In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Una Idea per il Veneto

Il nome pare pensato apposta per la gioia dei titolisti dei quotidiani, che potranno sbizzarrirsi tra “Che bella Idea” oppure “Una Idea vincente”. Per tacere della famosa canzone di Patty Bravo “Che pazza Idea”. L’acronimo, o più esattamente l’acrostico, sta per Italia Democratica Etica Ambientalista. Ecco qua la nuova Idea per l’Italia. Una Idea che non a caso nasce nel Veneto. Regione tradizionalmente in mano al centrodestra ma ricchissima di associazioni, volontariato, movimenti, comitati, negozi equosolidali, gruppi di acquisto... insomma tutto quel variegato arcipelago ambientalista e sociale al quale questa nuova Idea di politica vuol dare voce.
Un arcipelago ricco di contenuti e di idee (appunto) ma che, soprattutto negli ultimi tempi, è stato allontanato ad arte dalla politica di palazzo. Idea nasce per portare i temi dell’ambientalismo, dell’etica civile e della solidarietà al centro del dibattito politico. La nuova proposta politica si rivolge a tutti coloro che si fanno scrupolo di differenziare i rifiuti anche se si farebbe prima a buttare tutto nello stesso cassonetto, a coloro che cambiano le lampadine di casa perché queste nuove consumano meno, che si domandano come mai l’ente locale non favorisca chi vorrebbe installare il fotovoltaico, che protestano per l’inquinamento da campi elettromagnetici sopra l’asilo, che credono che i migranti siano una risorsa e che siano solo paure ingiustificate ed indotte a trasformarli in un pericolo, che inorridiscono di fronte ad una politica che ha sostituito l’etica col consenso, e che riescono ancora a scandalizzarsi di fronte alla supponenza e all’ignoranza con le quali sono trattate tematiche fondamentali come i cambiamenti climatici. E’ tutta loro la nuova Idea per il Veneto.
Il movimento che si presenterà alle regionali di marzo, è stato lanciato dall’ambientalista Gianfranco Bettin e da Fabio Salviato, presidente di Banca Etica definito dallo stesso Bettin “un ottimo candidato presidente in grado di sfidare il leghista Zaia”. Il simbolo è un semplice cerchio azzurro con la scritta Idea in bianco dalla quale fa capolino il primo simbolo dei verdi. Quel sole rosso con la scritta “Nucleare? No, grazie” che ricorda la prima, vincente, campagna ambientalista che si svolse in Italia. Un ritorno alle origini per guardare in avanti in un mondo che, oggi più di ieri, ha bisogno di battaglie in difesa dei beni comuni.
“Per noi verdi – ha commentato Gianfranco Bettin - questo è un passaggio importante in direzione della costituente ecologista e verso la nascita di una forza che ponga al centro della politica temi come l’ambiente, le nuove energie l’etica, i nuovi stili di vita l’altro consumo e l’altro consumo Temi che fino ad ora non hanno trovato adeguato spazio nell’agenda politica italiana. Vogliamo sperimentare questa possibilità partendo dal Veneto, una regione per certi versi difficile ma anche sensibile a questi temi, e che ancora una volta sarà un laboratorio politico per tutta l’Italia”. La nuova Idea di Banca Etica e dei verdi è lanciata. Una “pazza idea” in un clima politico in cui domina l’intolleranza e si gioca sulla paura e sulle politiche sicuritarie per coprire un sistema economico che crea precarietà e disuguaglianza. Una idea vincente per una Italia possibile: democratica, etica, ambientalista.

Regione a rischio

Qualche giorno di piogge, intense ma tutt’altro che eccezionali, abbattutesi in questi giorni nella pianura e nelle montagne venete sono stati sufficienti per mobilitare la protezione civile e a portare molti Comuni sull’orlo dell’emergenza ambientale. I sempre più rapidi mutamenti del clima fanno intendere che la situazione nell’immediato futuro non migliorerà di sicuro. Di fronte a queste prospettive l’unica cosa certa è che la Regione Veneto e le amministrazioni locali non soltanto sono assolutamente impreparate ad affrontare una possibile situazione di emergenza ma difettano radicalmente di una politica capace di prevedere e pianificare interventi di contenimento dei rischi.
Una recente ricerca di Legambiente e della Protezione Civile, condotta tramite un questionario denominato “Ecosist

ema rischio” diffuso tra gli enti locali, ha portato alla luce una situazione che dovrebbe far riflettere qualsiasi amministratore, tanto di destra quanto di sinistra. Nel 79 per cento dei Comuni italiani sono presenti abitazioni in aree esposte al pericolo di frane e alluvioni, nel 28 per cento dei casi sono presenti in tali aree interi quartieri e nel 54 per cento fabbricati e insediamenti industriali. Nel 20 per cento dei Comuni inoltre, strutture ricettive turistiche sono all’interno di aree classificate a rischio idrogeologico. Da sottolineare che molte amministrazioni hanno candidamente dichiarato di “non avere strutture in aree a rischio” per il semplice motivo di non aver mai attivato qualsivoglia politica di prevenzione e catalogazione dei rischi. Come dire: occhio non vede, cuore non duole.
“Eppure, a fronte di una totale assenza di interventi preventivi per la mitigazione del rischio, assistiamo ogni volta alla corsa ai finanziamenti straordinari per calamità naturale – ha dichiarato Michele Bertucco presidente di Legambiente Veneto – per dimenticarsi subito dopo i buoni propositi e ricadere nei vecchi vizi. Si torna, quindi, a richieste assolutamente controproducenti, come la deperimetrazione di qualche porzione di area a rischio idraulico per riuscire a concedere nuove costruzioni o a proposte prive di conoscenze tecniche come quelle di sindaci che chiedono l’escavazione di inerti. Un’operazione, questa, non solo vietata per legge, ma con l’unico risultato di aggravare la situazione, minando le fondamenta dei ponti e aumentando l’instabilità degli argini”. Legambiente Veneto ha pubblicamente chiesto agli enti locali, a partire dai Comuni, di creare un’alleanza che coinvolga tutti gli attori in gioco, lo Stato, la Regione, le Autorità di bacino, ma anche le associazioni, per programmare per tempo gli interventi di prevenzione e difesa da frane e esondazioni. “La vera emergenza ha concluso Bertucco - è il superamento della cultura degli interventi post-disastri. Gli enti gestori del territorio devono fare un generale ‘mea culpa’ e cominciare ad impostare una gestione organica e sistemica del suolo in tutti i suoi aspetti, urbanistici, ambientali, sociali. E’ questa la vera grande opera pubblica da chiedere al Governo, al posto di dannosi e inutili miraggi come il ponte sullo stretto di Messina”.

Progetto oasi al Cavallino

Ci sono progetti che nascono dall’alto. Sono sempre progetti costosissimi, quasi sempre imposti alle amministrazioni locali e comunque sempre malvisti dalla cittadinanza. Sono calati da un governo centrale per ragioni che stanno “oltre” i reali bisogni dei residenti. Favoriscono cordate di amici di amici cui riempiono le tasche private con denaro pubblico. Sono sempre progetti fortemente impattanti, se non addirittura devastanti per il territorio, e totalmente slegati dalla cultura e dalla tradizione locale. Come se non bastasse, sono progetti immancabilmente inutili se non addirittura controproducenti rispetto allo scopo di intervento prefissato.

Poi ci sono i progetti che vengono dal basso. Progetti amorevolmente elaborati da associazioni e comitati cittadini. Progetti a basso costo, sempre sostenibili, rispettosi delle specifiche del territorio di cui recuperano tradizioni culturali e di rapporto con l’ambiente.
Il progetto Oasi fa indiscutibilmente parte di questa seconda categoria.
Siamo nel Comune di Cavallino Treporti; una sorta di penisola tra il mare Adriatico a est e la laguna di Venezia a ovest. Il progetto Oasi nasce nel lungomare San Felice, sulle sponde della bocca più settentrionale della laguna veneziana, punta Sabbioni. Un nome che, un tempo, suonava come un avvertimento per i marinai che rischiavano di perdere l’imbarcazione tra le grandi secche di sabbia in continuo movimento. Tempi in cui la laguna era ancora viva e respirava seguendo i ritmi delle maree. Oggi il Mose sta trasformando Punta Sabbioni in un braccio di mare aperto e le “barene” stanno morendo. Ma all’interno del lungomare di San Felice è ancora possibile riscoprire tutta quelle vegetazione e quella fauna tipiche di quell’equilibratissimo ecosistema formatosi a cavallo tra acqua dolce e acqua salata che era la peculiarità dell’ambiente lagunare veneto.
L’area è demaniale con, all’interno, una struttura abitativa di proprietà del Consorzio Basso Piave. Una casupola semidiroccata, da decenni abbandonata all’incuria. E’ qui che nasce il progetto Oasi: trasformare questa struttura e l’habitat che la circonda in un'area ambientale protetta che possa fungere da punto di partenza per escursioni, avvistamenti, di incontro per le associazioni impegnate a difendere l’ambiente lagunare.
Un aspetto importante è che l’oasi confina con i contorni di quel parco della laguna disegnati dal Comune di Venezia che gli ambientalisti continuano ad invocare ma che si scontra con gli interessi cementificatori della maggioranza di centrodestra che governa la Regione Veneto che ha sempre opposto un netto rifiuto a qualsiasi ipotesi di tutela ambientale della laguna più famosa del mondo. L’oasi del Cavallino potrebbe costituire un trampolino anche per il parco lagunare, dimostrando che anche un progetto costruito dal basso, oltre che preservare l’ambiente, può rivelarsi un efficace volano per una economia sostenibile.
L’idea nasce da tre associazioni locali - Verdelitorale, Gaia onlus, Un Mondo di Gente – che hanno lanciato una petizione popolare già sottoscritta da numerosi cittadini per chiedere al sindaco di Cavallino di dare il via al progetto, peraltro già deliberato dal consiglio comunale nell’agosto del 2009. “Anche il consorzio di bonifica ha già dato un parere favorevole al nostro progetto di costruire un’Oasi – spiega Gianluigi Bergamo di Vedelitorale, promotore dell’iniziativa – Attendiamo adesso che si pronunci il demanio. Sappiamo che l’area, che pur è di alto pregio naturalistico, è inutilizzata e abbandonata a se stessa. Ci auguriamo che dimostrino la sensibilità necessaria a permetterci di recuperarla”. Dare nuovo impulso alla raccolta di firme e far pressione sugli enti preposti alla gestione dell’area, è il senso dell agioranta di mobilitazione popolare e di presentazione del progetto Oasi che si svolgerà oggi alle ore 10, nella sala Airone di via Concordia a Ca’ Savio. Interverranno il sindaco di Cavallino Treporti Erminio Vanin, il redattore del progetto Oasi Marco Favaro, Walter Mescalchin dell’associazione Libera, Enrico Trevisiol di Banca Etica, don Enrico Torta dell’associazione Gaia, Giovanni Quagliati, responsabile Basi scout Agesci. “Le oasi sono tra gli ultimi lembi di territorio del nostro paese dove ancora si può entrare in contatto con la bellezza di una natura incontaminata – spiega Bergamo -. Sono aree indispensabili per tutelare campioni di ecosistemi rari e minacciati e habitat di specie in via di estinzione oltre che per l’osservazione e lo studio della natura circostante”. Informazioni sul progetto sono reperibili sul sito di www.verdinrete.it/verdelitorale dove è anche possibile firmare on line la petizione.
Da non sottovalutare anche l’aspetto educativo culturale del progetto. Ce ne parla Aldo Rossetti di Gaia: “Tutelare l’ambiente del litorale, come si è detto, è il principale obiettivo del progetto. Ma ci preme sottolineare anche la nostra volontà di costruire iniziative che abbiano come soggetti i giovani, in particolare. Sono numerose le attività che potremmo svolgere nell’Oasi; dalle escursioni guidate a scopo ludico e didattico, sino ad incontri informativi, con proiezioni di film, audiovisivi e vere e proprie lezioni teoriche condotte da docenti specializzati. Ma stiamo pensando anche a campi scuola estivi per scolaresche, scout o ragazzi appartenenti ad associazioni ambientaliste. L’Oasi del cavallino potrebbe diventare un efficace punto di diffusione della cultura ambientalista. Perché la natura. lo sappiamo bene, è sempre la migliore delle scuole”.

Brutto clima attorno al Mose

Tutti assolti, fatta eccezione per Luca Casarini, gli attivisti del No Mose che nel settembre del 2005 avevano occupato i cantieri di San Nicolò, al Lido di Venezia. “La sentenza del tribunale ha fatto crollare tutto un impianto accusatorio costruito ad arte per criminalizzare chi si oppone alla realizzazione di questo ecomostro – spiega Luciano Mazzolin, portavoce dell’assemblea No Mose -  Sono cadute tutte le imputazioni assurde come quella di ‘sabotaggio’, neanche fosse stata una azione di guerra, per la quale la Regione Veneto ci aveva chiesto 100 mila euro di danni.
Spiace solo la condanna a 3 mesi e 4 mila euro a Luca, condannato per minacce a Galan soltanto per aver risposto alle provocazioni del presidente della giunta regionale. Faremo comunque regolare ricorso”. La sentenza emessa dal tribunale giovedì scorso cade in un momento in cui tanto gli studi scientifici quanto lo stesso mare Adriatico sta confermando le previsioni degli ambientalisti. Il documento tecnico della società Principia ha sollevato seri dubbi sulla funzionalità del sistema di chiusura dei portelloni in certe condizioni atmosferiche. Inoltre, recenti studi del Cnr hanno dimostrato come il sistema Mose è inefficace nel difendere la laguna nell'ipotesi che i livelli del mare si inalzino nei prossimi decenni a causa dei cambiamenti climatici. Una sentenza della Corte dei Conti inoltre ha evidenziato tutte le anomalie e lacune emerse in relazione al progetto ed a tutte le attività che vi gravitano intorno. “Il Mose è figlio di un regime di monopolio che dura da oltre vent’anni contrario a tutte le normative europee e nazionali; costi lievitati a dismisure, incarichi, consulenze e collaudi  affidati con scarsa trasparenza, progetti e lavori senza Valutazione d’impatto ambientale positiva, mancanza di un progetto esecutivo generale – spiega Luciano Mazzolin –. E questi signori hanno avuto la faccia tosta di denunciare noi per danni!” Solo i danni prodotti per il solo cantiere S. Maria del Mare sono stati quantificati da esperti del Comune di Venezia in cento milioni di euro! Chi li pagherà? Gli ambientalisti No Mose chiedono alla magistratura di avviare un procedimento ad ampio spettro sia sulle abnormi lievitazioni dei costi sia sulle moltissime irregolarità che si ravvedono in tutta la vicenda senza farsi condizionare dalla potentissima lobby di aziende ed imprese del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dell’opera, che hanno messo le mani sui fondi della Legge Speciale  e che  stanno  fagocitando 4,2 miliardi di euro per costruire un'opera vecchia, inutile e dannosa non solo per gli attuali delicati equilibri idrogeologici lagunari, ma anche alla luce delle variazioni climatiche che si prospettano per i prossimi decenni. Intanto, con i lavori di scavo alle bocche di porto che continuano, Venezia va sempre più a fondo. Anche oggi un metro e dieci di marea. Un metro e dieci ieri e un metro e dieci pure l’altro ieri. Domani le previsioni parlano di un metro e quaranta. Neanche gli stivali saranno sufficienti per uscire. La gente comincia a domandarsi cosa succederebbe se il Mose fosse già operativo. Le paratoie blindate sarebbero state alzate per un mese consecutivo trasformando in uno stagno quella che era la laguna dei dogi e paralizzando l’attività del porto? Ci si domanda che ne sarà allora di quel delicatissimo ecosistema lagunare creatosi pazientemente nel corso degli ultimi millenni, e che respirava ogni sei ore seguendo i ritmi della luna e del mare.

A Treviso la cava più profonda

Esattamente un anno fa, i comitati contro le cave nella marca trevigiana organizzarono una protesta davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto. In quell’occasione, i portavoce dei manifestanti consegnarono ad ogni consigliere regionale impegnato a votare la finanziaria, un piccolo scrigno di legno. Il cofanetto era riempito di sassi. In una targhetta si leggeva “Chiediamo che questa sia l’ultima ghiaia estratta nel nostro territorio”.
La protesta, per quanto originale, non ha ottenuto lo scopo prefissato. Un anno dopo, siamo ancora qua a scrivere di cave, progetti di nuove cave e di ampliamenti di cave già esistenti. E ogni volta tocca usare superlativi ed iperboli. Poco eleganti dal punto di vista dello stile e che rischiano pure di perdere efficacia nella loro continua ripetizione. Ma che altro potremmo scrivere della “cava più profonda d’Italia”? Ben 65 metri sotto il piano della campagna per un estratto di oltre 8 milioni e 800 mila metri cubi. Se preferite un esempio più visivo, pensate ad una voragine che potrebbe contenere un grattacielo di 23 piani scavata su una estensione pari a quella dell’aeroporto di Venezia. La colossale cava, giustificata come il solito “ampliamento” di una cava già esistente, in questo caso la Morganella, dovrebbe sorgere a cavallo tra i Comuni di Paese e Ponzano, entrambi in provincia di Treviso. Anche in questo caso, l’iter autorizzativo è tutt’altro che originale. Le ditte Biasuzzi Cave Spa, Calcestruzzi Spa e Superbeton Spa presentano un progetto al Via. I comitati si mettono in agitazione e fanno pressione sui rispettivi Comuni. Sindaci e assessori, maggioranza e opposizione tuonano contro lo scempio del territorio e promettono battaglia. Un fervore che dura poco: chi conta in Regione Veneto sta dalla parte dei cavatori e i Comuni non possono che chinare la testa e approvare una decisone che già presa da altri. Così vanno le cose nella marca trevigiana che dal monocolore democristiano è saltata in toto sul Carroccio leghista. Per gli assessori regionali “lumbard” non è gran fatica rimetter in riga i loro amministratori locali su una battaglia che, si capisce, è già persa in partenza. E così dopo l’iniziale fuoco e fiamme, il sindaco di Ponzano, Giorgio Granello, attende la vigilia di Natale per convocare un consiglio il 31 dicembre e far ingoiare l’ampliamento, con conseguente stupro del territorio, ai suoi concittadini ed elettori assieme al panettone delle feste. Il sindaco di Paese, Francesco Pietrobon, che pure si era impegnato a contrastare il progetto della Morganella chiedendo ufficialmente al Via una inchiesta pubblica alla quale potessero partecipare tutti i cittadini di Paese, qualche giorno dopo la richiesta spedisce una disdetta. Scusate, abbiamo scherzato. I comitati lo vengono a sapere dalla segreteria della commissione che, il giorno della convocazione, non è neppure il caso di comperare tutti quei biglietti per Venezia. Con una Regione così e due Comuni colà, ai cittadini di Paese e di Ponzano non è rimasta che la soddisfazione di intasare di mail di protesta i server dei loro amministratori.

La Regione che non ama la cultura

Nei corridoi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto, gira la barzelletta di un ex assessore alla cultura leghista che, interpellato da un collega spagnolo se il quadro appeso alla parete che ritraeva una regata in Canal Grande fosse un Canaletto, rispose: “No, no. Quello è il Canal Grande, non un canaletto!”. Vera o no che sia la storia (ma chi me l’ha raccontata giura di sì), che i “lumbard” e la cultura non siano amici per la pelle non lo scopriamo in questi giorni.
Per i loro colleghi di Forza Italia, attualmente la delega alla cultura spetta al presidente Galan, il discorso è ancora più semplice e lo sintetizza bene Davide Fiore, presidente veneto della società italiana per la Protezione dei beni culturali: “Cultura = pesante incombenza per le casse pubbliche”. La questione è che quando c’è da tagliare qualcosa, la scure del legislatore si abbatte sempre su questa voce. “Questi tagli sono un anacronismo storico – spiega Fiore – I nostri politici continuano a vedere nell’insieme ‘cultura’ (che comprende Beni Culturali, esposizioni e mostre, spettacoli dal vivo, valorizzazione del territorio e degli artisti), il contorno frivolo ed estetico di un sistema che si regge sul capannone industriale o sulle mega infrastrutture”. Nella finanziaria in discussione in consiglio regionale assistiamo all’ennesimo taglio delle risorse destinate a questo settore: 20 milioni di euro contro i 36 dello scorso anno. Tanto per fare un esempio, Toscana e Lombardia – pur in un contesto internazionale in cui l’Italia è il solito fanalino di coda dell’Europa – spendono ciascuna oltre 200 milioni all’anno. “Siamo all’elemosina – continua Davide Fiore -. Ed invece fondi per la ricerca in campo culturale, per difendere il paesaggio e restaurare e mantenere i Beni architettonici, oltre a invitare i Musei a rendersi più splendenti e contemporanei non è un vezzo, dovrebbe rappresentare un punto fisso intoccabile nella prima regione turistica d’Italia”. L’associazione per la Protezione dei beni culturali ha lanciato un appello contro i tagli che è stato sottoscritto da tre rettori universitari, artisti di fama internazionale, imprenditori e amministratori pubblici. “Anche attorno alle cose della cultura – si legge nell’appello -, quando queste siano poste nella condizione di operare nel rispetto di qualità e continuità della proposta e dell’offerta, si sviluppa sempre una consistente ricaduta economica, che arreca grandi benefici a tutti”. Ma non è solo la scarsezza di risorse, l’oggetto delle proteste. Un’altra questione è il “come” e il “dove” vengono distribuite le poche risorse a disposizione. Penalizzate le città “colpevoli” di avere una giunta di centrosinistra, Venezia in testa, grandi spazi a parate e paratone pseudo-storiche con sventoli di gonfaloni, iniziative di gruppi di estrema destra, feste di piazza dedicate a temi quantomeno discutibili, tipo “feste degli osei”, o iniziative da alcolisti come le varie “ombrelonghe”. Questo è il triste panorama dell’orizzonte culturale nel Veneto. In fondo, a che cosa serve la cultura? Magari a combattere quell’ignoranza con la quale le forze di governo alimentano il proprio consenso.

La voragine di Vedelago

Cinque milioni e mezzo di metri cubi di scavo su un perimetro di quasi 4 chilometri. Una mastodontica voragine, in un territorio già disastrato da decine di altre escavazioni, che la Regione vorrebbe far passare come “ampliamento della cava Baracche”. L’ennesimo progetto di “sviluppo economico” tutto finalizzato a trasformare ricchezza ambientale (che appartiene a tutti) in ricchezza privata (ad esclusivo beneficio delle tasche dei cavatori).
Vittima di questo concetto di capitalismo predatorio che nel Veneto di Galan è assunto a vangelo dell’economia, è ancora il paese di Vedelago, nel bel mezzo della marca trevigiana. Un paese che pure ha sacrificato agli interessi dei cavatori molto di più di quell’ottimistico 3 per cento di territorio previsto dalla legge regionale come tetto massimo. Contraria l’opposizione, contraria la giunta, contrari tutti i cittadini. Ma non basta a fermare i cavatori. Una lotta impari, la loro, contro i plotoni di avvocati e le frotte di “politici che contano” schierati dai re delle cave. Una lotta che viene immancabilmente seppellita da una delibera di Giunta che non di rado reca in calce date quantomeno sospettose come il 24 dicembre o il 15 agosto. Nei rari casi in cui associazioni e Comune riescano a tamponare un fronte – come quello dell’ampliamento della cava Cosecorba, fermato per ora da un ricorso al Tar- se ne apre subito un’altro ancora più devastante. Il mastodontico progetto di scavo alla Baracche, attualmente in esame al Via regionale, è stato presentato dalle ditte Telve Rigo e Superbeton. Il sito si trova a poca distanza da un’altra cava, la Vittoria, e prevede l’ampliamento dell’attuale scavo su ulteriori 500 mila metri quadri. Perché parliamo di “ampliamenti” e non di “nuove escavazioni” come sarebbe più corretto dal punto di vista del territorio? Perché la Regione Veneto non è ancora riuscita varare un Piano Cave che, per la sua impopolarità, è rimpallato da anni tra consiglio, giunta, uffici tecnici e commissioni. Una situazione che non spiace del tutto ai cavatori che, nell’attesa, chiedono e ottengono tutti gli “ampliamenti” che, a loro giudizio, sarebbero indispensabili a continuare l’attività produttiva sostenendo, non senza le loro ragioni, che non è colpa loro se la Regione non sa legiferare! Chi ne paga le spese è il territorio che, soprattutto nella marca trevigiana, somiglia sempre di più al classico formaggio coi buchi.

"Qui non si denuncia nessuno!"

Fuori della porta dell’ambulatorio c’è un cartello in stampatello maiuscolo: “Qui non si denuncia nessuno”. Sotto, tanto per chiarire, un altro cartello specifica: “Siamo medici e non spie”. Due fogli di carta scritti a mano per contrastare un bombardamento mediatico che avrebbe fatto la felicità di un ministro della propaganda del Ventennio nero. “Sono in pochi a saperlo, fuori dell’ambiente, ma noi medici non possiamo denunciare nessuno perché siamo vincolati dal segreto professionale né tanto meno chiedere i documenti perché non siamo carabinieri. Eppure non avete idea di quante persone, soprattutto donne, mi chiedono sottovoce, finita la loro visita, ‘Posso portarle una mia amica che sta male anche se non ha il permesso di soggiorno?’ Il fatto è che è stato dato tanto spazio alla presunte denuncie degli irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie. Poco o niente è stato scritto per spiegare che questa orripilante proposta è stata stracciata dal pacchetto sicurezza”.
Pervinca Rizzo è medico da tanti anni. Tanti da ricordare dei tempi in cui chi si avvicinava a questa professione lo faceva anche per questioni etiche. “Altrimenti facevo l’avvocata!” Chi scrive l’ha conosciuta in un villaggio del Chiapas mentre insegnava medicina ad un attento gruppetto di donne tutte col volto coperto dal “paliacate” zapatista. Quando non è nella selva Lacandona con le brigate mediche di Ya Basta, Pervinca Rizzo lavora nel suo studio a Strà. Sempre negli impervi sentieri del Chiapas “rebelde”, abbiamo conosciuto un’altra dottoressa veneta, Serena Marinello. Una generazione più giovane, Serena segue la specialità al reparto malattie infettive dell’ospedale di Padova. Anche qui, non si denuncia nessuno. “E vorrei vedere il contrario! Quando è stata fatta questa proposta tutti, ripeto tutti i medici e tutti gli ordini medici d’Italia si sono opposti sottolineando l’improponibilità di tale pratica. Magari non per motivi etici ma solo pratici. Era evidente che non avremmo potuto lavorare in queste condizioni. Si rischiava di innescare enormi problema di sanità pubblica riducendo le possibilità di accesso alle cure. Pensiamo, ad esempio, ad una malattia come la tubercolosi e ai focolai che potrebbero scoppiare in tutti i settori della società se gli ammalati non avessero accesso alle medicine. I micobatteri non infettano solo chi non ha il permesso di soggiorno in regola”. Eppure, anche se dai medici non sono mai partite denunce, il peso del cosiddetto “pacchetto sicurezza” si è fatto sentire ugualmente. Se un dottore è obbligato al segreto professionale, ciò non vale per il personale amministrativo e per i paramedici. E’ pur vero che i casi di denuncia perpetrati da solerti funzionari si contano nelle punta delle dita, ma la paura si è diffusa incontrollata. “In fondo è a questo che serviva il pacchetto sicurezza, giusto? – commenta amara Pervinca – A diffondere paura ed insicurezza tanto nei migranti che negli italiani ed innescare politiche di repressione sociale”. Il risultato è che gli accessi alle strutture pubbliche da parte dei migranti è diminuito del 40 per cento. Una situazione che favorisce l’emarginazione di settori sociali e lo sfruttamento dei lavoratori in nero che in caso di infortunio non si rivolgono più alle strutture sanitarie. Soprattutto, sono le donne a pagare la “politica della paura”. “Oramai ogni etnia si sta organizzando per conto suo – conclude Pervinca Rizzo -. Ognuna si cura ‘a casa sua’ come può e con i pochi mezzi a disposizione. Le donne, i bambini e le categorie più deboli sono i primi a pagare anche con la vita. In queste condizioni, fare il medico, per chiunque abbia un po’ di coscienza, sta diventando una professione umiliante. Arrivano da te persone bisognose di cure e di assistenze. Basterebbe così poco farle star meglio ed invece tu non sai dove mandarle o cosa prescriverle. Sono clandestini, magari lavorano in condizioni disumane e senza le minime garanzie sindacali, senza diritti… ma sono clandestini e devono restare nascosti. Te lo posso assicurare: ogni giorno è sempre più straziante”.

Acqua alta, neve e Mose: Le disgrazie non vengono mai da sole

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Acqua alta e neve. Neve e acqua alta. Neanche il signor Nane che alla bellezza di 84 anni suonati voga sino alla diga di Punta Sabbioni per cercare di fiocinare qualche branzino da far saltare in pentola, ha memoria di un inverno così. Acqua alta e neve insieme. Un metro e venti il giorno di Natale, un metro e trenta Santo Stefano. Capodanno ancora sotto con altri centoventi centimetri di acqua. L’anno nuovo nell’ex Città dei Dogi comincia alla grande con un altro metro e venti misurato la mattina buon’ora. Acqua alta e neve. A Venezia stiamo toccando con mano – o con i piedi bagnati, se preferite – quei “cambiamenti climatici estremi” che a Copenhagen pare non si siano rivelati quel fattore così importante da far capire ai Governi che è ora di cambiar rotta. Tanto per dare un’idea a chi Venezia l’ha vissuta solo in cartolina, un metro e dieci di marea è sufficiente per paralizzare mezza città. Un metro e venti ne paralizza un altro quarto. Se sale ancora, è meglio restare a casa o farsi un giro in barca per le calli.


Che si fa? Il sindaco Cacciari distribuisce ottimismo e tranquillanti. “I veneziani – assicura – sono abituati a convivere con questo problema”. Il che è vero. Come è vero che l’acqua alta a fine dicembre non se la ricorda neppure il nostro Nane “branzinaro”. Il mese dell’acqua alta in laguna è sempre stato novembre. Di rado ottobre. Ancor più di rado i primi di dicembre. Mai la marea era arrivata a sommergere le feste natalizie. E due settimane di continui allagamenti hanno solo un precedente: quell’infausto novembre del ’66 che, con Venezia, ha mandato a mollo mezza Italia. Due settimane di acqua alta e non è ancora finita. I discorsi che si sentono nelle calli, tra gli sciaff sciaff degli stivaloni di chi incede nell’acqua salata, si possono riassumere così: “Acqua alta? E ci credo! Fino a che continuano a scavare le bocche di porto per fare il Mose!” Non è solo l’opinione dell’uomo comune che si trova l’acqua sotto il tavolo di casa. L’ipotesi che scavando i canali per far spazio alle paratie mobili si sarebbero causati più problemi di quelli che si cercava di risolvere, era stata paventata in tante occasioni da scienziati e ambientalisti. Ipotesi che il Consorzio non ha neppure mai preso in considerazione, occupato com’era a spendere la pacca di miliardi che il Governo gli passava per realizzare un’opera che doveva avere una sola peculiarità: essere costosa per giustificare le immani spese. Si fossero attuate le ipotesi alternative mirate a ripristinare l’equilibrio della laguna con interventi economici e non impattanti, ha dimostrato uno studio del Cnr, le maree sarebbero già ridotte di 20 centimetri. Adesso che la città va a fondo e che il Servizio Maree del Comune misura in un aumento dell’8 per cento la velocità della marea entrante a causa degli scavi, il Consorzio risponde che il dato “non è significativo” e rilancia: “Di fronte a questi fenomeni di marea eccezionale, anche gli ambientalisti avranno capito che l’opera è necessaria”. E’ un po’ lo stesso discorso della guerra preventiva che serve a portare la pace. «Dobbiamo tener presente che lo scenario è cambiato velocemente da quando il Mose è stato progettato, più di un quarto di secolo fa – ha spiegato l’ambientalista e candidato sindaco Gianfranco Bettin - l'alta marea eccezionale oramai è diventata quasi ordinaria. Il progetto Mose va rivisto e modificato, finché siamo in tempo, anche alla luce dei dati del medio mare in continuo aumento e dagli studi dell'Ipcc”. Studi che il Consorzio si è semplicemente rifiutato di prendere in considerazione. Eppure, anche nonno Nane, con la sua terza elementare, spiega sempre che la laguna non è più quella di qualche anno fa.

Razzismo Stop

Via Gradenigo è una stradina che costeggia il canale Piovego sino a Porta Portello che dà il nome al quartiere. Un quartiere, un tempo, di barcaroli che trasportavano merci e passeggeri sino alla serenissima capitale. Oggi è un quartiere di studenti a due passi dalla zona universitaria. Traffico, mini appartamenti in affitto a prezzi astronomici e rigorosamente in nero, giri di prostituzione di tutti i tipi, spaccio. E’ anche un quartiere di case occupate e di lotta sociale di antica tradizione. Qui, in via Gradenigo al numero 8, è partita nei primi anni novanta l’esperienza di Razzismo Stop. Erano gli anni in cui il fenomeno delle migrazioni iniziava ad affacciarsi nella realtà italiana e la coglieva assolutamente impreparata. Furono i ragazzi di Razzismo Stop a battersi sin dall’inizio perché i migranti fossero visti come una risorsa e un arricchimento culturale e non lavoratori da sfruttare o pericoli sociali.
In questi anni centinaia di migranti si sono rivolti agli sportelli informativi di via Gradenigo, altri hanno approfittato dell’ospitalità dei locali per organizzare le prime associazioni di migranti. Oggi, chi si bussa alla porta di Razzismo Stop la domenica, ci trova un gruppo religioso senegalese in preghiera. Il sabato, una squadra di cricket composta di migranti dello Sri Lanka (col grosso problema di non trovare avversari con cui misurarsi). Tanti anni di battaglie per Razzismo Stop, con la convinzione che le più dure sono ancora tutte da combattere. Luca Bertolino è un’attivista dell’associazione e si occupa degli sportelli informativi su temi come la scuola, il diritto, la casa e la salute. “Da noi vengono un po’ tutti. Ad esclusione dei cinesi con i quali non siamo mai riusciti a stabilire contatti – racconta- Cosa ci chiedono? I problema principale in questo periodo è quello della casa mentre fino a poco tempo fa era il lavoro. La crisi si fa sentire e sono in molti a non riuscire più a pagare l’affitto o a mantenere il mutuo”. In tal caso, l’associazione interviene con i propri avvocati. Nel caso non ci fossero margini per l’intervento legale e lo sfratto fosse già esecutivo, con la mobilitazione. “Un fenomeno preoccupante che sta crescendo sempre di più – spiega Luca – sono gli episodi di razzismo. Ricordiamo solo le botte della polizia ai due dj neri che hanno avuto come risposta la più grande manifestazione di migranti a Padova nel settembre del 2008. Episodi di razzismo, a nostro parere, sono anche le ordinanze del sindaco Flavio Zanonato che impone chiusure anticipate e divieti ad attività commerciali gestite da stranieri. Ci sono strade, a Padova, in cui due bar, uno di fronte all’altro hanno regole diverse perché uno è di proprietà di un italiano e l’altro di un migrante. Contro queste prevaricazioni abbiamo fatto molti ricorsi al Tar, non di rado vincendoli”. L’ultima iniziativa di Razzismo Stop sono i corsi di informatica. “Vi partecipano in particolare donne dell’est. Quasi tutte sono badanti e vengono da noi nel loro giorno libero. Gli argomenti che gli stanno a cuore sono le mail, le chat, l’utilizzo di Skype… un modo per rimanere in contatto con i loro cari lontani. Ci sono anche gli internet point, è vero. Ma non ti insegnano ad usare il computer ed inoltre ti chiedono i documenti. Cosa che noi ci guardiamo bene da fare! Rispondiamo così, con la disobbedienza civile ad un ‘pacchetto’ di leggi incivili e vigliacche che con la sicurezza non ha nulla a che fare”.

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Melting Pot: tredici anni di controinformazione
Era il 1997 quando il sito www.meltingpot.org è apparso online. A partire da quel momento, ininterrottamente per 13 anni, il Progetto Melting Pot Europa, frutto della collaborazione tra il Comune di Venezia e la Cooperativa Teleradiocity, si è affermato come uno dei principali punti di riferimento italiani in materia di immigrazione e asilo. Grazie alla collaborazione di autorevoli giuristi, ricercatori, docenti, ma anche di attivisti che dalle tante redazioni italiane continuamente lo aggiornano, il sito offre gratuitamente una preziosa opera di controinformazione e approfondimento sui temi della cittadinanza, delle frontiere, del razzismo, oltre che un'importante guida legislativa per tutti i migranti che in Italia affrontano le difficoltà connesse alla burocrazia che riguarda i loro documenti. Da semplice sito informativo, Melting Pot si è evoluto sino a trasformarsi in un progetto integrato di comunicazione sul fenomeno dell’immigrazione, articolato in redazioni locali e collegamenti con le altre realtà europee che operano nel campo dell’accoglienza. Oggi, il Progetto Melting Pot Europa offre un completo archivio legislativo in materia di immigrazione che spazia dalla normativa italiana a quella europea, dalla giurisprudenza agli accordi internazionali. Premiato dall'eContent Award nel 2007 come miglior sito italiano legato ai temi dell'inclusione sociale, il più grande riconoscimento per Melting Pot e per chi lo ha costruito è dato dalle migliaia di visite quotidiane che da quando è nato non ha mai smesso di ricevere.
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