In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Google map della solidarietà
20/11/2009TerraC’è una mappa diversa dalle altre, su Google Earth. La mappa di una “Città senza paura”. Una mappa per dire che gli uomini sono tutti uguali, che i diritti sono diritti di tutti e che non c’è sicurezza se la sicurezza non è di tutti. è la mappa di “Venezia libera”. E come tutte le mappe che si rispettino, anche questa invita a mettersi in cammino. Il primo passo sarà fatto questa sera a partire dalle ore 18:30 all’ex Plip di Mestre, via San Donà 195.
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
L’intera rete associativa veneziana si riunirà sotto lo stesso tetto per condividere quanto fatto finora e quanto fare in futuro. L’elenco delle associazioni che hanno aderito è lungo e spazia da Emergency a Razzismo Stop, da Pax Christi ai Cobas e al cso Rivolta.
Senza dimenticare la Rete Tuttiidirittiumanipertutti e Venezia Respinge il Razzismo che possiamo considerare le promotrici dell’assemblea. Ci spiega Francesco Penzo, presidente dell’associazione Villaggio e tra gli organizzatori della “Mappa di Venezia libera”: «Siamo di fronte a un tentativo di imporre un’attenzione alla sicurezza basata sulla paura del diverso e sulla difesa identitaria. Una prospettiva questa che dobbiamo capovolgere per ribadire che la sicurezza è un diritto di tutti e si ottiene solo se Venezia è di tutti». La strada per una nuova convivenza passa anche attraverso le nuove tecnologie. Nel mondo globalizzato, un vero e proprio “bene comune” tanto quanto acqua, terra e aria.
La Mappa di Venezia libera è già consultabile in Google maps e in Google Earth, senza contare gli oramai inevitabili blog - http://venetoliberodalrazzismo. wordpress.com/ - e gruppi su facebook. «La mappa - continua Penzo - è una tappa di un percorso nato da una giusta indignazione. Il 13 settembre scorso, durante la parata della Lega a Venezia, un gruppo di sette camicie verdi ha malmenato e mandato in ospedale due camerieri, uno di origine albanese e uno di origine algerina, che lavoravano in un ristorante. Una vigliaccata che ha ottenuto perlomeno l’effetto di mobilitare la società civile veneziana.
Abbiamo sentito un gran bisogno di reagire a quanti voglio utilizzare la nostra regione e la nostra città come palcoscenico di una cultura razzista istituzionalizzata». La Mappa intende dare visibilità a quanti lavorano per l’accoglienza e a diffondere pratiche di disobbedienza e resistenza civile. In questa prospettiva, un passo che la rete associativa dovrà compiere sarà quello di maturare competenza e professionalità. Tramontati i tempi della beneficenza, l’obiettivo è quello di sostenere uno Stato dei diritti di tutti, anche quando ciò significa disobbedire alle leggi di questo Stato. «Cosa rischia un medico che non denuncia un clandestino? O come deve comportarsi un insegnante che non vuole chiedere il permesso di soggiorno ai suoi allievi? Dove può recarsi una persona senza passaporto per ottenere una difesa legale - si chiede Penzo -. Sono questi i problemi cui la Mappa vuole dare una risposta per contrastare leggi incivili in cui non ci riconosciamo e costruire una Venezia libera, aperta e solidale».
Tregua per i Paesi Baschi
14/11/2009TerraUna tregua immediata e una proposta in sette punti per cominciare a costruire un processo partecipato di pace nei Paesi Baschi. Alle 12,30 precise, in contemporanea con quanto avveniva nel capoluogo basco Vitoria-Gasteiz, nella sala dibattiti della biblioteca Marciana, Jone Goirizelaia, avvocata e portavoce della sinistra indipendentista basca – il braccio politico di Herri Batasuna – ha letto il comunicato con cui si invita il governo spagnolo a stabilire una tregua e a dare avvio ad un dialogo per trovare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina l’intero paese sin dalla morte di Francisco Franco.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
La cornice di Venezia non è un casuale. Nella sala dei dibattiti dell’antica Serenissima in cui il doge riceveva e discuteva con gli ambasciatori stranieri, era in corso un convegno sul tema “Processi di pace e risoluzione dei conflitti” alla presenza dei rappresentanti di popoli ancora in lotta per l’autodeterminazione come i curdi e i palestinesi, e di popoli in cui la pace è già un percorso avviato come gli irlandesi ed i sudafricani. Jone Goirizelaia, fondatrice di Ahotsak – associazione di donne per la pace nei Paesi Baschi - e già membro del parlamento basco dove ha coperto la carica di portavoce della commissione Diritti Umani, ha letto un lungo documento che parte da una critica dell’indipendentismo basco per arrivare alla necessità definita “inevitabile”, di trovare una risposta al conflitto in corso. “Partiamo dalla constatazione che la nostra gente sia stanca di vivere in una situazione di guerra permanente – ha dichiarato – e che l’avvio di un processo di pace a questo punto sia, per noi indipendentisti, un obbligo. Purché questa pace non sia solo pacificazione o assenza di violenza ma pace nei diritti, nel rispetto e riconoscimento reciproco, nella giustizia e nelle pari opportunità”. I sette punti che la Sinistra Indipendentista Basca propone al governo madrilegno partono dal presupposto che si deve costruire un quadro democratico e partecipato dentro il quale avviare i negoziati. Per far questo, ogni parte in causa deve riconoscere i diritti e le ragioni dell’altra, e sospendere sin da subito qualsiasi ricorso alla violenza. Nel documento, gli indipendentisti richiamano il principio della volontà popolare che dovrà legittimare le soluzioni determinate dalla stipula degli accordi. Democrazia, non violenza, rispetto di tutte le leggi nazionali, cumunitarie e internazionali che tutelano i diritti dell’uomo, partecipazione popolare e reciproco riconoscimento sono i principi cui fare riferimento perché finalmente si possa parlare di pace anche nel Paese Basco. “Un processo che si può costruire solo se entrambe la parti rinunciano all’uso della violenza – ha concluso Jone Goirizelaia -. Noi siamo pronti a deporre le armi e a discutere. Al governo spagnolo chiediamo altrettanto, che ponga inoltre fine alla militarizzazione del nostro Paese, permetta agli esuli di rientrare in patria e liberi i nostri compagni imprigionati. Da Venezia, chiediamo alla comunità internazionale di fare da testimone a questo processo di pace e di far pressione sul governo spagnolo perché accetti di discutere con coloro che oggi considera alla stregua di terroristi”.
Promesse di futuro. Intervista con Edoardo Salzano
15/10/2009TerraPromesse per il futuro. Ecco una perfetta sintesi di quanto vedremo oggi e domani a Forte Marghera. Incontri, film, documentari, spettacoli e assemblee. Tanti temi per un solo scopo: inventare tutti insieme un modo diverso di immaginare il nostro futuro.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Edoardo Salzano, urbanista e curatore del sito www.eddyburg.it, è tra i promotori del comitato contro il Ptrc, il piano territoriale regionale di coordinamento, e una delle anime di questa “due giorni” per il “Veneto che vogliamo”.
Edoardo, che sta succedendo a Forte Marghera? Invece di stare a casa e guardare la televisione, la gente spende i pomeriggi a parlare di futuro?
Proprio così. Per come la vedo io, la cosa fondamentale è proprio questa: finalmente un tema come l’aspetto futuro del nostro territorio non è delegato ai cosiddetti tecnici e tanto meno neppure ai tecnici al servizio di quelli che comandano. Sono gli abitanti, i cittadini stessi, che cominciano a discutere e a prendere coscienza su un tema che riguarda l’intera la società civile. Il secondo aspetto positivo è che comincia a circolare largamente una informazione non asservita al potere. Oggi nei mass media non si occupa nessuno di problemi come l’aspetto della città o del territorio. Sono temi considerati a torto marginali ed invece sono decisivi nella vita degli abitanti di oggi e di domani. Considero fondamentale che comincino a girare anche le idee di quelli che la pensano diversamente rispetto al pensiero dominante. La vedo come una promessa per il futuro.
Parli della rottura del muro di omertà che, perlomeno nei media locali, nascondono le iniziative e le proposte dell’associazionismo e dei movimenti. Ma di questa rottura il merito non va alla stampa italiana?
No, per carità! I media ci hanno ignorato completamente. Pensa che qualche giorno fa abbiamo tenuto una conferenza stampa per raccontare come alcuni di noi siano stati incriminati semplicemente perché hanno raccolto in piazza le adesioni alle osservazioni da portare in Regione in merito al Ptrc. Dicono che abbiamo contravvenuto ad una legge di pubblica sicurezza che da anni non veniva più applicata e che bisognava informare la questura a non solo i vigili e il Comune che per organizzare un banchetto di raccolta firme. Nessun giornale locale ha accennato alla vicenda. Per questo dico che è importante che le informazioni, nonostante tutto, girino su canali alternativi ai media per così dire tradizionali o schierati. Lo abbiamo constatato di persona vedendo le grandi affluenze che ci sono state alle nostre serate informative sul Ptrc.
Torniamo a Forte Marghera. Che ne sarà di tutto questo “immaginare il futuro” domani?
Questa “Due giorni” è un punto di partenza e non di arrivo. Domani dovremo lavorare per proiettare nel futuro quanto oggi diremo e abbiamo detto. Stiamo avviando una fase costituente. Nessuno ha ricette pronte. Le oltre 140 associazioni che hanno aderito all’iniziativa hanno un lungo percorso da costruire e da seguire con tanta saggezza, perché quando ci si mette insieme ognuno deve saper rinunciare a qualcosa. Autonomia e collaborazione.
Questo mi porta a chiederti quale rapporto dovranno tenere le associazioni con i partiti.
Ci sono due aspetti da considerare. Da un lato la giusta e comprensibile preoccupazione dei comitati di essere strumentalizzati, ma dall’altro lato c’e anche il rischio dell’intolleranza senza costrutto. Vedi, sui partiti ognuno ha il giudizio che ha. Se ne può parlare bene, male e anche così così. L’importante è che tutti coloro che hanno la seria intenzione di lavorare in una certa direzione imparino a lavorare insieme. Collaboriamo, quindi, stando attenti però a respingere qualsiasi tentativo di infiltrazione a scopo meramente elettorale.
Questo per i comitati. Ma i partiti lo capiranno?
Se vogliono capire capiranno, ma se non vogliono capire… peggio per loro. Saranno sostituiti da qualche cos’altro. Gli elettori riempiono sempre i vuoti. Quando il popolo non si sente rappresentato trova sempre il nodo di farsi rappresentare per altre strade.
Magari per una di quelle strade che passa per Forte Marghera.
Il Veneto che vogliamo
15/10/2009TerraForte Marghera ha la forma di una stella e una storia antica alle spalle. Il più antico e il più grande dei forti storici che circondano Mestre e che un tempo costituivano l’anello difensivo della città lagunare, sul finire degli anni ’90 è stato restituito alla società civile come palcoscenico per una miriade di attività che spaziano dalla scuola di fumetto al mercatino biologico. Ma oggi e domani, negli ampi spazi verdi di Forte Marghera – quasi 50 ettari tra spazi verdi, canali navigabili, piste ciclabili e strutture coperte – andrà in scena il futuro. Per meglio dire, il futuro che vogliamo.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Comitati, associazioni, gruppi spontanei di cittadinanza attiva si sono dati appuntamento per una “due giorni” di incontri, feste, spettacoli, proiezioni. Un incontro nato sotto l’insegna dell’auto organizzazione e della democrazia partecipativa dal basso per interrogarsi sul futuro del nostro disastrato territorio e sullo “spaesamento” che l'attraversa.
Distruzione delle risorse naturali, intolleranza sociale, scadimento della qualità della vita sono evidenti sintomi di una crisi profonda ma, allo stesso tempo, sono anche efficaci stimoli ad individuare nuovi percorsi di comprensione dell’attuale realtà per un cambiamento di rotta ed avviare un profondo processo di trasformazione della società.
Promotore della “due giorni” è stato il combattivo comitato contro il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) proposto dalla giunta regionale di centrodestra che governa il Veneto. In circa sei mesi di lavoro, il comitato contro il Ptrc ha raccolto ed elaborato con l’aiuto di docenti universitari ed esperti nei temi dell’ambiente e della sua tutela, oltre 14mila osservazioni avanzate dai vari gruppi di cittadinanza attiva sparpagliati nella regione. Una vera e propria pratica di democrazia dal basso che ha avuto ricadute politiche non indifferenti riuscendo a far traballare il piano territoriale che, nelle intenzioni del governatore veneto Galan, dovrebbe segnare la rotta dello “sviluppo economico del Terzo Veneto”. Piano la cui approvazione, grazie anche a questa possente mole di dettagliate osservazioni sarà presumibilmente rinviato alla prossima legislatura. Bisogna comunque sottolineare che per la prima volta nel Veneto, migliaia di cittadini si sono trovati per discutere varie ipotesi di sviluppo economico ed urbanistico, esprimendo la loro opinione e elaborando idee e progetti alternativi.
La “due giorni” di Forte Marghera intitolate “Il Veneto che vogliamo” comincia oggi – venerdì – alle 15,30 con una serie di gruppi di lavoro autogestiti: “Abitare il territorio, vivere nell’ambiente”, coordina Sergio Lironi; “Chi decide sul territorio?” con Carlo Costantini; “Buone economie da mettere in comune” coordina Marisa Furlan; “Il Veneto deragliato. Crisi della mobilità e condizione dei pendolari” con Nicola Atalmi. Il momento più attesa della “Due giorni”, sarà questa sera alle 20 con l’incontro “Il Veneto che amiamo”: un confronto a più voci tra i maggiori scrittori del Veneto. Protagonisti: Massimo Carlotto, Gianfranco Bettin, Lello Voce, Roberto Ferrucci, Fulvio Ervas.
Sabato, alle 14,30, aprirà i lavori il comitato contro il Ptrc con l’assemblea della rete per la difesa del territorio. Interventi di Edoardo Salzano, Francesco Vallerani, Alberto Asor Rosa, Domenico Finiguerra, Sandro Mortarino. Nella mattinata, sono previsti altri gruppi di lavoro: “Saperi, lavori e modelli economici”, “Acqua bene comune”, “Convivenze e paure” e “Il parco della laguna di Venezia” una istituzione, spiega Giannandrea Mencini coordinatore dell’incontro, che “Venezia attende da anni ma che è fortemente ostacolate dalla Giunta Regionale che preferisce dare ascolto a una esigua minoranze di irriducibili cacciatori piuttosto che all’intera città”.
Chiusura della “due giorni” alle 20,30 con un vero e proprio “Gran Galà”. Così infatti si chiama lo spettacolo allestito da Massimo Carlotto su musiche di Maurizio Camardi e Mauro Palmas.
Incontro con gli scrittori
E’ tutta una questione di mestiere. Gli scrittori, ci spiega Amos Oz, che per mestiere appunto, si inventano in ogni libro storie e personaggi, possiedono l’innata capacità di immedesimarsi nelle teste degli altri e immaginare altri e possibili futuri. Ecco perché ieri sera a Forte Marghera, sul palcoscenico del “Veneto che vogliamo”, sono saliti proprio gli scrittori del Veneto col compito di tracciare i contorni di un Veneto auspicabile e futuribile. Un Veneto alternativo a quello dipinto dalla maggioranza dei media in cui la xenofobia fa da contraltare sociale a quel “progresso scorsoio”, per dirla con Andrea Zanzotto, che ha devastato anime e ambienti. La serata che nel tema ha ripreso il titolo del libro “Il Veneto che amiamo” edizioni Dell’Asino, curato, tra gli altri, anche da Gianfranco Bettin, ha concluso la prima giornata del festival promosso dai comitati autogestiti del Veneto: una “due giorni” di incontri, dibattiti, proiezioni, spettacoli, gruppi di lavoro e assemblee per immaginare un Veneto radicalmente diverso da quello imposto del pensiero dominante.
Un pensiero che, a quanto ha affermato Roberto Ferrucci, oggi sembra averla vinta su tutti fronti “Raggiungere gli altri con la forza del ragionamento sembra sempre più difficile. La gente non ha più un metro interpretativo per formulare giudizi su quanto accade. Le opinioni le fa la tivu. Io abito e Venezia, e ogni anno la Lega fa la sua manifestazione proprio davanti a casa mia. E ogni anno io mi faccio del male girando in mezzo a quella folla incarognita. Eppure sono questi messaggi di schifo e di squallore che oggi si radicano”. Il ruolo dell’intellettuale ieri era quello di indicare una possibile via da seguire. Oggi, spiega Ferrucci, poeti come Andrea Zanzotto “vengono ridicolizzati pubblicamente da politici analfabeti che si vantano della loro ignoranza e che vedono nella cultura un nemico da combattere”. Il che mi ricorda un famoso Ventennio di “Me ne frego”. “E’ ancora peggio. Col fascismo la dittatura era visibile. Oggi invece è tutto subdolo”. Non ci resta che piangere? “E’ vero che c’è poco da stare allegri – commenta Fulvio Ervas – Tra “Veneto alla lega” (così titolavano i giornali locali ieri riferendosi alle prossime elezioni regionali.ndr) e grandi progetti devastanti come Veneto City aspettiamoci una forte accelerazione nella direzione dello sviluppo insostenibile”. Ervas si augura che, assieme alle politiche cementificatrici, accelerino anche quelle realtà legate all’altroconsumo e alla decrescita. “E cresceranno anche le proteste contro queste ultime gocce di cemento. I movimenti non si possono soffocare tanto facilmente e ne nasceranno scintille. Saranno le reti come quella che si sta formando a Marghera e i cambiamenti personali in direzione di un consumo critico che supereranno una politica asservita alle ragioni del cemento e che ha come unica religione la velocità”. Per Fulvio Ervas, la velocità è una malattia sociale. “Non sappiamo dove stiamo andando ma vogliamo andarci velocemente. E in un organismo, le cellule più veloci sono quelle tumorali”.
Si corre, si corre sino al primo muro, scherza Lello Voce. “Sono arrivato in Veneto trent’anni fa come un albanese arriva oggi in Italia. Sognavo il mondo di Meneghello e negli occhi avevo le vedute di Antonello da Messina. Ci ho trovato una spianata di supermercati, per citare sempre Zanzotto, e sui muri la scritta ’Forza Vesuvio’. E’ stata dura”. Il vuoto del paesaggio è stato riempito dalla xenofobia razzista. “Eppure è la sinistra a farli forti. Ci siamo fatti scippare di temi che sono nostri. Pensiamo al dialetto. Perché deve essere la destra a difenderlo? E’ sempre stata una tradizionale battaglia della sinistra”. Il Veneto che vogliamo e quello che non vogliamo. “Io ho sempre raccontato il Veneto che non voglio – spiega Massimo Carlotto – Adesso forse è venuto il momento di raccontare il Veneto che dobbiamo costruire. Un Veneto pulito, sia nella morale che nell’ambiente. La scrittura deve aiutare a recuperare un senso di partecipazione. Dare voce a chi non ce l’ha, andare in controtendenza rispetto alla cultura, terrificante, che vince oggi per far emergere l’altro Veneto”. “Un Veneto che stride crudamente con il Veneto oggi prevalente – conclude Gianfranco Bettin – Tanto più che la nostra regione non è così perché è stata colonizzata da invasori e da potenze straniere. Quello che abbiamo davanti agli occhi è la degenerazione di un modello, il frutto di pulsioni e visioni prettamente indigene. Comprendere queste voci, trasformarle in energie culturali e politiche, dando spessore e profondità alle nostre ragioni, sono passi fondamentali per vincere questa battaglia per un futuro diverso. Battaglia che è tutt’ora in corso e niente affatto perduta”.
Un normale film dal cuore zapatista. Intervista con Hermann Bellinghausen
28/09/2009Carta
Corazon del Tiempo, il film distribuito in Italia dall’associazione Ya Basta! e di cui Hermann Bellinghausen, giornalista de La Jornada, ha scritto la sceneggiatura, è sostanzialmente una storia d’amore. In un villaggio zapatista della selva Lacandona, la giovane Sonia è dibattuta tra l’affetto per Miguel cui è promessa sposa sin dalla nascita, e l’amore per Julio, tenente dell’Ezln. I turbamenti di Sonia coinvolgono l’intera comunità, in particolare la nonna, che appartiene alla generazione che si è ribellata allo sfruttamento, e la giovane sorella della ragazza, nata e cresciuta all’interno della rebeldia. Tre donne che, come recita una delle canzoni che costituiscono la splendida colonna sonora scritta da Descemar Bueno Kelsis Ochoa, “sono una donna sola”: il cuore del tempo. Sonia si muove in una selva quasi incantata- La natura stessa è un personaggio non secondario della narrazione. I fiumi, le montagne, gli animali, il raccolto sono parte stessa di una terra di indigeni liberi che hanno capito che la miseria e lo sfruttamento non sono imposizioni del cielo ma condizioni dettate dalla storia e che nella storia possono essere ribaltate. Ed è proprio la storia il secondo grande protagonista del film. Una storia vista da dentro l’occhio del ciclone: il cielo è attraversato da elicotteri militari, la terra calpestata da colonne militari che arrivano sino alle porte del villaggio e sono respinte dalle donne costrette a fare barriera col proprio corpo. “E questa è l’unica scena reale del film - spiega Bellinghausen -. Stavamo lavorando con la troupe nel villaggio e abbiamo dovuto interrompere le riprese per l’arrivo dei militari. Abbiamo filmato tutto e poi abbiamo deciso di inserire la scena come stava. In fondo, anche questo fa parte della normalità in un villaggio zapatista”.
Corazon del Tiempo diretto dal regista messicano Alberto Cortes è il primo film prodotto dagli zapatisti, precisamente dal Caracol . L’associazione Ya Basta! che, tra l’altro, compare nella pellicola con un largo striscione appeso dietro il palco nel momento in cui la comunità di Sonia festeggia l’arrivo degli internazionali, lo ha proiettato in anteprima nazionale a Venezia, venerdì 25 settembre, e quindi a Vicenza, Firenze, Milano, Napoli e Roma.
Allo sceneggiatore Hermann Bellinghausen chiediamo come è nata l’idea di ambientare una storia d’amore nella selva Lacandona.
“La storia è ovviamente un pretesto per parlare dello zapatismo. Ma uno zapatismo diverso da quello del passamontagna o della guerra, quando il segreto e la clandestinità erano indispensabili. Come ti ho già detto, questo film sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa. Anche per una questione economica. Un film costa e nessuno aveva soldi da metterci. Io ho scritto la sceneggiatura iniziale, che era l’unica cosa gratis, alla fine degli anni novanta quasi per gioco. Poi sono successe molte cose: il cambio di governo in Messico, la marcia del Colore della terra… poi le giunte di Buon Governo hanno, per così dire, superato il passamontagna, aprendosi alla società civile e dimostrando di essere autorità civili a pieno titolo. L’idea iniziale di Alberto di fare un film dentro lo zapatismo che pareva irrealizzabile cominciò a prendere forma. Alle popolazioni indigene, come a tutti noi, il cinema piace molto. Mi ricordo che Alberto portava i film di Charlie Chaplin nei caracol ed era sempre una festa. Alla fine, la giunta di Buon Governo Hacia La Esperancia ha deciso di produrre il film. Nel 2006 abbiamo cominciato finalmente le riprese. L’8 agosto, anniversario della fondazione della giunta di La Realidad, lo abbiamo proiettato nella piazza centrale. Inutile dire che non mancava nessuno!”
Cosa intendi dicendo che gli zapatisti sono i produttori?
“Che hanno fatto tutto quello che normalmente fa un produttore: mettere i soldi e, si spera, incassare i profitti. Nel nostro caso, essendo gli zapatisti una comunità e non una società d’affari, hanno fatto anche molto di più, partecipando attivamente ai lavori. Il set per esempio. Tutte le capanne che vedi nel film sono state realizzate materialmente, intendo con chiodi e martello, dagli stessi produttori. E’ gente dalle mille risorse che sa ancora entusiasmarsi per un progetto. Hanno fatto da carpentieri, trovarobe, artisti, comparse e produttori allo stesso tempo”.
Come sta andando il film?
“Ti confesso che, dopo le prevedibili difficoltà iniziali, la pellicola sta andando oltre le nostre previsioni. Abbiamo fatto incetta di premi in numerosi festival internazionali ma il nostro obiettivo non era solo quello di sfondare nei circuiti d’elite ma entrare nei canali commerciali. Proprio come, uso ancora questa parola, un normalissimo film. Dopo una esitazione iniziale, imputabile credo a motivazioni più economiche che politiche, i distributori messicani si sono accorti che anche noi potevamo riempire il botteghino: a Città del Messico siamo già alla terza settimana continua di proiezione nelle sale e stiamo tenendo bene anche nelle altre città. Certo non è il pubblico di Harry Potter, ma è comunque una bella soddisfazione per noi”.
E’ un film realizzato con attori non professionisti?
“Sì. Gli attori sono tutti indigeni che, per così dire, interpretano la parte di loro stessi, pur recitando un copione scritto. L’ambientazione, ti ho spiegato, è assolutamente realistica. Non è un film di propaganda. E’ un film che vuole raccontare una storia in un contesto particolare come lo è la ribellione indigena del Chiapas. Ma una storia ricca di dubbi e di contraddizioni come è ricca di dubbi e di contraddizioni la stessa esperienza zapatista. Per questo, scegliere attori del luogo era indispensabile. La troupe invece è una normale - scusa se ripeto sempre questo aggettivo ma ci tengo a ribattere che lo zapatismo deve diventare quotidianità – troupe di professionisti che si è dovuta trasferire nella selva Lacandona per oltre sei settimane. Quasi tutta gente di città che aveva visto la selva solo nei documentari: ti lascio immaginare le situazioni non di rado molto comiche che ne sono sorte”.
A questo punto non resta che raccomandare a tutti di non perdersi questo primo film che racconta una delicata storia d’amore in un “normalissimo” paese dove non esistono sfruttati e sfruttatori, dove la parola democrazia ha un significato compiuto e i beni comuni sono davvero comuni.
“Bravo. Vedo che hai capito il concetto di normalità! Adesso si tratta solo di esportarlo in tutto il resto del mondo! Intanto, se qualche associazione o qualche circolo è interessata a proiettare Corazon del Tiempo, basta che si metta in contatto con gli amici di Ya Basta!”
Corazon del tiempo
27/09/2009Terra
“Eppure Corazon del Tiempo non è un film di propaganda – ha spiegato Hermann Bellinghausen, in occasione dell’anteprima nazionale al Sale Docks di Venezia, venerdì 25 settembre – e non è neppure uno dei tanti documentari sullo zapatismo. Corazon del Tiempo è un film vero. Una fiction con attori che recitano un copione e che interpretano personaggi di fantasia, pur se il contesto è quello della quotidianità della lotta indigena volta a costruire autonomia e a difendere le terre recuperate e la biodiversità della selva”.
Il film che è già alla terza settimana di programmazione nelle sale di Città del Messico – “Un successo che certo non ci aspettavamo! In Messico stiamo sfiorando gli spettatori di Harry Potter!” confessa Hermann - è stato girato da una troupe di professionisti che per sei settimane si è trasferita nella selva Lacandona per lavorare con la giunta del Buon Governo Hacia La Esperanza. Non professionisti sono invece tutti gli attori. “Non potevamo fare a meno di utilizzare indigeni – conclude Hermann – Il film è loro ed è giusto che fossero loro a recitare. E, da quanto ne so, questo è il primo film in cui gli indigeni recitano da indigeni con piena coscienza. Il film non è un docudramma in cui una famiglia rappresenta la sua vita quotidiana. L’accordo iniziale infatti era che gli attori dovevano interpretare i vari personaggi all’interno di una sceneggiatura stabilita ma rimanendo sempre se stessi. Nessuno doveva fingere di essere zapatista a tutti i costi, piuttosto dovevano rappresentare lo zapatismo in forma collettiva”.
Dopo l’anteprima al Sale Docks, Corazon del Tiempo è stato proiettato a Vicenza, Milano e Firenze. Mercoledì 30 sarà a Napoli, e giovedì 1 ottobre a Roma. Agli incontri saranno presenti lo sceneggiatore Hermann Bellinghausen e Vilma Mazza, portavoce dell’associazione Ya Basta. Sempre a Ya Basta, può rivolgersi chi è interessato ad organizzare altre proiezioni. Tutti gli indirizzi sul sito www.yabasta.it.
Il battello dei diritti negati
2/08/2009Terra
La rete Tuttiidirittiumanipertutti che raggruppa una ventina di associazioni ha voluto denunciare con questa pacifica iniziativa i respingimenti che quotidianamente avvengono nel porto di Venezia dove i richiedenti asilo, minorenni compresi, sono espulsi in maniera assolutamente illegale, come ha sancito la stessa Corte di Giustizia europea, e rimandati in paesi dove li attende un destino di fame, torture e morte.
Il battello dei diritti ha concluso il suo navigare nelle acque antistanti il porto di Venezia dove i manifestanti hanno gettato in acqua corone di fiori per ricordare tutti coloro che, come il tredicenne Zaher Rezai, hanno attraversato il mare per cercare un posto in cui vivere in pace e, proprio nel porto della città lagunare, sono morti nel tentativo di esercitare un diritto legittimo come quello della richiesta d’asilo.
Da riva, nessuna disponibilità al dialogo da parte dell’autorità portuale. Ii commissario Paolo Costa, personaggio che a Vicenza significa “Dal Molin”, a Venezia “Mose” e in val di Susa “Tav”, ha rifiutato qualsiasi incontro e qualsiasi spazio informativo, sostenendo che “l’area della marittima non può essere concessa per alcuna manifestazione”. E intendeva quella stessa area in cui ogni anno si organizzano feste di carnevale, saloni nautici, fiere enogastronomiche, mostre di cani e gatti. I diritti umani, si vede, su queste banchine non contano niente.
Xenofobia e politica in via Vallenari
10/08/2008CartaI primi ad essere stati sorpresi, da tutto il trambusto mediatico costruito su quello che doveva essere un semplice trasferimento cinquecento metri più là, sono proprio loro, i sinti di via Vallenari. Centosessantanove persone divise in tre grandi gruppi familiari. Tutti cittadini italiani. Tutti residenti nel Comune di Venezia sin dai primi anni ’50, quando la comunità si stabilì in quell’area di campagna tra Mestre e Favaro Veneto messa a loro disposizione dalla curia patriarcale.
Davide, uno degli operatori dell’Etam che segue la comunità, è sorpreso quanto loro. “Sono dieci anni che il Comune aveva promesso di spostare il campo. Sin da quando la municipalità aveva avviato il patto di quartiere per accedere ai finanziamenti statali”. Finanziamenti che poi non sono arrivati, così l’amministrazione ha dovuto trovare i fondi “grattando” tra le varie manovre finanziari ma ritardando l’avvio dei lavori di dieci anni. “Ma era un progetto su cui tutti erano d’accordo – continua Davide – Pure la Lega... tanto è vero che anche la Regione Veneto non si era mai sognato di opporsi. E a che scopo poi? E’ una comunità perfettamente integrata, che non ha mai dato problemi. Non ha nessun senso, se non quello di una vergognosa manovra politica, impedire il trasferimento in un’area vicina, con dei prefabbricati appena appena decenti e, quello che ora gli manca, docce e bagni sufficienti per tutti”.
Su 169 persone, mi spiega Davide, solo una è in affidamento ai servizi sociali: un disabile del lavoro cui comunque è stata riconosciuta l’invalidità e a luglio otterrà la pensione sociale. “Noi dell’Etam seguiamo il campo solo per via del trasferimento”. Anche per quanto riguarda i minori, mi spiega, vanno tutti a scuola e nessuno di loro ha bisogno di essere seguito dagli operatori sociali. Nel campo, mi avverte Davide, ne vedrai pochi giocare davanti alle ruolotte perché si sono presi quasi tutti l’epidemia di morbillo che sta falcidiando i ragazzini delle scuole elementari di Mestre. Ma allora perché è nato tutto ‘sto casotto? Al “perché” ci passiamo vicino, andando al campo. Un gazebo coperto di bandiere padane. Quattro donne eleganti sedute dietro un banchetto pieno di volantini. Cartelloni con scritte del tipo: “Gli alluvionati aspettano da 5 anni i risarcimenti. Il sindaco regala le case con le piscine agli zingari”. “Ah, le piscine –sorride il mio accompagnatore – questa è davvero bella. La piscina in questione è la polla d’acqua che il consorzio di bonifica ha ordinato al comune di realizzare perché lo scarico non ce la fa a smaltire l’acqua piovana”. Arriviamo al campo che sono le cinque di pomeriggio. L’ora in cui gli uomini sono tornati dal lavoro e scaricano il ferrovecchio raccolto in ampi contenitori. Non è molto grande, il campo: una ventina di ruolotte, un’altra ventina di fabbricati con zerbini alla porta e gerani alle finestre. La vera “casa” dei sinti è la strada, tra una ruolotte e l’altra. Tavolini con bottiglie di acqua e menta, fornelletti col caffè che borbotta, sdraio, tendoni parasole. I bambini che hanno già fatto il morbillo giocano per strada. Gli altri li guardano con i musetti pieni di puntini rossi, premuti sulle finestre. La diffidenza nei miei confronti dura solo un paio di minuti. “E’ venuta una tua collega di Rete Quattro. Ha filmato tutto il campo. Ci ha intervistati tutti – mi racconta Paolo, un omone che ha fatto 18 mesi di bersagliere in Sardegna e conserva ancora il cappello con le piume -. Poi ha mandato in onda solo le dichiarazioni dei leghisti e mentre Emilio Fede leggeva il servizio, sullo sfondo scorrevano immagini di repertorio con gli sbarchi dei clandestini”
Giuro e spergiuro che o io non ho “colleghi” a Rete Quattro e che, se non li disturba lasciarmi scattare qualche foto, Carta pubblicherà solo quelle. Dicono subito di sì. Solo mi pregano di non fotografare le persone. “Abbiamo dei problemi poi al lavoro. Quando andiamo in giro col furgone nessuno sa che siamo sinti e ci trattano normalmente. Ma se ci vedono nel giornale... abbiamo imparato che la gente fa presto ad arrendersi ai pregiudizi” mi spiega. “Per favore, non fotografare neppure i bambini. Poi a scuola si vergognano perché li scherzano e li chiamano zingari” mi chiede Sandro che, come poi verrò a sapere, è il pronipote diretto di uno dei miei miti del jazz: il chitarrista Django Reinhard. D’accordo allora. Niente scatti alle persone. La loro fiducia ha comunque dell’incredibile, considerato che mi lasciano libero di puntare l’obbiettivo in qualsiasi direzione. Neanche il tg 4 è riuscito a fargli capire come funziona il mondo di fuori. “Quando andiamo a Favaro (via Vallenari è a Mestre, ma la piazza di Favaro è quella più vicina al loro campo.ndr) – mi racconta Andrea che è uno dei pochi sinti che non lavora col ferro ma in una ditta di gonfiabili di gomma – la gente che conosciamo, quella con cui ci fermiamo a prendere il caffè o a far la spesa, ci chiede che cosa stiamo combinando. Perché abbiamo causato tutto questo trambusto che i telegiornali parlano sempre di noi. Io non so mai cosa rispondere”. Ma avete avuto problemi con la gente del quartiere? “Molti ci hanno espresso solidarietà. E di ciò ovviamente li ringraziamo. Ma, come posso dire?, non ti guardano più come ti guardavano prima, quando non lo sapevano nemmeno che eri un sinti e se lo sapevano non gliene importava niente. Adesso cominciano a pensare che se, tutti i giornali parlano male di noi, qualcosa dobbiamo pure aver fatto”. A proposito del campo, c’è da dire che fabbricati e ruolotte sono tutti tenuti in ottime condizioni. Niente si conforma all’idea che i mass media ci vendono con l’etichetta xenofoba e ipocrita di “nomadi”. Il problema effettivo sono i servizi: 7 docce con acqua fredda e 9 toelette per 169 persone. E son così da 40 anni. “Perché non andiamo a vivere in case? – mi risponde Paolo -. Perché siamo sinti. Cosa ne sarebbe di noi, della nostra cultura e della nostra lingua che qui tutti parlano e nessuno scrive? E cosa ne sarebbe della nostra famiglia divisa in dieci appartamenti? Alcuni di noi che hanno i figli grandi e hanno raggiunto una certa età, sono anche andati a vivere in case di muratura. Ma io non lo voglio fare. E’ difficile da spiegare. Sono sinti e voglio vivere tra sinti. Col cielo sopra la testa”. “Siamo sinti, è vero – si premura di aggiungere il pronipote di Django – ma siamo pure italiani, eh? Abbiamo carta di identità, lavoriamo e paghiamo le tasse e i contributi, mandiamo i bimbi a scuola come tutti, anche se ci piace vivere all’aria aperta. E votiamo pure”. Chiaccherando qua e la, trovo un sinti che ha votato lega. “Pensavo che in Italia cominciassero ad arrivare troppi stranieri”. E hai imparato che basta poco per entrare a far parte della categoria “stranieri”? “Già. Io sono nato qua. I miei genitori e i miei nonni erano triestini. Sinti, ma anche triestini. Italiani del nord. Così ho votato lega. Ma ora ho cambiato idea, eh?”
Tra gazebi padani e minacce di marce su Venezia, che ne sarà adesso dei sinti di via Vallenari? “L’amministrazione continuerà col suo progetto, senza farsi intimidire da atteggiamenti provocatori – assicura l’assessore Luana Zanalla -. In questi anni Venezia ha saputo dimostrare che l’integrazione è sempre possibile. Ed è per questo che oggi siamo sotto attacco dalla destra xenofoba. Ma la città sta rispondendo bene”. E lo dimostrano le numerose assemblea a sostegno dei sinti, l’affollata manifestazione di mercoledì scorso a piazza Ferretto, le dichiarazioni di solidarietà che hanno, per una volta almeno, messo insieme soggetti come la pastorale del lavoro e i centri sociali, associazioni ambientaliste e sindacati, personaggi come il patriarca Angelo Scola e Gino Strada. Il leghista Borghezio può stare tranquillo. Venezia non ha bisogno di essere liberata.
Davide, uno degli operatori dell’Etam che segue la comunità, è sorpreso quanto loro. “Sono dieci anni che il Comune aveva promesso di spostare il campo. Sin da quando la municipalità aveva avviato il patto di quartiere per accedere ai finanziamenti statali”. Finanziamenti che poi non sono arrivati, così l’amministrazione ha dovuto trovare i fondi “grattando” tra le varie manovre finanziari ma ritardando l’avvio dei lavori di dieci anni. “Ma era un progetto su cui tutti erano d’accordo – continua Davide – Pure la Lega... tanto è vero che anche la Regione Veneto non si era mai sognato di opporsi. E a che scopo poi? E’ una comunità perfettamente integrata, che non ha mai dato problemi. Non ha nessun senso, se non quello di una vergognosa manovra politica, impedire il trasferimento in un’area vicina, con dei prefabbricati appena appena decenti e, quello che ora gli manca, docce e bagni sufficienti per tutti”.
Su 169 persone, mi spiega Davide, solo una è in affidamento ai servizi sociali: un disabile del lavoro cui comunque è stata riconosciuta l’invalidità e a luglio otterrà la pensione sociale. “Noi dell’Etam seguiamo il campo solo per via del trasferimento”. Anche per quanto riguarda i minori, mi spiega, vanno tutti a scuola e nessuno di loro ha bisogno di essere seguito dagli operatori sociali. Nel campo, mi avverte Davide, ne vedrai pochi giocare davanti alle ruolotte perché si sono presi quasi tutti l’epidemia di morbillo che sta falcidiando i ragazzini delle scuole elementari di Mestre. Ma allora perché è nato tutto ‘sto casotto? Al “perché” ci passiamo vicino, andando al campo. Un gazebo coperto di bandiere padane. Quattro donne eleganti sedute dietro un banchetto pieno di volantini. Cartelloni con scritte del tipo: “Gli alluvionati aspettano da 5 anni i risarcimenti. Il sindaco regala le case con le piscine agli zingari”. “Ah, le piscine –sorride il mio accompagnatore – questa è davvero bella. La piscina in questione è la polla d’acqua che il consorzio di bonifica ha ordinato al comune di realizzare perché lo scarico non ce la fa a smaltire l’acqua piovana”. Arriviamo al campo che sono le cinque di pomeriggio. L’ora in cui gli uomini sono tornati dal lavoro e scaricano il ferrovecchio raccolto in ampi contenitori. Non è molto grande, il campo: una ventina di ruolotte, un’altra ventina di fabbricati con zerbini alla porta e gerani alle finestre. La vera “casa” dei sinti è la strada, tra una ruolotte e l’altra. Tavolini con bottiglie di acqua e menta, fornelletti col caffè che borbotta, sdraio, tendoni parasole. I bambini che hanno già fatto il morbillo giocano per strada. Gli altri li guardano con i musetti pieni di puntini rossi, premuti sulle finestre. La diffidenza nei miei confronti dura solo un paio di minuti. “E’ venuta una tua collega di Rete Quattro. Ha filmato tutto il campo. Ci ha intervistati tutti – mi racconta Paolo, un omone che ha fatto 18 mesi di bersagliere in Sardegna e conserva ancora il cappello con le piume -. Poi ha mandato in onda solo le dichiarazioni dei leghisti e mentre Emilio Fede leggeva il servizio, sullo sfondo scorrevano immagini di repertorio con gli sbarchi dei clandestini”
Giuro e spergiuro che o io non ho “colleghi” a Rete Quattro e che, se non li disturba lasciarmi scattare qualche foto, Carta pubblicherà solo quelle. Dicono subito di sì. Solo mi pregano di non fotografare le persone. “Abbiamo dei problemi poi al lavoro. Quando andiamo in giro col furgone nessuno sa che siamo sinti e ci trattano normalmente. Ma se ci vedono nel giornale... abbiamo imparato che la gente fa presto ad arrendersi ai pregiudizi” mi spiega. “Per favore, non fotografare neppure i bambini. Poi a scuola si vergognano perché li scherzano e li chiamano zingari” mi chiede Sandro che, come poi verrò a sapere, è il pronipote diretto di uno dei miei miti del jazz: il chitarrista Django Reinhard. D’accordo allora. Niente scatti alle persone. La loro fiducia ha comunque dell’incredibile, considerato che mi lasciano libero di puntare l’obbiettivo in qualsiasi direzione. Neanche il tg 4 è riuscito a fargli capire come funziona il mondo di fuori. “Quando andiamo a Favaro (via Vallenari è a Mestre, ma la piazza di Favaro è quella più vicina al loro campo.ndr) – mi racconta Andrea che è uno dei pochi sinti che non lavora col ferro ma in una ditta di gonfiabili di gomma – la gente che conosciamo, quella con cui ci fermiamo a prendere il caffè o a far la spesa, ci chiede che cosa stiamo combinando. Perché abbiamo causato tutto questo trambusto che i telegiornali parlano sempre di noi. Io non so mai cosa rispondere”. Ma avete avuto problemi con la gente del quartiere? “Molti ci hanno espresso solidarietà. E di ciò ovviamente li ringraziamo. Ma, come posso dire?, non ti guardano più come ti guardavano prima, quando non lo sapevano nemmeno che eri un sinti e se lo sapevano non gliene importava niente. Adesso cominciano a pensare che se, tutti i giornali parlano male di noi, qualcosa dobbiamo pure aver fatto”. A proposito del campo, c’è da dire che fabbricati e ruolotte sono tutti tenuti in ottime condizioni. Niente si conforma all’idea che i mass media ci vendono con l’etichetta xenofoba e ipocrita di “nomadi”. Il problema effettivo sono i servizi: 7 docce con acqua fredda e 9 toelette per 169 persone. E son così da 40 anni. “Perché non andiamo a vivere in case? – mi risponde Paolo -. Perché siamo sinti. Cosa ne sarebbe di noi, della nostra cultura e della nostra lingua che qui tutti parlano e nessuno scrive? E cosa ne sarebbe della nostra famiglia divisa in dieci appartamenti? Alcuni di noi che hanno i figli grandi e hanno raggiunto una certa età, sono anche andati a vivere in case di muratura. Ma io non lo voglio fare. E’ difficile da spiegare. Sono sinti e voglio vivere tra sinti. Col cielo sopra la testa”. “Siamo sinti, è vero – si premura di aggiungere il pronipote di Django – ma siamo pure italiani, eh? Abbiamo carta di identità, lavoriamo e paghiamo le tasse e i contributi, mandiamo i bimbi a scuola come tutti, anche se ci piace vivere all’aria aperta. E votiamo pure”. Chiaccherando qua e la, trovo un sinti che ha votato lega. “Pensavo che in Italia cominciassero ad arrivare troppi stranieri”. E hai imparato che basta poco per entrare a far parte della categoria “stranieri”? “Già. Io sono nato qua. I miei genitori e i miei nonni erano triestini. Sinti, ma anche triestini. Italiani del nord. Così ho votato lega. Ma ora ho cambiato idea, eh?”
Tra gazebi padani e minacce di marce su Venezia, che ne sarà adesso dei sinti di via Vallenari? “L’amministrazione continuerà col suo progetto, senza farsi intimidire da atteggiamenti provocatori – assicura l’assessore Luana Zanalla -. In questi anni Venezia ha saputo dimostrare che l’integrazione è sempre possibile. Ed è per questo che oggi siamo sotto attacco dalla destra xenofoba. Ma la città sta rispondendo bene”. E lo dimostrano le numerose assemblea a sostegno dei sinti, l’affollata manifestazione di mercoledì scorso a piazza Ferretto, le dichiarazioni di solidarietà che hanno, per una volta almeno, messo insieme soggetti come la pastorale del lavoro e i centri sociali, associazioni ambientaliste e sindacati, personaggi come il patriarca Angelo Scola e Gino Strada. Il leghista Borghezio può stare tranquillo. Venezia non ha bisogno di essere liberata.
La battaglia di via Vallenari
5/06/2008CartaDopo la giornata dei blitz, è arrivata la giornata delle dichiarazioni di guerra. I titoloni sparati dai giornali locali, Gazzettino in testa, sono un inno alla più becera xenofobia. “Duro Galan: vedo gli italiani trattati come cittadini di serie B”. Più sotto: “Le scelte del comune di Venezia fomentano il razzismo”. Immancabile una sparata del buon Borghezio: “Migliaia di padani pronti a marciare su Venezia”. Il resto delle “notizie” in pagina sono tutte dichiarazioni di solidarietà alla lega nord che ha visto i suoi uffici “attaccati” da un gruppuscolo di “facinorosi e violenti”. Un vero “attentato alla democrazia”. Tant’è vero che domani in città è atteso il ministro Roberto Maroni col difficile compito di valutare i “rischi connessi alla sicurezza” nell’entroterra della città dei Dogi. Chi metta poi a repentagli la “sicurezza” dei veneziani non è dato capirlo
. I disobbedienti che ieri hanno pacificamente e senza scheggiare neppure gli stipiti delle porte, ieri pomeriggio hanno “sfrattato” la sede mestrina della Lega, traslocando scrivanie, scaffalature e computer nella calle sottostante? “Così si accorgono come si vive senza casa” ha commentato un portavoce del Rivolta. Oppure a mettere in pericolo la sicurezza dei veneziani è quella quarantina di famiglie sinti che da quasi mezzo secolo vive in via Vallenari? Maroni non lo sa, ma anche loro sono cittadini veneziani, con tanto di carta di identità in regola. Il che non si può dire dei “padani” che si sono incatenati davanti all’area dove sorgerà il villaggio sinti per impedire l’inizio dei lavori. Una quindicina di arrabbiati. Tutte alte cariche del Carroccio: consiglieri provinciali e comunali del trevigiano, membri di consorzi e municipalizzate, funzionari della Regione. Gente strapagata con i soldi di Roma Ladrona e che si è incatenata per impedire che il comune di Venezia tiri su quattro prefabbricati per dare una sistemazione appena appena decente a delle famiglie povere. Lo ripetiamo. “Povere” e non nomadi, come invece continuano a scrivere i giornalisti e a dichiarare i politici. Se fossero nomadi non avrebbero bisogno di una casa, giusto? “La verità è che siamo di fronte ad una vergognosa campagna di strumentalizzazione condotta con metodo scientifico dalla Lega nord – commenta Beppe Caccia - Sono ridicoli tutti quegli esponenti leghisti che oggi piagnucolano, definendo un ‘attacco violento e intollerante’ la protesta che ha visitato la loro sede di Mestre. Sono gli stessi signori che da settimane stanno insudiciando la nostra città con la loro orrenda propaganda di odio e intolleranza, scatenata contro i legittimi diritti dei nostri concittadini di cultura sinti. E sono patetici tutti quegli esponenti leghisti che oggi invocano la protezione della polizia di ‘Roma ladrona’, frignando per l’ ‘illegalità’ commessa da chi contesta le loro campagne razziste, quando da due giorni in poche decine stanno illegalmente bloccando un cantiere. Troppo facile fare la voce grossa, prendersela con i più deboli: prima o poi si raccoglie ciò che si ha seminato. Centocinquanta nostri concittadini attendono da dieci anni una sistemazione dignitosa. Chiediamo al Comune di dare ai residenti di Favaro tutte le necessarie garanzie e procedere al più presto con la realizzazione del nuovo villaggio”.
. I disobbedienti che ieri hanno pacificamente e senza scheggiare neppure gli stipiti delle porte, ieri pomeriggio hanno “sfrattato” la sede mestrina della Lega, traslocando scrivanie, scaffalature e computer nella calle sottostante? “Così si accorgono come si vive senza casa” ha commentato un portavoce del Rivolta. Oppure a mettere in pericolo la sicurezza dei veneziani è quella quarantina di famiglie sinti che da quasi mezzo secolo vive in via Vallenari? Maroni non lo sa, ma anche loro sono cittadini veneziani, con tanto di carta di identità in regola. Il che non si può dire dei “padani” che si sono incatenati davanti all’area dove sorgerà il villaggio sinti per impedire l’inizio dei lavori. Una quindicina di arrabbiati. Tutte alte cariche del Carroccio: consiglieri provinciali e comunali del trevigiano, membri di consorzi e municipalizzate, funzionari della Regione. Gente strapagata con i soldi di Roma Ladrona e che si è incatenata per impedire che il comune di Venezia tiri su quattro prefabbricati per dare una sistemazione appena appena decente a delle famiglie povere. Lo ripetiamo. “Povere” e non nomadi, come invece continuano a scrivere i giornalisti e a dichiarare i politici. Se fossero nomadi non avrebbero bisogno di una casa, giusto? “La verità è che siamo di fronte ad una vergognosa campagna di strumentalizzazione condotta con metodo scientifico dalla Lega nord – commenta Beppe Caccia - Sono ridicoli tutti quegli esponenti leghisti che oggi piagnucolano, definendo un ‘attacco violento e intollerante’ la protesta che ha visitato la loro sede di Mestre. Sono gli stessi signori che da settimane stanno insudiciando la nostra città con la loro orrenda propaganda di odio e intolleranza, scatenata contro i legittimi diritti dei nostri concittadini di cultura sinti. E sono patetici tutti quegli esponenti leghisti che oggi invocano la protezione della polizia di ‘Roma ladrona’, frignando per l’ ‘illegalità’ commessa da chi contesta le loro campagne razziste, quando da due giorni in poche decine stanno illegalmente bloccando un cantiere. Troppo facile fare la voce grossa, prendersela con i più deboli: prima o poi si raccoglie ciò che si ha seminato. Centocinquanta nostri concittadini attendono da dieci anni una sistemazione dignitosa. Chiediamo al Comune di dare ai residenti di Favaro tutte le necessarie garanzie e procedere al più presto con la realizzazione del nuovo villaggio”.
"E' primavera". Intervista congiunta con Toni Negri e Claudio Calia
25/05/2008Carta
Professor Negri, che faccia ha fatto quando Claudio le ha spiegato che la voleva infilare in un fumetto?
TN: Mi è scappato da ridere! Ma subito dopo la cosa mi ha intrigato. Conoscevo già i lavori di Claudio come Porto Marghera; un fumetto maturo, emancipato a forma letteraria che riesce ad andare al di là del semplice segno grafico per assumere una dimensione politica. Ho pensato che la cosa poteva funzionare. Tanto più che sin dall’inizio Claudio ha pensato non solo a puntare solo sulla biografia ma anche sulla possibilità di articolare un discorso, Non dico pedagogia ma certo comunicazione. Ma per piacere, lascia stare il lei e dammi del tu, s'il vous plaît.
Va bene. Che effetto fa leggersi su una tavola a fumetti, come Tex e Topolino?
TN: Intanto il lavoro di Claudio non è confrontabile né con Tex Willer né con Topolino. Semplicemente ha cercato di articolare un discorso usando il fumetto come strumento, come forma comunicativa. E’ come se mi avessi chiesto come fai a vederti in televisione, in un film o in una intervista filmata. Il fumetto è una espressione come un’altra, sta a noi dargli credito di maturità. In quanto al leggermi sulle tavole, ammetto che mi ha fatto piacere. E ti confesserò pure che mi sarebbe piaciuto moltissimo essere dipinto, oltre che da Claudio, anche da maestri come Hugo Pratt o, per citare uno dei miei autori preferiti, Jacovitti.
In Francia, dove hai soggiornato per molto tempo, il fumetto è già considerato una delle tante forme che può assumere quella cosa difficilmente definibile che chiamiamo “arte”...
TN: Sì. Ricordo che abitavo proprio sopra la più grande libreria di fumetti di Parigi. Ma ammetto di non averla frequentata troppo e di non possedere una conoscenza specifica del fumetto. Cosa vuoi? Ho l’età che ho... quando ero ragazzino leggevo il Vittorioso e l’Intrepido. Altre scelte non c’erano sotto il regime fascista. Topolino era pressoché fuorilegge, pure se Mondadori lo pubblicava già. Ma guai allo studente che fosse stato sorpreso con un fumetto Disney nella cartella! Dopo la guerra, ero considerato grandicello per leggere ancora i fumetti che erano ritenuti roba da bambini. Tieni presente che la scoperta del fumetto come genere culturale o anche solo di svago per adulti, comincia tra gli anni ’60 e ’70 sull’onda di riviste come Linus.
RiBot: Claudio, come ti saltato in testa di realizzare una intervista a fumetti?
CC: La mia idea di partenza era quella di portare avanti il progetto di giornalismo a fumetti che ho intrapreso con la realizzazione di Porto Marghera. Con quel volume, anch’esso edito da BeccoGiallo, ho realizzato un reportage a fumetti. Da qui all’intervista, il passaggio è stato naturale.
TN: Io non ho fatto nulla se chiaccherare piacevolmente con Claudio e leggere le sue belle tavole man mano che me le passava per sincerarmi che non ci fosse qualche errore di fatto. Ma la fattura dell’opera e a responsabilità artistica ed espressiva è solo farina del suo sacco.
Senti Claudio, quando ti ho intervistato su Porto Marghera mi hai raccontato che non vedevi l’ora di lasciare il fumetto impegnato per fare una bella storia di licantropi, vampiri e mostri spaziali...
TN: (ridendo) E c’è riuscito!
CC: No, no. Ho rimandato la mia storia di licantropi al prossimo lavoro. L’idea di fare un fumetto con Toni come protagonista era troppo intrigante. Credo che sia anche l’unico esempio di fumetto che racconta di un personaggio ancora vivente dando anche spazio alle sue idee. E’ stata una bella sfida. Tutti son capaci di raccontare le peripezie di, che so?, un cacciatore di coccodrilli, ma la vita e le idee di un filosofo...
Come ti sei trovato ad intervistare Toni che ha fama di essere un mangiagiornalisti?
TN: Io un mangia giornalisti? Veramente sono i giornalisti che hanno mangiato me. Mangiato digerito e poi sputato. Magari fossi riuscito a mangiare qualche giornalista...
CC: Ah... ma io mi sono presentato come un fumettaro. Mica sono un giornalista come te, io!
Non mi ci provo neppure a difendere la categoria. Però, Toni, ammetterai che sei considerato uno che parla difficile. Come trovi il tuo pensiero circoscritto in nuvolette di china?
TN: E’ vero che scrivo difficile ma comunque non più di tutti gli altri filosofi. Ma sono anche uno che nella sua vita ha scritto anche volantini, tanti, tantissimi. Ho scritto anche su riviste di comunicazione destinati a compagni che non dovevano per forza di cose essere laureati in filosofia. Da questo punto di vista quindi non ho trovato una particolare difficoltà ad esprimermi. E devo dirti che il risultato è stato ottimo. Claudio è stato bravo a tradurre correttamente ed efficacemente le lunghe interviste che mi ha fatto.
Tiene presente che ultimamente io scrivo anche molto teatro. In francese, in particolare. Anche qui il problema della semplificazione del linguaggio filosofico mi è diventato centrale. Non solamente perché il teatro è già una forma dialogica evidentemente forte ma anche perché la forma di quel teatro che scrivo io è particolarmente dialogica.
Il libro di Claudio pur riassumendo le tue idee politiche e filosofiche, non può essere considerato come un Bignami. Racconta una storia, la tua, che ha anche un tono avventuroso.
TN: E’ un libro coinvolgente che si legge tutto d’un fiato e questo è senz’altro un grande merito di Claudio. Ma ti devo dire che io i Bignami li difendo a spada tratta. Sapessi quanti ne ho letti da ragazzo! Casomai è la maniera in cui li studiano gli studenti ad essere meschina. Ma ricordo ancora con nostalgia soprattutto i riassunti delle grandi opere, come l’Eneide, che erano fatti molto bene. Chiaro che si perde il gusto di leggere la poesia, ma non è mica detto che al liceo tu debba per forza leggerti con gusto la poesia. Io ad esempio, ho scoperto Ovidio e Lucrezio tanti anni dopo. Al liceo si studia purtroppo solo per passare l’interrogazione e i Bignami vanno benissimo. Vedi... io detesto l’idea della scuola o della letteratura come di qualcosa di intoccabile. Al contrario, tutto è toccabile e trasformabile. Tutto può essere utilizzato per essere tradotto in spettacolo teatrale o, per l’appunto, in fumetto.
«E’ primavera» si chiude con una tua forte critica alla sinistra parlamentare di cui hai sottolineato la mancanza di prospettive future. Claudio ti ha intervistato e ha disegnato le tavole quando ancora la sinistra parlamentare c’era. E’ stata più una profezia o una liberazione?
TN: Guarda che anche se è stata buttata fuori dal parlamento, la nostra sinistra è ancora parlamentare; intanto perché il parlamento continuerà a passargli ancora soldi per i prossimi due anni, poi perché è parlamentare nella testa. Continuano e continueranno a pensare che le cose non siano né criticabili né modificabili al di fuori di quelli che sono gli strumenti istituzionali che la politica gli offre. Il nuovo scenario, che non posso certo definire una liberazione, apre al contrario prospettive pericolose perché metteranno in atto tutti i tentativi possibili per arruffare qua e là quei pezzi di movimento che sono in libertà e che, loro sì, hanno una autentica vocazione extraparlamentare, alternativa e costituente.
Ma non è quello che hanno fatto fino ad ora?
TN: Sì. Ma adesso avranno meno soldi e quindi saranno più aggressivi.
Ultima domanda per Claudio. A quando la serie a cartoni animati come per Rat Man?
CC: Ah, questa la vedo proprio dura! Ma per una prossima edizione in lingua francese ci sono migliori possibilità.