e quando sarà bonificata. E non posso neppure vendere la casa perché la zona è stata dichiarata inquinata. In Comune, invece di aiutare e difendere me e gli altri residenti, mi hanno sempre osteggiata e mi considerano come la matta che non ha voluto stare zitta e ha spiattellato ai giornali gli affari del paese. Quasi fosse colpa mia. Quasi fossi io che ho inquinato e che ho fatto chiudere quella ditta di onesti imprenditori che dava lavoro a tutti!»
Destini sospesi
23/01/2010Terra
“Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino ma promettimi, o dio, che non lascerai che finisca la primavera”. Così Zaher Rezai scriveva nel suo taccuino, al buio, nascosto dentro una cella frigorifera nel grande ventre di quella nave che da Patrasso lo portava a Venezia. “Giardiniere apri la porta del tuo giardino. Io non sono un ladro di fiori. Io stesso mi sono fatto rosa, non vado in cerca di un fiore qualsiasi”. Lontano dalla guerra in Afghanistan e da quelli che i generali chiamano i suoi effetti collaterali. Lontano dalla fame, dalla miseria con solo quindici anni di vita alle spalle. “Questo mio corpo così assetato forse non arriverà all’acqua del mare”. Era solo un ragazzino, Zaher Rezai, quando è finito stritolato sotto le ruote di un camion, nella banchina del porto.
Cercava di eludere i controlli della polizia doganale. Quella polizia che, lui lo sapeva bene, lo avrebbe rimandato a Patrasso invece di aiutarlo e di dargli quell’assistenza umanitaria cui lui aveva due volte diritto: come profugo e come minorenne. “E se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo, chi si occuperà della mia sepoltura? Chi cucirà il mio sudario?”
Le poesie di Zaher oggi sono diventate un libro: ”Il porto dei destini sospesi” che raccoglie anche tutto il seminato della rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti cui va il merito di aver sollevato davanti ad una opinione pubblica che non vedeva o non voleva vedere, il caso dei profughi provenienti dai paesi in guerra. Profughi che rientrano a pieno titolo nella definizione di Rifugiato sancita dalla convenzione di Ginevra ma che continuano ad essere respinti - illegalmente respinti – dai porti di Venezia e di Ancona. Sono tanti come Zaher. Tanti che come lui ci hanno lasciato la pelle, oltre che la dignità, in un viaggio infernale che dura in media due o tre anni. Afghanistan, Pakistan, Turchia, Grecia e poi, nascosti nelle stive di qualche grande nave da carico, Venezia e l’Europa. Un lungo rosario di violenze, privazione e sopraffazioni. Due anni per poi venire rispediti da qualche solerte doganiere a Patrasso, in un campo profughi che pare un lager nazista, e da là ancora indietro, sino a riconsegnarti alle autorità del tuo paese natale che non ti perdoneranno di essere scappato. Indietro verso un futuro di galera, tortura, morte.
Uno scrittore di cui, mi perdonerete, ho scordato il nome, ha osservato che al giorno d’oggi non ci sono più viaggiatori ma solo turisti. Si sbagliava. Eccoli qua i veri viaggiatori del mondo globalizzato.
Il libro realizzato a più mani dagli attivisti della rete contiene, oltre alle poesie trovate nel taccuino, un fumetto di Claudio Calia, che ha raccontato con il suo stile secco ed essenziale, la storia di Zaher. La prefazione è di Gianfranco Bettin. L’introduzione dell’assessora verde alla Pace del Comune, Luana Zanella, che è riuscita nella non facile impresa di finanziare la stampa del volume. L’intero ricavato infatti, andrà a coprire le iniziative della rete, tra le quali, non dimentichiamolo, il ricorso al tribunale europeo, dichiarato “ammissibile” dalla corte, e che vedrà l’Italia e la Grecia nel banco degli imputati per violazione dei diritti umani. “Il porto dei destini sospesi” raccoglie anche le corrispondenze da Patrasso scritte da Alessandra Sciurba per Melting Pot quando, assieme ad altri attivisti per i diritti umani, ha raggiunto la città greca per documentare con foto, filmati ed interviste le condizioni vergognose in cui sono trattenuti i profughi in attesa del rimpatrio forzato. Il libro, la cui copertina è stata realizzata dall’artista veneziano Luigi Gardenal, è stato scritto con il preciso intento di descrivere la situazione di illegalità diventata legge grazie alle omertà, alle deresponsabilizzazioni, all’arbitrarietà e al menefreghismo che imperano in quella sorta di limbo giuridico che è diventato la frontiera portuale italiana. E’ un libro che scandalizza questo. Un libro che ci fa provare la vergogna di vivere tranquilli da “questa” parte della frontiera. Che ci mette davanti gli occhi mucchi di brutte cose che non vorremmo vedere. Cose che non dovrebbero esistere perché non hanno neppure una giustificazione utilitarista e il male fatto senza scopo è ancora più cattivo.
Il porto dei destini sospesi sarà presentato questa mattina alle ore 11 nella cornice di tutto rispetto dell’Ateneo Veneto, a due passi dal teatro La Fenice di Venezia. Oltre ai già citati Luana Zanella, Gianfranco Bettin e Luigi Gardenal, sarà presente, come ospite d’onore, lo scrittore Moni Ovadia. Ci saranno che gli attivisti della rete che, tra tante difficoltà, hanno voluto realizzare questo volume per dar voce a chi voce non ha e raccontare la storia di Zaher e degli altri profughi afghani. Raccontare la storia di queste dolorose e profonde ingiustizie perché altri non abbiano a patirle ancora. Sono loro, quelli che si sono occupati della sepoltura di Zaher. Sono loro che hanno cucito il suo rosario.
Una Idea per il Veneto
16/01/2010TerraIl nome pare pensato apposta per la gioia dei titolisti dei quotidiani, che potranno sbizzarrirsi tra “Che bella Idea” oppure “Una Idea vincente”. Per tacere della famosa canzone di Patty Bravo “Che pazza Idea”. L’acronimo, o più esattamente l’acrostico, sta per Italia Democratica Etica Ambientalista. Ecco qua la nuova Idea per l’Italia. Una Idea che non a caso nasce nel Veneto. Regione tradizionalmente in mano al centrodestra ma ricchissima di associazioni, volontariato, movimenti, comitati, negozi equosolidali, gruppi di acquisto... insomma tutto quel variegato arcipelago ambientalista e sociale al quale questa nuova Idea di politica vuol dare voce.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.