In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

L'accordo per la riduzione dell'inquinamento non basta. Vogliamo una portualità sostenibile Accordo tra Comune e armatori per ridurre l’inquinamento. Caccia: “Ma adesso via le grandi navi dalla laguna”

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Un passo in avanti ai fini della tutela dell’ambiente e della salute, ma un passo che non deve farci perdere di vista l’obiettivo finale: l’allontanamento delle grandi navi dalla laguna di Venezia. L’accordo sottoscritto questa mattina a Ca’ Farsetti dall’amministrazione comunale ed i rappresentanti delle principali compagnie di crociera internazionali è un dato senza dubbio positivo per la nostra città. Grazie a questo documento, le grandi navi, dall’entrata alla bocca di porto del Lido alla Marittima, si impegnano ad azionare i loro motori utilizzando combustibile con un tenore di zolfo non superiore allo 0,1 per cento, contro il limite del 3,5 stabilito dalla normativa europea.
E non è tutto. Nel “non scritto” dell’accordo va annoverata anche la disponibilità delle compagnie a mettere in discussione la contestata “passerella” davanti alla piazza marciana. Lo stesso sindaco Giorgio Orsoni che, con l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, ha rappresentato l’amministrazione comunale durante la ratifica del documento di intenti, ha sottolineato: “Un ringraziamento è dovuto anche agli armatori che hanno sottoscritto l’accordo e si sono dichiarati disponibili ad affrontare le alternative al passaggio delle navi da crociera in Bacino”.



Alternative quindi, che sono e devono rimanere il vero obiettivo da perseguire. Sotto questo punto di vista, l’istituzione di questo corridoio verde a basso impatto ambientale, tra il Lido e la Marittima, assume un valore ancora più significativo perché, come ha osservato il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia, per la prima volta è arrivata l’ammissione anche da parte degli armatori che il problema del viavai di questi enormi alberghi galleggianti nel fragilissimo ecosistema della laguna dei dogi, esiste, deve essere affrontato e risolto. “L’accordo volontario volto a ridurre le emissioni inquinanti che fuoriescono dai camini delle grandi navi in transito è senza dubbio positivo, così come è positiva la disponibilità dichiarata dalle compagnie armatoriali ad abbandonare le rotte che attraversano il bacino di San Marco – commenta Caccia-. Ma entrambe le notizie dimostrano come tutti siano ormai pienamente consapevoli di una situazione insostenibile, sia per l’inquinamento dell’aria, sia per i danni che provoca e i rischi che crea il passaggio di questi mostri del mare”.
“Gli unici che restano sordi e inadempienti, ma nelle cui mani sta la soluzione del problema, sono, a livello locale, l’Autorità Portuale e Venezia Terminal Passeggeri e, a livello nazionale, il governo Letta – continua il consigliere della lista In Comune-. I primi si ostinano a difendere l’indifendibile o a proporre interventi addirittura peggiorativi, come lo scavo di nuovi canali. Il secondo lascia inapplicato il decreto che vieta il passaggio a San Marco e non ha mosso un dito per l’individuazione delle alternative necessarie a difendere la laguna, rilanciando una portualità sostenibile”.
“La città – conclude Beppe Caccia – non può aspettare oltre: il Governo deve impegnarsi subito per dare soluzione al problema, mantenendo la promessa di una urgente convocazione del Comitatone”.

Porto Marghera pattumiera d’Italia. La Regione autorizza il revamping Alles

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“Se Zaia arriva in Regione, a Marghera arriva l’inceneritore”. La fosca previsione degli ambientalisti durante l’ultima campagna elettorale, si è puntualmente avverata. Il leghista Luca Zaia è diventato Governatore del Veneto e a Marghera - trattata alla guisa della pattumiera d’Italia - arrivano i rifiuti. Tanti, tossici e pericolosi. La Giunta regionale del Veneto, con una delibera datate il 10 aprile ma ufficializzata nel Bur di lunedì 23 aprile, ha concesso il nulla osta al contestato progetto della ditta Alles spa - azienda della galassia Mantovani - che contempla la possibilità di smaltire 180 mila tonnellate di rifiuti all’anno. A niente è valsa la netta contrarietà del Comune, che a larga maggioranza aveva approvato una mozione del consigliere della lista In Comune Beppe Caccia in cui, anche alla luce delle recenti vicende giudiziarie che hanno portato all’arresto del presidente presidente dell’azienda Piergiorgio Baita, chiedeva alla Regione Veneto di non recepire il parere positivo della commissione regionale di valutazione impatto ambientale.


“Siamo di fronte ad un atto di inaudita arroganza da parte di Mantovani SpA e della Regione - ha commentato Beppe Caccia - perché sono state ignorate le richieste della popolazione di Marghera e il pronunciamento drasticamente negativo dei Consigli comunale e provinciale di Venezia. Perché si insiste sul progetto di trasformare la zona industriale nella pattumiera dei veleni di tutto il Veneto e oltre. Perché, pur di realizzare questo disegno, si interviene autoritariamente sulla stessa pianificazione urbanistica del Comune di Venezia. Perché tutto ciò avviene nel momento in cui proprio Mantovani spa è al centro delle inchieste giudiziarie che hanno, per la prima volta, messo sotto accusa il sistema di potere che ha gestito le scelte infrastrutturali e
ambientali regionali degli ultimi quindici anni”.
La discussa delibera regionale non prevede solo la possibilità di bruciare la pur considerevole quantità di 180 mila tonnellate annue di rifiuti, ma concede anche un pericoloso raddoppio dell’attuale capacità di stoccaggio che passa delle attuale 6 mila a 12 mila tonnellate. Inoltre è stato ampliato anche il cosiddetto range dei codici accettati nella procedure di incenerimento, da 20 a 70, molti dei quali riguardano a rifiuti pericolosi per la salute umana come fanghi, ceneri pesanti, scarti di mescole, terre e rocce contenenti sostanze dannose, e molti altri.
“Sarebbe questo il ‘nuovo corso’ inaugurato dal presidente Carmine Damiano, il poliziotto chiamato a ripulire la facciata dell'impresa di costruzioni
e malaffare? - ironizza Caccia - Sarebbero queste le politiche industriali e ambientali della giunta di Zaia, Chisso e Conte, che dovrebbero riconvertire e
riqualificare il polo di Porto Marghera? Non s'illudano: la loro arroganza troverà sulla sua strada tutte le possibili barricate, formali e materiali. Lo dobbiamo a chi crede che un futuro diverso per il nostro territorio sia possibile".
La prima delle “barricate formali” cui accenna Beppe Caccia, è un ricorso al Tar, già annunciato dall’assessore all’Ambiente del Comune di Venezia, Gianfranco Bettin. “Il via libera al revamping dell’impianto Alles di ricondizionamento di rifiuti speciali anche pericolosi approvato dalla Giunta regionale del Veneto su proposta dell’assessore leghista Maurizio Conte - commenta l’assessore - prevede la possibilità di conferire all’impianto rifiuti provenienti anche dall’esterno del bacino lagunare, con il rischio di fare, perciò, di Marghera la pattumiera d’Italia e oltre. Tutto ciò in totale controtendenza rispetto alla scelta, condivisa dalla Regione stessa, di farne invece un’area di sviluppo dell’industria compatibile, pulita e innovativa.
Tale scelta, che il vigente Piano regolatore vieterebbe, è resa possibile dal fatto che la decisione della commissione Via regionale, avallata dalla Giunta regionale, produce una variante urbanistica che consente di superare questo divieto. Si tratta, quindi, oltre che di una scelta sbagliata nel merito, che mette a repentaglio la salute e l’ambiente e distorce la nuova politica industriale su Marghera, di una scelta gravemente lesiva della democrazia poiché, con i numeri prepotenti di una commissione Via di nomina regionale che minimizza la presenza degli enti locali, ratificata dalla Giunta regionale, si impone dall’alto una variante urbanistica, al di fuori di ogni possibilità di partecipazione democratica, e malgrado il parer contrario espresso da Comune e Provincia”.

Ritorna la Primavera. Dall’Italia alla Tunisia per il Forum Sociale Mondiale

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Da Porto Alegre a Tunisi. Per la prima volta il forum sociale mondiale varca l’oceano per spostarsi in un Paese arabo. La capitale della Tunisia sarà la sede dell’incontro che si svolgerà da martedì 26 a domenica 30 marzo. Un appuntamento gravido di incognite. Che forum sarà? Riuscirà a ridare energia per una nuova spinta propulsiva a los dabajos, ai movimenti dal basso, per dirla con gli zapatisti, per ricordare a tutti che “un altro mondo è possibile”? Oppure si rivelerà, come è stato per gli ultimi forum, un contenitore vuoto, utile solo ai governi per farci rimbalzare e arginare le voci critiche alla globalizzazione liberista?
L’unico modo per rispondere a queste domande è quello di partecipare al forum sociale. Dall’Italia, tantissime associazioni, comitati, sindacati di base e movimenti vari sono in partenza per Tunisi. La delegazione più numerosa sarà probabilmente quella al seguito di Ya Basta! in collaborazione con Un Ponte Per. Quasi un centinaio di attivisti sta preparando gli zaini. Altri sono già in Tunisia per mettere a punto la logistica della “carovana” o per continuare i progetti di collaborazione per la realizzazione di media center a Sidi Bouzid, Regueb e Menzel Bouzaiane, nel sud del Paese.



I motivi per i quali Ya Basta! ha organizzato la sua carovana verso Tunisi, ce li spiega Vilma Mazza, portavoce dell’associazione: “Ci andremo per capire cosa sta succedendo nel mondo arabo. Un mondo che ci è molto più vicino, e non solo geograficamente, di quanto tanta stampa vorrebbe farci credere. Ci andremo per scambiare esperienze, percorsi e desideri con chi sulle coste del nostro stesso mare sta affermando con determinazione che indietro non si può tornare, con chi chiede a gran voce giustizia sociale, libertà e democrazia reale”.
Quasi una Odissea: un viaggio per conoscere speranze e battaglie di chi vive sull’altra sponda del nostro mare. Un viaggio per vedere con i proprio occhi e per ascoltare con le proprie orecchi. Un viaggio contro le mistificazioni. Niente come la primavere arabe ci hanno insegnato quanto fossero errati gli stereotipi benedetti dai giornali e dalle tv. Gli arabi, si diceva, sono fatti così: non hanno vissuto il Rinascimento, la Controriforma e le lotte operaie. Sono rimasti indietro nell’orologio della storia. La democrazia non è nel loro dna. Possono essere governati soltanto o dagli integralisti (nemici dell’occidente) o da dittature più o meno soft. Dittature che, per riflesso, diventavano amiche dell’occidente e quindi “tollerabili”. In fondo, sottolineavano anche commentatori che si richiamavano alla sinistra, è meglio così anche per loro!
Un bel cumulo di menzogne che proprio le primavere arabe hanno spazzato via insieme ai governi fascisti e torturatori. Perché l’aspirazione alla libertà, alla difesa dei diritti fondamentali e alla partecipazione democratica percorrerà anche strade diverse ma non ha religione o razza.
Eppure, a due anni di distanza, le menzogne sul mondo arabo continuano ad essere contrabbandate da media e opinionisti televisivi. La spinta riformista data dalle rivoluzioni è conclusa, è stato detto. Le grandi mobilitazioni popolari sono oramai storia. Nelle piazze arabe è sceso il silenzio e un nuovo ordine globalizzato ha ripreso il governo della situazione.
“E’ un dato di fatto - conclude Vilma Mazza - che le grandi mobilitazioni della primavera araba oggi si scontrano con forme politico-istituzionale che vorrebbero chiudere spazi di libertà e di costruzione di un futuro diverso. Ma contro questa deriva sono riprese un po’ dappertutto, con grande forza e risonanza, soprattutto in Egitto e Tunisia, le manifestazioni multitudinarie. Queste proteste in piazza ci aiutano a capire che la primavera araba non è stata solo una ventata passeggera ma che in questi Paesi è in corso una vera e propria rivoluzione, con tutti i suoi flussi e riflussi, i suoi limiti e delusioni, le sue innovazioni e potenzialità. Una rivoluzione che si è radicata nelle modalità del vivere quotidiano di uomini e donne insofferenti alle rigide imposizioni e che rivendicano le libertà individuali come uno status civile irrinunciabile”. Uno status che non ha colore, Paese o religione.

Ca’ Farsetti: una commissione di inchiesta per far luce sul caso Mantovani

Una commissione di inchiesta sul caso Mantovani col Comune pronto a costituirsi parte civile. Ca’ Farsetti vuole a tutti costi fare luce sugli intrecci tra la politica e il malaffare portato alla luce dalla recente inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato all’arresto cautelativo del presidente della spa Piergiorgio Baita con l’accusa di “associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale”. Intrecci che, di fatto, negli ultimi anni hanno costretto l’amministrazione comunale ad abdicare alla funzione di governo del suo territorio a favore di una lobby affaristica che si era assunta il potere di operare scelte urbanistiche e strategiche.
“Non è nostra intenzione sostituirci alla magistratura - ha puntualizzato il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia - ma vogliamo capire come ha potuto consolidarsi un vero e proprio sistema fondato sul concessionario unico che esercita un ruolo di monopolio delle opere pubbliche della salvaguardia. Un sistema che riguarda non solo Venezia ma anche tutto il Veneto».
La Mantovani spa infatti non è solo la principale azionista del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico del Ministero per le Infrastrutture e del Magistrato alle Acque di Venezia dei lavori per la realizzazione delle opere per la salvaguardia fisica della città di Venezia e della Laguna. La società fatturava ad oltre una ventina tra Enti e Società operanti nel territorio regionale tra cui Veneto Acque e Veneto Strade, oltre a al Consorzio Venezia Nuova, all’Autorità Portuale di Venezia, al Thetis e al Passante di Mestre.


La proposta di istituire una commissione comunale ad hoc dalla durata di 18 mesi prorogabile per raccogliere informazioni utili in prospettiva di costituire il Comune quale parte civile in sede processuale è stata lanciata questa mattina dai consiglieri dei partiti di maggioranza (Pd, Psi, Federazione della Sinistra, Idv, Udc e In Comune,) e dal Movimento 5 Stelle. Di conseguenza la sua approvazione in sede consiliare è da considerarsi pressoché scontata.
“L’impresa di costruzioni Mantovani spa - si legge nella proposta già protocollata - ha assunto negli ultimi anni un ruolo preponderante nella progettazione e costruzione di importanti opere pubbliche previste nel territorio veneziano, promosse da diversi Enti e Istituzioni tra cui la stessa Amministrazione Comunale”. E ancora, va considerato che “risultano di eccezionale gravità gli addebiti contestati dalla Procura della Repubblica di Venezia nell’ambito dell’inchiesta penale ... tra le ipotesi di reato contestate vi è la distrazione dei risorse pubbliche destinate alla realizzazione di opere previste nel territorio comunale e finalizzate invece alla costituzione di ‘fondi neri’, a loro volta utilizzati per alimentare meccanismi corruttivi”. E conclude: “La ricostruzione della Magistratura inquirente mette in luce l’esistenza di una grave e intollerabile situazione di illegalità in grado di condizionare l’intero sistema di realizzazione delle opere pubbliche nel territorio veneziano, a discapito dei più elementari principi di trasparenza, legalità e di effettiva libertà di mercato e concorrenza; è interesse prioritario dell’Amministrazione Comunale e della Città nel suo insieme che sia fatta piena luce sulla vicenda, in primis per quanto attiene ai progetti e alle opere di propria competenza, ma anche e soprattutto relativamente al ruolo svolto nella vita economica e produttiva, politico e amministrativa della Città, da parte delle Imprese e degli Enti a vario titolo coinvolti”.
Niente di più e niente di meno di quanto gli ambientalisti, i movimenti di base ed i comitati cittadini sorti a tutelare il loro territorio hanno sostenuto da tanti anni. Peccato che, anche in questo caso, la condanna politica di un sistema di grandi opere utili solo ad avvantaggiare chi le realizzava, arrivi a rimorchio di una inchiesta della magistratura.

I consiglieri della lista In Comune: “Stop alla Romea in attesa del nuovo Governo”

Fermate le ruspe. Fermate tutti i cantieri della Romea Commerciale perlomeno sino a che non ci sarà un nuovo governo. Un nuovo governo, ci si augura, magari capace di prestare più attenzione agli enti locali e ai comitati cittadini che alle lobby del cemento. E’ quanto chiede il consiglio comunale di Venezia tramite un ordine del giorno che ha avuto come primi firmatari Giuseppe Caccia e Camilla Seibezzi, consiglieri della lista In Comune. “Oggi, lunedì 18 marzo, a Roma è prevista una riunione del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, il cosiddetto Cipe - ha spiegato Caccia -. L’ordine dei lavori prevede proprio una discussione in merito all’approvazione del progetto preliminare del nuovo corridoio autostradale Orte-Mestre. Noi riteniamo che un'opera autostradale così imponente, sia dal punto di vista dei costi che dell’impatto ambientale, non può in alcun modo essere considerata come ‘ordinaria amministrazione’, e tantomeno venire annoverata tra gli atti di particolare necessità e urgenza. Il consiglio comunale di Venezia chiede quindi che il Cipe attenda l’insediamento del nuovo Governo prima di procedere oltre. L’attuale Governo, che dopo lo svolgimento delle elezioni politiche è costituzionalmente ancora in carica soltanto per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione e l’approvazione di una nuova autostrada come è la Romea Commerciale non rientra certo tra i suoi compiti”.
Un vero e proprio “colpo di mano” che, perlomeno questa volta, pare sia stato sventato grazie anche alla continua attenzione dei comitati. Fonti regionali garantiscono che il punto relativo alla Romea Commerciale è stato stralciato dall’ordine del giorno in discussione al Cipe e rinviato per l’ennesima volta a data da destinarsi.
Il documento portato in Consiglio da Caccia e Seibezzi ha comunque sottolineato le ragioni che hanno già portato l’amministrazione veneziana, così come tante altre amministrazioni interessate al tracciato della Romea, ad esprimere un parere decisamente contrario a questa ennesima grande opera lanciata nel ben noto Programma delle Infrastrutture Strategiche. Programma che alla fin fine si è rivelato solo come un sistema utile solo a bypassare le tutele ambientali per imporre dall’alto opere inutili, devastanti e sgradite tanto ai residenti quanto alle amministrazioni locali.
L’augurio, come abbiamo già detto, è che il nuovo esecutivo presti più attenzione alla voce dei cittadini e meno alle lobby del cemento.

Marghera. Oltre duemila persone in piazza per dire "riprendiamoci la città!"

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Eccola qua la risposta che ci voleva. Una piazza strapiena di gente senza partito e senza bandiere. Migranti di prima e di seconda generazione fianco a fianco di autoctoni di lunga discendenza. Commercianti, operai, impiegati, studenti, disoccupati e anche tanti consiglieri comunali e assessori a rappresentare con il sindaco il governo della città. Una città che non ha detto “no” soltanto alla cieca logica della sopraffazione. Le circa duemila persone che hanno dato vita alla manifestazione di venerdì 15 marzo, hanno ribadito un secco “no” anche alle politiche di esclusione, alle leggi speciali, agli inutili presidi militari, alle ronde padane e non. 
E’ questa qua la Marghera che vogliamo. Una Marghera dove uomini, donne e bambini si sentano “sicuri” di girare per le strade perché sono le loro strade. Le strade che hanno riempito dei loro sogni. Le strade di una città solidale, inclusiva, sostenibile e aperta. Sono queste le uniche strade da percorrere perché non si verifichino più tragedie come quella che ha portato alla morte violenta di Ajdin Isak. Sembra averlo capito anche il sindaco Giorgio Orsoni che rivolto alla gente ha dichiarato: “il nostro esercito siete voi”. 



E non è un caso che lo striscione più colorato, lo striscione che apriva la fiaccolata, fosse sorretto proprio dai migranti che hanno aderito in massa alla manifestazione. Un centinaio di loro si è ritrovato negli spazi del centro sociale Rivolta nel pomeriggio per preparare il cartello e avviarsi all’iniziativa assieme ai ragazzi della scuola Liberalaparola.
“Marghera viva - si leggeva nello striscione - libera e antirazzista”. Perché la violenza più pericolosa, quella che genera tante altre prevaricazioni, è quella dettata dalla paura razzista. Una città viva e libera è anche una città antirazzista ed accogliente. 
Questa è la bella lezione che è arrivata da Marghera. E viene da chiedersi in quante altre città d’Italia, un episodio odioso che ha avuto come vittima un cittadino migrante avrebbe ottenuto una risposta così civile ed efficace. Una bella lezione quindi che è anche il segnale di una città che sta maturando. 

Laguna nord: un passo decisivo verso il parco

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Ci siamo. Dieci anni di battaglie su tutti i fronti istituzionali. Dieci anni di discussioni nelle calli e nelle sedi istituzionali tra entusiasmi, dubbi e polemiche. Ma oggi il parco della laguna nord di Venezia è una realtà. La delibera istitutiva è stata approvata dalla giunta del Comune di Venezia e ora si attende solo la prevedibile ratifica del consiglio comunale.
Sarà, burocraticamente parlando, un “parco regionale di interesse locale”. Il Comune infatti, ha spiegato l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, non ha competenze per istituire un parco regionale e tantomeno per uno nazionale. Questa era l’unica forma possibile. “In un ambiente in cui, per fortuna, ci sono già molti vincoli - ha commentato Bettin - non era in nostro potere e neppure nel nostro interesse imporne di altri. Il parco, come lo intendiamo noi, sarà uno strumento per valorizzare le straordinarie possibilità di un ambiente unico al mondo, non solo dal punto di vista paesaggistico, ma anche da quello storico, culturale ed artistico”.
La storia del parco viene da lontano, da quando in casa ambientalista si cominciò a pensare ad una forma di tutela adatta a salvaguardare non solo l’ambiente lagunare ma anche la gente che ancora, tra mille difficoltà oggettive, continua ostinatamente a vivere “in” quell’ambiente e “di” quell’ambiente, con mestieri e tradizioni che non hanno uguali in nessun posto della terra. Non è stato un percorso agevole.



“Purtroppo in Italia le cose vanno così - spiega Bettin -. In tutto il mondo la costituzione di un parco si saluta festeggiando, da noi invece ci si preoccupa”. Per vincere le resistenze e rispondere ai dubbi di categorie tradizionalmente poco inclini ai cambiamenti, l’assessorato ha messo in moto un meccanismo partecipato che ha pazientemente riunito attorno ad un unico tavolo tutti i soggetti interessati, dai commercianti agli albergatori, dai residenti ai pescatori, dagli artigiani agli ambientalisti. Il risultato è questa delibera istitutiva che conclude l’iter istitutivo cominciato nel 2004 con una variante al piano regolatore regionale.
I confini del parco saranno pressapoco quelli disegnati in quell’anno e che comprendono praticamente l’intera laguna nord. Sedicimila ettari complessivi che rappresentano più o meno un terzo dell’intera laguna. Perché la laguna nord? Perché è l’ultima laguna che ci è ancora rimasta. A sud, da Venezia a Chioggia, quella che un tempo era la laguna viva dei dogi tutelata da una severa legge della Serenissima che prevedeva l’affido ai “remi di galera” per chiunque si fosse azzardato ad attentare alla sua incolumità, oggi non esiste più. Grandi opere inutili, fallimentari e dissennate l’hanno ridotta ad un braccio di mare aperto, battuto dalle onde ed invaso dalle maree dell’Alto Adriatico.
Niente vicoli ulteriori, abbiamo detto, per il nostro parco. Ma allora, hanno chiesto i giornalisti durate la conferenza stampa di presentazione, venerdì a mezzogiorno a Ca’ Farsetti, cosa potrà fare questa nuova istituzione per tutelare un territorio dove ci sono oltre trenta diversi enti competenti e che, se da un lato ad un residente risulta praticamente impossibile mettere le controfinestre a casa sua, dall’altro si autorizza, ad esempio, la costruzione di barene artificiali dove non ce ne sono mai state.
“Il parco serve proprio a semplificare le fin troppo normative esistenti - ha risposto Bettin -. Uno dei suoi scopi istitutivi è proprio quello di aiutare chi, coraggiosamente, vive in laguna a districarsi tra i vicoli burocratici, tutelando anche la residenzialità favorendo il prosieguo dei mestieri tradizionali come la cantieristica e la pesca, e incentivando un turismo intelligente e sostenibile”. E conclude l’ambientalista: “Le barene in cemento? Sono opere sulle quali il Comune, sino ad oggi, non ha potuto dire una parola perché sono di competenza di altri enti. Col parco le cose cambieranno. Potremo finalmente intervenire. Ci troveremo, discuteremo, se necessario ci scontreremo anche. Difendere Venezia significa difendere la sua laguna. Perché Venezia è la sua laguna”.

Tangenti sotto il cemento

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Giovedì 28 febbraio, di mattina presto, accadono nel Veneto due fatti distinti ma strettamente legati tra di loro. Scivolando tra i canali lagunari, due grandi rimorchiatori trasportano ai cantieri situati tra il lido e gli Alberoni le prime paratie mobili che costituiranno il sistema Mose. Contemporaneamente, gli agenti della guardia di Finanza si recano a Mogliano, nella villa di Piergiorgio Baita, e lo tirano giù dal letto per accompagnarlo al carcere. Raccontano, le fiamme gialle, che il presidente della Mantovani si è pure stupito di trovarsi i finanzieri in casa di mattina presto, senza dargli neppure il tempo di bere il suo caffè. Chi lo sa? Magari ha fatto la stessa faccia che aveva fatto vent’anni fa, in piena Tangentopoli, quando finì in carcere più o meno per le stesse motivazioni con le quali ci è finito oggi: associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Disavventure che non gli impedirono in seguito - anzi! - di scalare le vette di grandi società finanziarie, frequentare i salotti buoni del potere e della politica, farsi assegnare appalti “fiduciari” per strade, ospedali, grandi opere e costruirsi un vero e proprio “impero di cemento”.


Con l’imprenditore, la cui difesa è già stata assunta dall’avvocato e senatore Piero Longo, il legale di Berlusconi, è stata arrestata anche Claudia Minutillo, ora amministratore delegato di Adria Infrastrutture, ma più conosciuta con l’appellativo di “Dogaressa” all’epoca in cui era la segretaria particolare di Giancarlo Galan e fungeva da perno di collegamento tra il Governatore Veneto e tutta la mandria di cementificatori e palazzinari che gli scodinzolava attorno. In manette anche un presunto console onorario di San Marino, William Ambrogio Colombelli - un “poveraccio” che al fisco dichiarava di guadagnare 12 mila euro all’anno e fatturava per 10 milioni di euro alla volta -, e Nicolò Buson direttore finanziario della Mantovani.
Quella Mantovani spa che a Venezia si legge Mose. Ma non solo. L’impero di cemento costruito da Baita comprende anche l’appalto principale per la realizzazione del prossimo Expo di Milano ma la fetta di torta più grossa era quella che la società si era ritagliata nel Veneto. Potremmo pure dire che nella nostra Regione, la Mantovani si è mangiata tutta la torta! Un vero e proprio asso pigliattutto a Rubamazzetto. Dall’ospedale all’Angelo al percorso del tram di Mestre, dagli interventi di difesa della laguna al passante di Mestre, dalla viabilità della base statunitense Dal Molin alle autostrade. Difficile trovare una devastazione ambientale dove non ci sia dietro lo zampino della Mantovani spa.
Secondo gli inquirenti, l’associazione a delinquere messa in piedi da Baita & C ruotava attorno ad una società con sede legale a San Marino verso la quale venivano emesse fatture false - accertati sempre secondo la guardia di finanza perlomeno 10 milioni di euro - i cui importi venivano in seguito prelevati in contati per essere restituiti all’imprenditore e alla “dogaressa” Minutillo. Frode fiscale quindi. Ma non solo. La domanda che bisogna porsi è: come venivano utilizzati questi fondi neri?
Proprio qualche mese fa, Beppe Caccia, consigliere comunale di Venezia per la lista In Comune, aveva rivolto un appello a Piergiorgio Baita per sollecitarlo a fare chiarezza e ad illustrare pubblicamente, i conti del Consorzio Venezia Nuova e del suo azionista di maggioranza, la Mantovani. Anche in virtù della non irrilevante considerazione che ciò che maneggiano questi signori non sono soldi loro ma risorse pubbliche!
Come c’era da aspettarsi, l’appello di Caccia è stato completamente ignorato dall’imprenditore e, allo stato delle cose, si capisce pure il perché. “Dal 1984, da quando cioè è partito il progetto del Mose, quasi trent’anni or sono - ha dichiarato Beppe Caccia in un suo commento pubblicato sul sito dell’associazione In Comune - della marea di danaro che è andata e che va spesa per quel progetto, solo una parte va a finanziare le opere, mentre una gran parte va a finanziare qualcos’altro”.
Cosa sarò mai “qualcos’altro”? Vediamo come saranno spesi gli ultimi 1.250 milioni di euro stanziati per il Mose dal Governo Monti nell'ultimo scorcio (sconcio) di legislatura. “Innanzi tutto una quota del 12% va a pagare non i lavori o la loro progettazione, ma l’attività di management del Consorzio Venezia Nuova: ciò significa che questa attività verrà finanziata nei prossimi quattro anni con 250 milioni di euro, oltre sessanta milioni all’anno. Chiunque abbia una qualche competenza in materia sa che si tratta di cifre assurde e del tutto spropositate. Mettendo l’occhio nei bilanci passati si vede poi che questa cifra aumenta considerevolmente attraverso attività affidate dal Consorzio ad altri soggetti  e rimborsate con cifre molto superiori a quanto effettivamente speso. Si può dunque pensare che i 250 milioni lieviteranno almeno fino a 300”.
“I 950 milioni restanti verranno spesi per i lavori. Ma come? Attraverso l’affidamento diretto alle imprese del Consorzio tra cui le indagate Mantovani SpA e le sue controllate come Palomar e senza gara di appalto. Anche pensando che la forte etica di quelle imprese non le induca a gonfiare le voci di costo (basterebbe informarsi in proposito presso i costruttori veneziani), qualora si facessero delle gare, come avviene in tutto il mondo civile, si otterrebbero dei ribassi medi sui lavori di circa il 30%. Ciò significa che se si facessero delle gare si risparmierebbero 285 milioni di euro, pur lasciando alle imprese la legittima remunerazione del proprio lavoro. Ripeto, questo sarebbe il risparmio minimo a fronte di conti ineccepibili da parte delle imprese. Per la precisione, in questa cifra ci sono anche costi di progettazione, magari fatta in famiglia con incarichi, sempre senza gare, dati da moglie a marito o da padre a figlio, ma non è questo il punto”.
Continua l’ambientalista: “Dunque, dei 1.250 milioni dati dallo Stato circa il 50%, cioè circa 600 milioni di euro non vanno a pagare le opere, ma vanno a un ristretto numero di persone che realizzano così assieme a degli impressionanti superprofitti, degli inspiegabili consensi e degli inspiegabili silenzi da decenni a questa parte. Ristretto numero di persone tra le quali va annoverata la rete dei “collaudatori”, che dovrebbero essere i controllori di ultima istanza, i quali si distribuiscono parcelle principesche e alla cui testa c’era fino a poco fa il noto Balducci”.
Per farla breve tutta l’operazione che ruota attorno al Mose rappresenta il più colossale e impressionante trasferimento di danaro dal pubblico al privato che si sia visto in Italia. Quando l’opera sarà finita (sempre che venga mai finita perché chi la realizza ha interesse ad allungare continuamente i tempi e ad aumentare continuamente i costi) della cifra spesa, solo poco più della metà sarà stato effettivamente speso nelle opere di salvaguardia.
E il resto? “Tutto ciò, che produce gravi distorsioni dell’etica e (a qualcuno potrebbe interessare) del mercato, e che viene pagato, come si dice oggi, ‘mettendo le mani nelle tasche degli italiani’, avviene in nome di Venezia - spiega Caccia -. Con il pretesto della salvezza della città che tutto il mondo vuole e che tutto copre è stata attivata una macchina per mangiare soldi che non si ferma di fronte a nulla”. E conclude: “Vogliamo la verità. Vogliamo sapere a cosa sono serviti questi fondi neri. Se sono state pagate tangenti, chi si è lasciato corrompere e perché”.
Da sempre, le associazioni ambientaliste e non solo oro, hanno sostenuto che le grandi opere come il Mose non servono a salvaguardare l’ambiente, anzi. Piuttosto queste operazioni sono strutturate per deviare finanziamenti pubblici verso colossi privati che li utilizzano non soltanto per cementificare il territorio ma anche per corrompere ed influenzare la politica, dirottandola dal cittadino e bypassando le amministrazioni locali verso ristretti gruppi di potere non di rado malavitoso.
Non è incredibile, riteniamo, che l’arresto di Baita & C sia avvenuto dopo lo tsunami elettorale che ha scompaginato gli equilibri politici. Non è neppure incredibile che il leader del centro destra, Silvio Berlusconi, abbia dichiarato in piena campagna elettorale che le tangenti sono una pratica necessaria per far girare l’economia. Quello che ci risulta davvero incredibile è che 7 milioni 332 mila e 972 italiani lo abbiano pure votato.
Ma questo punto, gli ambientalisti non possono più farsi bastare la soddisfazione di poter dire, ancora una volta, "visto che avevamo ragione noi?". Conclude Beppe Caccia "Ci auguriamo che questa sia la volta buona per fare pulizia e per liberare una volta per tutte Venezia e il Veneto da questo sistema malavitoso di intreccio tra politica ed affari".

Caso Abu Omar. La Corte d’appello condanna i vertici del Sismi

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Profondo sconcerto per la decisione dei giudici e grande rammarico per non essersi potuto difendere in aula “a causa del segreto di Stato che prova la mia innocenza, non la mia colpevolezza”. Così l’ex direttore del Sismi Nicolò Pollari commenta la sentenza “bis” della IV sezione della Corte d'appello del tribunale di Milano che lo ha condannato a dieci anni di reclusione per il sequestro dell’allora imam di Milano Abu Omar, avvenuto il 17 febbraio del 2003. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Pollari si paragona ad Enzo Tortora, “oggi è stata condannata una persona che tutti in Italia sanno essere innocente”, e non trascura di lanciare accuse e avvertimenti, più o meno velati, agli alti piani della politica (tutti quegli anni al Sismi, gli avranno pur insegnato qualcosa): “In questo processo io non sono mai stato messo in condizione di difendermi. Perché? È una domanda alla quale non so rispondere e che dovreste fare ad altri”. E continua: “I governi Prodi, Berlusconi e Monti (che hanno coperto l’operazione con il segreto di Stato.ndr) sono stati dunque i miei complici? E se lo sono stati perché nessuno li interpella?” Le linea difensiva di Pollari è quella del “buon soldato” che obbedisce agli ordini dei generali per amor di patria e che alla fine paga per tutti. “Lo stesso Governo - afferma l’ex capo del Sismi - ha messo per iscritto che le mie attività sono istituzionali e quindi sono lecite”. E conclude con il più classico degli “Ahi, serva Italia”: “Io sono un uomo abituato a rispettare la legge. Ma questo è un Paese di falsi moralisti in cui conviene essere scorretti e infingardi”.


Comunque la si pensi, è innegabile che il potere politico abbia giocato tutte le sue carte per impedire che si giungesse a questa sentenza di condanna. Proprio durante il dibattimento, anche il governo Monti, così come prima aveva fatto quello di centrodestra (Berlusconi) e quello di centrosinistra (Prodi), aveva esplicitamente ribadito la piena copertura del segreto di Stato sull’intera vicenda. Inoltre, a pochi giorni dalla sentenza, la presidenza del Consiglio dei Ministri ha sollevato un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nel tentativo di invalidare la sentenza della Cassazione che ha chiesto alla corte d’Appello di procedere con questo processo “bis” nei confronti di Pollari e dei suoi sottoposti.
Una mossa che non ha ottenuto gli effetti sperati, tanto è vero che la Corte si è ben guardata dal sospendere il dibattimento in attesa della decisione della Consulta ed anzi ha proceduto con la sentenza, accogliendo le richieste dell’accusa. Pollari è stato giudicato colpevole e condannato a 10 anni (il sostituto procuratore generale Piero De Petris ne aveva chiesto 12), 9 anni per Marco Mancini, all’epoca numero due del Sismi, e 6 anni gli agenti Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra, e Luciano Di Gregori.
Vicenda chiusa? Non ancora. Gli avvocati della difesa hanno già annunciato il ricorso alla Cassazione. Il legale di Marco Mancini, Luigi Panella, ha sollevato dubbi sulla legittimità della sentenza sostenendo che in questo processo "sono stati utilizzati atti coperti da segreto". Il che, va detto, contraddice quanto afferma Pollari, secondo cui i giudici non avrebbero utilizzato il segreto di Stato in quanto questo proverebbe l’innocenza degli imputati.
L’ex capo del Sismi comunque è assai esplicito nel ribadire la sua fiducia nella Cassazione. “E' una questione di civiltà giuridica - afferma - A cosa serve parlare di rapporti leali tra poteri dello Stato se poi sono soltanto mere enunciazioni di principio? La democrazia si esercita con i fatti e con la sincerità”.
Democrazia, appunto. Questa è la parola con la quale Nicolò Pollari giustifica il sequestro e le torture inflitte, prima nella base di Aviano e poi in Egitto, ad un cittadino egiziano perseguitato dal Governo di Mubarak ed al quale il nostro Paese aveva concesso l’asilo politico. Una persona sulla quale gravavano solo dei “sospetti”, peraltro mai confermati, di essere in contatto con cellule terroriste. Il “caso Abu Omar” non è stato altro che un rapimento in piena regola autorizzato dal governo Bush a pochi giorni dall’invasione dell’Iraq e compiuto da un commando di agenti della Cia - tutti condannati in via definitiva dalla corte di Cassazione - nel nostro territorio. Uno schiaffo alla nostra dignità democratica e alla nostra sovranità nazionale. Uno schiaffo al quale ben tre Governi non hanno saputo rispondere in altro modo che apponendo il segreto di Stato.

Il giro del mondo in ottanta piani

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Qualche giorno fa ho fatto un viaggio che mi ha portato ad attraversare oltre una ventina di popoli, altrettante lingue e un numero imprecisato di culture e di fedi religiose. Un viaggio lungo un centinaio di metri. Tutti in altezza.
Sto parlando di un grattacielo. Anzi “del” Grattacielo. E’ così infatti che a Ferrara, senza sforzare troppo la fantasia, chiamano il loro unico edificio che si stacca altissimo verso il cielo del capoluogo emiliano. Il Grattacielo. Ma fate attenzione: il termine va connotato con una forte enfasi negativa. Come se parlassimo di una favela di Rio de Janeiro o di uno slum di Città del Capo. Se - coraggiosamente - vi azzardate a salirne le scale, scordatevi la Ferrara dell’Ariosto e del Tasso. Qui siamo in un altro mondo. Anzi, in tanti altri mondi: quello di Khayyam, poeta e matematico allo stesso tempo, dei grandi “mari che non navigammo” di Hikmet o dell’esilio e dello spaesamento post coloniale dell’africano Achebe. Se fate lo sforzo di rinunciare all’ascensore, vi sembrerà davvero di viaggiare per terre esotiche respirando i persistenti odori di spezie che invadono i corridoi, ammirando le decorazioni che ornano gli stipiti delle porte. E non dimenticate di buttare un occhio sui campanelli per leggervi i nomi di famiglie le cui origini spaziano della Romania alla Nigeria, dal Marocco al Kazakistan, dalla Cina al Venezuela. Sui pianerottoli incontrerete persone che vi salutano con accenti e lingue diverse, augurandovi una buona giornata e le benedizioni dei tanti dei del vasto Creato.



Eppure, per i ferraresi, il Grattacielo è solo una anticamera dell’inferno dantesco. Luogo di pianti e stridor di denti. Una baraccopoli tutta in altezza di parlate, di riti e di razze strane. Fucine di spaccio, violenza e prostituzione. Inesplorabili territori di degrado sia fisico che morale dove si dice, si racconta e qualche volta anche si scrive che succeda di tutto anche se, alla luce dei fatti... non vi è successo mai niente!
Il Grattacielo di Ferrara è così una perfetta metafora di come in Italia vengono presentate le problematiche legate alla migrazione. Tanta paura da manipolare senza fatti concreti con i quali giustificarla. Ma si sa che il terreno più fertile per far crescere le paure è proprio quello della disinformazione!
Anche il nome della struttura, a ben vedere, è tutt’altro che corrispondete alla realtà. I grattacieli infatti sono due, simmetrici e alti cento metri per una ventina di piani, connessi da un paio di blocchi abitativi di due e tre piani. Ci troviamo a ridosso della stazione ferroviaria di Ferrara che, nell’elegante città emiliana, si infila proprio dentro il centro storico. Quartieri tradizionalmente riservate all’alta e ricca borghesia. Il Grattacielo infatti fu costruito, verso la fine degli anni ’50, sulle ali di una delle prime speculazioni edilizie ai bei (?) tempi del cosiddetto “boom economico”, quando gli economisti facevano credere alla gente che le risorse di questa nostra terra fossero inesauribili. Quei moderni appartamenti che facevano tanto “made in Usa” , costruiti per guardare la nobile città degli Estensi dall’alto in basso, erano destinati ai figli della cosiddetta “Ferrara bene” oppure a mero investimento immobiliare.
Fatto sta che quando il grattacielo fu inaugurato, nei primi anni ’60, quasi tutti gli appartamenti erano già stati venduti ma, per la maggior parte, a persone che non avevano mai avuto l’intenzione di trasferirsi là. Tutto sommato, vivere al ventesimo piano farà anche tanto “Stelle&striscie” ma mal si adatta alle abitudini tutte emiliane dei ferraresi, più propensi ai cappellacci di zucca che al Mac Donald.
Il Grattacielo cominciò a vivere solo in seguito alla prima ondata migratoria, alla fine degli anni ’70, quando giunsero nel capoluogo emiliano, e in particolare nella sua provincia, centinaia di migranti in cerca di lavoro e di dignità. In pochi anni, il Grattacielo si riempì di persone provenienti dal Africa settentrionale, dal vicino e dal lontano Oriente, dall’est europea e anche dal sud Italia. Persone che avevano in comune solo il fatto di essere povere e talmente disperate da dover sottostare alle dure regole del mercato nero degli affitti e rassegnarsi a convivere in dieci, quindici, per appartamento. Secondo i dati che mi sono stati forniti dal progetto “Ferrara città solidale e sicura”, di cui parlerò più avanti, il Grattacielo arrivò a dare ospitalità fino a 35 etnie diverse contemporaneamente (adesso se ne trovano “solo” 22).
La diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati contribuì a creare un clima di ostilità e di pregiudizio nei confronti dell’edificio che si avviava lungo un inesorabile degrado. Le cronache di quegli anni registrano varie perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che portarono a qualche arresto per spaccio. Nell’immaginario cittadino, il Grattacielo divenne così il Bronx di Ferrara. Pochi giornalisti ebbero il coraggio e l’onestà intellettuale di sottolineare che, tanto il mercato dei fitti in nero quanto quello della droga che affliggevano il Grattacielo, erano in mano a dei rispettabilissimi italiani.
Le cose non migliorarono con l’arrivo della Bossi Fini, nel 2002, quando anche i giornali di sinistra cominciarono ad utilizzare quotidianamente termini che io non posso che riportare tra virgolette perché essenzialmente scorretti come “clandestini” e altre parole sporche, per citare il bel libro di Lorenzo Guadagnucci.
Da questo momento in poi, la triste fama che si era creata attorno al Grattacielo cominciò ad incupirsi sempre di più anche se, nei fatti, non si trova un solo episodio di cronaca nera riguardo ai residenti della struttura, se non i sopra menzionati arresti per spaccio e un paio di scazzottate senza pesanti conseguenze avvenute peraltro nelle vicinanze della struttura. Vorrei vedere di quanti caseggiati in Italia, anche meno popolati, si potrebbe scrivere altrettanto nel corso di trent’anni di storia.
La svolta definitiva avvenne nel 2007, quando cominciarono ad arrivare le famiglie per i ricongiungimenti. Il Grattacielo, per così dire, si “normalizzò” arricchendosi di colorati giochi di bimbi sparsi sui pianerottoli e di donne, velate e non, che portavano su per le scale borse di spese.
La povertà arrivata in seguito alla crisi ha colpito duro su queste scale. Non tutti i migranti che oggi ci abitano sono in grado di sostenere le pesanti spese di condominio che prevedono lo stipendio del portiere, la manutenzione dell’ascensore e il riscaldamento centralizzato. L’intervento del Comune e il cambio dell’agenzia che gestiva il condominio hanno temporaneamente permesso ai residenti di affrontare i rigori invernali con i termosifoni accesi ma hanno anche evidenziato uno scoperto di oltre 300 mila euro.
“La vita si è fatta dura per tante famiglie del Grattacielo che, sino a poco fa, potevano contare su una rendita sufficiente a vivere, a pagare le spese condominiali e, in qualche caso, anche il mutuo della casa - mi spiega Roberta, una bella ragazza che lavora al sopracitato progetto -. Molti hanno perso il lavoro e oggi sono alla disperazione. Mi auguro che il Comune sappia trovare una soluzione. Adesso, ad esempio, stanno lavorando per separare i contatori del gas e decentralizzare l’impianto termico per abbassare le spese. Ma quello che mi preme sottolineare è che, oggi come nel passato, episodi davvero violenti non ne sono mai capitati. Eppure, se lo fai notare ad un ferrarese, lo vedrai sgranare gli occhi e blaterare che aveva sentito parlare di omicidi in serie e di stupri collettivi... tutte storie truci che altro non sono che mere leggende urbane. Io ci vengo da anni per lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Ci fosse mai stato qualcuno che mi ha fischiato dietro! Ma come si fa a far cambiare idea alla gente quando neanche i fatti bastano?”
Basta battere la parola “Grattacielo” nel motore di ricerca di uno dei giornali on line di Ferrara per vedere comparire un piccolo museo degli orrori. C’è chi invoca l’intervento dell’esercito, chi propone di abbattere la struttura con tutti quelli che ci sono dentro. Il tutto però è confinato alle solite dichiarazioni xenofobe di esponenti del Carroccio, o nelle lettere al direttore inviate da spaventati quanto ignoranti lettori, per lo più residenti in tutt’altra parte della città.
“Il Comune di Ferrara ha avuto il merito, grazie anche al progetto di cui faccio parte, Città Solidale e Sicura che non a caso ha sede proprio alla base del Grattacielo, di aver governato la situazione impedendo il nascere di una ‘Via Anelli’, come è accaduto a Padova - continua Roberta -. Oggi il Grattacielo è un edificio vivo e ricco di iniziative pubbliche. Negli uffici sistemati al primo piano, accanto a noi, lavorano decine di associazioni. L’unico appunto che vorrei fare agli amministratori è che si continua a dare questi spazi all’associazionismo che opera nel campo dell’emarginazione. In questo modo si alimenta la fama di ‘posto da sfigati’ che ha il Grattacielo. Mi spiego, non ho naturalmente niente contro chi si occupa, che so?, di disagio mentale, ma vorrei vedere alla porta di fianco alla nostra anche la targhetta di qualche associazione che lavora per promuovere la cultura, l’arte o lo sport. Certo, non è facile per nessuno superare certi pregiudizi. E’ capitato che alcune associazioni inizialmente abbiano rifiutato questi spazi, ma poi, quando ci sono entrati, non se ne sono più andate”.
Ma i pregiudizi sono duri a morire ed i fatti non bastano ad ammazzarli. “Qualche tempo fa - mi racconta Loris, un altro operatore del progetto - tutto il quartiere attorno al Grattacielo, stazione compresa, è stata invasa da legioni di scarafaggi. Grossi, neri e schifosetti... li trovavi dappertutto. Il problema è stato facilmente superato con una buona disinfestazione ma non ti dico quello che ci è toccato leggere nei giornali! Tutti accusavano i migranti di aver portato queste blatte dall’Africa. Poi uno studio scientifico spiegò che era una specie endemica della pianura padana! Ma l’immaginazione popolare continua ancora adesso a collegare l’invasione degli scarafaggi ai migranti del Grattacielo. Cosa vuoi che ti dica? Neanche fosse stata una invasione di zebre...”
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