In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

A Treviso la cava più profonda

Esattamente un anno fa, i comitati contro le cave nella marca trevigiana organizzarono una protesta davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto. In quell’occasione, i portavoce dei manifestanti consegnarono ad ogni consigliere regionale impegnato a votare la finanziaria, un piccolo scrigno di legno. Il cofanetto era riempito di sassi. In una targhetta si leggeva “Chiediamo che questa sia l’ultima ghiaia estratta nel nostro territorio”.
La protesta, per quanto originale, non ha ottenuto lo scopo prefissato. Un anno dopo, siamo ancora qua a scrivere di cave, progetti di nuove cave e di ampliamenti di cave già esistenti. E ogni volta tocca usare superlativi ed iperboli. Poco eleganti dal punto di vista dello stile e che rischiano pure di perdere efficacia nella loro continua ripetizione. Ma che altro potremmo scrivere della “cava più profonda d’Italia”? Ben 65 metri sotto il piano della campagna per un estratto di oltre 8 milioni e 800 mila metri cubi. Se preferite un esempio più visivo, pensate ad una voragine che potrebbe contenere un grattacielo di 23 piani scavata su una estensione pari a quella dell’aeroporto di Venezia. La colossale cava, giustificata come il solito “ampliamento” di una cava già esistente, in questo caso la Morganella, dovrebbe sorgere a cavallo tra i Comuni di Paese e Ponzano, entrambi in provincia di Treviso. Anche in questo caso, l’iter autorizzativo è tutt’altro che originale. Le ditte Biasuzzi Cave Spa, Calcestruzzi Spa e Superbeton Spa presentano un progetto al Via. I comitati si mettono in agitazione e fanno pressione sui rispettivi Comuni. Sindaci e assessori, maggioranza e opposizione tuonano contro lo scempio del territorio e promettono battaglia. Un fervore che dura poco: chi conta in Regione Veneto sta dalla parte dei cavatori e i Comuni non possono che chinare la testa e approvare una decisone che già presa da altri. Così vanno le cose nella marca trevigiana che dal monocolore democristiano è saltata in toto sul Carroccio leghista. Per gli assessori regionali “lumbard” non è gran fatica rimetter in riga i loro amministratori locali su una battaglia che, si capisce, è già persa in partenza. E così dopo l’iniziale fuoco e fiamme, il sindaco di Ponzano, Giorgio Granello, attende la vigilia di Natale per convocare un consiglio il 31 dicembre e far ingoiare l’ampliamento, con conseguente stupro del territorio, ai suoi concittadini ed elettori assieme al panettone delle feste. Il sindaco di Paese, Francesco Pietrobon, che pure si era impegnato a contrastare il progetto della Morganella chiedendo ufficialmente al Via una inchiesta pubblica alla quale potessero partecipare tutti i cittadini di Paese, qualche giorno dopo la richiesta spedisce una disdetta. Scusate, abbiamo scherzato. I comitati lo vengono a sapere dalla segreteria della commissione che, il giorno della convocazione, non è neppure il caso di comperare tutti quei biglietti per Venezia. Con una Regione così e due Comuni colà, ai cittadini di Paese e di Ponzano non è rimasta che la soddisfazione di intasare di mail di protesta i server dei loro amministratori.

La Regione che non ama la cultura

Nei corridoi di palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale del Veneto, gira la barzelletta di un ex assessore alla cultura leghista che, interpellato da un collega spagnolo se il quadro appeso alla parete che ritraeva una regata in Canal Grande fosse un Canaletto, rispose: “No, no. Quello è il Canal Grande, non un canaletto!”. Vera o no che sia la storia (ma chi me l’ha raccontata giura di sì), che i “lumbard” e la cultura non siano amici per la pelle non lo scopriamo in questi giorni.
Per i loro colleghi di Forza Italia, attualmente la delega alla cultura spetta al presidente Galan, il discorso è ancora più semplice e lo sintetizza bene Davide Fiore, presidente veneto della società italiana per la Protezione dei beni culturali: “Cultura = pesante incombenza per le casse pubbliche”. La questione è che quando c’è da tagliare qualcosa, la scure del legislatore si abbatte sempre su questa voce. “Questi tagli sono un anacronismo storico – spiega Fiore – I nostri politici continuano a vedere nell’insieme ‘cultura’ (che comprende Beni Culturali, esposizioni e mostre, spettacoli dal vivo, valorizzazione del territorio e degli artisti), il contorno frivolo ed estetico di un sistema che si regge sul capannone industriale o sulle mega infrastrutture”. Nella finanziaria in discussione in consiglio regionale assistiamo all’ennesimo taglio delle risorse destinate a questo settore: 20 milioni di euro contro i 36 dello scorso anno. Tanto per fare un esempio, Toscana e Lombardia – pur in un contesto internazionale in cui l’Italia è il solito fanalino di coda dell’Europa – spendono ciascuna oltre 200 milioni all’anno. “Siamo all’elemosina – continua Davide Fiore -. Ed invece fondi per la ricerca in campo culturale, per difendere il paesaggio e restaurare e mantenere i Beni architettonici, oltre a invitare i Musei a rendersi più splendenti e contemporanei non è un vezzo, dovrebbe rappresentare un punto fisso intoccabile nella prima regione turistica d’Italia”. L’associazione per la Protezione dei beni culturali ha lanciato un appello contro i tagli che è stato sottoscritto da tre rettori universitari, artisti di fama internazionale, imprenditori e amministratori pubblici. “Anche attorno alle cose della cultura – si legge nell’appello -, quando queste siano poste nella condizione di operare nel rispetto di qualità e continuità della proposta e dell’offerta, si sviluppa sempre una consistente ricaduta economica, che arreca grandi benefici a tutti”. Ma non è solo la scarsezza di risorse, l’oggetto delle proteste. Un’altra questione è il “come” e il “dove” vengono distribuite le poche risorse a disposizione. Penalizzate le città “colpevoli” di avere una giunta di centrosinistra, Venezia in testa, grandi spazi a parate e paratone pseudo-storiche con sventoli di gonfaloni, iniziative di gruppi di estrema destra, feste di piazza dedicate a temi quantomeno discutibili, tipo “feste degli osei”, o iniziative da alcolisti come le varie “ombrelonghe”. Questo è il triste panorama dell’orizzonte culturale nel Veneto. In fondo, a che cosa serve la cultura? Magari a combattere quell’ignoranza con la quale le forze di governo alimentano il proprio consenso.

La voragine di Vedelago

Cinque milioni e mezzo di metri cubi di scavo su un perimetro di quasi 4 chilometri. Una mastodontica voragine, in un territorio già disastrato da decine di altre escavazioni, che la Regione vorrebbe far passare come “ampliamento della cava Baracche”. L’ennesimo progetto di “sviluppo economico” tutto finalizzato a trasformare ricchezza ambientale (che appartiene a tutti) in ricchezza privata (ad esclusivo beneficio delle tasche dei cavatori).
Vittima di questo concetto di capitalismo predatorio che nel Veneto di Galan è assunto a vangelo dell’economia, è ancora il paese di Vedelago, nel bel mezzo della marca trevigiana. Un paese che pure ha sacrificato agli interessi dei cavatori molto di più di quell’ottimistico 3 per cento di territorio previsto dalla legge regionale come tetto massimo. Contraria l’opposizione, contraria la giunta, contrari tutti i cittadini. Ma non basta a fermare i cavatori. Una lotta impari, la loro, contro i plotoni di avvocati e le frotte di “politici che contano” schierati dai re delle cave. Una lotta che viene immancabilmente seppellita da una delibera di Giunta che non di rado reca in calce date quantomeno sospettose come il 24 dicembre o il 15 agosto. Nei rari casi in cui associazioni e Comune riescano a tamponare un fronte – come quello dell’ampliamento della cava Cosecorba, fermato per ora da un ricorso al Tar- se ne apre subito un’altro ancora più devastante. Il mastodontico progetto di scavo alla Baracche, attualmente in esame al Via regionale, è stato presentato dalle ditte Telve Rigo e Superbeton. Il sito si trova a poca distanza da un’altra cava, la Vittoria, e prevede l’ampliamento dell’attuale scavo su ulteriori 500 mila metri quadri. Perché parliamo di “ampliamenti” e non di “nuove escavazioni” come sarebbe più corretto dal punto di vista del territorio? Perché la Regione Veneto non è ancora riuscita varare un Piano Cave che, per la sua impopolarità, è rimpallato da anni tra consiglio, giunta, uffici tecnici e commissioni. Una situazione che non spiace del tutto ai cavatori che, nell’attesa, chiedono e ottengono tutti gli “ampliamenti” che, a loro giudizio, sarebbero indispensabili a continuare l’attività produttiva sostenendo, non senza le loro ragioni, che non è colpa loro se la Regione non sa legiferare! Chi ne paga le spese è il territorio che, soprattutto nella marca trevigiana, somiglia sempre di più al classico formaggio coi buchi.

"Qui non si denuncia nessuno!"

Fuori della porta dell’ambulatorio c’è un cartello in stampatello maiuscolo: “Qui non si denuncia nessuno”. Sotto, tanto per chiarire, un altro cartello specifica: “Siamo medici e non spie”. Due fogli di carta scritti a mano per contrastare un bombardamento mediatico che avrebbe fatto la felicità di un ministro della propaganda del Ventennio nero. “Sono in pochi a saperlo, fuori dell’ambiente, ma noi medici non possiamo denunciare nessuno perché siamo vincolati dal segreto professionale né tanto meno chiedere i documenti perché non siamo carabinieri. Eppure non avete idea di quante persone, soprattutto donne, mi chiedono sottovoce, finita la loro visita, ‘Posso portarle una mia amica che sta male anche se non ha il permesso di soggiorno?’ Il fatto è che è stato dato tanto spazio alla presunte denuncie degli irregolari che si rivolgono alle strutture sanitarie. Poco o niente è stato scritto per spiegare che questa orripilante proposta è stata stracciata dal pacchetto sicurezza”.
Pervinca Rizzo è medico da tanti anni. Tanti da ricordare dei tempi in cui chi si avvicinava a questa professione lo faceva anche per questioni etiche. “Altrimenti facevo l’avvocata!” Chi scrive l’ha conosciuta in un villaggio del Chiapas mentre insegnava medicina ad un attento gruppetto di donne tutte col volto coperto dal “paliacate” zapatista. Quando non è nella selva Lacandona con le brigate mediche di Ya Basta, Pervinca Rizzo lavora nel suo studio a Strà. Sempre negli impervi sentieri del Chiapas “rebelde”, abbiamo conosciuto un’altra dottoressa veneta, Serena Marinello. Una generazione più giovane, Serena segue la specialità al reparto malattie infettive dell’ospedale di Padova. Anche qui, non si denuncia nessuno. “E vorrei vedere il contrario! Quando è stata fatta questa proposta tutti, ripeto tutti i medici e tutti gli ordini medici d’Italia si sono opposti sottolineando l’improponibilità di tale pratica. Magari non per motivi etici ma solo pratici. Era evidente che non avremmo potuto lavorare in queste condizioni. Si rischiava di innescare enormi problema di sanità pubblica riducendo le possibilità di accesso alle cure. Pensiamo, ad esempio, ad una malattia come la tubercolosi e ai focolai che potrebbero scoppiare in tutti i settori della società se gli ammalati non avessero accesso alle medicine. I micobatteri non infettano solo chi non ha il permesso di soggiorno in regola”. Eppure, anche se dai medici non sono mai partite denunce, il peso del cosiddetto “pacchetto sicurezza” si è fatto sentire ugualmente. Se un dottore è obbligato al segreto professionale, ciò non vale per il personale amministrativo e per i paramedici. E’ pur vero che i casi di denuncia perpetrati da solerti funzionari si contano nelle punta delle dita, ma la paura si è diffusa incontrollata. “In fondo è a questo che serviva il pacchetto sicurezza, giusto? – commenta amara Pervinca – A diffondere paura ed insicurezza tanto nei migranti che negli italiani ed innescare politiche di repressione sociale”. Il risultato è che gli accessi alle strutture pubbliche da parte dei migranti è diminuito del 40 per cento. Una situazione che favorisce l’emarginazione di settori sociali e lo sfruttamento dei lavoratori in nero che in caso di infortunio non si rivolgono più alle strutture sanitarie. Soprattutto, sono le donne a pagare la “politica della paura”. “Oramai ogni etnia si sta organizzando per conto suo – conclude Pervinca Rizzo -. Ognuna si cura ‘a casa sua’ come può e con i pochi mezzi a disposizione. Le donne, i bambini e le categorie più deboli sono i primi a pagare anche con la vita. In queste condizioni, fare il medico, per chiunque abbia un po’ di coscienza, sta diventando una professione umiliante. Arrivano da te persone bisognose di cure e di assistenze. Basterebbe così poco farle star meglio ed invece tu non sai dove mandarle o cosa prescriverle. Sono clandestini, magari lavorano in condizioni disumane e senza le minime garanzie sindacali, senza diritti… ma sono clandestini e devono restare nascosti. Te lo posso assicurare: ogni giorno è sempre più straziante”.

Acqua alta, neve e Mose: Le disgrazie non vengono mai da sole

Image 19-02-15 at 09.08
Acqua alta e neve. Neve e acqua alta. Neanche il signor Nane che alla bellezza di 84 anni suonati voga sino alla diga di Punta Sabbioni per cercare di fiocinare qualche branzino da far saltare in pentola, ha memoria di un inverno così. Acqua alta e neve insieme. Un metro e venti il giorno di Natale, un metro e trenta Santo Stefano. Capodanno ancora sotto con altri centoventi centimetri di acqua. L’anno nuovo nell’ex Città dei Dogi comincia alla grande con un altro metro e venti misurato la mattina buon’ora. Acqua alta e neve. A Venezia stiamo toccando con mano – o con i piedi bagnati, se preferite – quei “cambiamenti climatici estremi” che a Copenhagen pare non si siano rivelati quel fattore così importante da far capire ai Governi che è ora di cambiar rotta. Tanto per dare un’idea a chi Venezia l’ha vissuta solo in cartolina, un metro e dieci di marea è sufficiente per paralizzare mezza città. Un metro e venti ne paralizza un altro quarto. Se sale ancora, è meglio restare a casa o farsi un giro in barca per le calli.


Che si fa? Il sindaco Cacciari distribuisce ottimismo e tranquillanti. “I veneziani – assicura – sono abituati a convivere con questo problema”. Il che è vero. Come è vero che l’acqua alta a fine dicembre non se la ricorda neppure il nostro Nane “branzinaro”. Il mese dell’acqua alta in laguna è sempre stato novembre. Di rado ottobre. Ancor più di rado i primi di dicembre. Mai la marea era arrivata a sommergere le feste natalizie. E due settimane di continui allagamenti hanno solo un precedente: quell’infausto novembre del ’66 che, con Venezia, ha mandato a mollo mezza Italia. Due settimane di acqua alta e non è ancora finita. I discorsi che si sentono nelle calli, tra gli sciaff sciaff degli stivaloni di chi incede nell’acqua salata, si possono riassumere così: “Acqua alta? E ci credo! Fino a che continuano a scavare le bocche di porto per fare il Mose!” Non è solo l’opinione dell’uomo comune che si trova l’acqua sotto il tavolo di casa. L’ipotesi che scavando i canali per far spazio alle paratie mobili si sarebbero causati più problemi di quelli che si cercava di risolvere, era stata paventata in tante occasioni da scienziati e ambientalisti. Ipotesi che il Consorzio non ha neppure mai preso in considerazione, occupato com’era a spendere la pacca di miliardi che il Governo gli passava per realizzare un’opera che doveva avere una sola peculiarità: essere costosa per giustificare le immani spese. Si fossero attuate le ipotesi alternative mirate a ripristinare l’equilibrio della laguna con interventi economici e non impattanti, ha dimostrato uno studio del Cnr, le maree sarebbero già ridotte di 20 centimetri. Adesso che la città va a fondo e che il Servizio Maree del Comune misura in un aumento dell’8 per cento la velocità della marea entrante a causa degli scavi, il Consorzio risponde che il dato “non è significativo” e rilancia: “Di fronte a questi fenomeni di marea eccezionale, anche gli ambientalisti avranno capito che l’opera è necessaria”. E’ un po’ lo stesso discorso della guerra preventiva che serve a portare la pace. «Dobbiamo tener presente che lo scenario è cambiato velocemente da quando il Mose è stato progettato, più di un quarto di secolo fa – ha spiegato l’ambientalista e candidato sindaco Gianfranco Bettin - l'alta marea eccezionale oramai è diventata quasi ordinaria. Il progetto Mose va rivisto e modificato, finché siamo in tempo, anche alla luce dei dati del medio mare in continuo aumento e dagli studi dell'Ipcc”. Studi che il Consorzio si è semplicemente rifiutato di prendere in considerazione. Eppure, anche nonno Nane, con la sua terza elementare, spiega sempre che la laguna non è più quella di qualche anno fa.

Razzismo Stop

Via Gradenigo è una stradina che costeggia il canale Piovego sino a Porta Portello che dà il nome al quartiere. Un quartiere, un tempo, di barcaroli che trasportavano merci e passeggeri sino alla serenissima capitale. Oggi è un quartiere di studenti a due passi dalla zona universitaria. Traffico, mini appartamenti in affitto a prezzi astronomici e rigorosamente in nero, giri di prostituzione di tutti i tipi, spaccio. E’ anche un quartiere di case occupate e di lotta sociale di antica tradizione. Qui, in via Gradenigo al numero 8, è partita nei primi anni novanta l’esperienza di Razzismo Stop. Erano gli anni in cui il fenomeno delle migrazioni iniziava ad affacciarsi nella realtà italiana e la coglieva assolutamente impreparata. Furono i ragazzi di Razzismo Stop a battersi sin dall’inizio perché i migranti fossero visti come una risorsa e un arricchimento culturale e non lavoratori da sfruttare o pericoli sociali.
In questi anni centinaia di migranti si sono rivolti agli sportelli informativi di via Gradenigo, altri hanno approfittato dell’ospitalità dei locali per organizzare le prime associazioni di migranti. Oggi, chi si bussa alla porta di Razzismo Stop la domenica, ci trova un gruppo religioso senegalese in preghiera. Il sabato, una squadra di cricket composta di migranti dello Sri Lanka (col grosso problema di non trovare avversari con cui misurarsi). Tanti anni di battaglie per Razzismo Stop, con la convinzione che le più dure sono ancora tutte da combattere. Luca Bertolino è un’attivista dell’associazione e si occupa degli sportelli informativi su temi come la scuola, il diritto, la casa e la salute. “Da noi vengono un po’ tutti. Ad esclusione dei cinesi con i quali non siamo mai riusciti a stabilire contatti – racconta- Cosa ci chiedono? I problema principale in questo periodo è quello della casa mentre fino a poco tempo fa era il lavoro. La crisi si fa sentire e sono in molti a non riuscire più a pagare l’affitto o a mantenere il mutuo”. In tal caso, l’associazione interviene con i propri avvocati. Nel caso non ci fossero margini per l’intervento legale e lo sfratto fosse già esecutivo, con la mobilitazione. “Un fenomeno preoccupante che sta crescendo sempre di più – spiega Luca – sono gli episodi di razzismo. Ricordiamo solo le botte della polizia ai due dj neri che hanno avuto come risposta la più grande manifestazione di migranti a Padova nel settembre del 2008. Episodi di razzismo, a nostro parere, sono anche le ordinanze del sindaco Flavio Zanonato che impone chiusure anticipate e divieti ad attività commerciali gestite da stranieri. Ci sono strade, a Padova, in cui due bar, uno di fronte all’altro hanno regole diverse perché uno è di proprietà di un italiano e l’altro di un migrante. Contro queste prevaricazioni abbiamo fatto molti ricorsi al Tar, non di rado vincendoli”. L’ultima iniziativa di Razzismo Stop sono i corsi di informatica. “Vi partecipano in particolare donne dell’est. Quasi tutte sono badanti e vengono da noi nel loro giorno libero. Gli argomenti che gli stanno a cuore sono le mail, le chat, l’utilizzo di Skype… un modo per rimanere in contatto con i loro cari lontani. Ci sono anche gli internet point, è vero. Ma non ti insegnano ad usare il computer ed inoltre ti chiedono i documenti. Cosa che noi ci guardiamo bene da fare! Rispondiamo così, con la disobbedienza civile ad un ‘pacchetto’ di leggi incivili e vigliacche che con la sicurezza non ha nulla a che fare”.

Box.
Melting Pot: tredici anni di controinformazione
Era il 1997 quando il sito www.meltingpot.org è apparso online. A partire da quel momento, ininterrottamente per 13 anni, il Progetto Melting Pot Europa, frutto della collaborazione tra il Comune di Venezia e la Cooperativa Teleradiocity, si è affermato come uno dei principali punti di riferimento italiani in materia di immigrazione e asilo. Grazie alla collaborazione di autorevoli giuristi, ricercatori, docenti, ma anche di attivisti che dalle tante redazioni italiane continuamente lo aggiornano, il sito offre gratuitamente una preziosa opera di controinformazione e approfondimento sui temi della cittadinanza, delle frontiere, del razzismo, oltre che un'importante guida legislativa per tutti i migranti che in Italia affrontano le difficoltà connesse alla burocrazia che riguarda i loro documenti. Da semplice sito informativo, Melting Pot si è evoluto sino a trasformarsi in un progetto integrato di comunicazione sul fenomeno dell’immigrazione, articolato in redazioni locali e collegamenti con le altre realtà europee che operano nel campo dell’accoglienza. Oggi, il Progetto Melting Pot Europa offre un completo archivio legislativo in materia di immigrazione che spazia dalla normativa italiana a quella europea, dalla giurisprudenza agli accordi internazionali. Premiato dall'eContent Award nel 2007 come miglior sito italiano legato ai temi dell'inclusione sociale, il più grande riconoscimento per Melting Pot e per chi lo ha costruito è dato dalle migliaia di visite quotidiane che da quando è nato non ha mai smesso di ricevere.

La classifica degli onesti

Chi sa mai se qualcuno si sarà sorpreso, nel leggera l’hit parade delle truffe ai danni dello Stato diffuse dal ministro Brunetta, di constatare che i napoletani sono più onesti dei veneti? Ma se qualcuno si è meravigliato significa che non conosce il Veneto. Oppure che ha la memoria corta e ha già infilato Tangentopoli nel dimenticatoio. E con essa tutta la politica delle Grandi Opere –dannose per il territorio ma danarose per le tasche di imprenditori senza scrupoli e amministratori poco onesti – che ha massacrato la nostra regione e che ancora detta la dura legge dello sviluppo predatorio. C’è anche una terza possibilità: non conosce Brunetta.

Fatto sta - le cifre, lo ripetiamo, sono tutte del ministero - che delle 20 mila “frodi ai danni dello Stato” consumate negli ultimi 5 anni in tutta Italia, il nostro Veneto è saldamente al secondo posto dietro la Sicilia con 773 truffe, 32 episodi di corruzione, 27 di concussione e 264 di abuso in atti d'ufficio. La Campania è dietro anche alla Lombardia, per quanto riguarda la corruzione, con 111 illeciti accertati contro 105. Val d’Aosta e Molise, profondo nord e profondo sud, sarebbero le regioni più oneste.
In quanto al trend, e questa è la vera ragione della diffusione di questa statistica da parte del ministro, i dati assicurano che si tratta di reati in forte calo: 5 mila e 500 nel 2006, 3 mila e 300 nel 2007, stessa cifra nel 2008, solo 1370 nel primo trimestre del 2009. Il che ha dato al ministro Brunetta la soddisfazione di affermare “Da quando ci sono io...” e di concludere con il consueto lancio di strali sui “fannulloni” in questo caso diventati pure “disonesti”. Che lezione ne traiamo da tutto ciò? Una sola: il ministero non sa cosa sia una statistica neanche per averlo letto su Wikipedia. Punto primo: i dati dovrebbero quantomeno essere rapportati al numero di abitanti di una Regione. Altrimenti è banale constatazione che nella Val d’Aosta si verifichino meno reati che nel più popoloso Lazio. Punto secondo: stiamo parlando di truffe accertate dalla magistratura. Come dire: la punta dell’iceberg. Al massimo queste cifre testimoniano l’efficacia dei controlli da parte degli inquirenti. Ma rimane comunque un dato opinabile, non potendolo rapportare al numero di truffe realmente commesse. Punto terzo la statistica non tiene affatto conto del tipo di illecito. L’automobilista indisciplinato che allunga 50 euro al vigile per non farsi togliere qualche punto dalla patente viene inserito in tabella con lo stesso peso dell’imprenditore che corrompe il funzionario incaricato di valutare l’inquinamento prodotto dalla sua industria. Una differenza non da poco ma che ci dice molto sui criteri con i quali opera il ministro.

La Lega ha sfrattato il prefetto di Venezia

La Lega ha sfrattato il prefetto di Venezia. Dura la replica del sindaco uscente: “Una vendetta politica – ha dichiarato Massimo Cacciari – di una gravità eccezionale”. Durissima la reazione del consigliere regionale dei Verdi, Gianfranco Bettin: “Sono come i fascisti. al posto dei federalismo vogliono i federali”. Il prefetto Michele Lepri di Gallerano era arrivato in laguna la scorsa estate.
Al di là del “burocratese” con il quale il ministro Maroni ha giustificato la rimozione, nessuno ha dubbi che il siluramento del prefetto sia stato un atto politico. O, per meglio dire, una ritorsione politica. La colpa di Michele Lepri è quella di non aver impedito il trasloco della comunità Sinti di via Vallenari nel nuovo villaggio. Durante il braccio di ferro tra la neo presidente lumbard della provincia, Francesca Zaccariotto, e il Comune di Venezia, il prefetto Lepri ha cercato di far da paciere invitando gli enti in questione a rispettare la legge e le loro specifiche competenze. In particolare il Prefetto si è rifiutato di far leva su presunte questioni di “sicurezza” per scatenare rappresaglie contro la comunità Sinti e impedire un trasferimento che l’amministrazione comunale aveva pianificato da tempo. Ricordiamo brevemente che la comunità Sinti che si trovava in via Vallenari su un terreno di loro proprietà, lascito della curia patriarcale, aveva pattuito col Comune il trasloco in un’area vicina e più idonea alla loro permanenza previa la realizzazione di alcune strutture come bagni, rete fognaria e alcune casette da 40 metri quadri studiate appositamente per essere “agganciabili” alla consueta ruolotte. Ruolotte che oramai rimane solo il simbolo di una tradizione millenaria di nomadismo, considerato che da oltre 60 anni la comunità proveniente da Trieste si è trasferita in pianta stabile nell’entroterra veneziano. Una comunità quindi di “italiani” a tutti gli effetti. E una comunità che non ha mai causato problemi a Venezia, considerato che secondo un sondaggio – prima del putiferio leghista – oltre il 90 per cento dei residenti in laguna non sapeva neppure della loro esistenza. Eppure, contro un trasferimento che altro non è che una normale operazione amministrativa per migliorare il decoro della città e il benessere dei suoi abitanti, si è scatenata la xenofobia dei lumbard, con presidi crociati e raccolte di firme. Appena eletta, la presidente della provincia Zaccariotto, da brava federalista, ha cercato in tutti i modi di impedire un trasferimento la cui gestione era di esclusiva competenza del Comune di Venezia facendo pressione sul prefetto e sul ministro Maroni, altro federale federalista. Al prefetto Lepri è stato chiesto di intervenire in nome della “sicurezza”. Il prefetto ha risposto che non ne vedeva gli estremi ed è stato rimosso. Alla Venezia democratica e antirazzista non rimane che domandarsi chi sarà il nuovo prefetto e come questi dovrà comportarsi per compiacere alla Zaccariotto e conservare la carica. “La rimozione del prefetto di Venezia, per motivi biechi di mera vendetta politica- conclude l’ambientalista Gianfranco Bettin - rappresenta un atto nello stile dei regimi autoritari. Come già i fascisti, la nuova casta padana, vorace di poltrone, prepotente e intollerante, vuole dei podestà. Al posto del federalismo vogliono i federali. Troveranno pane per i loro denti”.

Liberate Luca

Vestre Faengsel. Vigerslev allè 1d, 2450 Kbh Svolta. Copenhagen, Danmarkt. Questo, per i prossimi 30 giorni, sarà l’indirizzo, dell’astrofisico veneziano Luca Tornatore. Ed è l’indirizzo di un carcere. La notizia del suo arresto ha lasciato sconcertati i suoi colleghi del dipartimento di Fisica dell’università di Trieste che immediatamente hanno tutti sottoscritto un appello per chiedere la sua immediata liberazione.
“Conosciamo Luca come scienziato di talento, esperto in informatica e in cosmologia, autore di più di venti lavori scientifici riconosciuti dalla comunità accademica, e che coniuga la sua ricerca con l'impegno in materia di cambiamento climatico e di sostenibilità”. Ancora più duro il secondo appello che ha come prima firmataria l’astronoma Margherita Hack seguita da circa un centinaio tra i più noti fisici italiani. “Luca è uno scienziato, uno di quelli che alla passione e alla voglia di cambiare il mondo uniscono, dunque, una riconosciuta competenza. Questi sono gli ingredienti che lo hanno spinto, assieme a centina di attivisti ambientalisti italiani, a recarsi a Copenhagen. Luca è nella capitale danese per pretendere giustizia climatica, per confrontarsi all’interno del Climate Forum, per capire e per intrecciare relazioni con chi (come noi e lui) pensa che l’emergenza ambientale debba essere affrontata a partire da una democratizzazione delle decisioni e non attraverso la delega a chi l’ha provocata o a chi la sta peggiorando (siano essi vecchi o nuovi attori di rilievo del panorama geo-politico)”. Luca Tornatore è stato arrestato la sera del 14 dicembre, nel quartiere di Christiania, appena dopo una conferenza con Naomi Klein e Michael Hardt. A poca distanza, c’era stato uno scontro tra le forze dell’ordine e alcuni "black bloc", in seguito al quale la polizia aveva sfondato la barricata ed era entrata nel quartiere arrestando oltre 200 persone che avevano assistito al dibattito. Dopo alcune ore, tutti sono stati rilasciati, tranne Luca il cui fermo è stato convalidato in arresto. Sembra che un poliziotto lo abbia riconosciuto come uno dei “barricaderos”. Caso ancora più unico, il suo processo è stato fissato per il 12 gennaio e nel frattempo deve rimanere in detenzione preventiva. Michele Valentini, portavoce italiano della rete See you in Copenhagen è rimasto in Danimarca per seguire le fasi del processo e cercare di velocizzare l’iter. “Stiamo facendo pressioni all’ambasciata italiana e al ministero degli esteri danese – spiega – speriamo di convincere il giudice ad anticipare l’udienza, anche grazie agli appelli provenienti dal mondo scientifico internazionale. Luca non ha fatto nulla di ciò di cui è accusato. E’ stato con noi al convegno per tutto il tempo. Il problema vero è che, grazie anche alle sue competenze scientifiche, è stato tra i più attivi a promuovere la discussione all’interno delle assemblee e a denunciare ai giornalisti il pericolo tanto per l’ambiente quanto per la stessa democrazia che comportano i cambiamenti climatici. E’ questa la sua vera colpa”.

A Silea anche il sindaco è sulla barricata

E’ una bella puzza di bruciato, quella che si annusa a Mogliano e a Silea, nella marca trevigiana. Tanto che la gente va alle sempre più numerose ed affollate assemblee contro i progetti degli inceneritore proposti dall’Unindustria con la mascherina bianca sul viso. “Per adesso la portiamo per protesta ma se realizzeranno questo disastroso progetto ci toccherà indossarla per respirare”.
Non è un “ultrà” dell’ambientalismo a parlare, ma il sindaco di Silea, Silvano Piazza. Come tanti amministratori locali, Piazza sta battagliando non solo per difendere la salute dei suoi cittadini ma anche per affermare il diritto dovere di una amministrazione locale a decidere sul futuro della sua terra. “L’inceneritore a noi non serve – spiega- Questo è un progetto che viene da Milano. E il tizio che l’ha proposto era talmente credibile che è finito in galera”. Piazza si riferisce all’imprenditore lombardo Giuseppe Grossi, meglio conosciuto come il “Re Mida delle bonifiche ambientali”, arrestato a fine ottobre dalla Guardia di Finanza per frode fiscale e appropriazione indebita. E con lui è finita in gattabuia, Rosanna Garimboldi, Pdl, assessore della Provincia di Pavian, e moglie del deputato Giancarlo Abelli, già vicecoordinatore nazionale di Forza Italia. Rosanna Garimboldi è accusata di aver ricevuto su un conto cifrato a Montecarlo oltre 600 mila euro dal Grossi. “Ecco la gente che vuole fare gli inceneritori a casa nostra – continua il battagliero sindaco che ha anche promosso una raccolta di firme da portare in Regione – Il problema dei rifiuti non si risolve con l’incenerimento ma con la riduzione delle produzioni di scarto, il riuso, il riciclo… Gli industriali, se fossero un poco più avveduti e interessati al bene comune invece che alle loro tasche, investirebbero nell’ambiente e non nella sua distruzione. E se il Governo la finisse di incentivare comportamenti anti ecologici e premiasse invece le pratiche virtuose sarebbe sempre ora”. Il Comune di Silea è in prima fila nella lotta agli inceneritori e si è dotato di un ufficio legale e tecnico per respingere l’assalto di Unindustria anche sul piano della legalità e della scienza. “Cosa faremo? Qualsiasi cosa pur di non farci avvelenare da questi signori. Non avremo limiti!”

Box.
Scempio nella Bassa Padovana
Se tutto questo vi sembra troppo... Tre cementifici (con l'aumento del rischio che potrebbe derivare dall’uso di Cdr “combustibile derivato dai rifiuti” prospettato per i cementifici ), due discariche, mangimifici, antenne, coogeneratori a biomasse, ecc: questa in breve la grave situazione ambientale della bassa padovana, un'area ritenuta tra le più inquinate del Veneto.
Come non bastasse ora la proposta, avanzata dalla locale amministrazione comunale, di costruire un inceneritore di Rsu ai margini della discarica regionale di Sant’Urbano (Padova). Il comitato "No reflui speciali" ha subito iniziato la mobilitazione coinvolgendo tutti i cittadini nell'opposizione a questo folle progetto e per impedire la costruzione di quest’inceneritore come delle decine d’inceneritori di pollina proposti nello stesso territorio. Molte le domande che i cittadini rivolgono all’amministrazione comunale, alla Provincia di Padova e alla Regione Veneto: nuovi inceneritori di rifiuti sono proprio indispensabili o sono possibili scelte alternative? Quali effetti potrebbero avere le emissioni sulla salute dei residenti nel raggio di decine di chilometri? Potrebbero registrarsi danni alle colture e all’ambiente circostante? Tutto questo finora senza risposte mentre l'ipotesi della costruzione dell'impianto in questo comune, avverte il Comitato, si fa sempre più concreta.
Vedi gli articoli precedenti
Stacks Image 16