In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Vicenza tra basi e inceneritori
12/12/2009TerraIn linea d’aria, Vicenza dista da Copenhagen pressappoco mille e cento chilometri. In linea di principio, tanto, tanto di più. Perlomeno nel modus pensandi dei democratici al governo della città che hanno proposto la costruzione di un inceneritore, indispensabile dicono “per non finire sommersi dai rifiuti come a Napoli”. L’ipotesi di un inceneritore di rifiuti nel capoluogo berico è stata avanzata dal consigliere democratico Luca Balzi che a gennaio la porterà in commissione e proporrà provocatoriamente che l’impianto venga realizzato proprio nell’area est del Dal Molin, dove migliaia di vicentini hanno sottoscritto un appello lanciato dal presidio No Dal Molin per la costruzione di un parco.
“Oggi nelle nostre discariche sotterriamo combustibile – ha sostenuto il consigliere del Pd - e se avete dei dubbi andate a vedere come funziona lo stabilimento di Brescia che ricava energia bruciano i rifiuti!” Balzi si riferisce alle cosiddette “ecoballe”, i grossi blocchi di rifiuti non riciclabili che, dopo varie fasi di trattamento, vengono bruciate per produrre energia verde. O meglio, energia che di verde ha solo il nome. La normativa italiana consente infatti l’utilizzo nelle “eco balle, sia pure per percentuali non superiori al 50 per cento, di vari rifiuti riciclabili come plastiche non clorurate, imballaggi come gli poliaccoppiati plastici, gomme sintetiche e altro, la cui combustione genera diossine. La stessa Unione Europea ha condannato l’Italia con sentenza del 22 dicembre 2008, perché il Cdr – sia pure la qualità migliore - non può essere considerato un nuovo prodotto “pulito” ma comunque un rifiuto e che quindi deve sottostare alle norme di sicurezza per salvaguardare la salute dei residenti. Ricordiamo, è storia recente, che la magistratura ha posto sotto inchiesta uno dei presunti “fiori all’occhiello” di questo genere di impianti, l’inceneritore di Pietrasanta, gestito dalla Veolia Environnement, per presunte manomissioni al software dell'impianto che avrebbero segnalato valori di diossina inferiori rispetto alla realtà. Il discorso sta tutto qua: se le ecoballe sono sufficientemente pulite da fibre contenenti cloro non producono diossina ma non riscaldano a sufficienza per coprire le spese dell’energia prodotta. Se sono ecoballe insufficientemente trattate, producono sì energia, ma pure diossine. Il nocciolo della questione sta tutta nei finanziamenti statali con cui il Governo “premia” – è proprio il caso di usare questo verbo – i comportamenti antiecologici. Ce lo spiega bene Cinzia Bottene, consigliera eletta nelle liste del No Dal Molin: “Questo inceneritore è una proposta arretrata, antieconomica, irrispettosa dell’ambiente e completamente estranea al progresso tecnologico. Aspetto che il Pd porti il progetto in commissione per dare battaglia perché questa è una scelta sbagliata, che non tiene conto delle nuove tecnologie, dei rischi legati alle emissioni, o al fatto che, come ha detto perfino Bertolaso, questi impianti sono addirittura antieconomici. La verità è che nessuno costruirebbe più inceneritori se non ci fossero i finanziamenti statali garantiti dai Cip 6. Un vero e proprio inganno, questo. Quei soldi dovrebbero essere destinati alle fonti rinnovabili. Solo nel nostro Paese il combustibile ricavato dai rifiuti e le fonti rinnovabili vengono messi sullo stesso piano”.
“Oggi nelle nostre discariche sotterriamo combustibile – ha sostenuto il consigliere del Pd - e se avete dei dubbi andate a vedere come funziona lo stabilimento di Brescia che ricava energia bruciano i rifiuti!” Balzi si riferisce alle cosiddette “ecoballe”, i grossi blocchi di rifiuti non riciclabili che, dopo varie fasi di trattamento, vengono bruciate per produrre energia verde. O meglio, energia che di verde ha solo il nome. La normativa italiana consente infatti l’utilizzo nelle “eco balle, sia pure per percentuali non superiori al 50 per cento, di vari rifiuti riciclabili come plastiche non clorurate, imballaggi come gli poliaccoppiati plastici, gomme sintetiche e altro, la cui combustione genera diossine. La stessa Unione Europea ha condannato l’Italia con sentenza del 22 dicembre 2008, perché il Cdr – sia pure la qualità migliore - non può essere considerato un nuovo prodotto “pulito” ma comunque un rifiuto e che quindi deve sottostare alle norme di sicurezza per salvaguardare la salute dei residenti. Ricordiamo, è storia recente, che la magistratura ha posto sotto inchiesta uno dei presunti “fiori all’occhiello” di questo genere di impianti, l’inceneritore di Pietrasanta, gestito dalla Veolia Environnement, per presunte manomissioni al software dell'impianto che avrebbero segnalato valori di diossina inferiori rispetto alla realtà. Il discorso sta tutto qua: se le ecoballe sono sufficientemente pulite da fibre contenenti cloro non producono diossina ma non riscaldano a sufficienza per coprire le spese dell’energia prodotta. Se sono ecoballe insufficientemente trattate, producono sì energia, ma pure diossine. Il nocciolo della questione sta tutta nei finanziamenti statali con cui il Governo “premia” – è proprio il caso di usare questo verbo – i comportamenti antiecologici. Ce lo spiega bene Cinzia Bottene, consigliera eletta nelle liste del No Dal Molin: “Questo inceneritore è una proposta arretrata, antieconomica, irrispettosa dell’ambiente e completamente estranea al progresso tecnologico. Aspetto che il Pd porti il progetto in commissione per dare battaglia perché questa è una scelta sbagliata, che non tiene conto delle nuove tecnologie, dei rischi legati alle emissioni, o al fatto che, come ha detto perfino Bertolaso, questi impianti sono addirittura antieconomici. La verità è che nessuno costruirebbe più inceneritori se non ci fossero i finanziamenti statali garantiti dai Cip 6. Un vero e proprio inganno, questo. Quei soldi dovrebbero essere destinati alle fonti rinnovabili. Solo nel nostro Paese il combustibile ricavato dai rifiuti e le fonti rinnovabili vengono messi sullo stesso piano”.
Arrivederci a Copenaghen
5/12/2009TerraSee you in Copenhagen. Ci vediamo tutti a Copenhagen, consapevoli che il Cop15 sarà solo una tappa di un percorso già avviato ma ancora tutto da decidere. I movimenti italiani arrivano all’appuntamento con una solida preparazione alle spalle. Tanto teorica quanto pratica. “Andiamo a Copenhagen con gli zaini colmi di idee, di proposte e di lotte – spiega Eugenio Pappalardo (Ya Basta) che ha organizzato la presenza della delegazione italiana No Logo Meeting nella capitale danese -. Solo per citare le ultime iniziative, ti ricordo l’occupazione dell’inceneritore di Schio nel vicentino sabato 28 gennaio, l’iniziativa sull’acqua bene comune a Belluno, la manifestazione davanti ai padiglioni di Stati Uniti e Cina alla Biennale di Venezia. Senza contare convegni e incontri tra cui quello nell’isola di San Servolo organizzato dall’Uni.Nomade”.
Gli italiani a Copenhagen saranno circa 250, un centinaio dei quali provenienti del Veneto. La rete No Logo Meeting avrà uno spazio tutto suo all’interno del network internazionale Climate Justice Action. “Copenhagen – conclude Eugenio – sarà soprattutto un trampolino da cui rilanciare tutta una serie di battaglie per il clima da articolare nei territori”. La questione centrale del Cop15 non è tanto rispondere alla domanda “Come sarà la terra tra cento anni?” quanto stabilire quello che c’è da fare sin da subito. “La modificazione del pianeta è in atto già da qualche anno – spiega il verde Beppe Caccia – tutti i giorni dobbiamo fare i conti con miriadi di catastrofi ambientali che hanno pesanti ricadute sociali. Pensiamo all’organizzazione della produzione agroalimentare e del consumo, pensiamo solo al drammatico fenomeno dei profughi ambientali e delle migrazioni per ragioni climatiche. E’ oggi e non tra cent’anni che dobbiamo aprire una nuova fase. Il balletto dei governo maggiormente responsabili di emissioni di Co2 che propongono di dilazionare gli interventi proponendo la scadenza del 2050 è solo un tentativo di dilazionare le loro responsabilità”. Copenhagen sarà essenzialmente una grande vetrina in cui si misurerà il livello di coscienza planetaria. Quello che non sarà, come qualcuno auspica e qualcun’altro paventa, una Seattle 2.0. Allora, la rivolta scoppiò all’interno di un quadro trionfante in cui il neo liberismo dettava la ricetta della globalizzazione, imponendo organismo sovranazionali quali il Wto. Oggi, questo quadro sta attraversando una profonda crisi. “Crisi che ha confermato la correttezza di molte analisi avanzate a suo tempo dal movimento no global – conclude Caccia – I trent’anni ingloriosi del neo liberalismo sono stati messi in crisi dagli effetti della sua stessa economia nonostante qualcuno, busines as usual, reagisca allo sbandamento riproponendo quegli stessi strumenti finanziari virtuali ma con effetti concreti nella vita quotidiana di milioni di persone che avevano prodotto le bolle speculative che hanno originato la crisi. Oggi attraversiamo una stagione segnata dalla fine del mito illusorio dello sviluppo insostenibile ma anche dalla fine dell’illusione che i processi di globalizzazione possano essere guidati da una sola superpotenza: gli Stati Uniti. Qualcuno dovrà pur dirlo che la più grande multinazionale oggigiorno è il partito comunista cinese”.
Gli italiani a Copenhagen saranno circa 250, un centinaio dei quali provenienti del Veneto. La rete No Logo Meeting avrà uno spazio tutto suo all’interno del network internazionale Climate Justice Action. “Copenhagen – conclude Eugenio – sarà soprattutto un trampolino da cui rilanciare tutta una serie di battaglie per il clima da articolare nei territori”. La questione centrale del Cop15 non è tanto rispondere alla domanda “Come sarà la terra tra cento anni?” quanto stabilire quello che c’è da fare sin da subito. “La modificazione del pianeta è in atto già da qualche anno – spiega il verde Beppe Caccia – tutti i giorni dobbiamo fare i conti con miriadi di catastrofi ambientali che hanno pesanti ricadute sociali. Pensiamo all’organizzazione della produzione agroalimentare e del consumo, pensiamo solo al drammatico fenomeno dei profughi ambientali e delle migrazioni per ragioni climatiche. E’ oggi e non tra cent’anni che dobbiamo aprire una nuova fase. Il balletto dei governo maggiormente responsabili di emissioni di Co2 che propongono di dilazionare gli interventi proponendo la scadenza del 2050 è solo un tentativo di dilazionare le loro responsabilità”. Copenhagen sarà essenzialmente una grande vetrina in cui si misurerà il livello di coscienza planetaria. Quello che non sarà, come qualcuno auspica e qualcun’altro paventa, una Seattle 2.0. Allora, la rivolta scoppiò all’interno di un quadro trionfante in cui il neo liberismo dettava la ricetta della globalizzazione, imponendo organismo sovranazionali quali il Wto. Oggi, questo quadro sta attraversando una profonda crisi. “Crisi che ha confermato la correttezza di molte analisi avanzate a suo tempo dal movimento no global – conclude Caccia – I trent’anni ingloriosi del neo liberalismo sono stati messi in crisi dagli effetti della sua stessa economia nonostante qualcuno, busines as usual, reagisca allo sbandamento riproponendo quegli stessi strumenti finanziari virtuali ma con effetti concreti nella vita quotidiana di milioni di persone che avevano prodotto le bolle speculative che hanno originato la crisi. Oggi attraversiamo una stagione segnata dalla fine del mito illusorio dello sviluppo insostenibile ma anche dalla fine dell’illusione che i processi di globalizzazione possano essere guidati da una sola superpotenza: gli Stati Uniti. Qualcuno dovrà pur dirlo che la più grande multinazionale oggigiorno è il partito comunista cinese”.
L'acqua e il federalismo
5/12/2009TerraFederalismo. Chi sarà mai costui? Prendiamo ad esempio l’acqua. La provincia di Venezia decide all’unanimità – da destra a sinistra passando per il centro - che l’acqua della gronda lagunare è e deve restare pubblica. Il Governo impone che l’acqua deve essere privatizzata. E non ha importanza se il servizio in loco funziona, se il servizio è più economico tanto per il pubblico quanto per le tasche del contribuente. Non ha importanza neppure la qualità complessiva del servizio integrato di gestione delle acque e quanto di buono è stato realizzato all’interno di codesto servizio come, tanto per fare un esempio, la campagna per aiutare le popolazioni colpite dalla siccità.
Tutto questo non conta. L’acqua va comunque privatizzata. Ecco. Non è questo, il federalismo. Qui si va in direzione contraria. E con tutta probabilità, il verde Ezio Da Villa, aveva annusato l’aria di tempesta che tirava da Roma quando, nel maggio scorso, in una delle sue ultime azioni come assessore provinciale all’Ambiente aveva convinto il consiglio dell’Aato (autorità d'ambito territoriale ottimale della laguna che comprende 26 Comuni dell’entroterra) ad affidare per i prossimi dieci anni la gestione dell’acqua veneziana a Veritas, una spa a capitale interamente pubblico finanziata dai Comuni dell’entroterra veneziano. Perlomeno per i prossimi dieci anni quindi, a Venezia potremmo continuare a bere in tutta tranquillità l’ottima “acqua del sindaco” e a un prezzo tra i più bassi d’Italia. E proprio il sindaco di Venezia, è notizia di questi giorni, sta valutando l’ipotesi di presentare un ricorso alla corte costituzionale contro la legge del Governo che impone la privatizzazione forzata. Un ricorso, anche questo, da presentare in nome dell’autonomia di un Comune nella gestione di un bene che appartiene alla gente del Comune. Che è anche un altro modo per dire “federalismo”, quello vero. Gli dà mandato a tal proposito, una delibera presentata dal gruppo verdi e approvata a larga maggioranza dal consiglio comunale. Un’altra delibera, anch’essa votata dal consiglio di Venezia, introduce il concetto di acqua come bene comune a gestione pubblica anche nello statuto comunale. Battaglie queste, che gli ambientalisti stanno portando avanti non per difendere acriticamente carrozzoni statali o principi ideologici del genere “pubblico sempre bello, privato sempre cattivo”, ma nel nome di un autentico federalismo. Un federalismo che pone al primo posto l’autonomia delle comunità locali nella scelta della gestione di un bene comune. Perché non spetta al parlamento nazionale e tanto meno al governo centrale aprire forzatamente la porta dell’azionariato privato alla gestione dell’acqua di Venezia né di altre città. Una battaglia, lo avrete intuito, che scava come un badile nelle contraddizioni della Lega.
Tutto questo non conta. L’acqua va comunque privatizzata. Ecco. Non è questo, il federalismo. Qui si va in direzione contraria. E con tutta probabilità, il verde Ezio Da Villa, aveva annusato l’aria di tempesta che tirava da Roma quando, nel maggio scorso, in una delle sue ultime azioni come assessore provinciale all’Ambiente aveva convinto il consiglio dell’Aato (autorità d'ambito territoriale ottimale della laguna che comprende 26 Comuni dell’entroterra) ad affidare per i prossimi dieci anni la gestione dell’acqua veneziana a Veritas, una spa a capitale interamente pubblico finanziata dai Comuni dell’entroterra veneziano. Perlomeno per i prossimi dieci anni quindi, a Venezia potremmo continuare a bere in tutta tranquillità l’ottima “acqua del sindaco” e a un prezzo tra i più bassi d’Italia. E proprio il sindaco di Venezia, è notizia di questi giorni, sta valutando l’ipotesi di presentare un ricorso alla corte costituzionale contro la legge del Governo che impone la privatizzazione forzata. Un ricorso, anche questo, da presentare in nome dell’autonomia di un Comune nella gestione di un bene che appartiene alla gente del Comune. Che è anche un altro modo per dire “federalismo”, quello vero. Gli dà mandato a tal proposito, una delibera presentata dal gruppo verdi e approvata a larga maggioranza dal consiglio comunale. Un’altra delibera, anch’essa votata dal consiglio di Venezia, introduce il concetto di acqua come bene comune a gestione pubblica anche nello statuto comunale. Battaglie queste, che gli ambientalisti stanno portando avanti non per difendere acriticamente carrozzoni statali o principi ideologici del genere “pubblico sempre bello, privato sempre cattivo”, ma nel nome di un autentico federalismo. Un federalismo che pone al primo posto l’autonomia delle comunità locali nella scelta della gestione di un bene comune. Perché non spetta al parlamento nazionale e tanto meno al governo centrale aprire forzatamente la porta dell’azionariato privato alla gestione dell’acqua di Venezia né di altre città. Una battaglia, lo avrete intuito, che scava come un badile nelle contraddizioni della Lega.
C'era una volta un ghiacciaio
5/12/2009TerraC’era una volta un ghiacciaio. Lassù, nel cuore delle Dolomiti. Alle pendici delle vette più alte della Marmolada si stendeva il ghiacciaio più grande. Per arrivarci toccava scarpinare su uno delle vie più famose delle Alpi, la via ferrata della Marmolada, che dal lago Fadaia, un tempo confine tra la Serenissima e il principato di Bressanone, per il versante nord del gruppo ci porta alla Forcella sino ai 3 mila e 342 metri di altezza di Punta Penia. Il viennese Paul Grohmann, il pioniere dell'alpinismo dolomitico, accompagnato dalle storiche guide cortinesi Angelo e Fulgenzio Dimai, fu il primo ad arrampicarsi su questi monti, percorrendo quella che ancora oggi si chiama via "del ghiacciaio". Era il 28 settembre del 1864. Oggi, solo le immagini in bianco e nero scattate nell’epoca dell’alpinismo eroico, possono riportarci indietro di oltre cent’anni e restituirci quei maestosi paesaggi che non vedremo più. Il fronte del grande ghiacciaio della Marmolada arretra sempre più velocemente: 45 metri negli ultimi 15 anni, secondo la mappatura realizzata dal centro sperimentale Valanghe e difesa idrogeologica di Arabba.
Miglior sorte non arride agli altri ghiacciai dolomitici: l’Antelao nello stesso periodo di tempo ha perso di 50 metri. Un grafico, quello delle temperature e dei conseguenti scioglimenti, che registra impennate sempre più verticali. Negli ultimi 5 anni, l’innalzamento delle medie stagionali ha cacciato indietro il ghiacciaio della Fradusta nelle Pale di San Martino di 35 metri, quello del Travignolo di 75 e il maestoso ghiacciaio del Cristallo di ben 90 metri. A voler ridurre il problema ad una statistica, possiamo affermare che i fronti dei ghiacciai dolomitici, dal 1980, registrano un costante arretramento medio di 5 o 6 metri all’anno. Di tanti giganti, le cui “nevi eterne immacolate al sol” erano inneggiate nelle canzoni popolari, resistono ancora soltanto spruzziate di neve nelle zone più protette, negli anfratti posti sotto i ripidi pendii delle cime. Irrimediabilmente estinti i ghiacciai più piccoli come il ghiacciaio delle Mesules e quello di Pisciadù nel settore settentrionale del Gruppo del Sella, il ghiacciaio di Cimo Cadin e di Antemia nella Marmolada, il ghiacciaio di Dentro del Froppa sulle Marmarole e il ghiacciaio del Pelmo. In compenso, la storia ha lasciato sui sentieri montuosi altri ricordi: trincee, caserme, piazzole per l’artiglieria, camminamenti militari, resti di teleferiche... Mute testimonianze delle tragedie che insanguinarono le forcelle durante la Grande Guerra.
Ma non è neppure necessario riavvolgere l’orologio della storia sino alla prima guerra mondiale per ricordare la montagna com’era e come non è più. Non è neppure necessario essere scalatori. Bastano due piedi e la passione di camminare “tra boschi e valli d’or”. Vent’anni fa, per percorrere le vie che salivano oltre i 2 mila e 200 – 2 mila e 400 metri, era indispensabile munirsi di un buon equipaggiamento da neve. Oggi, già a metà giugno, negli alti sentieri delle Dolomiti è scomparsa qualsiasi traccia di neve.
“Quando si parla di cambiamenti climatici, si citano sempre statistiche a lungo termine e discussioni accademiche dove esperti o presunti tali disquisiscono a lungo con ragionamenti che ben difficilmente vengono calati nella vita quotidiana. Chi vive in montagna, o meglio, chi vive la montagna, non ha bisogno di tanti dati per capire che qualcosa è già cambiata per sempre: stagioni o troppo calde o troppo fredde, periodi di inaspettata siccità seguiti da momenti di forti precipitazioni. Stiamo vivendo un rapido susseguirsi di eventi meteorologici estremi. E questo è un dato che nessuno può più negare”. Luigi Casanova è uno che a buon diritto può affermare di “vivere la montagna”; prima boscaiolo, poi guardaboschi nel Comune di Moena, quindi sindacalista, sempre attivista di tante associazioni ambientali e pacifiste. Adesso è vicepresidente di Cipra Italia, acronimo che sta per commissione internazionale per la Protezione delle Alpi. “I mutamenti climatici non sono solo questioni percettive di caldo - freddo o umido- secco che possono essere soggettive o dipendere dal luogo o anche dalla memoria storica di una persona – spiega -. La montagna sta cambiando. Negli anni sessanta la copertura boschiva di larici arrivava ai 1700 metri o al massimo ai 1900. Oggi il rimboschimento nelle Dolomiti sfora i 2 mila e 100 metri. E gli animali? Anche le loro abitudini stanno cambiando. Vent’anni fa per fotografare il re dei boschi, il gallo cedrone, dovevo stare tra i mille e 300 e i mille 600 metri. Oggi, quei pochi esemplari rimasti si spingono oltre i 2 mila metri”.
Ma le grandi vittime del clima impazzito sono i ghiacciai. I grandi vecchi delle Dolomiti sembravano eterni ed invece erano così fragili. Un aumento statistico di pochi gradi in pochi decenni è bastato per cancellarli dalla geografia. Luigi Casanova ne parla come di vecchi amici scomparsi: “Non ci sono più ghiacciai nelle Dolomiti. O sono sciolti o sono talmente ridimensionati che parlarne come di ghiacciai sembra una presa in giro. Il grande Marmolada che neanche tanto tempo fa, ancora negli anni ’70, scendeva a 2 mila 550 metri, oggi lo prendi a 2 mila 750. E ogni stagione si ritira sempre di più”. Siamo riusciti ad ammazzare pure i ghiacciai? “Pare proprio di sì. Anche nella migliore delle ipotesi, sarebbe impossibile ripristinare le condizioni climatiche di un secolo fa. Teniamo anche presente che di fronte a questi mutamenti epocali, la politica è sorda, cieca e muta. Chi governa è incapace di programmare una politica di lungo periodo, pure se la tecnologia per ridurre le emissioni di Co2 già sarebbe disponibile. Viviamo in un mondo che ci sta crollando sotto i piedi, sia in senso fisico che metaforico. Le certezze dei nostri vecchi, la sacralità delle risorse comuni... tutto è stato fagocitato da quel ‘progresso scorsoio’ di cui ha scritto Zanzotto. In questa corsa sfrenata, chi si ferma ad immaginare l’aspetto che il mondo che verrà tra vent’anni? Anche la cultura, anche il pensare è diventato un prodotto di consumo. La pigrizia dei politici e la politica di pigrizia della Confindistra arroccata a difendere un sistema economico insostenibile, ostacolano qualsiasi cambiamento, in un mondo in cambiamento”.
Miglior sorte non arride agli altri ghiacciai dolomitici: l’Antelao nello stesso periodo di tempo ha perso di 50 metri. Un grafico, quello delle temperature e dei conseguenti scioglimenti, che registra impennate sempre più verticali. Negli ultimi 5 anni, l’innalzamento delle medie stagionali ha cacciato indietro il ghiacciaio della Fradusta nelle Pale di San Martino di 35 metri, quello del Travignolo di 75 e il maestoso ghiacciaio del Cristallo di ben 90 metri. A voler ridurre il problema ad una statistica, possiamo affermare che i fronti dei ghiacciai dolomitici, dal 1980, registrano un costante arretramento medio di 5 o 6 metri all’anno. Di tanti giganti, le cui “nevi eterne immacolate al sol” erano inneggiate nelle canzoni popolari, resistono ancora soltanto spruzziate di neve nelle zone più protette, negli anfratti posti sotto i ripidi pendii delle cime. Irrimediabilmente estinti i ghiacciai più piccoli come il ghiacciaio delle Mesules e quello di Pisciadù nel settore settentrionale del Gruppo del Sella, il ghiacciaio di Cimo Cadin e di Antemia nella Marmolada, il ghiacciaio di Dentro del Froppa sulle Marmarole e il ghiacciaio del Pelmo. In compenso, la storia ha lasciato sui sentieri montuosi altri ricordi: trincee, caserme, piazzole per l’artiglieria, camminamenti militari, resti di teleferiche... Mute testimonianze delle tragedie che insanguinarono le forcelle durante la Grande Guerra.
Ma non è neppure necessario riavvolgere l’orologio della storia sino alla prima guerra mondiale per ricordare la montagna com’era e come non è più. Non è neppure necessario essere scalatori. Bastano due piedi e la passione di camminare “tra boschi e valli d’or”. Vent’anni fa, per percorrere le vie che salivano oltre i 2 mila e 200 – 2 mila e 400 metri, era indispensabile munirsi di un buon equipaggiamento da neve. Oggi, già a metà giugno, negli alti sentieri delle Dolomiti è scomparsa qualsiasi traccia di neve.
“Quando si parla di cambiamenti climatici, si citano sempre statistiche a lungo termine e discussioni accademiche dove esperti o presunti tali disquisiscono a lungo con ragionamenti che ben difficilmente vengono calati nella vita quotidiana. Chi vive in montagna, o meglio, chi vive la montagna, non ha bisogno di tanti dati per capire che qualcosa è già cambiata per sempre: stagioni o troppo calde o troppo fredde, periodi di inaspettata siccità seguiti da momenti di forti precipitazioni. Stiamo vivendo un rapido susseguirsi di eventi meteorologici estremi. E questo è un dato che nessuno può più negare”. Luigi Casanova è uno che a buon diritto può affermare di “vivere la montagna”; prima boscaiolo, poi guardaboschi nel Comune di Moena, quindi sindacalista, sempre attivista di tante associazioni ambientali e pacifiste. Adesso è vicepresidente di Cipra Italia, acronimo che sta per commissione internazionale per la Protezione delle Alpi. “I mutamenti climatici non sono solo questioni percettive di caldo - freddo o umido- secco che possono essere soggettive o dipendere dal luogo o anche dalla memoria storica di una persona – spiega -. La montagna sta cambiando. Negli anni sessanta la copertura boschiva di larici arrivava ai 1700 metri o al massimo ai 1900. Oggi il rimboschimento nelle Dolomiti sfora i 2 mila e 100 metri. E gli animali? Anche le loro abitudini stanno cambiando. Vent’anni fa per fotografare il re dei boschi, il gallo cedrone, dovevo stare tra i mille e 300 e i mille 600 metri. Oggi, quei pochi esemplari rimasti si spingono oltre i 2 mila metri”.
Ma le grandi vittime del clima impazzito sono i ghiacciai. I grandi vecchi delle Dolomiti sembravano eterni ed invece erano così fragili. Un aumento statistico di pochi gradi in pochi decenni è bastato per cancellarli dalla geografia. Luigi Casanova ne parla come di vecchi amici scomparsi: “Non ci sono più ghiacciai nelle Dolomiti. O sono sciolti o sono talmente ridimensionati che parlarne come di ghiacciai sembra una presa in giro. Il grande Marmolada che neanche tanto tempo fa, ancora negli anni ’70, scendeva a 2 mila 550 metri, oggi lo prendi a 2 mila 750. E ogni stagione si ritira sempre di più”. Siamo riusciti ad ammazzare pure i ghiacciai? “Pare proprio di sì. Anche nella migliore delle ipotesi, sarebbe impossibile ripristinare le condizioni climatiche di un secolo fa. Teniamo anche presente che di fronte a questi mutamenti epocali, la politica è sorda, cieca e muta. Chi governa è incapace di programmare una politica di lungo periodo, pure se la tecnologia per ridurre le emissioni di Co2 già sarebbe disponibile. Viviamo in un mondo che ci sta crollando sotto i piedi, sia in senso fisico che metaforico. Le certezze dei nostri vecchi, la sacralità delle risorse comuni... tutto è stato fagocitato da quel ‘progresso scorsoio’ di cui ha scritto Zanzotto. In questa corsa sfrenata, chi si ferma ad immaginare l’aspetto che il mondo che verrà tra vent’anni? Anche la cultura, anche il pensare è diventato un prodotto di consumo. La pigrizia dei politici e la politica di pigrizia della Confindistra arroccata a difendere un sistema economico insostenibile, ostacolano qualsiasi cambiamento, in un mondo in cambiamento”.
Google map della solidarietà
20/11/2009TerraC’è una mappa diversa dalle altre, su Google Earth. La mappa di una “Città senza paura”. Una mappa per dire che gli uomini sono tutti uguali, che i diritti sono diritti di tutti e che non c’è sicurezza se la sicurezza non è di tutti. è la mappa di “Venezia libera”. E come tutte le mappe che si rispettino, anche questa invita a mettersi in cammino. Il primo passo sarà fatto questa sera a partire dalle ore 18:30 all’ex Plip di Mestre, via San Donà 195.
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
Tregua per i Paesi Baschi
14/11/2009TerraUna tregua immediata e una proposta in sette punti per cominciare a costruire un processo partecipato di pace nei Paesi Baschi. Alle 12,30 precise, in contemporanea con quanto avveniva nel capoluogo basco Vitoria-Gasteiz, nella sala dibattiti della biblioteca Marciana, Jone Goirizelaia, avvocata e portavoce della sinistra indipendentista basca – il braccio politico di Herri Batasuna – ha letto il comunicato con cui si invita il governo spagnolo a stabilire una tregua e a dare avvio ad un dialogo per trovare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina l’intero paese sin dalla morte di Francisco Franco.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
Promesse di futuro. Intervista con Edoardo Salzano
15/10/2009TerraPromesse per il futuro. Ecco una perfetta sintesi di quanto vedremo oggi e domani a Forte Marghera. Incontri, film, documentari, spettacoli e assemblee. Tanti temi per un solo scopo: inventare tutti insieme un modo diverso di immaginare il nostro futuro.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Il Veneto che vogliamo
15/10/2009TerraForte Marghera ha la forma di una stella e una storia antica alle spalle. Il più antico e il più grande dei forti storici che circondano Mestre e che un tempo costituivano l’anello difensivo della città lagunare, sul finire degli anni ’90 è stato restituito alla società civile come palcoscenico per una miriade di attività che spaziano dalla scuola di fumetto al mercatino biologico. Ma oggi e domani, negli ampi spazi verdi di Forte Marghera – quasi 50 ettari tra spazi verdi, canali navigabili, piste ciclabili e strutture coperte – andrà in scena il futuro. Per meglio dire, il futuro che vogliamo.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Un normale film dal cuore zapatista. Intervista con Hermann Bellinghausen
28/09/2009Carta
Corazon del Tiempo, il film distribuito in Italia dall’associazione Ya Basta! e di cui Hermann Bellinghausen, giornalista de La Jornada, ha scritto la sceneggiatura, è sostanzialmente una storia d’amore. In un villaggio zapatista della selva Lacandona, la giovane Sonia è dibattuta tra l’affetto per Miguel cui è promessa sposa sin dalla nascita, e l’amore per Julio, tenente dell’Ezln. I turbamenti di Sonia coinvolgono l’intera comunità, in particolare la nonna, che appartiene alla generazione che si è ribellata allo sfruttamento, e la giovane sorella della ragazza, nata e cresciuta all’interno della rebeldia. Tre donne che, come recita una delle canzoni che costituiscono la splendida colonna sonora scritta da Descemar Bueno Kelsis Ochoa, “sono una donna sola”: il cuore del tempo. Sonia si muove in una selva quasi incantata- La natura stessa è un personaggio non secondario della narrazione. I fiumi, le montagne, gli animali, il raccolto sono parte stessa di una terra di indigeni liberi che hanno capito che la miseria e lo sfruttamento non sono imposizioni del cielo ma condizioni dettate dalla storia e che nella storia possono essere ribaltate. Ed è proprio la storia il secondo grande protagonista del film. Una storia vista da dentro l’occhio del ciclone: il cielo è attraversato da elicotteri militari, la terra calpestata da colonne militari che arrivano sino alle porte del villaggio e sono respinte dalle donne costrette a fare barriera col proprio corpo. “E questa è l’unica scena reale del film - spiega Bellinghausen -. Stavamo lavorando con la troupe nel villaggio e abbiamo dovuto interrompere le riprese per l’arrivo dei militari. Abbiamo filmato tutto e poi abbiamo deciso di inserire la scena come stava. In fondo, anche questo fa parte della normalità in un villaggio zapatista”.
Corazon del Tiempo diretto dal regista messicano Alberto Cortes è il primo film prodotto dagli zapatisti, precisamente dal Caracol . L’associazione Ya Basta! che, tra l’altro, compare nella pellicola con un largo striscione appeso dietro il palco nel momento in cui la comunità di Sonia festeggia l’arrivo degli internazionali, lo ha proiettato in anteprima nazionale a Venezia, venerdì 25 settembre, e quindi a Vicenza, Firenze, Milano, Napoli e Roma.
Allo sceneggiatore Hermann Bellinghausen chiediamo come è nata l’idea di ambientare una storia d’amore nella selva Lacandona.
“La storia è ovviamente un pretesto per parlare dello zapatismo. Ma uno zapatismo diverso da quello del passamontagna o della guerra, quando il segreto e la clandestinità erano indispensabili. Come ti ho già detto, questo film sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa. Anche per una questione economica. Un film costa e nessuno aveva soldi da metterci. Io ho scritto la sceneggiatura iniziale, che era l’unica cosa gratis, alla fine degli anni novanta quasi per gioco. Poi sono successe molte cose: il cambio di governo in Messico, la marcia del Colore della terra… poi le giunte di Buon Governo hanno, per così dire, superato il passamontagna, aprendosi alla società civile e dimostrando di essere autorità civili a pieno titolo. L’idea iniziale di Alberto di fare un film dentro lo zapatismo che pareva irrealizzabile cominciò a prendere forma. Alle popolazioni indigene, come a tutti noi, il cinema piace molto. Mi ricordo che Alberto portava i film di Charlie Chaplin nei caracol ed era sempre una festa. Alla fine, la giunta di Buon Governo Hacia La Esperancia ha deciso di produrre il film. Nel 2006 abbiamo cominciato finalmente le riprese. L’8 agosto, anniversario della fondazione della giunta di La Realidad, lo abbiamo proiettato nella piazza centrale. Inutile dire che non mancava nessuno!”
Cosa intendi dicendo che gli zapatisti sono i produttori?
“Che hanno fatto tutto quello che normalmente fa un produttore: mettere i soldi e, si spera, incassare i profitti. Nel nostro caso, essendo gli zapatisti una comunità e non una società d’affari, hanno fatto anche molto di più, partecipando attivamente ai lavori. Il set per esempio. Tutte le capanne che vedi nel film sono state realizzate materialmente, intendo con chiodi e martello, dagli stessi produttori. E’ gente dalle mille risorse che sa ancora entusiasmarsi per un progetto. Hanno fatto da carpentieri, trovarobe, artisti, comparse e produttori allo stesso tempo”.
Come sta andando il film?
“Ti confesso che, dopo le prevedibili difficoltà iniziali, la pellicola sta andando oltre le nostre previsioni. Abbiamo fatto incetta di premi in numerosi festival internazionali ma il nostro obiettivo non era solo quello di sfondare nei circuiti d’elite ma entrare nei canali commerciali. Proprio come, uso ancora questa parola, un normalissimo film. Dopo una esitazione iniziale, imputabile credo a motivazioni più economiche che politiche, i distributori messicani si sono accorti che anche noi potevamo riempire il botteghino: a Città del Messico siamo già alla terza settimana continua di proiezione nelle sale e stiamo tenendo bene anche nelle altre città. Certo non è il pubblico di Harry Potter, ma è comunque una bella soddisfazione per noi”.
E’ un film realizzato con attori non professionisti?
“Sì. Gli attori sono tutti indigeni che, per così dire, interpretano la parte di loro stessi, pur recitando un copione scritto. L’ambientazione, ti ho spiegato, è assolutamente realistica. Non è un film di propaganda. E’ un film che vuole raccontare una storia in un contesto particolare come lo è la ribellione indigena del Chiapas. Ma una storia ricca di dubbi e di contraddizioni come è ricca di dubbi e di contraddizioni la stessa esperienza zapatista. Per questo, scegliere attori del luogo era indispensabile. La troupe invece è una normale - scusa se ripeto sempre questo aggettivo ma ci tengo a ribattere che lo zapatismo deve diventare quotidianità – troupe di professionisti che si è dovuta trasferire nella selva Lacandona per oltre sei settimane. Quasi tutta gente di città che aveva visto la selva solo nei documentari: ti lascio immaginare le situazioni non di rado molto comiche che ne sono sorte”.
A questo punto non resta che raccomandare a tutti di non perdersi questo primo film che racconta una delicata storia d’amore in un “normalissimo” paese dove non esistono sfruttati e sfruttatori, dove la parola democrazia ha un significato compiuto e i beni comuni sono davvero comuni.
“Bravo. Vedo che hai capito il concetto di normalità! Adesso si tratta solo di esportarlo in tutto il resto del mondo! Intanto, se qualche associazione o qualche circolo è interessata a proiettare Corazon del Tiempo, basta che si metta in contatto con gli amici di Ya Basta!”
Corazon del tiempo
27/09/2009Terra
“Eppure Corazon del Tiempo non è un film di propaganda – ha spiegato Hermann Bellinghausen, in occasione dell’anteprima nazionale al Sale Docks di Venezia, venerdì 25 settembre – e non è neppure uno dei tanti documentari sullo zapatismo. Corazon del Tiempo è un film vero. Una fiction con attori che recitano un copione e che interpretano personaggi di fantasia, pur se il contesto è quello della quotidianità della lotta indigena volta a costruire autonomia e a difendere le terre recuperate e la biodiversità della selva”.
Il film che è già alla terza settimana di programmazione nelle sale di Città del Messico – “Un successo che certo non ci aspettavamo! In Messico stiamo sfiorando gli spettatori di Harry Potter!” confessa Hermann - è stato girato da una troupe di professionisti che per sei settimane si è trasferita nella selva Lacandona per lavorare con la giunta del Buon Governo Hacia La Esperanza. Non professionisti sono invece tutti gli attori. “Non potevamo fare a meno di utilizzare indigeni – conclude Hermann – Il film è loro ed è giusto che fossero loro a recitare. E, da quanto ne so, questo è il primo film in cui gli indigeni recitano da indigeni con piena coscienza. Il film non è un docudramma in cui una famiglia rappresenta la sua vita quotidiana. L’accordo iniziale infatti era che gli attori dovevano interpretare i vari personaggi all’interno di una sceneggiatura stabilita ma rimanendo sempre se stessi. Nessuno doveva fingere di essere zapatista a tutti i costi, piuttosto dovevano rappresentare lo zapatismo in forma collettiva”.
Dopo l’anteprima al Sale Docks, Corazon del Tiempo è stato proiettato a Vicenza, Milano e Firenze. Mercoledì 30 sarà a Napoli, e giovedì 1 ottobre a Roma. Agli incontri saranno presenti lo sceneggiatore Hermann Bellinghausen e Vilma Mazza, portavoce dell’associazione Ya Basta. Sempre a Ya Basta, può rivolgersi chi è interessato ad organizzare altre proiezioni. Tutti gli indirizzi sul sito www.yabasta.it.