In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Occupata Ca' Farsetti

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Senza sindaco, senza assessori ma, in compenso, sull'orlo della bancarotta. Tira brutta aria sul Comune di Venezia, commissariato dopo lo scandalo del Mose. E poco importa chi sederà sulla poltrona di Primo cittadino, dopo le elezioni primaverile. Stavolta non ci sono conigli da estrarre dal capello, stavolta. Far quadrare il cerchio attorno ad un bilancio stretto nel nodo scorsoio del Patto di Stabilità è una operazione impossibile. Si rischia di chiudere baracca e burattini. Anche perché, nonostante una marea di promesse di vari ministri, deputati e senatori, Matteo Renzi ha annunciato che il Governo non varerà nessun decreto Salva Venezia.
Un default annunciato quindi, che, come prime vittime, mieterà i lavoratori comunali.



Ecco il perché dell'iniziativa di ieri sera quando, in pieno carnevale, i lavoratori auto organizzati Cobas hanno deciso di occupare Ca' Farsetti per costringere il Governo a gettare la maschera. A poco è valso il grosso cordone di polizia a presidio del portone del palazzo. Un centinaio di lavoratori è entrato per la porta sul retro e si è accampato nel bel mezzo della sala del consiglio comunale, decisa a tener duro sino ad una assemblea cittadina prevista per questo pomeriggio.
Una assemblea cittadina, per l'appunto, perché un Comune in bancarotta non riguarda solo i dipendenti pubblici ma l'intera Venezia che si troverà a non avere più quei servizi essenziali che già sono stati ridotti all'osso dal commissario Vittorio Zappalorto. Da ieri Ca' Farsetti è tornata ad essere la casa dei veneziani aprendo uno spazio per un confronto aperto non solo al dipendenti ma anche alla cittadinanza attiva, ai movimenti ambientalisti, agli spazi sociali. A tutti coloro insomma che sin dall'inizio hanno denunciato lo scandalo di un'opera come il Mose che non ha portato nessun beneficio alla laguna e alla sua gente ma è servita solo a dirottare i fondi per la salvaguardia nelle tasche di politici tangentari e di aziende in odor di mafia.
"Non parlateci della crisi che i soldi ci sono - ha commentato Mattia Donadel, uno dei portavoce degli occupanti -. Spendiamoli per il welfare, per la tutela dell'ambiente, per il lavoro, invece di continuare a finanziare una politica delle Grandi Opere che non ha devastato solo l'ambiente e l'economia ma anche la stessa democrazia italiana".

Naomi Klein: la rivoluzione che ci salverà parte parte da noi

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Diamoci da fare. La conclusioni che l'autrice di No Logo tira al termine dell'incontro svoltosi nella serata di oggi all'auditorium di Santa Margherita, potrebbero essere condensate in queste tre parole. Diamoci tutti quanti da fare perché il mutamento del clima è oramai una verità accettata da tutti gli scienziati. Un cambiamento ci sarà. E sarà un cambiamento inevitabile perché il modello economico imposto dal capitalismo non è più sostenibile dalle risorse di cui dispone la terra. Eppure, nonostante sia ancora il sistema neoliberista a dettare i paradigmi sui quali corre l'informazione dominante, la consapevolezza che questa crisi non sia come ce la raccontano le banche si sta facendo strada tra la gente. Lo dimostra il successo di Podemos in Spagna e di Syriza in Grecia. E in Italia? "In Italia - scherza Naomi Klein - avete l'Expo sponsorizzato dalla Coca Cola".



L'incontro organizzato dall'associazione In Comune in collaborazione con Ca' Foscari e la Rizzoli Libri è stato un successo annunciato, considerato che questa veneziana è stata una delle tre sole tappe che la scrittrice canadese ha tenuto nel nostro Paese per presentare il suo ultimo libro "Una rivoluzione ci salverà", sottotitolo "Perché il capitalismo non è più sostenibile". Tutti 237 posti a sedere occupati, tanta gente, giovani soprattutto, in piedi o seduta per terra. Tanti altri fuori a masticare delusione perché, per ragioni di sicurezza, i responsabili della sala sono stati costretti a chiudere le porte.

Ad introdurre il dibattito, dopo l'inevitabile rito dei saluti del magnifico rettore, Michele Bugliesi, è stato il politologo Beppe Caccia, che ha ricordato come proprio la nostra città sia particolarmente toccata dai cambiamenti climatici e come tutti i veneziani, sulla loro pelle, hanno vissuto la storiaccia brutta del Mose. La grande opere salvifica che alla fin fine ha dirottato i fondi per la salvaguardia nel baratro della corruzione e della devastazione ambientale.

La Klein ha cominciato il suo intervento proprio da questa suggestione, ricordando come proprio a Venezia, una quindicina di anni or sono, venuta a presentare il suo libro "No Logo", abbia sentito per la prima volta la parola "precarietà" dagli attivisti dei centri sociali. "Un termine che oggi potrebbe essere esteso a tutto il mondo - ha sottolineato -. Il fatto è che non esistono risposte non radicali al problemi che ci pone l'ambiente. La scienza ci dice che entro i prossimi anni la temperatura crescerà di un valore tra i quattro e i cinque gradi. Questo cambiamento può forse essere evitato ma solo con una altro cambiamento radicale che investa la società, la cultura la produzione. Non illudiamoci che il neo liberalismo posso affrontare questo problema perché la sua agenda va in direzione completamente diversa. Un programma finalizzato al taglio delle emissioni è improponibile semplicemente perché il loro progetto è di aumentare le emissioni".

Il compito di stimolare Naomi Klein, è toccato all'ambientalista Gianfranco Bettin. L'incontro poi si è chiuso gli interventi del pubblico coordinati dal docente Duccio Basosi. Ma è proprio Bettin a buttare benzina sul fuoco sottolineando come, nel libro della Klein, vengano mosse pesanti critiche anche un certo ambientalismo non radicale ed alle sinistre di governo che, pur con sensibilità ben diverse rispetto alle destre, continuano a non mettere l'ambiente al primo posto delle loro agende, perseverando, alle fin fine, nel sostenere una politica neo liberista che, allo stato attuale delle cose, non può più essere riformata. Un esempio è stata l'Unione Sovietica con il suo capitalismo di Stato che ha devastato tutto il devastabile ed oltre. Oppure la Cina di Mao con la sua dottrina di "guerra alla natura" in nome della quale, tra le altre cose, ha cercato di sterminare tutti i passeri del continente. Un altro esempio sono le democrazie di sinistra dell'America latina: il Brasile, l'Ecuador, il Venezuela di Chavez. Paesi che, pur con atteggiamento diverso rispetto alle dittature, hanno comunque continuato l'attività estrattiva del greggio a spese dei popoli indigeni che dalla foresta ricavavano sostentamento.

"I cambiamenti climatici - ha risposto la scrittrice canadese - pongono in discussione tutte la nostra civiltà, dalla nascita della società industriale, quando si vendevano le macchine a vapore sostenendo che con questa avremmo sconfitto la natura, ad oggi dove il capitalismo è addirittura capace di proporsi come unica via di uscita ai danni che egli stesso ha causato. I cambiamenti climatici, in fondo, altro non sono che una risposta a scoppio ritardato a questo atteggiamento di scontro che l'uomo ha avuto nei confronti della natura. Come se ne esce? Con una sorta di, come l'ho chiamato, nuovo Piano Marshall. Non aspettiamoci che siano i Governi a farlo per noi. Neppure i Governi di sinistra. E' il momento di scendere in piazza e non solo per bloccare le grandi opere devastanti ma anche per proporre con forza progetti alternativi, cosa che non sempre siamo stati capaci di fare. Progetti che siano allo stesso tempo credibili, entusiasmanti e coinvolgenti. Perché il capitalismo è bravo a smuovere le acque della paura. Ma l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è che sia il capitalismo a governare i cambiamenti che, inevitabilmente, stanno arrivando".
Diamoci da fare, dunque.

Corruzione a norma di legge. Così il Bel Paese è stato svenduto alla lobby mafiosa delle Grandi Opere

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La prima osservazione da fare è tutta positiva: tanta, tantissima gente. In sala San Leonardo, questo pomeriggio, non si trovava un posto a sedere neppure a pagarlo. E questo, per una città che sta cercando di riscattarsi da quel sistema corrotto e corruttore legato al Mose che l'ha tenuta in scacco per tanti anni, è senz'altro un sintomo positivo. "Tanti anticorpi per far da antidoto al veleno che ha intossicato il nostro tessuto sociale" ha sottolineato Beppe Caccia in apertura del dibattito sul tema "Come liberare Venezia dal sistema Mose?" augurandosi che "la comunità sappia trovare la strada per ribaltare un sistema legato alla concessionaria unica capace solo di generare corruzione, ridando spazio alla buona politica".

L'incontro promosso dall'associazione In Comune aveva lo scopo di presentare il libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, "Corruzione a norma di legge", edito da Rizzoli. Sottotitolo da sottolineare: "La lobby delle grandi opere che affonda l'Italia". Nel volume si sostiene la tesi che ci siano due tipi di corruzione: quella in aperta violazione delle leggi e quella, molto più subdola e pericolosa, che viene portata avanti a norma di legge con meccanismi come la concessione unica. "Corruzione a norma di legge", appunto, è una inchiesta giornalistica come non se ne fanno tante in Italia, tanto più apprezzabile in quanto firmata da un economista come Giavazzi che, in passato, certo non è mai stato critico nei confronti di quella Grande Opera chiamata Mose.


Ed proprio l'ambientalista Armando Danella, primo ospite della serata, che non esita a dichiarare il suo disagio nel parlare di un libro che, quando parla del Mose, evita di affrontare l'aspetto ecologico per focalizzarsi su quello della corruzione. "A mio avviso è un errore - spiega - perché la tragedia del Mose non sta solo sulla corruzione ma anche sulla devastazione ambientale che ha portato con sé. Ancora oggi non sappiamo se le paratoie funzioneranno o no. Studi terzi ne hanno evidenziato la criticità strutturale in condizioni particolari. Prima di proseguire, dobbiamo essere certi quanto meno che l'opera funzioni e che non ci sia pericolo per la città".

Roberto d'Agostino ha sottolineato come, con un giro d'affari di oltre 10 miliardi di euro, il Mose sia stato il più grande trasferimento di denaro dal pubblico al privato del Dopoguerra.  "Di solito si corrompe per far cambiare le leggi, il sistema Mose pagava perché tutto continuasse così. Adesso è necessario fare pulizia. I politici che hanno preso soldi dal Consorzio perché non sapevano chi fosse se ne devono andare. E se lo sapevano debbono andarsene lo stesso. E così le imprese che sono state sorprese a rubare, non debbono più continuare ad occuparsi della Salvaguardia".




Corruzione sì, ma una corruzione che viene da lontano e che, come ha spiegato Luana Zanella, è cominciata con la Legge Obiettivo, fortemente voluta dal Governo Berlusconi, che ha abbassato i controlli antimafia e favorito procedure semplificate per bypassare le verifiche ambientali ed i controlli democratici. "Tutt'oggi non vedo la volontà politica di uscire da questo sistema che genera solo corruzione e devastazione - ha spiegato l'ex senatrice verde - Il decreto Sblocca Italia varato dal Governo Renzi continua ad andare proprio in questa direzione. La stessa legislazione speciale per Venezia nel corso degli anni è degenerata sino a dirottare i fondi solo al Consorzio Venezia Nuova, sostenendo che anche questa è Salvaguardia".

Proprio la Salvaguardia con le Bonifiche di Porto Marghera sono stati i capitoli di finanziamento che hanno portato più denaro in laguna. Denaro che, come ha spiegato Gianfranco Bettin, è finito dritto dritto nelle casseforti della criminalità organizzata. "Perché in altro modo non riesco a definire il Mose e il Consorzio Venezia Nuova. Anche la terza voce in classifica, il turismo, ha seguito questo esempio, pure se, in questo caso, la corruzione non è ancora classificabile come a norma di legge". Lo dimostrano i fatti legati alle infiltrazioni di Cosa Nostra al Tronchetto. "La tragedia raccontata nel libro sta nel fatto che non tratta solo della corruzione del corrotto, che sarebbe facile da affrontare con l'aiuto della magistratura, ma della corruzione delle regole. Su questo punto, i magistrati non possono aiutarci. Questa corruzione avvelena lo stesso tessuto sociale e politico della città perché porta voti, denaro facile, potere". In questo stato di cose, ben pochi possono dichiararsi davvero estranei. "Non assolviamo i tecnici che si sono fatti corrompere ma non assolviamo neppure tutta la città. Rendiamoci conto che una parte della società civile con la corruzione ci marciava bene e, per vantaggi o per paura, era ben contenta di rintanarsi nel grembo accogliente del Consorzio. Non crediamo quindi, che basti gettare le mele marce per bonificare la politica. E' necessario andare molto più in profondità e cambiare l sistema".

Spazio quindi a Felice Casson, senatore e candidato alle primarie per il centrosinistra. L'ex magistrato comincia con una battuta al suo compagno di partito, nonché presidente del Consiglio, Matteo Renzi che recentemente ha presentato a Roma il libro di Giavazzi e Barbieri: "Chissà se lo ha letto? Probabilmente no, ma gli farebbe bene impararselo a memoria". Casson raconta le difficoltà che ci sono a far passare in parlamento una legge anticorruzione o una normativa a tutela dell'ambiente. "Ci troviamo davanti un fronte
comune pronto a fare opposizione ad oltranza. Un fronte composto non solo dalle destre, che in questo caso dimenticano tutte le divergenze interne, ma anche da elementi del mio partito che certo mi guardo bene dall'assolvere". La chiusura è tutta elettorale: "Mi auguro che Venezia sia un punto di partenza per mettere definitivamente all'angolo questo sistema corruttivo e ridare voce ai veri valori del centrosinistra".


Chiusura per i due autori, Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi. "Nel nostro libro, affrontando il tema della corruzione, abbiamo cercato di fare un passo in avanti - ha dichiarato Giavazzi - esplorando quel meccanismo che, dal Mose all'Expo, viene ripetuto ogni volta dalla lobby politica ed affarista delle grandi opere. I problemi non vengono mai affrontati se non quando si può parlare di emergenza. Allora appare un solo progetto in campo ed su questo vengono dirottate tutte le risorse. Con la scusa di 'fare presto' vengono sospese le misure cautelari antimafia, le norme a tutela dell'ambiente. Tutto viene affidato ad un concessionario unico e spariscono gli attori politici che dovrebbero fare da controllori. Anche quando scoppia lo scandalo ed interviene la magistratura, i mass media parlano del corrotto e dimenticano di riferire che lo scandalo più grande, la corruzione più grave, è sempre quella delle leggi. Che poi è la corruzione della democrazia".

La retata. Il libro sullo scandalo del Mose presentato alle Prigioni

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Vien da chiedersi se la location era davvero casuale. Magari anche sì. Certo è che parlare del Mose e del sistema di malaffare ad esso connesso, proprio dentro il palazzo delle Prigioni, è stata una istigazione ai nostri peggiori istinti giustizialisti. A cominciare da quel Maurizio Dianese che, nel suo ruolo di moderatore oltre che di autore del libro, non ha fatto altro che chiedere a tutti - come provocazione, per carità! - cosa ne pensavano di quell’antica usanza non soltanto islamica di tagliare le mani ai malfattori. Amputazioni o no, qualche piano sotto i famigerati Piombi, ai veneziani di oggi scappava di pensare ai veneziani di ieri ed a quali supplizi avrebbero condannato tali corrotti e corruttori, rei di peculato con la pesante aggravante, che all’epoca da sola giustificava la decapitazione, di aver devastato madre laguna per interessi privati.
Ma torniamo al nostro triste presente in cui i reati ambientali non sono neppure presi in considerazione dal codice penale. Corruzione, concussione, riciclaggio, turbativa d’asta, evasione fiscale - tanto per citare alcuni capi d’accusa mossi alla cricca del Mose - ancora sì. Ed è proprio questo aspetto che viene affrontato nel libro presentato ieri sera alle Prigioni di Palazzo Ducale: “Mose. La retata storica”, pubblicato dal Gazzettino e scritto da tre suoi giornalisti, Gianluca Amadori, Monica Andolfatto e, per l’appunto, Maurizio Dianese.



Ospiti d’eccezione, Carlo Nordico, procuratore aggiunto di Venezia, e due dei magistrati che hanno coordinato l’inchiesta: Stefano Ancilotto e Stefano Buccini. Dietro il tavolo dei relatori, anche il direttore del Gazzettino, Roberto Papetti. Unico politico e componente dell’ex Giunta invitato agli organizzatori, Gianfranco Bettin, che anche in tempi non sospetti ha sempre denunciato il malaffare legato al “sistema Mose”.
Un malaffare che, spiega Dianese, permeava l’intera società veneziana. Il giornalista dipinge lo scandalo Mose come il più grande dell’intera storia Repubblicana: “Tanto per fare un esempio,la maxi tangente Eni che ha dato il via a Tangentopoli era di 70 milioni di euro, mentre il Mose ha fruttato perlomeno un miliardi di euro in 10 anni”. Dianese racconta di gente con sporte piene di denaro in giro per le calli e di come “il Consorzio abbia pagato politici, società di calcio, partiti, associazioni, consulenti, finanzieri, amministratori… tutti, tutti a Venezia sono stati pagati dal Consorzio”.


Si vede che frequento la gente sbagliata. Quali che conosco io, dal Consorzio hanno avuto solo querele, denunce e calci in culo. E mettiamoci anche qualche manganellata dalla Celere perché sventolavano striscioni con scritto “A Venezia la mafia si chiama Consorzio Venezia Nuova”.
Che non siamo tutti uguali, al Dianese, gliela canta pure Bettin: “Ti passo quel ‘tutti’ come una licenza poetica. C’è tanta gente, anche in questa sala, che il malaffare del Consorzio lo ha sempre denunciato”. Il sociologo è l’unico a sottolineare che il danno operato dalla cricca del Mose non può essere confinato nell’ambito delle ruberie, sia pure miliardarie, ma investe l’ambiente e, più generale, la stessa democrazia. “Col Consorzio non è mai stato possibile discutere o sollevare obiezioni. Il Mose ha avuto una sola Via ed è stata negativa. Ma i lavori sono partiti ugualmente sotto il segno della prepotenza. Inutile il voto contrario del sindaco e del consiglio comunale. Un sistema delinquenziale che non è stato ancora sconfitto e che è tutt’ora in mano a malfattori che hanno lucrato sulla salvaguardia e anche sulle bonifiche di porto Marghera. Crimine questo, particolarmente odioso perché hanno approfittato anche dei finanziamenti che sequestrati dalla magistratura e destinati al recupero di aree dove la gente muore avvelenata”.
Come era prevedibile, i tre magistrati spostano il discorso sulla legalità. Al Dianese che gli chiede “Che fare?”, Nordio sottolinea come l’inasprimento delle pene non sia una soluzione al “mal di tangente” che permea la politica italiana. Non è sufficiente neppure migliorare gli strumenti processuali. “Bisogna piuttosto intervenire sugli strumenti che il corrotto adopera: semplificare le leggi, individuare le competenze. Così si tagliano gli artigli al corrotto. Ma questa è una soluzione che il nostro Governo non intende prendere in considerazione”.
C’è anche un aspetto culturale, come sottolinea Buccini: “La soluzione del problema non può essere solo giudiziaria. La scelta di legalità è una scelta individuale e non di sistema. Chi rispetta le regole lo fa a suo giudizio e non viene mai premiato dal sistema che invece elogia i corrotti”. Ne sono un esempio i funzionari pluricondannati che l’assessore regionale Renato Chisso promuoveva ai vertici dei servizi regionali.
E il famoso taglio della mano? Non serve, spiegano i magistrati. Chi delinque, dà sempre per scontato di farla franca e non si fa spaventare dalle pene pur se truculente.
Certo che, quando scopri che corrotti come Giancarlo Mazzacurati dopo l’arresto, la confessione ed il patteggiamento si recano a cena da Paolo Costa per chiedere lo scavo del Contorta, cominci a sospettare che nel sistema qualcosa non funziona. E se poi leggi che dei No Tav rischiano un’accusa di terrorismo e la galera a vita per aver tagliato una rete, allora sei sicuro, che qualcosa nel sistema non funziona. Ma questi sono gli amici nostri. Quelli che Dianese non prende neppure in considerazione. Quelli che dal Consorzio (o dalla Tav, o dall’Expo o fate voi…) non hanno mai avuto niente se non querele, denunce e calci in culo.
Frequento proprio la gente sbagliata.

Immaginare la città come esercizio di democrazia e speranza. Salvatore Settis a Marghera

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Salvatore Settis sull'altra faccia della luna. Dopo l'affollato incontro di martedì a palazzo Franchetti, in pieno centro storico, l'autore di "Se Venezia muore" ha superato il Ponte per presentare questo pomeriggio il suo libro in una biblioteca di Marghera colma di gente. Con un relatore così, puoi mettere quante sedie vuoi che la maggior parte della gente deve rassegnarsi a stare in piedi. Un incontro, questo di Marghera, particolarmente interessante perché lo storico dell'arte che ha invitato i suoi lettori ad "immaginare la città" come esercizio di democrazia applicata, si è messo a confronto con le varie realtà del territorio che costruiscono percorsi di appartenenza sociale ad un luogo, riconquistando spazi pubblici e applicando quel "diritto alla città" che costituisce il leitmotiv del suo pensiero. Associazioni come In Comune, Airis, Comitato Marghera Libera e Pensante, I Celestini, e spazi sociali come il Loco che nasce proprio da uno spazio destinato alla vendita in nome di quello "scellerato patto di stabilità" come lo ha definito lo stesso Settis. Ma anche singoli personaggi come l'urbanista Maria Chiara Tosi, l'economista territoriale Federico Della Puppa, il parroco della Resurrezione Nandino Capovilla, rappresentanti di istituzioni come il presidente della municipalità Flavio Del Corso. A far gli onori di casa, il sociologo Gianfranco Bettin che ha introdotto il dibattito sul tema "Far vivere la città" ricordando come proprio il patto di stabilità, che vincola le amministrazioni pubbliche, sia uno dei principali motori della devastazione delle nostre città.



Opinione condivisa da Salvatore Settis che nel suo intervento ha meticolosamente risposto alle domande ed alle suggestioni che gli sono state poste dagli altri relatori. Venezia, ha spiegato lo scrittore, è il paradigma insuperabile della città d'arte. "Le nostre città sono state storicamente il teatro della democrazia. Democrazia che si è sviluppata grazie al luogo e non al prezzo. Chiediamoci, se dobbiamo prezzare ogni cosa, quando costa la nostra libertà?" Settis si riferisce alla lunga lista di beni che la legge sul federalismo demaniale ha elencato come "alianabili". Dentro ci si trova mezza Venezia. "Ci hanno detto che questi beni vengono venduti come merce al supermercato per risanare il bilancio, ma il debito ha continuato a crescere ugualmente. La verità che che questi beni pubblici vengono svenduti a prezzo di regalo per favorire chi li compera. E con loro, viene svenduta anche la nostra democrazia. Il diritto alla città, come hanno compreso bene queste persone che hanno parlato prima di me, è sinonimo di democrazia".
Impossibile non chiedere allo storico il perché di quel "Se" che mette angoscia sul titolo del libro. "Grandi navi, assurdi progetti di grattacieli in stile Dubai, turismo di massa, cementificazione del territorio ancora sole esempi della nuova peste che affligge Venezia. Possiamo fermarli? Io credo di sì se riusciamo a recuperare una idea di città che tragga forza della sua memoria. Il mio titolo vuole essere una speranza. Se uniamo progetto, responsabilità e anche speranza, fermeremo la peste".

All'Ilva arriva la "soluzione Alitalia": privatizzare i profitti e statalizzare le perdite

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Si è preso pure il plauso della Cgil, il presidente del consiglio Matteo Renzi quando ha annunciato, in una intervista a Repubblica, di voler "nazionalizzare" l'Ilva di Taranto. "Da lungo tempo diciamo che la siderurgia è un settore strategico per il nostro Paese - ha dichiarato la segretaria sindacale Susanna Camusso-. Non si può perderla, e questa è un'ottima ragione per prevedere un intervento pubblico".
Una "corrispondenza d'amorosi sensi" quantomeno singolare, considerato che di questi tempi Governo e Cgil si guardano come cane e gatto. Ma sul tema del mantenimento nel Golfo di una industria che, più che inquinante, è corretto definire assassina, si sono trovati completamente d'accordo.
Su come arrivare a questo risultato invece, le strade si dividono. "Non facciamone un'altra Alitalia" avverte la Camusso. Una soluzione che però andrebbe incontro ai possibili acquirenti perché, in definitiva, la formula è sempre quella "privatizzare i profitti, statalizzare le perdite". A sentire odore di fregatura è anche il leader della Fiom, Maurizio Landini che sottolinea come serva "un'operazione vera di politica industriale. Non si può pensare di scaricare ancora i debiti di una società su tutta la collettività per regalare agli stranieri di turno un' impresa strategica".



Ma è proprio al modello Alitalia che Renzi sta pensando per rendere appetibile ai grandi gruppi industriali stranieri, su tutti il colosso dell'acciaio Arcelor Mittal, lo stabilimento tarantino che dà lavoro, diretto o indiretto, a circa 20 mila operai,
In poche parole, l'idea sulla quale sta lavorando Renzi è di modificare ad hoc la legge Marzano, che adesso consente di imporre una amministrazione straordinaria solo alle aziende insolventi, e "commissariare" l'Ilva che ora appartiene quasi interamente alla famiglia Riva. A questo, punto, in virtù dei poteri straordinari del commissario, l'azienda sarebbe smembrata in due: una "bad company" che si farebbe carico di debiti e strascichi giudiziari, e nuova società ripulita per bene grazia agli investimenti della Cassa Depositi e Prestiti da mettere immediatamente sul mercato in nome di quei principi di privatizzazione che Renzi non tradisce neppure quando parla prima di "nazionalizzare".
Un'altra Alitalia, insomma. In Francia e in Germania, l'industria pubblica esiste e prospera. In Italia, una Ilva pubblica non è neppure pensabile se non per lo stretto necessario a risanarne, a spese nostre, perdite e danni, in vista di farne omaggio a qualche potentato economico. "Eppure - conclude Landini - anche la nostra Costituzione prevede l'intervento pubblico nell'economia. La verità è che non se ne esce fuori senza una vera strategia di politica industriale". Cosa che questo Governo, come i precedenti, certo non ha.

Contrario alla soluzione "Alitalia", anche Angelo Bonelli, portavoce del comitato Taranto Respira. "Significherebbe lasciare la città a convivere con i veleni senza che nessuno paghi per i danni subiti dalla popolazione. Una 'bad company' violerebbe la direttiva comunitaria sul principio chi inquina paga e non sarebbe etico nei confronti della popolazione tarantina che aspetta di vedere il suo territorio bonificato dai veleni e di avere il giusto risarcimento per i gravi danni subiti".

Parallelamente, la vicenda Ilva continua a trascinarsi nelle aule giudiziarie. Il sistema tumorale creatosi attorno all'acciaieria avvelenava l'ambiente come la politica. Oltre a quelle del governatore Niki Vendola e di tre componenti della famiglia Riva, sono in corso una 50ina di rinvii a giudizio per accuse che spaziano dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari e all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. I sei "decreti Ilva" varati dagli ultimi Governi non hanno ottenuto altro che sommare disastri a disastri.
Intanto, la gente a Taranto continua a morire avvelenata.

Eternit. Tremila morti e nessun colpevole

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Tremila morti e nessun colpevole. La sentenza della Cassazione sul caso Eternit è una vigliaccata bella e buona. Né più né meno di quella d’appello su Stefano Cucchi. Tutti omicidi coperti dallo Stato. Ieri mattina, con sentenza definitiva, la Corte ha assolto l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, precedentemente condannato a 18 anni per disastro ambientale. Come conseguenza sono state annullate tutte le richieste di risarcimento dei familiari delle vittime che ammontavano a 90 milioni di euro. Tutto annullato perché il reato è caduto in prescrizione. E non perché il magnate svizzero non sia colpevole dei reati imputatigli. Lo ha confermato lo stesso Francesco Iacovelli, il procuratore della Corte Suprema che ha firmato la sentenza. “Stephan Schmidheiny è responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte - ha sottolineato - ma tra diritto e giustizia il giudice deve sempre scegliere il diritto, anche quando vanno su strade opposte”. Una ulteriore conferma, proprio come nel caso Cucchi, che giustizia e tribunali non sono parenti neppure alla lontana.
E intanto, gli operai continuano a morire.



L’industria Eternit per la lavorazione dell’amianto, era arrivata in Italia nel 1906 con quattro stabilimenti, a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e, il più importante, a Casale Monferrato. Chi andò a lavorare in quei capannoni di morte, imparò ben presto a chiamare la merda che gli toccava respirare la “malapolvere”. La scienza ci mise qualche decennio in più per arrivare alla stessa conclusione. Già negli anni ’30 però, alcuni studi medici pioneristici dimostrarono che la lavorazione dell’amianto causava un fortissimo incremento di patologie tumorali.
La prima nazione a prevedere condotti di sfogo nei capannoni per facilitare l’areazione fu l’Inghilterra. Successivamente, negli anni ’40, la Germania per prima riconobbe che l’inalazione di particelle di asbesto causavano il cancro al polmone. Ma mentre studi scientifici sempre più accurati dimostravano una indiscutibile correlazione tra l’amianto e i tumori, la grande industria faceva pressione nelle redazioni dei giornali, comprava politici e sindacalisti, e diffondeva rassicuranti comunicati nei quali si negava tutto. Anche e soprattutto l’evidenza.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Negli anni ’50 però nessuno però poteva più sostenere che l’amianto non fosse pericoloso per la salute anche se, in Italia, bisognerà attendere il ’92 perché ne fosse vietato l’uso. Ci sono voluti quarant’anni di omicidi bianchi. Quarant’anni di bugie. Quelle degli industriale certo, ma anche quelle altrettanto sporche di quelle “coscienze in prestito” che altro non sono i loro avvocati. Quelle di tanti “scienziati” che si sono fatti pagare per confutare tesi abbondantemente dimostrate, e pure quelle di qualche sindacalista preoccupato di non far chiudere la fabbrica che, alla fin fine, “dà pane a tante famiglie”. Tutti quanti a sostenere in coro che l’amianto non causava danni alla salute. Tutti a mentire spudoratamente.
E intanto, gli operai continuavano a morire.

Alla fine degli anni ’50, per l’Eternit cominciò una inesorabile crisi che portò alla chiusura definitiva dell’ultimo stabilimento di Casale nell’86.
La causa penale però, era già cominciata 10 anni prima su iniziativa di circa 6mila parenti di operai morti d’amianto che accusavano Schmidheiny e il suo socio, un nobile belga ultranovantenne dal nome altisonante di Louis De Cartier De Marchienne che ha pensato bene di rendere l’anima al diavolo nel 2013, giusto per vedersi condannare dalla Corte d’Appello a 18 anni.

Poi, è tutta storia di ieri. La sentenza della Cassazione ha ribaltato il verdetto, assolvendo l’imputato rimasto per prescrizione del reato.
Come sia possibile che tremila morti ammazzati possano essere considerati un “reato soggetto a prescrizione” è una anomalia tutta italiana. Proprio così. Il fatto è che il disastro ambientale, in Italia e solo in Italia, non è considerato un reato grave, ma viene annoverato tra quelli di natura contravvenzionale. Un disegno di legge che integra i reati contro l’ambiente nel codice penale è stato recentemente votato dalla Camera ma si è perso da qualche parte negli scaffali della commissioni Ambiente e Giustizia del Senato. E intanto i reati cadono in prescrizione e chi avvelena e distrugge paga, se gli va male, una multa neppure salata. E spesso, come nel caso dell’Eternit, neppure quella.
Come è stata accolta la sentenza sull’Eternit? Come è prevedibile, con infinita rabbia dai parenti delle vittime di ieri e dei malati di oggi, perché a Casale l’amianto non ha ancora finito di uccidere. Le lacrime di dolore si sono mescolate alle lacrime di rabbia per l’ingiustizia sofferta.
Come un inno alla giustizia dai legali di Schmidheiny che, dalla sua villa di Zurigo, che non ha perso l’occasione di ribadire che “l’amianto è inoffensivo”.
E intanto, gli operai continuano a morire.

“El mostro”. Un progetto per raccontare la storia di Gabriele Bortolozzo

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Non solo un film d’animazione. “El mostro” è molto di più. Un progetto dal basso innanzitutto. Un progetto che ha appena mosso i primi passi attivando un crowdfounding sulla piattaforma Eppela per raggiungere i primi 5 mila euro necessari a cominciare i lavori. L’obiettivo è quello di raccontare “a chi ne ha perso la memoria”, come si legge nel sottotitolo, la storia di Gabriele Bortolozzo. E raccontarla con un linguaggio nuovo come quello dell’animazione che ha il magico potere di “creare un immaginario e scavalcare le generazioni” come ha sottolineato Gianfranco Bettin, intervenuto ieri pomeriggio al municipio di Marghera all’incontro di presentazione dell’iniziativa. “Gabriele è stato il primo che dall’interno della fabbrica ha trovato il coraggio di denunciare la nocività della lavorazione e a superare il ricatto di chi offriva lavoro in cambio della salute. La sua è una vicenda esemplare che va tenuta viva e raccontata a tutti, e soprattutto ai giovani” ha sottolineato l’ambientalista. Con lui, Felice Casson, oggi senatore del Pd ma all’epoca il pubblico ministero che trascinò i vertici della Montedison al banco degli imputati. Casson ha rievocato il momento in cui Bortolozzo bussò alla sua porta di magistrato. “La storia di Gabriele, scomparso proprio vent’anni fa, mi ha accompagnato professionalmente e umanamente per tutta la vita. E’ merito suo se ho scoperto che oltre la mia vecchia aula al palazzo di Giustizia c’era un mondo reale”.
A presentare il progetto, sono intervenuti Flavio del Corso, presidente della municipalità di Marghera, Elisa Pajer, dello Studio Liz che lo produce, Cristiano Dorigo che ne ha scritto il soggetto assieme a Federico Fava, e Lucio Schiavon che lo ha disegnato. L’incontro si è svolto proprio nella sala che a Gabriele Bortolozzo è dedicata.




Non solo un film d’animazione, abbiamo scritto in apertura. “El Mostro è anche un percorso che abbiamo intrapreso con tanto entusiasmo e tanta convinzione - ha spiegato Elisa Pajer -. Un percorso che ci ha aiutato ad incontrare tanta gente. Giovani soprattutto, ma non solo. Siamo entrati nelle scuole, abbiamo tenuto incontri nelle librerie e nelle biblioteche con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza sui temi del lavoro e della salute, Abbiamo raccontato a tutti la storia di Gabriele che è poi la storia di Porto Marghera come anche quella di tante realtà, penso all’Ilva di Taranto, che stano vivendo lo stesso dramma. Gabriele ha avuto il coraggio di andare oltre e questo fa della sua vicenda una storia epica”.
Una storia che è stata già raccontata in tanti modi, cito solo il libro a fumetti di Claudio Calia “Porto Marghera” edito da Becco Giallo, ma mai attraverso un cartone animato. “Per il tipo che era Gabriele - ha concluso Bettin - sono sicuro che ne sarebbe stato contento”.

Di seguito alcuni link sui quali si può seguire il progetto e partecipare alla raccolta fondi. Ricordiamo la cena di sostegno che si svolgerà giovedì 11 dicembre al Bagolaro di Forte Marghera.

Pagina Facebook
https://www.facebook.com/events/1485840401681450/?fref=ts

http://www.eppela.com/ita/projects/992/gabriele-bortolozzo-el-mostro

http://producinuovevisioni.studioliz.org/2014/11/14/sostieni-el-mostro/

http://studioliz.org/2014/07/14/sostieni-gabriele-bortolozzo/

Una presenza spettrale in laboratorio

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Le "cose" che sussurrano nelle tenebre e che spiano maligne dagli angoli bui della casa, hanno riempito i libri di letteratura. E fin che si resta sulla letteratura, va tutto bene. Io stesso, ho uno scaffale pieno zeppo di Lovecraft, Bradbury, Matheson, Blackwood e via discorrendo, e sin da bambino sono sempre stato convinto che un enorme ragno, peloso e zannuto, si nascondesse sotto il mio lettino. Non lo potevo vedere ma ne “avvertivo” ugualmente la presenza. Sicuro, come ero sicuro dell’esistenza di Babbo Natale.
Il problema nasce dal fatto che queste, sino ad oggi, inspiegabili “presenze spettrali" sono pane e companatico di tante pseudoscienze legate all'occultismo e alla parapsicologia. Quante volte abbiamo sentito affermare dalla “sensitiva” di turno che nella stanza c’era una presenza che solo lei poteva captare? Quanti “ghostbuster”, più o meno in buona fede, ci hanno giurato che quella notte in quel castello hanno “sentito” la vicinanza del fantasma della Dama decapitata?
Ebbene, queste sensazioni oggi sono state ricreate in laboratorio. Precisamente nell'istituto Federale Svizzero di Tecnologia (EPFL). I risultati della ricerca condotta dall’equipe del neurologo Giulio Rognini, sono stati pubblicati nella rivista Current Biology, e potete trovare un sommario a questo
link.
Secondo lo studioso elvetico, questa famosa sensazione sarebbe comune non solo alle persone che soffrono patologie neurologiche ma anche a quanti vivono esperienze estreme come alpinisti o subacquei.



Per scoprire cosa c'è di vero in queste sensazioni, lo scienziato ha esaminato 12 persone affette da disturbi neurologici che affermavano di avvertire presenze inesistenti, per scoprire che in comune avevano tutti subito lesioni tali da causare una perdita sensomotoria in tre specifiche regioni cerebrali: temporoparietale, insulare e la corteccia fronto-parietale.
Per verificare se è proprio da un cattivo funzionamento di queste aree cerebrali che si innescano le sensazioni di “presenze spettrali”, battezzate dall’equipe elvetica FoP (“feeling of a presence“. Ovvero, sensazione di una presenza), gli studiosi hanno realizzato un robot.
Robot che non ha nulla in comune con quelli di Asimov - tanto per ricadere nello scaffale proprio sotto quello già citato e dedicato a Lovecraft della mia libreria - ma che altro non è che una macchina in grado di generare conflitti sensomotori nelle tre regioni cerebrali individuate, intervenendo in contemporanea sulle sensazioni tattili, motorie e propriocettivi. Termine, quest’ultimo, che definisce gli stimoli con i quali un organismo riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio tramite lo stato di contrazione dei muscoli (come dire che anche ad occhi chiusi, noi possiamo capire se siamo seduti o in piedi).
A questo punto, sono entrati in scena 48 volontari. Tutti garantiti sani nelle suddetti regioni e che non avevano mai avuto esperienze FoP. I coraggiosi sono stati quindi bendati e collegati al robot. I risultati non si sono fatti attendere. Un terzo dei volontari ha affermato di “sentire” presenze estranee nel laboratorio. Una persona ne ha avvertite addirittura quattro contemporaneamente. Due hanno chiesto di fermare l’esperimento perché provavano una sensazione di estraneità che li disturbava.
La spiegazione avanzata dai ricercatori è che le interazioni col robot causavano una parziale distorsione dell’autoconsapevolezza che ognuno ha di sé, sino a sbalestrare la percezione della posizione del proprio corpo nello spazio così che questo viene percepito come appartenente a qualcun altro. Questo sarebbe alla base della FoP.
"Il nostro cervello possiede varie rappresentazioni del nostro corpo nello spazio - ha commentato Giulio Rognini -. In condizioni normali è in grado di assemblare una corretta ed unica percezione del sé. Ma quando siamo di fronte ad un malfunzionamente del sistema cerebrale, sia a causa di malattia, di situazione estrema o, come nel nostro esperimento, dell’interazione con un robot, questo a volte può creare una interferenza. Il proprio corpo quindi, non viene più percepito come ‘io’ come ma come ‘qualcun altro’. Da qui la sensazione di presenze spettrali”.
Chiaro? Adesso vedo di riuscire a convincere anche quel brutto ragnaccio, peloso e zannuto, che continua a zampettare sotto il mio letto. Fosse la volta buona che se ne torna a casa sua!

Spazio Loco: una pazza occasione per ripensare a come si combatte il degrado in città

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Proviamo a guardare lontano. Alziamo lo sguardo oltre la politica urlata dai sindaci dal pugno di ferro che invocano ronde ed inferriate. Oltre questo buoi mare di paure, sorge un’altra città. Quella città che sognano i ragazzi che hanno recuperato uno spazio di via Piave che versava da anni in stato di abbandono e degrado, con il solo obbiettivo di restituirlo alla città. Certo, non la città dei vigilantes ma la città dei cittadini capaci di interrogarsi, intervenire, riappropiarsi e gestire in democrazia il proprio territorio. Non c’è spazio per la paura in questa città. Perché, come sottolineano i ragazzi, è “la chiusura mentale che genera solamente proposte che non analizzano la complessità e le problematicità, che propongono vie risolutorie semplificatrici, banali, e non efficaci e che spesso degenerano in derive intolleranti e razziste”.
Una idea pazza? Sì, perché sono i pazzi quelli che gettano le fondamenta del futuro. Non a caso, il nome scelto dai ragazzi per questo nuovo spazio è Loco: acronimo di Laboratorio Occupato Contemporaneo.
“Viviamo le strade di Mestre - raccontano - e vediamo sempre più luoghi lasciati all'abbandono e al degrado che invece potrebbero essere o diventare spazi vivi, per aiutare a migliorare le situazioni complesse dei nostri quartieri e che potrebbero arginare quelli che tutti noi consideriamo problemi reali ai quali far fronte nella nostra città. Per questo e per molto altro abbiamo deciso di riprenderci uno di questi luoghi lasciati all'abbandono: per costruire assieme a tanti e tante, studenti, precari, giovani e meno giovani, un laboratorio sociale nuovo, in grado di ricercare e discutere collettivamente le contraddizioni che il nostro territorio sta vivendo e subendo negli ultimi anni”.




Riccardo Caldura, urbanista e sostenitore del Progetto 2020Ve, ha partecipato alla serata di inaugurazione del Loco. “Avevo ricevuto una cortese telefonata di uno dei promotori dell’iniziativa, al quale non potevo che estendere un mio ‘Bene, andate avanti’. Ieri sera ho rifatto un giro fra quelle sale, insieme ad uno degli artisti che vi avevano a suo tempo esposto, e che le conosce quanto me. La sensazione era stranissima, il luogo era rimasto così come lo avevamo lasciato, ancora con il muro dipinto di rosso dell’ultima installazione realizzata. Come se quattro anni non fossero trascorsi. All’ingresso, con il medesimo arredo di allora, si distribuivano spritz e birre e si organizzava una colletta di sostegno. Alle pareti manifesti, striscioni, e un pubblico di dreadlocks e jeans oversize. Ho letto un articolo di Tantucci sulla Nuova che riportava questa notizia: la prevista restituzione di 41 milioni di euro da parte del Comune a Est Capital, importo che era stato versato come anticipo sul valore realizzabile dei beni cartolarizzati.  Oltre a quell’importo, per giunta, se non ho capito male, era prevista anche la restituzione all’ente pubblico dei beni rimasti inveduti, fra i quali appunto la ex-Galleria Contemporaneo. Luogo che avevamo dovuto lasciare in tutta fretta, quattro anni fa, per ritrovarla identica ieri sera, però in fase di utilizzo come Laboratorio Occupato Contemporaneo. Non so se sia questa una risposta al degrado, ma mi chiedo se in ogni caso non sia meglio aver provato a riaprire, magari non con tutti i crismi della legalità, piuttosto che chiudere e vendere (male) o non vendere proprio”.
Un discorso molto simile a quello portato avanti da Maria Chiara Tosi, docente allo Iuav e anch’essa aderente al progetto 2020Ve, che in una intervista al Corriere ha sottolineato come “Non c’è miglior risposta al degrado della riappropriazione sociale degli spazi. La militarizzazione non è la sola soluzione”. Anzi, a lungo termine, non è neppure una soluzione. I quartieri migliorano se si investe nel sociale, se si aiutano i cittadini a diventare protagonisti della loro città. Un quartiere non può essere rivitalizzato tralasciando il contributo di chi ci abita. “Servono luoghi dove i bambini possano giocare e i ragazzi incontrarsi - conclude la docente nella sua intervista che potete leggere integralmente a questo link. - Bisogna investire i pochi soldi che ancora ci sono nel sociale. Purtroppo a Venezia si sente il peso della mancanza di una amministrazione. I tagli del commissario al welfare hanno creato un terreno fertile al degrado e alla criminalità”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, il sociologo Gianfranco Bettin che da sempre sostiene la necessità di andare alle urne il prima possibile. “Un'osservazione contingente ma cruciale questa di Maria Grazia Tosi, che ha ben evidenziato i guasti creati dall’assenza di una gestione politica e dai pesanti tagli pesanti al welfare. Tanti, anche a sinistra, non hanno idea di quanto pesino queste cose. Dispiace che il Corriere, soprattutto nei titoli, enfatizzi una cosa che non mi pare ci sia nelle parole di Maria Chiara, e cioè la contrapposizione tra gli interventi che lei suggerisce come fondamentali e, appunto, strategici, e gli interventi tesi a ripristinare anche nell'immediato sicurezza e senso di tutela, di fiducia, nei cittadini, residenti o fruitori di alcune aree in particolare. Penso sia un errore molto grave, commesso frequentemente a sinistra, quello di contrapporre i diversi tipi di interventi. A Marghera, ad esempio, in una situazione molto critica abbiamo sostanzialmente ripreso il controllo del parco Emmer sia ripensandolo che riprogettandolo insieme ai residenti ed ai fruitori: spostando i giochi per bambini di fronte alle abitazioni, invece che lontano da esse dov'erano in origine, cosa che li aveva posti alla mercé degli spacciatori e dei vandali, animandolo con iniziative culturali, ricreative e non ultima, un orto sinergico. Abbiamo restituito al parco pulizia e decoro, ma abbiamo anche, ecco il punto, fronteggiato duramente, le bande di spacciatori e gli incivili che se ne erano impadroniti. I risultati sono stati eccellenti”.
Oggi che l’amministrazione non c’è, la situazione al parco è regredita, pur senza tornare al peggio perché la natura strutturale di alcuni interventi continua a funzionare positivamente, ma alcune insidie e ragioni di disagio si sono ripresentate.
“Si tratta - conclude il sociologo - si tratta di valutare caso per caso gli interventi da applicare, senza pregiudizi e senza ideologismi. Certo, tali interventi devono essere integrati in una visione che non può che essere quella cui allude Maria Chiara e non devono, mai, essere il centro, tanto meno propagandistico-ideologico e demagogico, dell'azione politica e amministrativa, ma non possono non esserne parte, pena l'abbandono di ampie parti della nostra popolazione ai discorsi e alle ‘ricette’ della destra e dei demagoghi di ogni tipo. Non, ripeto, per fare a costoro concorrenza ma perché la ragioni sulle quali a volte costruiscono le loro fortune sono fondate, si tratta di fondate paure e rabbie e frustrazioni dei cittadini che non possiamo dimenticare. A costo di esporsi a polemiche spesso velenose”.

Frattanto a chi, come Raffaele Speranzon di Fratelli d’Italia, chiede lo sgombero immediato dell’edificio, risponde Federico Camporese di Sel. “Commissario, questore e prefetto devono occuparsi della criminalità vera e non di chi vuole migliorare la città. In tante città d’Europa, iniziative come questa si sono rivelate fondamentali per risollevare le sorti economiche, sociali e culturali di aree della città che sembravano destinate all’oblio”.
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