In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

"E' primavera". Intervista congiunta con Toni Negri e Claudio Calia

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L’appartamento di Toni Negri è proprio come uno se lo aspetta. Con la cucina divisa in due per far spazio all’ultima mareggiata di libri e le finestre spalancate sui tetti di Venezia per far entrare ogni refolo di un’altra indescrivibile primavera lagunare. Claudio Calia ed io, abbiamo raggiunto il “cattivo maestro” per antonomasia dopo una lunga passeggiata per calli, campielli e bacari, “ciacolando” - tra uno spritz al bitter e uno all’aperol - del suo ultimo libro a fumetti che ha intitolato, giust’appunto, «E’ primavera». Il volume edito da BeccoGiallo, mi racconta, è nato da una mezza dozzina di pomeriggi trascorsi a parlare con Toni Negri. A parlar di cosa? “Mah... praticamente di tutto: della sua vita, della sua filosofia, dei suoi amori, delle rivoluzioni fatte e di quelle ancora da fare... devo dirti che, quando abbiamo cominciato, né io ne lui sapevamo cosa sarebbe saltato fuori dal mio lavoro. Di sicuro c’era solo la mia voglia di confrontarmi con lui e di ‘scrivere’ quello che mi raccontava con il solo mezzo che padroneggio: il fumetto”.



Professor Negri, che faccia ha fatto quando Claudio le ha spiegato che la voleva infilare in un fumetto?
TN: Mi è scappato da ridere! Ma subito dopo la cosa mi ha intrigato. Conoscevo già i lavori di Claudio come Porto Marghera; un fumetto maturo, emancipato a forma letteraria che riesce ad andare al di là del semplice segno grafico per assumere una dimensione politica. Ho pensato che la cosa poteva funzionare. Tanto più che sin dall’inizio Claudio ha pensato non solo a puntare solo sulla biografia ma anche sulla possibilità di articolare un discorso, Non dico pedagogia ma certo comunicazione. Ma per piacere, lascia stare il lei e dammi del tu, s'il vous plaît.

Va bene. Che effetto fa leggersi su una tavola a fumetti, come Tex e Topolino?
TN: Intanto il lavoro di Claudio non è confrontabile né con Tex Willer né con Topolino. Semplicemente ha cercato di articolare un discorso usando il fumetto come strumento, come forma comunicativa. E’ come se mi avessi chiesto come fai a vederti in televisione, in un film o in una intervista filmata. Il fumetto è una espressione come un’altra, sta a noi dargli credito di maturità. In quanto al leggermi sulle tavole, ammetto che mi ha fatto piacere. E ti confesserò pure che mi sarebbe piaciuto moltissimo essere dipinto, oltre che da Claudio, anche da maestri come Hugo Pratt o, per citare uno dei miei autori preferiti, Jacovitti.

In Francia, dove hai soggiornato per molto tempo, il fumetto è già considerato una delle tante forme che può assumere quella cosa difficilmente definibile che chiamiamo “arte”...
TN: Sì. Ricordo che abitavo proprio sopra la più grande libreria di fumetti di Parigi. Ma ammetto di non averla frequentata troppo e di non possedere una conoscenza specifica del fumetto. Cosa vuoi? Ho l’età che ho... quando ero ragazzino leggevo il Vittorioso e l’Intrepido. Altre scelte non c’erano sotto il regime fascista. Topolino era pressoché fuorilegge, pure se Mondadori lo pubblicava già. Ma guai allo studente che fosse stato sorpreso con un fumetto Disney nella cartella! Dopo la guerra, ero considerato grandicello per leggere ancora i fumetti che erano ritenuti roba da bambini. Tieni presente che la scoperta del fumetto come genere culturale o anche solo di svago per adulti, comincia tra gli anni ’60 e ’70 sull’onda di riviste come Linus.

RiBot: Claudio, come ti saltato in testa di realizzare una intervista a fumetti?
CC: La mia idea di partenza era quella di portare avanti il progetto di giornalismo a fumetti che ho intrapreso con la realizzazione di Porto Marghera. Con quel volume, anch’esso edito da BeccoGiallo, ho realizzato un reportage a fumetti. Da qui all’intervista, il passaggio è stato naturale.
TN: Io non ho fatto nulla se chiaccherare piacevolmente con Claudio e leggere le sue belle tavole man mano che me le passava per sincerarmi che non ci fosse qualche errore di fatto. Ma la fattura dell’opera e a responsabilità artistica ed espressiva è solo farina del suo sacco.

Senti Claudio, quando ti ho intervistato su Porto Marghera mi hai raccontato che non vedevi l’ora di lasciare il fumetto impegnato per fare una bella storia di licantropi, vampiri e mostri spaziali...
TN: (ridendo) E c’è riuscito!
CC: No, no. Ho rimandato la mia storia di licantropi al prossimo lavoro. L’idea di fare un fumetto con Toni come protagonista era troppo intrigante. Credo che sia anche l’unico esempio di fumetto che racconta di un personaggio ancora vivente dando anche spazio alle sue idee. E’ stata una bella sfida. Tutti son capaci di raccontare le peripezie di, che so?, un cacciatore di coccodrilli, ma la vita e le idee di un filosofo...

Come ti sei trovato ad intervistare Toni che ha fama di essere un mangiagiornalisti?
TN: Io un mangia giornalisti? Veramente sono i giornalisti che hanno mangiato me. Mangiato digerito e poi sputato. Magari fossi riuscito a mangiare qualche giornalista...
CC: Ah... ma io mi sono presentato come un fumettaro. Mica sono un giornalista come te, io!

Non mi ci provo neppure a difendere la categoria. Però, Toni, ammetterai che sei considerato uno che parla difficile. Come trovi il tuo pensiero circoscritto in nuvolette di china?
TN: E’ vero che scrivo difficile ma comunque non più di tutti gli altri filosofi. Ma sono anche uno che nella sua vita ha scritto anche volantini, tanti, tantissimi. Ho scritto anche su riviste di comunicazione destinati a compagni che non dovevano per forza di cose essere laureati in filosofia. Da questo punto di vista quindi non ho trovato una particolare difficoltà ad esprimermi. E devo dirti che il risultato è stato ottimo. Claudio è stato bravo a tradurre correttamente ed efficacemente le lunghe interviste che mi ha fatto.
Tiene presente che ultimamente io scrivo anche molto teatro. In francese, in particolare. Anche qui il problema della semplificazione del linguaggio filosofico mi è diventato centrale. Non solamente perché il teatro è già una forma dialogica evidentemente forte ma anche perché la forma di quel teatro che scrivo io è particolarmente dialogica.

Il libro di Claudio pur riassumendo le tue idee politiche e filosofiche, non può essere considerato come un Bignami. Racconta una storia, la tua, che ha anche un tono avventuroso.
TN: E’ un libro coinvolgente che si legge tutto d’un fiato e questo è senz’altro un grande merito di Claudio. Ma ti devo dire che io i Bignami li difendo a spada tratta. Sapessi quanti ne ho letti da ragazzo! Casomai è la maniera in cui li studiano gli studenti ad essere meschina. Ma ricordo ancora con nostalgia soprattutto i riassunti delle grandi opere, come l’Eneide, che erano fatti molto bene. Chiaro che si perde il gusto di leggere la poesia, ma non è mica detto che al liceo tu debba per forza leggerti con gusto la poesia. Io ad esempio, ho scoperto Ovidio e Lucrezio tanti anni dopo. Al liceo si studia purtroppo solo per passare l’interrogazione e i Bignami vanno benissimo. Vedi... io detesto l’idea della scuola o della letteratura come di qualcosa di intoccabile. Al contrario, tutto è toccabile e trasformabile. Tutto può essere utilizzato per essere tradotto in spettacolo teatrale o, per l’appunto, in fumetto.

«E’ primavera» si chiude con una tua forte critica alla sinistra parlamentare di cui hai sottolineato la mancanza di prospettive future. Claudio ti ha intervistato e ha disegnato le tavole quando ancora la sinistra parlamentare c’era. E’ stata più una profezia o una liberazione?
TN: Guarda che anche se è stata buttata fuori dal parlamento, la nostra sinistra è ancora parlamentare; intanto perché il parlamento continuerà a passargli ancora soldi per i prossimi due anni, poi perché è parlamentare nella testa. Continuano e continueranno a pensare che le cose non siano né criticabili né modificabili al di fuori di quelli che sono gli strumenti istituzionali che la politica gli offre. Il nuovo scenario, che non posso certo definire una liberazione, apre al contrario prospettive pericolose perché metteranno in atto tutti i tentativi possibili per arruffare qua e là quei pezzi di movimento che sono in libertà e che, loro sì, hanno una autentica vocazione extraparlamentare, alternativa e costituente.

Ma non è quello che hanno fatto fino ad ora?
TN: Sì. Ma adesso avranno meno soldi e quindi saranno più aggressivi.

Ultima domanda per Claudio. A quando la serie a cartoni animati come per Rat Man?
CC: Ah, questa la vedo proprio dura! Ma per una prossima edizione in lingua francese ci sono migliori possibilità.

Le case ai "nomadi"

La buona notizia, recita un vecchio adagio giornalistico, non è una notizia. Raccontare un percorso di integrazione sociale come quello che sta portando a termine il Comune di Venezia, non ci farà vincere nessun premio giornalistico. Premio che magari sarà assegnato al redattore di quel giornale locale che ha sparato nella prima pagina di cronaca “Il comune ‘regala’ le case ai nomadi”. Titolo idiota, oltre che xenofobo. Intanto perché se fossero nomadi, non avrebbero bisogno delle case, in secondo luogo perché le case non sono affatto “regalate”. Va sottolineato l’uso ipocrita del virgolettato nel titolo. Scelta, tra l’altro, sconsigliata da tutti i manuali di giornalismo che spiegano che se c’è una parola migliore bisogna sempre preferire quella. Ma tant’è... per solleticare gli istinti xenofobi della “ggente”, tutto fa brodo!
Ma ai lettori di Carta, anche se non farà notizia, noi preferiamo raccontare la verità: come e perché il comune di Venezia “regala” le case ai “nomadi”. Ecco la storia. Dagli anni ’50, grazie al lascito di un altro prelato, in un’area di via Vallenari, a Mestre (Ve) si è stabilita una 40ina di famiglie di cultura Sinti. Sono famiglie stanziali e niente affatto nomadi, anche se, alcune di loro, lavorando nella raccolta del ferro vecchio e girano in ruolotte per la regione alcuni mesi all’anno. Ma rimangono comunque e a tutti gli effetti – e da generazioni- cittadini italiani con residenza a Venezia Mestre. Ma quella strada che negli anni ’50 correva in aperta campagna, oggi è circondata dal quartiere residenziale della Bissuola. Luana Zanella, nel ‘96 era la presidente del consiglio di quartiere: “Stava montando una certa tensione tra residenti della Bissuola e i sinti del campo che oramai ammontavano a circa 150 cittadini – spiega l’assessora alla cultura di Venezia – in qualità di amministratori, abbiamo scelto di governare il fenomeno. Grazie allo strumento del Contratto di quartiere, abbiamo coinvolto tanto i nuovi residenti quanto i sinti e abbiamo studiato come ridisegnare l’area con l’obiettivo di chiudere il campo e di migliorare la vivibilità per tutti”. Il risultato è stato la costruzione, avviata in questi giorni, di un villaggio di casette prefabbricate, disegnate dagli stessi sinti, dove ogni unità abitativa ha la possibilità di agganciare una ruolotte. “Si intende che i sinti pagheranno affitto e utenze. Come d’altra parte hanno sempre fatto al campo di via Vallenari” conclude l’assessora. Rimane da dire che nonostante il progetto del Contratto di quartiere del Comune di Venezia presentato nel 2000, si fosse classificato tra i primi, nessun governo, ne di destra ne di sinistra, lo ha mai finanziato. Forse proprio perché aveva paura vedersi attaccato da titoli come quello sopraccitato. Il Comune ha dovuto provvedere da se, con una apposita voce di bilancio. Voce che comunque rimane sempre meno onerosa che il mantenimento dell’attuale situazione. Tutto qua il famoso “regalo” virgolettato.
Un altro esempio di come sia possibile vivere insieme, ci viene sempre dalla laguna. Dallo scoppio della guerra nei Balcani nel ‘93 sino ai “bombardamenti umanitari” osannati dal governo d’Alema nel ‘99, almeno 800 profughi romeni si sono stabiliti a varie ondate a Zelarino e a San Giuliano nella periferia di Mestre. Un problema diverso, un intervento diverso. Il comune in questo caso ha affidato alla cooperativa Caracol un programma di inserimento scolastico dei minori e di avviamento lavorativo degli adulti. L’ultimo passo, in collaborazione con la Provincia, è stato l’inserimento abitativo avviando un percorso che ha messo questi profughi in condizioni di acquistare una casa o dei rustici da ristrutturare in provincia. “Non sono mai sorti problemi con i comuni interessati –ha spiegato l’assessore provinciale Rita Zanutel – e capita che molti sindaci restino addirittura meravigliati quando vengono a sapere che nel loro territorio vivono famiglie di ex profughi perfettamente integrati”.
E anche in questo caso, le spese sono state tutte a carico del comune di Venezia. Proprio il Governo d’Alema, che ha causato l’ultima e la più pesante ondata di sfollati dalla ex Jugoslavia, pochi giorni prima della guerra aveva deciso di sospendere il finanziamento al progetto profughi. Solo scarsa lungimiranza?

"Non giustifichiamoli". Intervista con Alessandra Zendron

Secondo una stima della procura, nel solo meranese, sono attualmente attivi circa trenta organizzazioni riconducibili ad ideologie di stampo nazista. Di queste, cinque sono state definite “pericolose” e non certo riconducibili a gruppetti di ragazzini dalla coscienza poco critica, che si limitano a farsi spedire croci celtiche e bandiere uncinate dalle ditte specializzate per allestire altarini davanti a busti di Hitler. Si tratta, si legge in una nota diramata dalla procura, di associazioni ben organizzate e solide economicamente, forti di contatti nel mondo della politica e dei “palazzi” istituzionali, che operano in stretto collegamento con associazioni di estrema destra tedesche e venete, in particolare del veronese.
Due settimane fa, sedici giovani sono stati arrestati e un centinaio inquisiti per una serie di pestaggi a danno di studenti bilingue avvenuti davanti a scuole e discoteche. Episodi che negli ultimi due anni, si sono moltiplicati, così come le pesanti minacce a membri della comunità ebraica e le oramai “solite” svastiche davanti alle sinagoghe. Quello dei naziskin è evidentemente un fenomeno in forte crescita.

Ne chiediamo la ragione storica Alessandra Zendron, attenta studiosa del fenomeno.
I motivi sono molteplici. Intanto bisogna dire che in Italia c’è un vuoto legislativo. In Germania, anche per i motivi che possiamo tutti immaginare, la legge è molto più severa nei confronti di chi si richiama all’ideologia nazista. Nel nostro paese invece, le manifestazioni con braccia alzate e sventolii di bandiere hitleriane sono permesse. La polizia interviene solo in casi di pestaggi che sono per loro natura imprevedibili. Questi giovani con le teste rasate se ne vanno in giro per la città e se non trovano un migrante da picchiare, picchiano un italiano o chi gli capita. Ma se non si fanno prendere, come si dice, con le mani nel sacco, la legge gli consente di organizzare tutte le “associazioni culturali” che vogliono.

Non bisogna trascurare neppure l’aspetto sociale del problema, però|
No. Purché con la sociologia non si arrivi a giustificarli. Ma va detto che in Germania ad esempio, il fenomeno naziskin ha registrato una forte impennata dopo la riunificazione. Centinaia di ragazzi dell’ex Ddr si sono trovati delusi dalle aspettative del capitalismo - di quelle del socialismo meglio non parlare - e senza prospettive lavorative. Un grave disagio sociale che ha causato un avvicinamento a ideologie totalizzanti, come per l’appunto quella nazista.

Questo però non si può dire dei picchiatori di Verona, figli di famiglie benestanti. Giusto?
Sì. Nel Veneto le motivazioni del fenomeno sono più simili a quanto è accaduto in Alto Adige. Un paese rimasto sino agli anni settanta relativamente povero, anche per il terrorismo che certo non invogliava il turismo. Poi è arrivato l’improvviso benessere, costruito però a forza di durissimo lavoro da parte di genitori che avevano poco tempo da dedicare ai figli. Ne è venuta fuori una generazione ricca, viziata, insicura e sola... Non vorrei generalizzare troppo, ma che ci sia un diffuso disagio giovanile in Alto Adige è sotto gli occhi di tutti: abbiamo una percentuale di suicidi minorili tra i più alti d’Europa e anche le stime delle dipendenza giovanile dall’alcol sono impressionanti. Questo è un terreno fertile per le ideologie naziste e violente che possono essere considerate delle vere e proprie forme di dipendenza. In Germania i delusi dal capitalismo, in Veneto i figli del capitalismo. In Alto Adige ci sono comunque delle motivazioni in più. Il neonazismo si inserisce a pieno titolo nel conflitto etnico. Da noi i nazisti sono antifascisti e i fascisti antinazisti.

Temo di non capire. Puoi approfondire questo punto?
E’ stato il fascismo a favorire l’immigrazione italiana in Alto Adige. In quel periodo le popolazioni di lingua germanica hanno sofferto moltissimo e patito innumerevoli ingiustizie. Durante i venti mesi di occupazione, i tedeschi si sono sentiti liberati e hanno collaborato con i nazisti, nonostante i molti conflitti e anche i morti causati dalle truppe di Hitler. Ma non è un caso che il 25 aprile da noi non sia festeggiato da chi parla tedesco. Quella data ha significato il ritorno all’Italia e continua a significare tutte le promesse che il nuovo stato italiano non ha mantenuto nei confronti delle popolazioni di lingua tedesca. Né una parte né l’altra ha per così dire “elaborato” questo passato che rimane un macigno duro da digerire. Insomma, per noi altoatesini o sudtirolesi, è molto più difficile essere antifascisti e antinazisti insieme. Non c’è stata l’epurazione che si è verificato nel resto d’Italia. I fascisti erano antinazisti, i nazisti antifascisti. E così è rimasto tutt’ora nel sentire comune.

Ma non è compito della politica “elaborare” questo passato?
Sì ma non lo fa. Il partito egemone la Svp ha un atteggiamento quanto mai ambiguo nei confronti di questi rigurgiti neonazisti e antisemiti. Di fronte ai recenti arresti sono imbarazzati. Continuano a parlare di “bravi ragazzi” magari un po’ intemperanti. E questo purtroppo è un atteggiamento diffuso tra la popolazione di lingua tedesca. Il nostro presidente della provincia autonoma, Luis DUrrrr (controlla come cazzo si scrive), che pure non può essere definito un razzista ma che al contrario ha sempre tenuto un atteggiamento molto critico nei confronti delle ostilità anti migranti dell’ultima campagna elettorale, non ha mai messo piede nelle sinagoga di Merano. E lui è uno che va anche alle inaugurazioni dei banchetti che vendono wurstel. Non dico per dire. E’ sempre in prima fila tutte le volte che si inaugura qualcosa, anche ai chioschi degli ambulanti. Eppure nella sinagoga non è mai entrato. E non è il solo esempio che ti potrei fare. La popolazione tedesca di Merano ha contribuito a consegnare ai nazisti l’allora numerosa comunità ebraica. Di questo non solo nessuno ha mai chiesto scusa, ma pare sia vietato parlarne. E non solo per la destra. Quando ero presidente del consiglio provinciale ho subito violentissimi attacchi per aver plaudito alla posa di una targa che commemorava l’omicidio nei campi di sterminio di una bambina ebrea di Merano. Fui attaccata addirittura dai consiglieri di lingua tedesca del mio stesso partito, i verdi, che mi dissero che “gli ebrei non hanno bisogno dei nostri soldi” portando a sostegno di questa posizione quello che accadeva in Palestina. Ma che c’entrava con la bambina ebrea assassinata dai nazisti? Episodi simili ne potrei citare parecchi. In questi giorni, gli storici stanno cercando di rivalutare l’effettiva portata del campo di sterminio di Bolzano. Una vicenda poco conosciuta ma è stato dimostrato che in questo territorio erano state organizzate molte strutture di tortura e di sterminio, piccole ma diffuse. Eppure se si fa la manifestazioni in ricordo delle vittime, ci sono solo italiani. E viceversa, se si parla delle vittime del fascismo, ci vanno solo i tedeschi. C’è una grande difficoltà ad andare dall’altra parte. Ma se si deve vivere insieme bisognerebbe avere il coraggio di affrontare anche queste situazioni sgradevoli. Non solo per te, ma anche per chi verrà dopo di te. Se non si parla di certe cose, le prossime generazioni finiranno per credere che non sia successo nulla di malvagio.

Come i naziskin, ad esempio?
Già. La cattiva politica si nutre di questi lutti non elaborati e di giustificazioni. Se si arresta un neonazista, i tedeschi dicono “i soliti italiani che arrestano un bravo ragazzo tedesco magari un poco eccessivo su certe questioni”. E dall’altra parte senti dire ai tedeschi che gli italiani sono i soliti fascisti. Si passa sopra se un ragazzo viene picchiato davanti alla scuola. Non c’è certezza di reato, né certezza della pena. Non dico pene draconiane, ma chi va in giro inneggiando ad Hitler dovrebbe andare incontro a denunce penali. Invece non solo i genitori, ma anche la scuola e le istituzioni tendono a minimizzare. A questo punto, bisogna essere grati alla procura perché copre un ruolo educativo che non gli spetterebbe. Invece ai politici, in particolare, viene concesso tutto. Berlusconi giustifica le sparate di Bossi affermando che ha un suo “colorito modo di esprimersi”. Stiamoci attenti. I politici vanno presi sempre sul serio. Anche Hitler diceva nel 1932 quello che voleva fare con gli ebrei eppure tutti lo giustificavano per il suo “colorito modo di esprimersi”. Quello che dicono va invece preso per oro colato. Se qualcosa di malvagio come il neo nazismo si diffonde, la colpa è anche di chi non misura le parole. E lo fa sempre per calcolo politico, non per ignoranza o perché gli piacciono le frasi colorite.

Senti, permettimi una domanda personale, ma tu sei più tedesca o più italiana? Più antinazista o antifascista?
Ah, io per essere una sudtirolese sono molto poco patriottica. Come diceva Hermann Hesse, la mia patria o è dentro di me o non c’è.

Bravi ragazzi. Di merda

Facciamoci coraggio. Perché ce ne vuole un bel po’ per farsi un “tour virtuale” negli universi web dell’estrema destra, tra inni alle italiche glorie e feroci insulti a “negri, comunisti e culattoni”. Facciamoci coraggio e andiamo a vedere se l’omicidio di Nicola Tommasoli ha risvegliato qualche coscienza intorpidita. Chi lo sa? Magari qualcuno si è fatto qualche domanda. Del tipo: “Perché mai 5 ragazzini della Verona bene se ne vanno in giro con aria truce a smazziare chi è appena appena un po’ diverso da loro”
E per scendere negli inferi, come il padre Dante, cominciamo col prendere la strada del purgatorio. Clicchiamo sulle facce pulite della xenofobia. Quelli di “E’ razzismo chiedere di rispettare le leggi?” Sprofondiamoci subito nel sito della Lega Nord. Tra i tanti “Fuori i clandestini” e “Meno tasse a Roma”, non sperate di trovare una riflessione sulle ronde del Sol Padano, di cui pur Verona dovrebbe essere zeppa. Nessuno si chiede dov’erano le pattuglie di camicie verdi armate di cellulare quando Nicola è stato massacrato. Nessuno si chiede come mai gli autori del pestaggio non erano albanesi o rumeni ma dei ragazzini di buona e padana famiglia. E nessuno che si chiede chi è per quali motivi – che non son certo quelli di rendere più sicure le nostre strade - abbia istigato questa campagna di violenza e di paura. Ma se andate a vedere sotto i “consigli alla sinistra” - “Prenda le distanze dagli impresentabili alla fiera del libro!” - e cliccate su Archivio notizie, troverete un laconico commento di Roberto Castelli: “Provo una profonda tristezza per questo ragazzo morto a causa di una stupida ferocia”. Niente di che. Il personaggio sa far di meglio. Neppure un proclama per il ripristino dell’impiccagione. Ma i cinque erano veronesi, mica marocchini. Il commento si conclude con un inevitabile appello ad una severa condanna ma con toni comunque smorzati. “Ora i magistrati non si appellino alla necessità di nuove leggi per punire esemplarmente i colpevoli. Le leggi ci sono già basta applicarle. Questo è omicidio volontario non certo preterintenzionale”. Non spetta al politico decidere i capi d’accusa ma i “consigli” ai magistrati, il Castelli non se li è mai fatti mancare.
Restiamo in parlamento, tra gli eletti dal popolo italiano, e ci tuffiamo nel sito di Alleanza nazionale. Il verde padano lascia posto all’azzurro “Più sicuri. C’è Alleanza”. Bel faccione di Fini in primissimo piano sparato a tutto schermo. Sotto ci sono molti link che danno ampio spazio al giuramento del nuovo governo. Moltissimi i riferimenti multimediali e i video che hanno come protagonisti in particolare Alemanno e Fini. C’è pure una aggiornata rassegna stampa ma non troviamo tracce dell’omicidio di Nicola. Da segnalare solo, sotto la promessa di Matteoli: “Riattiveremo procedure per ponte sullo stretto”, uno spot della neo ministra Giorgia Meloni. “Voglio un’Italia dove i giovani non abbiano paura” E qui l’ironia verrebbe sin troppo facile.
Andiamo avanti. O indietro, se preferite. Come dei novelli Peter Pan seguiamo la seconda stella a destra. Non per trovare l’Isola che non c’è, ma per andare a curiosare nel sito della Destra. “Un futuro migliore per il popolo italiano”. Bandiere tricolore e fiamme. Per fortuna, nessun faccione politico sorridente. A lato, molti banner per le donazioni, sostegni, iscrizioni e adesioni on line. Al centro dello schermo, un promettente “tutte le notizie in tempo reale”. Qui ci informano con orrore e raccapriccio che il comune di Brugherio (Milano) ha deliberato nel suo nuovo Statuto un documento che dà il via libera alle unioni di fatto tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso...” Sconvolti dalla notizia, scorriamo tutta la tendina ma senza risultato alcuno. C’è da dire comunque che il sito è fatto abbastanza male.
Molto meglio quello della Fiamma Tricolore. Qui l’omicidio di Nicola è in home page con un titolone che non lascia spazio ad equivoci. “Verona: sono delinquenti” Tutto da leggere il commento di Luca Romagnoli, segretario del Movimento Sociale, Fiamma Tricolore: “Accade che tra gli esseri umani ve ne siano alcuni che hanno spiccata capacità a delinquere, propensione che si concretizza in crimini efferati, ingiustificabili, esecrabili e stigmatizzabili neanche in modo adeguato”. E ancora: “Questi individui sono capaci di compiere azioni, crimini, che definire da cerebrolesi è riduttivo ed eufemistico”. E ancora: “Questi individui, indifferentemente se schermati da ‘fedi’ o simpatie politiche, sportive, religiose o quanto altro, non possono essere ascrivibili ad alcun contesto sociale, ne possono accampare giustificazioni di sorta”. E ancora: “Questi individui per le loro scriteriate azioni devono essere perseguiti e devono pagare il conto con la giustizia e la società” A questo punto si arriva al dunque. La politica non c’entra, soprattutto “noi” non c’entriamo. Giornalisti attenti. “Spiace dover stigmatizzare anche l’atteggiamento di certa stampa, non saprei se definire politicizzata o altrettanto scriteriata, che specula su tragici eventi che hanno a che fare solo con il teppismo criminale e la devianza ed il bullismo giovanile, e non con la politica”. Chiusura con squilli di trombe. “Soprattutto, men che meno, con la militanza e l’attivismo del Fiamma Tricolore, spesse volte oggetto misconosciuto d’aggressione, e che ha merito e metodo d’azione politica agli antipodi di quello che certa stampa e alcuni incauti fomentatori d’odio e scontro sociale vagheggiano e forse desiderano. Rimanere fermi testimoni della propria fede e delle proprie idee con onestà, disponibilità al confronto dialettico e lucida intelligenza: queste le doti del nostro militante. Per fortuna chi non le ha non era, non è, e mai sarà uno dei nostri”.
Lasciamo alla “lucida intelligenza” dei militanti della Fiamma Tricolore tutto il loro “confronto dialettico” e saltiamo in un altro sito, quello del portale di informazione Avanguardia legionaria. Vediamo un po’... in quale chat di discussione andiamo a curiosare? “Nulla impedirà mai al sole di sorgere.. Ave camerati”? Oppure “vado a sognare la campagna d'Etiopia,facendo finta di essere una camicia nera”? No. Restiamo in tema e andiamo a vedere se parlano di Nicola. Troviamo un articolo in cui si spiega come nel ’33 gli ebrei abbiano cercato di piegare la Germania nazista. Sotto, un tipo che si firma Thule racconta i “veri motivi” della persecuzione dei nazisti a Primo Levi. Scusate ma, sul serio, questo non ce la faccio a leggerlo... Ma ecco qua, proprio sull’home page, in fondo in fondo, dopo la notizia che l’europarlamentare e segretario Nazionale di Forza Nuova, Roberto Fiore esprime “fortissime perplessità sulla squadra di Silvio” perché “non è stato designato nemmeno un ministro cattolico” mentre “è alto il numero dei ministri che, privatamente ed in pubblico sostengono le lobby gay”, troviamo un bell’attacco al neo presidente della Camera, Gianfranco Fini, a firma di una certa Ercolina Milanesi.
“Che sia stato un atto deplorevole bruciare le bandiere di Israele è lapalissiano ma, l’Italia di oggi, non stupisce più, perché è divenuta uno stato anarchico. Criminalità, risse, pestaggi, omicidi, furti, i delinquenti ed assassini invece di finire in galera per poco non si da loro una medaglia, l’estrema sinistra attacca l’estrema destra per futili motivi, la parola fascista è divenuta una definizione corrente quando si vuole offendere od incolpare qualcuno, l’antisemitismo e il razzismo sono all’ordine del giorno e la famosa “monnezza” campana è il fiore all’occhiello. La giustizia non si sa se vi è ancora o è emigrata in altri stati. Fini ha fatto la sua solita gaffe, almeno lo si spera, perché se lo avesse detto con cognizione di causa, ringraziamo che non è il ministro degli Esteri, perché con la diplomazia che mette in atto, sarebbe la rovina e di rovine ne ha già fatte tante” Più avanti, viene ribadita la solita tesi. delitto compiuto da un branco di balordi che nulla ha a che fare con i nostri ideali, luminosi come una notte senza luna. “Non si è trattato di un gesto politico. Il procuratore capo Guido Papalia smonta il teorema e parla di “un uso della violenza per la violenza, senza particolari finalità politiche se non il colpire ciò che appare diverso” così come affermato anche dal questore Vincenzo Stingone. Ed anche per il pm Francesco Rombaldoni non c’entra la politica con il pestaggio di Nicola: solo ‘motivi banalissimi’.”
Siccome pare che la politica non c’entri, andiamo a vedere cosa si scrive nel sito di una associazione culturale: l’associazione culturale (si chiama proprio così!) veneto Fronte skinhead. Qui, l’omicidio di Nicola è in prima pagina. Troviamo ben due comunicati ufficiali. “L’associazione culturale Veneto Fronte Skinheads condanna fermamente ancora una volta quanto accaduto a Verona nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio e il suo tragico epilogo, frutto della più becera e stupida violenza gratuita mossa solamente dalla noia e dalla povertà morale di certi individui, e vuole prendere categoricamente le distanze da questi cinque balordi che nulla hanno a che spartire con noi”. “Vogliamo rivolgerci direttamente alla famiglia del povero Nicola, esprimendo il nostro più sentito cordoglio, mossi da quella lealtà e onestà che sempre ha contraddistinto il buon nome della nostra Associazione e dei nostri associati che mai si sono macchiati di simili gratuite efferatezze.
Capiremo anche il loro rifiuto nell’accettare questa nostra sincera e sentita presa di posizione, che certamente non è rivolta a ricevere lo scagionamento per qualcosa di cui non siamo responsabili, ma semplicemente per far capire che in una società oramai allo sbando i mostri non siamo noi Skinheads Veneti”.
Il secondo comunicato, ricalca il prima con una avvertenza in più per i soliti ed incauti giornalisti che se scrivono di noi vanno a rischio di querela. Per inciso, chi scrive ne ha già una. “ Come sempre la faziosità e la scorrettezza dei mezzi d’informazione hanno già provveduto a dipingere il balordo responsabile di questa stupida, inutile e brutale aggressione, come un appartenente alla nostra associazione. Nulla di più falso! Il fatto che questo squilibrato mentale dichiari di essere vicino al nostro ambiente e che indossasse un giubbetto tipo ‘bomber’ la sera dell’aggressione o che abbia anche ipoteticamente assistito ad un concerto organizzato dalla nostra associazione, non significa assolutamente che abbia a che fare con noi. Diffidiamo perciò qualunque giornalista a sfruttare faziosamente la situazione per tentare d’infangare il buon nome della nostra Associazione!” Come dire: attenti che sguinzagliamo gli avvocati. “Non saremo degli stinchi di santo, ne tanto meno seguiamo l’etica cristiana del porgere l’altra guancia, ma mai negli onorati ventidue anni di storia della nostra associazione ci siamo resi responsabili di azioni così miserabili, stupide ed insensate! Per tanto ci avvarremo da subito del nostro collegio difensivo procedendo per vie legali contro chi utilizza senza comprovati motivi il nome della nostra associazione, tirandolo inutilmente ed ingiustamente in ballo in questa circostanza”. Segue una poco tranquillizzante firma: “feroci più che mai”. Altro nel sito non c’è. Notizie di concerti, qui chiamate “straordinarie esibizioni”, di gruppi quali Gesta Bellica, Blackout, Sleipnir, Fear Rains Down, Endstufe, Estirpe Imperial e ZetaZeroAlfa... Ah, sì! E’ disponibile il nuovo calendario dell’Unione Skinhead “Girl Italia 2008”. Ho cliccato dappertutto ma non ho trovato neppure una foto.
Ultimo giro di danza con il sito di Forza Nuova dove ci tuffiamo come con una pietra al collo. C’è da dire che non è fatto neppure male, il sito. In alto, si può ascoltare l’inno o scaricarselo come suoneria per il cellulare. Poi è tutto un “grazie elettori per averci votato”, “grazie ai militanti per aver fatto sì che gli elettori ci votassero”. Nella colonna di sinistra, le solite richieste di donazioni. Puoi anche scaricarti loghi, manifesti e “merchandising d’area”. A destra, un link invita a scaricare un opuscolo dall’equivoco titolo “la violenza sessuale”. Andiamo subito a vedere. E’ un elenco dei punti cardine del pensiero forzanovista su come combattere questa piaga: “promuovere, diffondere e divulgare, in qualsiasi forma, della cultura del rifiuto assoluto di qualsiasi pratica di attacco alla vita umana fin dal momento del concepimento, intendendo qualsiasi forma di interruzione di gravidanza, effettuata nelle forme previste dalla legge che in quelle illegali” Ma che c’entra con lo stupro? Continuiamo a leggere. “la diffusione di un movimento di coscienza che porti all’abrogazione della disastrosa legge 184, affinché le pratiche abortive siano riconosciute come forme di assassinio sul piano della vita singola e come pianificato tentativo di genocidio del popolo italiani, sul piano sociale; attuazione di concrete misure di dissuasione e di deterrenza nei confronti delle potenziali interruzione di gravidanza”. E lasciamo perdere qua. Torniamo all’home alla ricerca di quel che ci interessa. Scorriamo i link delle notizie. Niente copia e incolla. Qui bisogna correggere gli errori di ortografia. “Violenza nei confronti di una donna a Roma nord. Forza Nuova ritiene gravissimo che Roma sia alla mercé di stupratori immigrati che poi tentano di uccidere le proprie vittime. La violenza avvenuta alla luce del giorno riporta in evidenza il caos provocato da una immigrazione sempre più vigliacca ed assassina, che non potrà essere fermata né da Rutelli che fa parte di uno schieramento che favorisce apertamente l'immigrazione, né da Alemanno che è corresponsabile della legge vigente e cioè della Bossi Fini.” E ancora più sotto: “Stranieri e sicurezza:Maroni gia’ smarona! Ancora non ha preso possesso del dicastero e già Maroni tradisce il voto ricevuto! Infatti, ha ieri dichiarato: ‘Gli extracomunitari clandestini andranno espulsi’. E su questo non ci piove; ma ha, inoltre, aggiunto: ‘per farlo con i cittadini comunitari che delinquono e/o si comportano in maniera anti-sociale chiederemo alla Commissione Europea’. Tenendo presente che sono comunitari gli zingari che stanno trasformando le nostre città in campi di battaglia dove soccombono solo gli italiani, queste dichiarazioni ci preoccupano e ci indignano!” Si continua con un pressante appello “La vita e la sicurezza delle nostre donne, la difesa della nostra proprietà privata è più importante di fogli di carta firmati da burocrati massoni e superprotetti che mai sentiranno sulla loro pelle ciò che significa vivere nella paura” Chiusura: “Solo forza nuova difende gli italiani”.
Anche qua nessuno che si chiede perché e per come cinque fighetti di buona famiglia se ne vadano per Verona a massacrare chi non rispecchia certi criteri di ariana purezza. in fondo alla pagina troviamo un articolo in cui si invitano “Marco Paolini, Gianfranco Bettin, Tiziano Scarpa, Vitaliano Trevisan, Romolo Bugaro, Alberto Fassina, Marco Franzoso, Giulio Mozzi, Gian Mario Villalta, Mauro Covacich, Ferrucci, e tutti gli altri ‘scrittori intellettuali’ che hanno dato origine al patetico incontro anti razzista di Treviso, gente con incapacità di distinguere la realtà, o più semplicemente in sfacciata malafede, piuttosto che gettarvi in sballate retoriche anti-razziste, state a casa, rilassatevi, e leggete un buon libro”. Invece di “farsi ritrarre assieme ai giovinastri no-global”. Il sito spezza una lancia in favore dello sceriffo “Gentilini, evidentemente persona eccessivamente genuina e pragmatica per i loro gusti invece più affini alle ciurme, alla mentalità mondialista ed alle ‘espressioni artistiche’ di certa sinistra”.
Ma su Nicola niente di niente. Andiamo a vedere allora sul loro blog. “Amici camerati oggi al campidoglio sventolava la celtica e la bandiera della nostra amata Italia. Finalmente qui a Roma ci sarà un sindaco che metterà a posto le cose. La voce della verità non tacerà per sempre!” Neanche qua niente. Proviamo con un altro forum di discussione. Su questo ad esempio si parla di violenza: “Avete saputo? Studentessa assalita fuori dalla stazione di Roma da un rumeno. Accoltellata e abusata. Io non ho più parole per esprimere quello che penso. Due ragazzi hanno visto l'accaduto e hanno chiamato la polizia. Io l'avrei chiamata, ma prima lo massacravo! Bastardo!” Risposta: “Non è l'unico questi ultimi giorni non hai letto della studentessa violentata nella zona Brera di Milano qualche giorno fa da un egiziano clandestino? Diventano sempre di più! Dovremmo fare una marcia in tutta Italia, una fiaccolata in cui cacciamo ogni abusivo che sfrutta la nostra terra e ferisce il nostro popolo! Dobbiamo proteggere le nostre donne! Queste povere concittadine che subiscono violenze nelle loro città! Basta!” Un altro camerata invita a ribbelarsi con due b: “Camerati ribbelliamoci a questo sistema che ci fa diventare delle capre, ricordate: meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora”. Gli stupri –rigorosamente efferati e opera di albanesi e rumeni nei confronti di ingenue ragazze dagli occhi azzurri e dai capelli biondi -, sono il piatto forte del blog. Uno psicologo potrebbe anche ricavarne deduzioni interessanti. La ricetta poi è sempre questa: “Saluti a tutti, alti i cuori e sguardo fiero, come la maggior parte degli Italiani ho un problema, sono stanco di questi extracomunitari, vivo ai mè (credo intendesse ahimè.ndr) circondato da baluba, come Enrico Toti voglio lanciare contro di loro la mia carozzina, ... sono incazzato di brutto, ma cari camerati sono incazzato anche con voi, organizziamoci, colpiamone uno x educarne cento”. E qui troviamo la risposta alla domanda iniziale: perché mai 5 coglioncelli di buona famiglia se ne vanno in giro per le strade di Verona smazziando chi trovano?

Vicenza in corteo

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Non c’è stato niente da fare. Non sono serviti gli insulti del sindaco vicentino che ha bollato i manifestanti come “imbecilli”. Non è servito a niente l’oscuramento pilotato della gran parte dei media nazionali e locali. Non è servito nemmeno l’oramai consueto boicottaggio delle ferrovie che hanno addirittura chiuso i bagni della stazione “per questioni di sicurezza” e schierato plotoni di controllori ad ogni binario. Non è servita nemmeno la politica del “non li sento e non li vedo” in cui si sono arroccati tanto il governo Prodi di centro sinistra di Prodi quanto la giunta Galan di centro destra. “E perché mai dovrei interessarmi di quel che faranno poche decine di anti base?” aveva commentato il governatore del Veneto. Alla faccia delle “poche decine”!


Sabato scorso a Vicenza hanno sfilato almeno 80 mila persone. Un lungo corteo pacifico, colorato e festoso. Lo aprivano migliaia di vicentini dietro lo striscione del presidio permanente. Seguivano gli abitanti di Quinto Vicentino che ribadivano su cartelloni verdi portati a tracolla il loro no al villaggio Usa sulla loro terra. E poi No Tav, valsusini, No Mose, comitati, rappresentanze di immigrati, centri sociali, studenti, anarchici, comunisti, pacifisti, ambientalisti, associazioni cristiane, Amici di Beppe Grillo, sindacati di base, sindaci e pacifisti della Repubblica Ceca, Emergency… davvero impossibile elencarli tutti. C’era anche una rappresentanza della squadra di rugby (la base la vorrebbero costruire anche sopra il loro campo), riconoscibile dagli erculei bicipiti e da una grande palla ovale color arcobaleno. E donne, bambini, preti, professori, anziani, disabili, premi nobel, operai, giovani, casalinghe, migranti… tutti diversi, tutti insieme in un immenso corteo di pace che non soltanto ha dato la misura della forza e della determinazione, ma anche della maturità raggiunta dal movimento No Dal Molin. Una maturità che ha conquistato l’intera città. Non sono valsi a nulla gli allarmismi lanciati da Forza Italia. Non sono servite a niente le raccolte di firme contro il corteo organizzate dalla Lega “in difesa dei commercianti”. Questa volta, anche la Vicenza delle botteghe ha accolto la manifestazione con le porte dei negozi aperte e le vetrine luccicanti. Lo stesso hanno fatto le tradizionali bancarelle natalizie. E quando il corteo ci è passato vicino, più di un manifestante ne ha approfittato per acquistare qualche regalo da sistemare sotto l’albero.
Maturità, dicevamo, che si evince anche dalla dimostrata capacità organizzativa del movimento anti base che, dopo la prima grande manifestazione dello scorso 17 febbraio, è riuscita a riportare in piazza 80 mila persone, questa volta, senza il supporto di nessun partito. In tutto il corteo, non siamo riusciti a vedere una bandiera del Sole che Ride. E in quanto alle Falci&Martelli di Rifondazione e del Pdci, le abbiamo contate con le dita di due mani. Ma se le bandiere sono rimaste appese nelle sedi dei partiti, non è rimasta a casa tutta la gente che le sventolava. Tutti a Vicenza per scegliere un futuro senza basi di guerra, come a febbraio, ma stavolta con altre bandiere sulla spalle: quelle dei No Mose, dei No Tav, dei Cobas o semplicemente il vessillo arcobaleno. Il neo nato partito della Sinistra e degli Ecologisti marciava in fondo al corteo. Un paio di dozzine di persone, quasi tutti parlamentari o quantomeno segretari regionali che reggevano da soli le loro bandiere.

Tutti i colori della pace

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Maschere bianche contro l’indifferenza. Ad aprire il corteo contro il Dal Molin di domani a Vicenza sarà uno striscione con la scritta «No Dal Molin», tenuto dai rappresentanti dei diversi movimenti contro la base. Sui volti, delle maschere bianche, «per evidenziare l’invisibilità di Vicenza, svenduta e trattata come una merce dallo stesso presidente della Repubblica», spiega il Presidio Permanente. «Su Vicenza è calato il silenzio. La storia di migliaia di donne e uomini che difendono la propria terra non viene raccontata dai grandi media nazionali e dal governo arrivano solo segnali d’arroganza che dimostrano che i cittadini sono considerati soltanto come una presenza collaterale».
All’indomani di questa grande mobilitazione «dal basso» che porterà l’Europa a Vicenza, un segnale è però arrivato finalmente «dall’alto».


Ieri i capigruppo de «La sinistra l’arcobaleno» e tutti i deputati veneti schierati contro la nuova base militare Dal Molin hanno depositato una mozione sul blocco dei lavori di bonifica dell’aeroporto presso la camera dei deputati. Forse è l’inizio di un dialogo tra il movimento vicentino contrario alla costruzione della base e il governo.
Domani i cittadini contrari alla costruzione della nuova base militare in città scenderanno in piazza - insieme ai rappresentanti dei gruppi pacifisti d’Europa e agli altri comitati aderenti al «Patto di mutuo soccorso» - per partecipare all’iniziativa centrale della mobilitazione che da oggi, per tre giorni, coinvolgerà la città del Palladio. «Vicenza darà una nuova lezione di determinazione, democrazia e senso civico - assicurano gli organizzatori -, attraverso la partecipazione di famiglie, anziani, mamme e bambini». Parteciperanno alla manifestazione anche alcuni cittadini statunitensi e dei sindaci giunti a Vicenza dalla Repubblica Ceca, insieme a numerosi altri cittadini europei. Questa sera i diversi comitati arrivati a Vicenza si confronteranno all’interno di un dibattito sulla presenza militare Usa e Nato in Europa e sui movimenti che si oppongono all’espansione militare, che aprirà ufficialmente la tre giorni europea, alle 20.30 al Presidio di Ponte Marchese. Sempre in serata, dalle 18 nella chiesa di San Carlo in via Colombo 1, il coordinamento dei gruppi cristiani per la pace di Vicenza organizza un momento di confronto interreligioso, con testi, musiche dal vivo e testimonianze dalle differenti tradizioni religiose. Fino a mezzanotte, la chiesa sarà aperta per chi si vorrà fermare e partecipare all’iniziativa.
Il corteo di domani, sabato, partirà alle ore 14 dalla stazione dei treni, «e dimostrerà che la popolazione vicentina non si è affatto arresa alle imposizioni calate dall’alto», assicurano i vicentini no base. «Sarà un corteo variegato e trasversale. Chi voleva dipingerci divisi e litigiosi, ancora una volta, è stato smentito: questo movimento è un prisma di sensibilità diverse, unite dall’unico obiettivo di impedire la militarizzazione di Vicenza».
Si aspettano circa 20 mila presenze a Vicenza domani, per ribadire che «la vicenda Dal Molin non è affatto chiusa, a differenza di quanto vorrebbero lasciare intendere il ministro D’Alema e il presidente Napolitano», come sottolineano i portavoce del Presidio Permanente.
Per accogliere i movimenti europei che stanno arrivando in queste ore a Vicenza per partecipare alla manifestazione, i ragazzi del «collettivo Caserma No War» occupano da ieri sera una ex caserma, abbandonata da 10 anni, nella periferia di Vicenza. Il Presidio Permanente aveva chiesto al sindaco e al presidente della provincia di attivarsi per individuare spazi idonei all’ospitalità di chi arriverà a Vicenza per la manifestazione europea, ma nessuna risposta è mai arrivata da parte delle istituzioni vicentine. L’obiettivo dell’occupazione - che si concluderà domenica, con la chiusura della tre giorni europea - è quindi quello di garantire l’ospitalità ai manifestanti che stanno arrivando a Vicenza. «L’apertura dell’‘ostello caserma No War’ - spiega un ragazzo del collettivo - oltre a risolvere il problema pratico dell’accoglienza per chi giunge a Vicenza, dimostra che le strutture militari possono, attraverso la creatività, essere riconvertite ad usi civili e assumere una importante valenza sociale importante».
Questa sera, alle 19, il «collettivo Caserma No War» darà il benvenuto ai manifestanti con un aperitivo, per poi spostarsi alle 20.30 al Presidio di Ponte Marchese, per partecipare al dibattito in programma. Sempre alla caserma occupata «No War», domani mattina gli studenti delle scuole medie superiori si sono dati appuntamento per un momento di incontro e socialità prima della manifestazione del pomeriggio.
Il percorso deciso dai no base per la manifestazione di sabato non chiude il centro della città e lascia libero l’accesso a molti parcheggi cittadini e passerà per il centro storico. L’arrivo del corteo in viale Roma - ultima tappa della manifestazione - è previsto per le ore 16. Una volta conclusa la manifestazione, un altro corteo, dei vicentini a di chi si fermerà per la serata e per i workshop di domenica, partirà verso il Presidio Permanente. Proprio in questi giorni il Presidio è stato rinnovato e allargato: un «Presidio a cinque stelle» - come lo hanno definito i no base - è stato allestito per accogliere i movimenti nazionali ed europei. Sabato sera il gruppo donne No Dal Molin metterà in scena il proprio spettacolo teatrale alle 18.30 e dalle 19 si potrà cenare. La serata continuerà con la musica di Akatasuna, Don Ciccio Philarmonic Orchestra e l’Osteria Popolare Berica.
Le adesioni al corteo sono numerose, e non è mancata qualche sorpresa dell’ultimo minuto.
Tra queste, l’intenzione di partecipare dell’imprenditore Pierandrea Aggujaro, ex presidente della sezione Edili di Assindustria, e degli altri soci dell’Aeroclub di Vicenza. La loro è una protesta limitata al futuro della pista di volo dell’aeroporto Dal Molin [che dovrebbe essere demolita per lasciare spazio alla nuova base], come spiega Aggujaro. «Non siamo certo no global, ma vogliamo far sentire la nostra voce per difendere una realtà, quella dell’Aeroclub, che ha una storia lunga 80 anni e fornisce servizi importanti. Non possiamo accettare che nessuno si preoccupi del futuro dell’Aeroclub, per questo vogliamo far percepire la nostra presenza, senza confonderci con altre realtà, ma per attirare l’attenzione sulla pista di volo del Dal Molin».
Anche la Chiesa Evangelica Metodista di Vicenza ha deciso di dare la sua adesione, per testimoniare il proprio impegno per la pace e la nonviolenza. «Riteniamo che i cristiani abbiano il dovere di testimoniare una realtà di pace che non passa per le armi ma attraverso la ricerca della giustizia e della solidarietà e di denunciare come qualunque corsa agli armamenti testimoni di fatto la cultura opposta», dice la presidente del consiglio di chiesa, Gabriella Giannello. «Inoltre riteniamo che le conseguenze negative di un simile raddoppiamento, in una piccola città come Vicenza, che saranno i vicentini a sperimentare in prima persona, non possono essere ignorate in favore di cosiddetti interessi superiori di politica internazionale e che qualunque governo dovrebbe affrontare un progetto dal simile impatto ambientale e sociale con trasparenza e coinvolgendo pienamente la popolazione locale direttamente interessata, così come recita anche il programma elettorale dell’Unione», continua Giannello, criticando il silenzio delle chiese in simili momenti.
Anche la domenica vicentina, ultimo giorno della mobilitazione contro la base, si preannuncia ricca di spunti e stimoli interessanti. Alle 11 è in programma un reading di poesie dal titolo «Donne contro le guerre», con la lettura di «Pensieri di pace durante un'incursione aerea», di Virginia Woolf e alcuni brani di Lidia Munari. Dalle 14 alle 19, sempre al Presidio, sono in programma alcune tavole rotonde parallele con i rappresentanti dei vari movimenti europei contro la guerra. Oltre a quattro focus geografici, con altrettante tavole rotonde - sulla situazione politica e i movimenti di opposizione in Usa; sull’Europa dell’est; sulla Germania; sull’esperienza italiana del Patto di mutuo soccorso - vi sarà anche un’incontro organizzato da Emergency, con Carlo Garbagnati, vicepresidente dell’associazione e Carla Dani, ostetrica di ritorno dall’Afghanistan. Alle 17, nella bottega di commercio equo e solidale Unicomondo di Vicenza, vi sarà un reading dal titolo «Riflessi-oni sull’acqua», con Patricia Zanco. Chiuderà la tre giorni di mobilitazione lo spettacolo teatrale «Disarmati fino ai denti» di Roberto Caruso, con la Compagnia Abracalam, alle 20.30 al Presidio. Vicenza diventerà così il luogo di incontro e confronto dei movimenti per la pace e per la difesa dei beni comuni.
E chi pensa che tutto si concluderà in un fine settimana, potrebbe sempre fermarsi anche il lunedì. Per accorgersi che a Vicenza c’è chi non intende mollare, ma è invece determinato a continuare la propria battaglia pacifica per impedire la costruzione di una nuova base di guerra.

La mappa dell'altra Vicenza

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Se siete in viaggio verso Vicenza per partecipare al corteo organizzato dai No Dal Molin questo pomeriggio, potrebbe esservi utile tenere in tasca una mappa. O meglio ancora, due mappe. Quella della città la potete reperire facilmente, in tabaccheria, o su internet, e vi aiuterà a non perdervi lungo il percorso del corteo. Ma una seconda mappa, che segna i percorsi diversi dei tanti movimenti vicentini contro la base, potrà essere utile per orientarvi tra le diverse realtà che hanno rianimato una città assopita dal mito del benessere a nordest. I percorsi intrapresi negli ultimi mesi dai numerosi comitati cittadini si articolano seguendo strade differenti, ma portano verso una meta comune: impedire la costruzione di una nuova base militare Usa a Vicenza.
«Il nostro obiettivo è quello di costruire una cultura di pace, partendo dalle azioni concrete sul territorio». Ilaria ha costituito con gli altri giovani del suo paese, Quinto Vicentino, un gruppo parrocchiale - non a caso chiamato Traiettorie di pace - per opporsi al progetto Dal Molin e fare della pace una pratica concreta. Proprio a Quinto Vicentino sarebbe dovuta sorgere la «cittadella militare» per le famiglie degli americani in servizio nella nuova base, se il consiglio comunale non avesse deciso all’unanimità di respingere la richiesta di realizzazione del villaggio residenziale. Quel primo no «istituzionale» al progetto Dal Molin è stato il frutto del lavoro di sensibilizzazione che il comitato Amiamo Quinto ha portato avanti in questi mesi, organizzando assemblee e incontri per informare la comunità locale.


Se le amministrazioni locali schierate contro il Dal Molin restano poche e indecise, si rafforza invece la posizione dei gruppi cristiani contro la base, coordinati dal gruppo Famiglie per la Pace. Di recente le Acli [Associazioni cristiane lavoratori italiani] vicentine hanno riconfermato la loro contrarietà al progetto, ritenendo la nuova base una «pedina strategica nella folle corsa agli armamenti», contraria ai principi etici e cristiani della pace. Sempre le Acli hanno anche denunciato nella questione vicentina «una grave carenza di informazione, un occultamento della verità, una mancanza di trasparenza, un'assenza di coinvolgimento, un perdurante rimpallo di responsabilità tra vari livelli istituzionali, che contribuiscono ad alimentare una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni». All’appello del movimento cristiano contro la base si è unito anche un gruppo di sacerdoti che affermano di non voler «restare indifferenti, né essere complici» e sottolineano l’importanza di arrestare la corsa agli armamenti e mettere al bando le armi nucleari, verso il disarmo.
Di disarmo si occupano attivamente anche i Beati costruttori di pace, attualmente impegnati in una raccolta firme per una legge d’iniziativa popolare per la messa al bando di tutte le armi nucleari nel rispetto dell’impegno assunto dall’Italia con la firma del trattato di non proliferazione nucleare nel 1975. «A Vicenza - dice Andrea Fusolo, dei Beati di Vicenza - si è creato per la prima volta un movimento vitale e vivace, che ha risvegliato una città addormentata dal mito del benessere economico.
Dello stesso parere è anche Marina Bergamin della Cgil di Vicenza. «Finalmente a Vicenza scorre pensiero - commenta -. In città coesistono culture diverse, che adottano pratiche politiche differenti, ma complementari. L’anno che inizia pone nuove sfide ai movimenti. In primavera ci saranno le elezioni amministrative in città e allora vedremo se e come la politica saprà ricomporre gli stimoli positivi che vengono dai movimenti vicentini».
Per promuovere una politica «che ascolti la base», a Vicenza si è costituito il comitato Più democrazia, che chiede l’introduzione del referendum propositivo e abrogativo all’interno dello statuto comunale, strumento utile per concretizzare la partecipazione dal basso di cittadini e associazioni locali. «I politici - spiega Eugenio Berti del comitato - usano il mandato degli elettori come strumento per fare solo gli interessi di partito. Il risultato di questa democrazia è la non rappresentanza dei cittadini, che sono esclusi dalla gestione della cosa pubblica, con pesanti ricadute sullo stato sociale e sul territorio. Vicenza ne è un esempio».
Tra i tanti strumenti messi in atto dalla comunità vicentina per opporsi alla base, quello maggiormente discusso in questi giorni è senza dubbio la moratoria dei lavori di costruzione della nuova base Usa, firmata lo scorso giugno da 170 parlamentari.
Il Presidio permanente, dopo l’impegno di tanti mesi di iniziative contro la base, chiede ora un impegno concreto e immediato da parte dei politici. «Chiediamo che alle parole seguano atti concreti in grado di riaprire la questione politica su Vicenza - dicono i rappresentanti del Presidio -. Vogliamo che la pace diventi azione concreta, a partire dalla questione vicentina. La moratoria deve essere attuata subito, ponendo a Prodi la discriminante su Vicenza».
Diversa la posizione del Coordinamento dei comitati, che durante la «festa grande No Dal Molin» del 2 dicembre scorso ha lanciato la petizione nazionale per una raccolta di firme che allarghi il consenso intorno alla lotta contro la base, a sostegno della moratoria parlamentare. «Con la raccolta firme - spiega Giancarlo Albera, del Coordinamento - chiediamo che il governo convochi entro i primi mesi del 2008 la seconda conferenza nazionale delle servitù militari e attivi gli strumenti necessari per ascoltare la popolazione locale. Vogliamo coinvolgere tutte le diverse componenti del movimento per la pace nella nostra lotta contro la nuova base militare, perché si amplifichino le possibilità di successo della mobilitazione».
Mentre alcuni lottano per impedire la costruzione di una nuova base, altri agiscono sulla base americana già presente in città, la caserma Ederle. L’obiettivo delle azioni del comitato Vicenza est è quello di ottenere la conversione della caserma ad uso civile. Durante questi mesi il comitato ha legato stretti rapporti con alcuni movimenti pacifisti americani e ha coinvolto nelle proprie azioni di protesta dei militari disertori e reduci di guerra.
Dai campi di guerra, anche l’esperienza di Emergency torna attuale a Vicenza. «La contrarietà alla guerra da parte di Emergency nasce tra le corsie degli ospedali, dall’incontro diretto con la guerra e dalla consapevolezza dei disastri che provoca - racconta Claudio Lupo del gruppo vicentino -. A Vicenza si sta costruendo la pace con fantasia e passione; Emergency si oppone alla costruzione della base Dal Molin e di altre basi militari, dalle quali partiranno le truppe impegnate nelle guerre di oggi e di domani».
Nella città del Palladio, l’arte non poteva mancare tra le diverse forme messe in atto per esprimere la propria contrapposizione alla nuova base. «Spero che l’arte fermi le nefandezze della politica», afferma il vicentino Alberto Peruffo, della Fattoria artistica Antersass. La sua opera, «The wandering cemetery», ispirata dalla situazione di Vicenza, è stata presentata all’ultima Biennale di Venezia. «I principi che hanno reso Vicenza patrimonio mondiale dell'Unesco - sostiene l’artista - sono inconciliabili con la situazione attuale della città. Dal momento in cui Vicenza metterà in atto il progetto Dal Molin, esemplare per mancanza di dialogo tra le parti, la nostra città non potrà più essere di esempio al mondo per l'urbanesimo».
Proprio tra le bellezze artistiche della città del Palladio sfilerà questo sabato il corteo europeo contro la base. Tenete in tasca le mappe e ripercorrete anche voi in un pomeriggio i diversi percorsi dei movimenti vicentini. «La meta è vicina - Francesco ne è convinto -. La base da cui deve ripartire Vicenza non è una base di guerra, ma quella costruita in questi mesi dalle esperienze di tutti i movimenti e della gente comune».

La mostra del cinema vista da Venezia

Qui in laguna, discorrendone tra uno spritz e l’altro, con le gambe comodamente buttate sotto un tavolino d’osteria, la chiamiamo il principio di compensazione o anche la legge del “non ti può andare tutto bene nella vita”. Recita così: “Ti piace vivere a Venezia? E allora beccati la mostra del Cinema, la Regata Storica, il carnevale, il ponte di Calatrava, la Biennale d’arte con tanto di coccodrilloni rosa lunghi 6 metri appesi fuori dalle finestre sul canal Grande che fanno tanto artistico! Ed ogni mattina, quando ti alzerai per andare a lavorare col sudore sulla fronte dovrai fare a spintonate per entrare in un vaporetto che galleggia per scommessa, strapieno di tedeschi e giapponesi.
E se la Fiat potrà a suo comodo e col ringraziamento della Regione sventrare palazzo Grassi con un impianto di ascensori per farne una sede espositiva, tu, per mettere una controfinestra dovrai attraversare un purgatorio di carte bollate”. Il grande Emilio Vedova, quando lo si incontrava al Paradiso Perduto o in qualche altra bettola, raccontava che questa città è piena di problemi “ed è bene discuterne a fondo. Altrimenti non sapremmo che altro fare la sera per tirare tardi”. E la mostra del cinema è un esempio perfetto dei problemi cui aspirava Vedova. Non ti fa incazzare (come succede se discutiamo del Mose), ci puoi spettegolare fin che vuoi, è divertente (leggetevi le interviste alla madrina Ambra Angiolini) e non scappa neppure il lato culturale. Anzi diciamo pure che dopo un paio di edizioni a dir poco letargiche, questa 64esima edizione sta dimostrando che l’encefalogramma cinematografico di quel che resta della civiltà occidentale non è ancora piatto. Piatto casomai lo è quello di tutti quei politici, puttanieri ed arrampicatori, – compresi vari assessori e consiglieri regionali - che si sono dannati l’anima per scroccare inviti in stile “lei non sa chi sono io” alle feste vip e alle inaugurazioni. “Ho assistito a certe sceneggiate che mi vergognavo io per loro” mi ha raccontato un amico che lavora all’ufficio stampa della mostra. Salvo poi disertare le sale quando in cartellone c’erano film troppo impegnati. Leghisti e forzisti non son strutturati per certe cose. “Questa storia è scandalosamente di parte. Ma sono solo i comunisti a fare i film?” ho sentito sussurrare due poltrone davanti alla mia durante una proiezione di “In the Valley of Elah”, duro film di denuncia sugli violenza delle guerra in Iraq di Paul Haggis. Purtroppo no. Avrei dovuto rispondere. Altri cinque anni di Berlusconi e alla mostra del cinema ci toccava applaudire il Bagaglino.
Ed è proprio la guerra in Iraq, i suoi orrori e le sue menzogne, che ha alzato l’interesse sulla mostra per merito del già citato Haggis ma grazie soprattutto al maestro Brian De Palma che nel suo Redacted ha raccontato con il linguaggio del documentario giornalistico la storia vera dello stupro di una ragazzina irachena ad opera dei militari statunitensi. Il film, lo confesso, non l’ho ancora visto ma ho avuto la fortuna di assistere alla conferenza stampa di Brian De Palma. “Se voi registi vi mettete a realizzare documentari giornalistici, a noialtri giornalisti potrebbe venire la tentazione di girare un film” lo ha punzecchiato il redattore di un giornale locale. “Ottima idea. Magari scoprite vi riesce meglio che fare i giornalisti”. Affondato il colpo, De Palma ha rigirato subito il coltello sulla piaga: “Parliamoci chiaro. Se siamo solo noi cineasti a prenderci la briga di denunciare certe situazioni vuol dire che i giornalisti non sanno, non vogliono o non possono fare il loro mestiere”. Silenzio in aula. Un altro giornalista ha cercato di cambiare discorso con una domanda sul protagonista del film, ma De Palma lo ha dribblato con eleganza e ha cominciato ad elencare, puntuale e preciso, tutti i meccanismi con i quali il Pentagono filtra, devia e costruisce tutte le informazioni provenienti dall’Iraq. “Quello che ci viene raccontato è tutto falsificato. Tutto” ha spiegato. E non solo negli Usa, se consideriamo che “gli inviati dei maggiori giornali del mondo che scrivono sulla guerra in Iraq lo fanno da Washington”. Quindici minuti di “lezione” di giornalismo ai giornalisti. Grande Brian! Li ha ammutoliti tutti. Quelli che ancora erano rimasti in sala, beninteso. Gli altri eran già corsi ad intervistare l’Ambra che di sicuro è meno piantarogne, non ti critica il mestiere e non ti complica la vita. O magari il vicepremier Francesco Rutelli che lo trovi sempre là, a gironzolare per i corridoi come fosse a casa sua. E se qualcuno gli chiede se si farà il nuovo palazzo del cinema al Lido risponde: “Certamente. Nel 2008 apriremo i cantieri. Il governo ha già stanziato 20 miliardi di euro. Come? Gli altro 57? Beh… basta soltanto trovare qualche privato…” Alla cerimonia di presentazione della Mostra, qualcuno gli ha suggerito di dirottare sul nuovo palazzo del cinema i finanziamenti per il Mose ma il vicepremier non l’ha degnato di una risposta. E’ un argomento tabù questo delle dighe mobili per il vicepremier. Proprio come i motivi per cui l’ex ragazza di “Non è la rai” è stata scelta come madrina. Da dire che Rutelli, in questa 64esima mostra, si è fatto notare per il fatto di pretendere sempre 13 posti riservati per le proiezioni, anche se poi resta in albergo o entra in sala da solo. Vorrà stare comodo. Quanto meno non è superstizioso. Neanche noi lo siamo. Ma chissà perché qui a Venezia speriamo che il 13 gli porti sfiga lo stesso.

Le gabbie di Gradisca

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A Gradisca di Isonzo, ad un numero civico inesistente di via Udine, c’è un muro di cemento. Dietro il muro c’è una garitta con poliziotti armati. Passata la garitta, si trova un cortile d’asfalto e un altro muro. Dietro quest’altro muro, c’è una cancellata di sbarre. Dentro la cancellata ci sono le gabbie, chiuse con altre inferriate che salgono sino al cielo. In ognuna di queste gabbie, c’è una cella. Nella prima di queste celle, ci sono un cesso senza porta, 8 brande sfatte e un materasso buttato per terra. In una di queste brande sfatte, gioca una bambina di otto mesi. Qualche giorno fa la bambina è stata ricoverata d’urgenza in ospedale perché gasata da una pioggia di lacrimogeni durante un tentativo di evasione. Era chiusa dentro la gabbia con la madre e non poteva neppure scappare all’aperto. Se tutto ciò vi pare “normale”, “accettabile” o in qualche misura “giustificabile”, potete anche fare a meno di continuare la lettura dell’articolo.
Perché il Ctp di Gradisca - di questo stiamo parlando - è un buco nero che inghiotte in ugual misura i diritti civili e la dignità di chi vi è rinchiuso con la sola imputazione a carico di un reato amministrativo: il mancato possesso di un documento valido per l’espatrio.



Entrarci da uomini liberi non è facile, nonostante tutte le assicurazioni di trasparenza che puntualmente rilascia il ministro Giuliano Amato. Venerdì 28 settembre, l’associazione Melting Pot e il consigliere regionale dei verdi del Friuli Venezia Giulia, Alessandro Metz, hanno organizzato l’ennesima ispezione e per l’ennesima volta sono stati lasciati fuori.
“Non c’è niente da fare –spiega Marco Visintin, portavoce di Meltig Pot –. Siamo un’associazione che stando al decreto Amato ha tutte le carte in regola per partecipare all’ispezione ma ogni volta trovano una scusa nuova. Adesso salta fuori che dovevamo presentare un documento che prova che lavoriamo in convenzione con la Regione. Gli ho detto che glielo facevo arrivare subito via fax ma pare che non siamo più in tempo…”
“A me hanno risposto che dovevo presentare una richiesta scritta del presidente del consiglio regionale. Tre giorni fa invece mi avevano assicurato che ci voleva il permesso del presidente della provincia di Gorizia e io me lo ero pure procurato – commenta amaro Metz -. La realtà è che sanno benissimo che se entravo non ne sarei uscito senza la bambina e la madre. Non è ammissibile continuare a tenerle dentro. Qualcosa bisogna fare. Domani [sabato 29.ndr] torneremo qui con un presidio e un sit in. Non possiamo far finta di niente e accettare che una bambina di otto mesi fuggita da un paese in guerra sulle braccia della madre, cresca in questo lager”
Dentro le mura di cemento sono riusciti ad entrare solo un gruppetto di giornalisti (tessera alla mano e fax di conferma inviato alla testata con tanto di firma del prefetto) e tre onorevoli: Iacopo Venier (Pdci), Franco Turigliatto (Sinistra Critica) e Sabina Siniscalchi (Rifondazione). Fuori della porta anche i collaboratori degli onorevoli. Non si può mai essere sicuri di chi entra, gli han spiegato. “Prima volta che mi succede, Neanche nei carceri di massima sicurezza” ha commentato stupito Venier.
Il Cpt infatti non è un carcere di massima sicurezza.
Nei carceri di massima sicurezza, si sa quanto tempo si dovrà trascorrere dietro le sbarre. Avvocati, familiari, associazioni di volontariato possono entrare. I detenuti hanno dei diritti. Chi vi è rinchiuso è stato giudicato da un tribunale colpevole di un qualche reato penale. C’è la possibilità di ricorrere ad altri gradi di giudizio. E c’è una legge che – perlomeno in teoria – è uguale per tutti, senza distinzione di razza o religione.
In questo, il Cpt è più vicino ad un lager. “Mi scusi, ma… perché sono qua?” ha chiesto educatamente a Venier un migrante somalo. Sono scappati in cinque dalla guerra, racconta. Due sono stati ammazzati in Libia dagli scafisti. Hanno attraversato il mare ammassati come bestie, pagando tutto quello che avevano, scarpe comprese. Sbarcati a Lampedusa, sperava che fosse finita. Ora si trova dietro le mura del Cpt di Gradisca. Separato dai suoi amici, finiti chissà dove. Pronto per essere rispedito in Somalia legato come un pacco postale. “Perché sono rinchiuso qua?” Venier scuote la testa. “Non lo so. Mi spiace…” Ci viene in mente quel brano di Primo Levi in cui un prigioniero ebreo appena arrivato in un lager si prende un calcio di fucile sui denti da un nazista. “Perché?” gli chiede. “Qui dentro non ci sono perché”.
Il giovane somalo fa parte di uno degli ultimi gruppi di profughi, uomini e donne, arrivato il 25 luglio a Gradisca direttamente da Lampedusa. Erano con loro la madre e la bambina di otto mesi, di nazionalità eritrea. Il Cir – centro italiano rifugiati - sta seguendo le loro pratiche di richiesta di asilo. Tra gli “ospiti della struttura”, come continuano a chiamarli i responsabili della cooperativa Minerva che gestisce il centro, sono anche i più fortunati. Loro non sono chiusi nel Cpt ma nel Cpa. Cioè non nel centro di Permanenza temporaneo ma nel centro di Prima accoglienza, con la possibilità di inoltrare una richiesta di asilo. Non è che cambi molto. Le sbarre sono sbarre per tutti. E così i muri di cemento. Ma gli “ospiti” del Cpa hanno la possibilità – tutta teorica – di uscire qualche ora al pomeriggio. Si intende: uscire senza soldi e pure senza vestiti pesanti. Già. “Se gli diamo i vestiti, poi fuori li vendono” mi hanno spiegato i gestori del centro.
Per entrare nel Cpt vero e proprio, bisogna attraversare altri due pesanti portoni antisommossa.
Gli interni non cambiano. Sbarre, cortili di cemento, altre sbarre, celle con brande e bagni alla turca. Cambia la gente che ci vive. Qui c’è più disperazione. Anche l’etnia è diversa. Sono tutti, o quasi tutti, di origine araba. Anche loro sono sbarcati a Lampedusa questa estate. Anche loro han fatto domanda di asilo. ma gli è stata respinta in meno di un paio di settimane. “Vengono dall’Egitto o dalla Tunisia – ha detto Ettore Rosato, sottosegretario agli interni, in occasione dell’ultimo vertice della sicurezza alla Prefettura di Gorizia - Da questi Paesi la gente non chiede asilo politico”. E come no? In Egitto e in Tunisia ci sono solo di quelle democrazie che neanche a Porto Alegre…
Grazie ad un interprete, riusciamo a ricostruire la sommossa di domenica 23 settembre, la terza nel giro di pochi giorni, che ha portato al ferimento della bambina e di altri “ospiti” del Cpt.
“Siamo disperati. Nessuno parla la nostra lingua. Non capiamo dove siamo. Gli avvocati quando capiscono che non possiamo pagare, se ne vanno e non li vediamo più. Ci fanno firmare carte che non sappiamo leggere. Domenica, giravano voci che all’indomani ci avrebbero mandato indietro. Abbiamo parlato tra noi e poi, alle 10 di sera, siamo saliti sulle sbarre, scorticandoci mani e piedi, per scappare via”. A vedere quella foresta di sbarre incurvate pare impossibile. “Pure a me. Ma li doveva vedere, dottore: si arrampicavano come scimmie” mi ha puntualizzato un rappresentante della Prefettura. Subito è arrivata la celere che, per non far torto a nessuno, ha cominciato a bombardare di lacrimogeni tutta la struttura. Finendo per asfissiare anche la bambina e le altre donne rinchiuse nelle vicine gabbie del Cpa. “Una reazione assolutamente ingiustificata – ha commentato Venier che annuncia una interrogazione parlamentare –. Una reazione insensata e violenta che ha messo a rischio la vita di tutti quelli che erano dentro. Una reazione, tra l’altro, non concordata né con la Prefettura né con gli operatori del centro che si trovavano all’interno e che stavano per convincere i pochi migranti che erano riusciti a salire sul tetto, a scendere pacificamente”. Poi i soliti racconti di botte e manganellate. “Ci hanno messo in ginocchio, ammanettati dietro le spalle dalle dieci di sera alle quattro del mattino. Anche chi era ferito. Anche io che mi ero rotto i piedi” spiega un giovanotto costretto in carrozzina . Il giorno dopo, tutti i rivoltosi, esclusi i feriti più gravi, sono stati rimpatriati con procedura urgente. “Eppure ci avevano detto che se denunciavamo gli scafisti ci avrebbero dato asilo in Italia – urla il ragazzo dai piedi rotti -. Sono bande organizzate di farabutti che si approfittano dei disgraziati come noi. Siamo pronti a raccontare tutto ma i poliziotti li abbiamo visti solo con i manganelli in mano. Perché nessuno vuole sapere la verità?” Meglio non fare domande. Meglio chiudere tutto e tutti nelle gabbie, sbarrate dietro le cancellate, dietro il muro, dietro il cortile, dietro l’altro muro senza numero civico, in via Udine, a Gradisca d’Isonzo.
Meglio non fare domande. Meglio chiudere tutto e tutti nelle gabbie, sbarrate dietro le cancellate, dietro il muro, dietro il cortile, dietro l’altro muro senza numero civico, in via Udine, a Gradisca d’Isonzo.

(Questo reportage è stato pubblicato sul
primo numero di Carta on line)

Le ragioni dell'aragosta

Dice di no, Sabina, ma il suo è un film nostalgico. Tutto giocato sul “come eravamo” e sui “tempi belli di quando ancora avevamo qualcosa per cui lottare”. Anche il lieto fine – che giunge a sorpresa e che lo spettatore certo non si aspetta – non fa altro che rilevare questa malinconia di fondo: un “happy end” cinematografico che serve solo a rimarcare la differenza tra i mondi di celluloide e la cinica realtà delle cose.
Il cast de “Le ragioni dell’aragosta” pare una rimpatriata di vecchi amici che non si vedevano dai tempi del liceo. A fianco della Guzzanti troviamo Pierfrancesco Loche, Francesca Reggiani, Cinzia leone, Antonello Fassari e Stafano Masciarelli. Tutti i protagonisti di Avanzi. “Malinconia? Non direi –ha spiegato Sabina-. Però di sicuro quella di Avanzi è stata una grande stagione di televisione che non si ripeterà. E una ragione c’è. Allora la classe politica era così indaffarata ad evitare la galera che non si sognava di contrastare chi voleva fare satira in televisione. Oggi un programma come Avanzi non ce lo lascerebbero più fare. Ed infatti non si fa. Ma non c’è nostalgia nel mio film. Piuttosto parlerei di rimpianto per tutto quello di utile ed importante che potremmo fare e che non possiamo fare. Noi di Avanzi rappresentiamo l’altra faccia dell’Italia: quella sprecata”.
A voler citare il poeta Andrea Zanzotto, “Le ragioni dell’aragosta” è pervaso da un profondo senso di ‘spaesamento’ – d’ambiente ma anche etico - radicato in tutti i protagonisti, ex esponenti della sinistra degli anni ’80 ritiratisi in uno sperduto paesino della costa sarda. Come l’ex sindacalista della Fiat riconvertitosi alla pesca dopo la traumatica fine delle lotte operaie nell’azienda torinese. Sullo sfondo, una Sardegna che non è quella della ville e degli yacht, ma che certo è una terra ben diversa dal “continente” in cui questo piccolo circo di amici ritrovati ha maturato la sua esperienza politica. Diversa nei costumi ma uguale nella globalizzazione. Il Bush di turno che affama i pescatori di Su Pallosu impoverendo il mare da cui traevano le aragoste è una sorta di Capitan Findus, una multinazionale delle pesca che saccheggia il mare a bordo di sofisticati pescherecci ultra tecnologici. Spinti da una mai sopita generosità politica, ma anche per ridare un senso alla propria esistenza, la banda di amici si mette al servizio della cooperativa di pescatori sardi e prova ad allestire uno spettacolo per aggirare il vuoto mediatico (vi ricorda qualcosa?) che la multinazionale ha costruito ad arte per zittire le proteste della gente di Su Pallosu. L’entusiasmo iniziale si scontrerà ben presto con una dura realtà fatta di impotenza, muri di gomma e frustrazioni sino a porre in dubbio le stesse motivazioni che inizialmente avevano animato la battaglia “D’ora in poi lavorerò soltanto per soldi” dirà ad un certo punto Sabina. Ogni riferimento all’attuale situazione politica è ovviamente tutt’altro che casuale. “Non saprei dire se viviamo in un regime massone, fascista, sovietico, berlusconiano o che altro. Ma so che siamo ben distanti dalle democrazie che si incontrano viaggiando. In questo Paese, se qualcuno ha qualcosa da dire fuori dal coro, viene sempre stroncato e messo da parte senza pietà. Non mi illudevo che con Prodi le cose sarebbero cambiate. In Italia è ancora tutto come prima e il potere continua ad essere gestito da gente che non ha nulla da dire”.
“Le ragioni dell’aragosta” è un finto reality. Ogni personaggio interpreta se stesso e mette in scena la propria crisi, tra impotenza e paure. Loche e la Reggiani sono addirittura in scena col loro stesso nome. Cinzia Leone, in un sottile gioco tra vero e falso, racconta la sua malattia. “Fondamentalmente, questo è un film che parla delle nostre fragilità” ha commentato Cinzia leone.
Una fragilità che è anche quella di tutta la sinistra. “Cosa possiamo fare? – si chiede Sabina – L’unica risposta che posso dare è quella di affrontare le realtà e prendersi le proprie responsabilità. Lavorare, riprendere i contatti e non perdere mai la fiducia”. Oramai lo abbiamo imparato a nostre spese. Gli dei se ne vanno, ma gli arrabbiati restano sempre.
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