In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

La cultura ed i parcheggi sotto il balcone di Giulietta

Di che pasta fosse fatto Flavio Tosi, primo cittadino di Verona, lo si era capito una settimana dopo la sua elezione, quando aveva nominato di suo pugno, alla presidenza dell’associazione per gli studi sulla Resistenza, un esponente di Forza Nuova. E se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è neppure da stupirsi più di tanto del macello che la sua amministrazione sta facendo del patrimonio museale della città di Romeo e Giulietta.

Casomai c’è solo da vergognarsi a vedere che certe svendite di palazzi pubblici a prezzi stracciati, certe collezioni scientifiche di valore mondiale ammassate a marcire negli scantinati, destino più scandalo nei giornali d’oltralpe che nei quotidiani locali. Per non parlare della rassegnazione con la quale la cittadinanza – partiti di opposizione compresi – accetta la situazione e china il capo di fronte ad un sindaco che sbotta “Meglio fare un parcheggio che conservare quattro sassi» con lo stesso tono con il quale nel Ventennio si argomentava con un bel “Me ne frego” e contorno di manganellate. Cosa che per altro i suoi vigili hanno fatto in più di una occasione contro rom, senza casa e altri disgraziati. Ma andiamo con ordine e cominciamo a vedere quali sono i “quattro sassi” che tanto stanno sulle scatole al sindaco Tosi. Non serve essere archeologi per aver sentito perlomeno accennare ai ritrovamenti di fossili nei monti Lessini dove hanno vissuto sino a 33 mila anni fa gli ultimi uomini di neandertal. Istituti di ricerca prestigiosi come il Weizmann Institute di Gerusalemme e il Max Planck Institute di Liepzig, analizzando il Dna di alcuni frammenti di questi fossili hanno dimostrato come i neandertaliani avessero gli occhi azzurri e i capelli rossi (ben diversi da quella sorta di “scimmioni” dipinti in tanti tasti scolastici) e nello stesso tempo hanno escluso ogni parentela con il sapiens moderno, che pure, 33 mila anni era già diventata la specie dominante. La scoperta si è meritata, tra l’altro, anche la copertina di un numero della celebre rivista Science. Questi sarebbero i “quattro sassi” di Tosi. Ma no è tutto: bisogna aggiungere anche le selci preistoriche scavate nelle cave più antiche d’Europa, i ritrovamenti nel villaggio palafitticolo sul Garda, probabilmente il più conosciuto a livello mondiale, i resti della galea di Lasize, l’unica “nave lunga” (cioè da guerra) veneziana, sino ad ora scoperta, che hanno scritto la storia dell’archeosub e dell’archeologia navale. E ci fermiamo qua, anche se ci sarebbe da ricordare perlomeno i bronzi della necropoli preistorica di Franzine Nuove. Questi “quattro sassi” che non valgono un bel parcheggio, facevano parte del museo civico di storia naturale di Verona. Museo che da 13 anni non ha neppure un direttore. Tanto per capire il peso che ha la cultura nella città scaligera. Le collezioni sino a poco tempo fa, erano ammassate tra palazzo Gobetti e palazzo Pompei, prima in quattro stanze e poi, siccome quattro parevano troppe, in un solo stanzone. Sistemazione indecorosa ma perlomeno sufficiente a salvaguardare i reperti. Ed è qui che entra in scena Flavio Tosi. L’idea di partenza, va detto, non sarebbe neppure malvagia. Ristrutturare il vecchio Arsenale militare e trasferire là i “quattro sassi”. Il problema è che il progetto di ristrutturazione – l’amministrazione di Verona fa le cose in grande – chiesto ad un architetto di fama mondiale, costa una vagonata di milioni. Dove trovare i soldi? Ed è qui che entra in scena il federalismo demaniale. Come dire: quando pensi di aver toccato il fondo, comincia a scavare. L’amministrazione decide di mettere in vendita i gioielli di casa tra cui i palazzi Gobetti e Pompei. Il museo chiude quindi i battenti e i “quattro sassi” vengono impacchettati alla bell’è meglio e spediti a marcire nei sotterranei dell’Arsenale, dove sono tutt’ora e dove resteranno per un pezzo. Con i due palazzi storici, vanno all’asta anche Castel San Pietro, palazzo Forti, l’ex convento di San Domenico. Le banche veronesi ringraziano il loro sindaco. Per le svendite, ma soprattutto per la delibera che le accompagna e che consente agli acquirenti, testuale, “la più ampia possibilità di utilizzo”. In pratica, potranno sventrare il palazzo storico per farci un Mac Donald, un outlet di lusso o un’altra casa di Giulietta in stile Disneyland. Ma anche per il prezzo le banche ringraziano. Per far cassa “tutto e subito” nel più puro stile “federalismo demaniale”, in sede d’asta i prezzi sono stati abbattuti al limite del regalo. Per palazzo Forti, la Cariverona ha tirato fuori 33 milioni invece dei 65 richiesti. Per palazzo Gobetti, i 10 milioni di partenza sono scesi a poco più di 6. Neanche al mercato delle pulci ti scontano con queste percentuali. Alla fine dell’asta, tirando due conti della serva, Verona non ha messo in cassa neppure un quarto di quei 115 milioni ipotizzati. Beh, qualcuno osserverà, perlomeno sistemeranno parte delle collezioni del museo! Buonanotte. Il sindaco Tosi l’ha già spiegato che preferisce un bel parcheggio di cemento a quei quattro sassi che, tra l’altro si sono già rovinati a stare in una insalubre cantina. Già. Perché le selci preistoriche, per uno strano fenomeno che non ha ancora trovato spiegazione, sono diventate tutte di colore blu. Cosa ne faranno allora dei soldi ricavati con questi affaroni da “3 x 2”? Parcheggi a parte, un milione se ne è già andato in un paio di rotatorie. Un altro milione e 100 mila euro è stato regalato ad una società sportiva che al sindaco Tosi evidentemente rievoca vecchi furori di giovinezza: l’Audace.

La Goletta sulla coste venete

Abusivismo edilizio, pesca non sostenibile, depuratori (che non ci sono e che quando ci sono non funzionano), scarichi fognari insufficienti e persistente inquinamento da idrocarburi. La fotografia dello stato delle coste venete scattata da Legambiente è impietosa. L’associazione ambientalista è approdata in laguna con la sua celebre goletta per lanciare la campagna Mare Monstrum e “dare i numeri” della qualità ambientale di quello che un tempo i latini avevano battezzato Mare Nostrum.
Le cattive notizie per il mare veneto – ha spiegato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - viaggiano lungo i corsi dei fiumi e arrivano dalle foci dei corsi d’acqua, che rappresentano tre dei cinque punti critici rilevati dall’imbarcazione ambientalista. Fortemente inquinate le foce dell’Adige, del Livenza e del Lemene, dove arriva il canale in cui scarica il depuratore. Gravemente contaminati anche i punti campionati nei comuni di San Michele al Tagliamento e Venezia, nelle località Bibione e Campalto, a valle dei rispettivi depuratori.
Il primo nemico del nostro mare sono gli scarichi non depurati o insufficientemente depurati.
All’incirca soltanto il 78% della rete fognaria risulta coperto da impianti di depurazione. Il che significa che oltre un milione di residenti del Veneto (in particolare nel trevigiano) rimane escluso dal servizio di decontaminazione delle acque reflue. Questa è la principale causa della forte contaminazione microbiologica rilevata nella acque marine venete dove la Goletta Verde ha rilevato una concentrazione di inquinamento microbiologico ben oltre i limiti di legge anche tenendo conto delle nuove normative in materia di balneazione, molto più permissive delle precedenti varate dal Governo con decreto legge.
Ma il pericolo, ha sottolineato l’indagine di Legambiente, non proviene solo dai batteri. Cemento selvaggio, speculazioni edilizie e consumo scriteriato del suolo sono il pericolo numero uno delle nostre coste. Un esempio per tutti, lo sfacelo che si sta consumando al Lido di Venezia. “La zona dell’ex Ospedale al Mare e il parco della Favorita – ha spiegato Luigi Lazzaro, presidente Legambiente Venezia - si stanno trasformando in una ghiotta occasione per il ‘partito del cemento’. L’area, già venduta dal Comune di Venezia per 81 milioni di euro, somma destinata a finanziare il nuovo Palazzo del Cinema, è stata acquistata da Est Capital Sgr, finanziaria padovana presieduta da Gianfranco Mossetto, per realizzare un grande centro residenziale con case di lusso, albergo, centri commerciali, negozi, piscina e parcheggi sotterranei. Peccato che la delibera del consiglio comunale prevedesse solo ‘un’edificazione massima di due edifici di altezza di 9,50 e 12,50 metri, su una porzione corrispondente a un quarto dell’area interessata, riservando la restante superficie a verde sportivo’, mentre il progetto di Est Capital prevede un piano di edificazione residenziale costituito da una trentina di ville da circa 200 metri cubi ciascuna, accanto alle quali dovrebbero svettare anche tre torri alte 20 metri. Cubature che finirebbero per coprire per intero l’area della Favorita”. In sostanza, siamo di fronte alla volontà di fare piazza pulita del parco della Favorita e di edificare una zona oggi ben conservata del litorale del Lido. La solita operazione di lottizzazione edilizia spacciata come intervento di riqualificazione.
“Terremo nella massima considerazione i dati raccolti e presentati da Goletta Verde di Legambiente – ha commentato l'assessore comunale all'Ambiente, Gianfranco Bettin - specialmente i dati relativi alla situazione di stress del mare Adriatico e, in generale, alle ferite subite dal territorio e dall’ambiente nella nostra realtà. Per quanto riguarda la situazione nel Comune di Venezia, troviamo confermate le nostre preoccupazioni per l’arrivo in laguna di inquinanti attraverso i corsi d’acqua dovuto alla mancata depurazione di acque che, dall’entroterra giungono in laguna. L’altro aspetto critico riguardante l’impatto del grande investimento immobiliare di Est Capital al Lido, che molto preoccupa l’associazione ambientalista. L’attuale amministrazione è, fin dal primo giorno, impegnata nel confronto con i promotori dell’intervento e con il commissario straordinario Spaziante, per verificare il reale impatto del progetto e i margini tuttora esperibili per ridurne l’impatto ambientale”.

Venezia United. Una squadra per tutte le stagioni

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La notizia non è esattamente una di quelle che ogni giorno vengono sparate nelle prime pagine dei quotidiani nazionali. Al massimo si guadagna un paio di colonne nei quotidiani locali, incastrate tra una pubblicità e l’altra, nell’ultima pagina di cronaca della città. Neppure l’onore di una apertura nelle pagine dello sport, pur se di calcio stiamo parlando, che continuano a puntare i riflettori sulla figuraccia mondiale della nostra nazionale e a invidiare le prodezze di Villa e Klose. Niente da eccepire: il destino di una squadra sprofondata in serie D, pur se dal glorioso passato come il Venezia, non ha certo la stessa rilevanza giornalistica della prossima maglia di Balotelli o degli acquisti stellari di Milan e Juve.


Eppure anche questo è calcio. Anzi, potremmo dire che proprio questo è il calcio. Il calcio che ci piace, lontano da scandali, veline, sponsorizzazioni miliardarie e capitali di dubbia provenienza. Utopie? Può darsi. Ma “fioi, ghea podemo far!” Ragazzi, ce la possiamo fare! Più un incoraggiamento che uno slogan, questo che capeggiava sopra lo striscione appeso, mercoledì 30 giugno al Palaplip di Mestre, durante l’assemblea costitutiva di Venezia United. Di che si tratta? Venezia United è una neonata associazione con lo scopo di creare una “public company” che affianchi gli attuali proprietari della squadra del Venezia. In pratica, Venezia United ha lanciato un’operazione di azionariato popolare per trasformare i tifosi da semplici spettatori a proprietari della loro squadra del cuore. Nel Belpaese, dove il calcio si misura col metro dei milioni di euro, pare quasi di bestemmiare a raccontare di impiegati, operai, casalinghe, studenti, commercianti e gondolieri (siamo pur sempre a Venezia) che si costituiscono in società per comperarsi la loro squadra. Eppure oltralpe, dove l’azionariato popolare ha ben altra tradizione, il fenomeno è consolidato e vanta precedenti illustri come, tanto per portare un paio di beneauguranti esempi, Barcellona e l'F. C. United of Manchester.
Il Football Club Unione Venezia – così si chiama la squadra di casa reduce da una lunga ed ininterrotta serie di fallimenti e retrocessioni che l’hanno vista sprofondare dalla serie B al campionato dilettante – sta per diventare il primo, e sino ad ora anche unico, club italiano a partecipazione pubblica. Non a caso, a tenere a battesimo la nuova associazione, costituita da tanti tifosi storici arancioneroverdi, è stato il Comune di Venezia con il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore allo sport Andrea Ferrazzi che hanno garantito il costante impegno dell’amministrazione ad accompagnare Venezia United su questo difficile percorso.
Per “far parte di un sogno” e diventare “proprietario del tuo club”, come si legge nei depliant distribuiti dalla nuova public company, è sufficiente acquistare una azione da 10 euro o da 50 (quota sostenitore). Per le aziende è prevista una “partnership for business” di 500 euro o più con rilascio di regolare fattura e relativa deducibilità fiscale. Il primo obiettivo è di associare 3 mila persone e raccogliere 300 mila euro da investire nell’aumento del capitale sociale del Fbc Unione Venezia. “All’interno dell’associazione ogni socio avrà diritto ad un voto, indipendentemente dal numero di azioni in suo possesso – spiega Franco Vianello Moro, eletto presidente pressoché all’unanimità dall’assemblea costituente-. Venezia United è una associazione aperta a tutti e vuole rispondere in maniera positiva alla crisi generalizzata del calcio. C’è tanto da lavorare, ma la grande e qualificata partecipazione della cittadinanza alla fase propedeutica di questa iniziativa, ci stimola e conforta. Il sostegno e la partecipazione della gente aiuterà ad aprire un processo virtuoso di cui si sente tanto il bisogno in questo calcio prefallimentare o fallito".

Veneto record. Di evasori fiscali

Vi siete mai chiesti da dove tragga combustibile la decantata “locomotiva veneta”? Una risposta potrebbe essere quella che ha dato la Guardia di Finanza qualche giorno fa, quando ha celebrato il suo 236esimo anniversario: dall’evasione fiscale.
Perché, se è vero che la pressione fiscale nel nordest è più elevata che in altre regioni d’Italia (in media un veneto versa allo Stato 9 mila 500 euro all’anno contro i 5 mila e 200 della Puglia e i 4mila e 900 dei calabresi, tanto per citare due regioni in fondo alla classifica dei contribuenti), è anche vero che il record degli evasori totali è tutto nostro. Ed è pure un fenomeno in forte crescita, considerando che nei soli primi cinque mesi di quest’anno, i finanzieri ne hanno scoperto e denunciato ben 338 “furbetti”, il 42 per cento in più rispetto allo scorso anno. Ha un bel dire il neo governatore Luca Zaia che “nel Veneto l’illegalità fiscale è davvero una realtà molto piccola”. I dati lo smentiscono alla grande. La Guardia di Finanza ha documentato nel laborioso e onesto Veneto, una evasione totale all’Iva di 270 milioni di euro e una mancata dichiarazione di reddito di circa un miliardo e trecento milioni. Le frodi fiscali con fatturazioni false sono state, parliamo sempre dello scorso anno, 411. E anche questo è una percentuale in aumento: 22% in più rispetto all’anno precedente. Un dato sorprendente è quello che riguarda le contraffazioni: le indagini della Guardia di Finanza nel Veneto hanno portato al sequestro di ben 5 milioni di euro di mercanzia. Per dirla in percentuale, il 10% dei sequestri operati in Italia sono “cosa nostra”.
Insomma, evadere il fisco rimane lo sport preferito dei nostri imprenditori. E, considerato che viviamo in un mondo “globalizzato”, pure le evasioni fiscali sono state “globalizzate”: oltre 231 milioni di euro sono stati sottratti alla tassazione internazionale per finire in uno dei tanti paradisi fiscali. Un modo come un altro per esportare il “Made in Veneto” in tutto il mondo!
Ma il dato più inquietante portato allo scoperto dalle indagini della guardia di finanza, riguarda il fenomeno del lavoro nero. Lo sfruttamento, in particolare di categorie deboli e scarsamente sindacalizzate come donne e migranti, ha come conseguenza anche il mancato versamento da parte dell’imprenditore di tasse e contributi vari allo Stato (oltre che al lavoratore sfruttato). Sotto questa lente, le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato allo denuncia di 839 casi di persone costrette a lavoratore completamente in nero e di 372 lavoratori irregolari. Un dato sicuramente sottostimato, a detta della stessa Guardia di Finanza, perché non tiene conto di tutti quei migranti che si sono macchiati del “reato di clandestinità” e sono al di là di qualsiasi controllo, oltre che tutela. Anche questa, una conseguenza della legge Bossi Fini sull’immigrazione. "Il compito della polizia economica nel nordest - ha spiegato il generale della Guardia di Finanza Pasquale Debidda - è quello di assicurare le condizioni ideali del mercato garantendo una equità fiscale”. Garantire anche una equità sociale non è compito delle Fiamme Gialle. Ma farebbe comunque bene ad un mercato che non sia solo sfruttamento del lavoro e delle risorse comuni.

Storie di sfruttamento

Non è neppure una storia originale, quella di Raffaele Turatto, “socio lavoratore” della cooperativa sociale Essegi di Padova. Storie così accadono tutti i giorni. Perché è una storia di soprusi e sfruttamento del lavoro. Ma è comunque una storia emblematica di cosa sia diventato oggi il mercato del lavoro. Socio e lavoratore, abbiamo detto. Ma non crediate che essere soci voglia dire aver voce ai piani alti. “Al contrario – commenta Raffaele – è una solenne fregatura. Essere socio vuol dire essere un lavoratore dipendente come gli altri solo con meno diritti degli altri.
Ci sono cooperative sociali nate solo con lo scopo di bypassare tutti le garanzie e i diritti con cui la legge tutela il lavoratore. Quella che mi ha licenziato, evidentemente, è una di queste“. Raffaele ha 43 anni. Da nove lavora, o meglio lavorava, come responsabile di servizio alla Essegi di Padova, una cooperativa di circa 120 soci che si occupa di “logistica e appalti”. In parole povere, presta manodopera alle aziende che ne hanno bisogno ma, vai a capire il perché, preferiscono evitare il “giogo” delle regolari assunzioni. Socio o no, il lavoro è comunque duro. Raffaele è referente del personale della Essegi impiegato in tra cartiere. Lavora dalle 8 alle 10 ore al giorno ma si porta comunque a casa ogni mese quasi 1200 euro. D’accordo. I referenti come lui, regolarmente contrattuati e senza il “vantaggio” di essere soci, guadagnano molto di più. Ma il mercato è quello che è, e tocca accontentarsi. La frustata arriva a gennaio quando il socio che conta dell’Essegi – un tempo si scriveva “il padrone” - dichiara lo stato di crisi. “Non ne vedevamo il motivo - spiega Raffale-. Il lavoro era sempre di più e la faccenda ci pareva sospetta, anche perché non avevano tenuto conto di fatture che non erano ancora state pagate. Ma noi ci siamo comunque fidati e abbiamo accettato le nuove condizioni di lavoro”. Niente 14esima, niente festività, niente una tantum, massima flessibilità, diminuzione delle ore retribuite. Alla fine dei conti, in tasca non arrivava che 800 euro o poco più al mese. La quota sociale inoltre, che ogni socio deve versare per capitalizzare la cooperativa, è stata aumentata da 25 a 2mila euro. “Una bella botta. Non c’è che dire – continua Raffaele-. Anzi, una ingiustizia bella e buona. Che diritto avevano di trattarci così? Mi sono rivolto all’associazione difesa lavoratori e assieme al suo referente Gianni Boetto, siamo andati da un avvocato. Solo per il fatto che siamo soci non possono imporci le condizioni che vogliono, tanto più che abbiamo verificato che il bilancio della cooperativa era tutt’altro che in passivo”. Raffaelle diventa così il punto di riferimento di tutti i soci lavoratori della Essegi che non vogliono chinare la testa. E che ti fa la cooperativa? “Mi hanno proposto subito un avanzamento di carriera e di diventare il referente del personale di tutte le aziende servite dalla Essegi. Là per là, ero contento, pure se ho subito avvisato i responsabili che non per questo avevo intenzione di abbandonare la lotta sindacale”. Raffale quindi parte per le ferie, programmate da tempo. E al ritorno? “Mi trovo improvvisamente declassato a magazziniere. Ho chiesto più volte un incontro con i vertici ma niente da fare. Nessuno aveva tempo per spiegarmi i motivi”. Comincia il gioco duro. Raffaele ha gli occhi puntati addosso e alla prima occasione gli arriva una raccomandata di licenziamento. Gianni Boetto, responsabile padovano dell’Adl, l’associazione difesa lavoratori che a livello nazionale si riconosce nell’Usb, unione sindacale di base, commenta: “Quello che è accaduto a Raffaele accade ogni giorno a migliaia di lavoratori che per vivere sono costretti a diventare soci di cooperative che di sociale hanno solo il nome. Si tratta di un sistema criminale usato ormai da tutti, enti privati e pubblici, che usufruiscono di una manodopera soggetta ai peggiori ricatti e ai peggio soprusi. Chi, come Raffaele, cerca di opporsi allo sfruttamento viene perseguitato sino al licenziamento. Come Adl Usb ci siamo attivati per impugnare il licenziamento e difendere i suoi diritti in qualsiasi sede legale. Così faremo con tutti i lavoratori, soci e non. Le ingiustizie sono ingiustizie per tutti”.

Svendita demaniale

Pare di essere davanti ad una di quelle lotterie parrocchiali per raccogliere soldi per le missioni, dove la gente acquista il biglietto perché non può dir di no e poi scarta il “pacco”, appunto, sperando di cavarsela col minor danno possibile. Lo hanno chiamato “federalismo demaniale” ma col federalismo vero, quello che si conquista disperdendo il potere, non è neppure imparentato. Sotto sotto il concetto che sta alla base dell’operazione è sempre lo stesso: vendere (se non addirittura svendere) il patrimonio pubblico per far cassa sonante. Un concetto tutto capitalista, o anche marxista se preferite, secondo il quale lo Stato è padre e padrone di tutto quello che si trova dentro i suoi santi confini e ne dispone secondo criteri che alla fin fine son solo economici. Siamo distanti anni luce dall’idea di un governo non padrone ma gestore del suo patrimonio artistico e ambientale, che esercita il suo mandato attraverso le autonomie locali e la partecipazione dal basso dei cittadini, secondo criteri non basati sul profitto ma sulla salvaguardia e valorizzazione. Oggi domina il mercato. Tutto si vende e tutto si compra: acqua, aria, lavoro, montagne e castelli. E lo chiamano “federalismo”. Ai Comuni altro non rimane da fare se non scartare i “pacchi” e sperare per il meglio. Dentro c’è un po’ di tutto. Per rimanere in laguna, troviamo: casse di colmata che hanno bisogno di vagonate di soldi di manutenzione, ma anche lo splendido ex monastero di Santa Croce alle Zattere e altre aree di gran pregio come l’Arsenale. A Venezia spetta la classica parte del leone: su 364 milioni di euro di beni demaniali stimati trasferibili a tutta la Provincia, al capoluogo lagunare ne spettano circa 160. Ma non pensate che sia un regalo! Il denominatore comune di tutti questi trasferimenti è uno solo: costi, costi e ancora costi. L’assessore al patrimonio di Venezia, Bruno Filippini, ha già messo le mani avanti: “Il Comune non ha soldi per acquistare e mettere in funzione tutti questi beni. Saremo costretti a fare una selezione” e sottolinea come il Governo italiano con una mano dia cinque per togliere dieci con l’altra mano. “Questa è l’ultima trovata per scaricare sui Comuni i problemi dello Stato centrale”. E questo sarebbe il federalismo! Ma facciamo attenzione: il decreto Tremonti non obbliga i Comuni a farsi carico dei beni demaniali dismessi. Le amministrazioni sono liberissimi di scartare il “pacco” o lasciarlo sui banchi. Ma che succederà in quest’ultimo caso? Prendiamo l’esempio dell’Arsenale. “L’arzanà de' Viniziani” cantato da Dante, dove bolliva la tenace pece e dove è nato il concetto di fabbrica cinque secoli prima della rivoluzione industriale. Un’area grande pressappoco come un sesto dell’intera Venezia, oggi quasi tutta abbandonata al degrado. L’Arsenale potrebbe rivelarsi uno strumento di enorme efficacia per dare respiro alla Venezia reale, asfissiata dalla mancanza di spazi e pressata dalle alternative in terraferma. Ma il Comune ha le strutture e il denaro per farsene carico? “Il ministro Tremonti è stato chiaro – ha spiegato Filippini - nei prossimi due anni i trasferimenti ai Comuni saranno decurtati di quattro miliardi di euro. Il che significa che non avremo i soldi neppure per fare la metà dei restauri che servirebbero”. Che ne sarà allora dell’antico Arsenale dove gli artigiani della Serenissima varavano cocche e galee? Anche in questo caso il decreto è chiaro. Quello che non comprano i Comuni sarà battuto all’asta ai privati. Eccolo qua il futuro di questo bene pubblico: un enorme, lussuoso albergo con un outlet di gran marca. Proprio quello che ci mancava.

Duro mestiere il pendolare

Siete pendolari? Se la risposta è sì, fareste bene a cominciare a pensare sin da subito ad un mezzo alternativo per andare a lavorare. Se fosse un condannato a morte, il trasporto pubblico su rotaia, avrebbe già la testa sul ceppo e la domanda di grazia respinta dal re. Nessuna speranza in vista. Nessun salvataggio miracoloso all’ultimo istante. E i boia che si apprestano ad infierire sul condannato sono addirittura due: Stato e Regione.
Due i boia e due le mannaie che si apprestano a tagliare i finanziamenti necessari al funzionamento delle nostre ferrovie. E parliamo delle ferrovie utili, quelle che ogni giorno trasportano migliaia di pendolari sul tragitto casa – lavoro. L’alta velocità e le altre grandi opere non perderanno un euro. Anzi. E tra le regioni italiane sarà soprattutto il Veneto, che è la sesta regione italiana per numero di viaggiatori al giorno (135 mila in media di cui oltre 50 mila abbonati) con ad essere maggiormente penalizzato. Ai tagli già annunciati in finanziaria dai ministri Tremonti e Matteoli, sotto la voce “Servizi ferroviari di interesse regionale e locale in concessione”, pari a 1.223 milioni di euro per l’anno 2011, si aggiunge la scarsa volontà della Regione ad investire in quello che oramai viene considerato il “sistema di trasporto dei poveri”: il treno locale. Consideriamo soltanto che la percentuale per il servizio pendolare ferroviario stanziata dalla Regione Veneto nel 2009 è appena lo 0,04 per cento del bilancio totale di spesa. Una autentica miseria che ci porta in fondo alle classifiche delle regioni virtuose italiane. E meglio non fare paragoni con altri Paesi d’Europa come la Francia o la Germania. Ma per restare in Italia, anche il Molise spende più di noi. Il Lazio investe lo 0,13% del bilancio, La Campania l’1,52 %, la Lombardia lo 0,54%. Se rapportiamo l’irrisoria percentuale investita dalla nostra Regione a quella dei suoi pendolari, si capisce come mai nel Veneto assistiamo ad un fiorire di comitati di utenti ferroviari che puntualmente manifestano davanti a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale, per chiedere garanzie e tavoli di concertazione che, ancor più puntualmente, vengono disattesi perché, spiega l’assessore di turno, “non ci sono soldi”. Appunto.
La punto fondamentale è che per la Giunta, e questo vale tanto per l’ex presidente Galan quanto per l’attuale Zaia, la ferrovia continua ad essere la cenerentola delle infrastrutture in un campo in cui domina incontrastato l’asfalto. Conti alla mano, dal 2003 al 2009, il vento ha investito il 93,9 % della spesa infrastrutture per le strade e il rimanente 6,1% per la rotaia. Nello stesso periodo, tanto per fare un paragone, la Puglia ha investito il 40,5 per l’asfalto e il 59,5 % per le ferrovie.
Che accadrà quando a questo panorama già desolante il Governo aggiungerà l’ennesimo giro di vite? Secondo i dati diffusi da Legambiente che ha fatto le pulci alla manovra Tremonti sul capitolo del trasporto pubblico, i trasferimenti per i contratti di servizio nel Veneto per il 2011 saranno mutilati dagli attuali 43,2 milioni di euro a solo 14 milioni. E, come ha spiegato lo stesso ministro Tremonti, tutto lascia supporre che questi tagli, già definiti con chiarezza per le singole voci per il 2011, saranno incrementati nel 2012 e nel 2013. “Ma il ministro e il Governo hanno idea dell’effetto che la manovra provocherà a partire dal prossimo anno nelle città italiane? – si chiede Michele Bertucco, presidente di Legambiente Veneto -. Dovranno spiegare ai due milioni e 700mila italiani che ogni giorno prendono i treni per motivi di lavoro o di studio, quali soluzioni alternative hanno in mente per loro. Con meno di metà delle risorse rispetto a quest’anno, come si può pensare di far funzionare il servizio? Quella che abbiamo davanti è una vera e propria ecatombe del servizio ferroviario pendolare”.

Tentazioni nucleari

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Trenta miliardi di motivi per dire di sì al nucleare. Intendiamo motivi particolarmente… tangibili. A trenta miliardi di euro infatti, ammonta la torta nucleare che il Governo intende assegnare alle imprese che concorreranno a realizzare il reattore veneto. Lo stupefacente della vicenda è che nessuno si è ancora espresso su dove, come e quando dovrebbe venir realizzato l’impianto ma già tutti sanno quanto verrà speso e già le aziende cominciano a sgomitarsi per mettere le mani sulla marmellata. Sentite come gongola il presidente degli industriali di Venezia, Luigi Brugnaro, in una intervista rilasciata in occasione dell’ultimo convegno pro nucleare di Confindustria, il 18 maggio a Marghera: “Le nostre imprese sono tra le più competitive in tutto il Paese e certamente sapranno conquistarsi almeno il 40 per cento del business". Brugnaro è fondatore e padrone di Umana, la prima azienda italiana di collocamento di personale, ed è innegabilmente uno che sa fiutare in anticipo l’aria che tira.

Il convegno di Marghera non aveva nessuna pretesa scientifica. Nessun tecnico o scienziato figurava nella lista degli invitati. Nessuna pretesa di dialogo e di riflessione. Nessuno tra i relatori ha ricordato che la Spagna di Zapatero ha recentemente investito pressappoco la stessa cifra per le energie rinnovabili seguendo un piano energetico che porterà a soddisfare in minor tempo una percentuale più grande del fabbisogno del Paese iberico rispetto al nucleare italiano. Il convegno aveva soltanto lo scopo molto… tangibile, appunto, di convincere il neo governatore Luca Zaia a non opporsi alla costruzione di una centrale in Veneto. Impresa da poco. I “nyet” che Zaia lanciava in campagna elettorale han fatto presto ad ammorbidirsi e già il governatore è passato da un “Non ne vedo la necessità. Il nostro fabbisogno energetico è già soddisfatto” a un “Non sono contrario per principio. Vedremo quali saranno le proposte del Governo e cosa faranno per convincerci”. Insomma, sul fronte regionale c’è da attendersi ben poca resistenza, a meno che il reattore non lo vogliano costruire sopra i campi di radicchio del trevisano. Ma Chioggia, propaggine meridionale di una laguna che anche nelle ultime elezioni ha voltato per il centrosinistra, non ci metterà molto a salire sull’altare della vittima sacrificale. A dir di no, ancora una volta tocca ai movimenti. Verdi, sinistra, grillini e comitati cittadini venuti apposta da Chioggia per ricordare che l’economia della cittadina si fonda su due settori come pesca e turismo che sono incompatibili con i reattori nucleari, hanno dato vita ad un affollato sit in di protesta davanti alla sede del convegno. Un primo passo della resistenza è stata l’organizzazione di una rete contro il nucleare. “L'ipotesi di Chioggia o del Polesine come sito possibile per la costruzione di una centrale nucleare in Veneto – ha commentato Cacciari, attivista delle rete - ci ha messi di fronte ad una responsabilità evidente ed ineludibile.  In quanto persone che amano il proprio territorio non possiamo rimanere indifferenti di fronte allo scempio che una tale scelta comporterebbe. I rischi per la salute, la possibile contaminazione della terra e dei fiumi con conseguenze disastrose per l'agricoltura e la pesca, l'impatto negativo sul turismo, disegnano un panorama possibile che non vogliamo per noi e non vorremmo per nessuno.
E proprio perchè non lo vorremmo per nessuno siamo consapevoli che la scelta del ritorno al nucleare in Italia non è solamente un problema dei territori che ospiteranno le centrali, ma un problema di tutti. Il governo Berlusconi ha indicato nel 2013 l’inizio dei lavori per la costruzione della prima centrale e ha contemporaneamente annunciato un'opera di convincimento dell'opinione pubblica sulle meraviglie del nucleare. E questo prima ancora di rendere note le aree scelte per ospitare i reattori. E’ importante contrastare pubblicamente ed in ogni occasione sia la propaganda governativa, sia il tentativo di chi tenta di trarre profitto a scapito dell'ambiente e della nostra salute. Una battaglia da portare avanti in comune, indipendentemente dai partiti e da qualsiasi logica di appartenenza”.

Neanche il Cnr crede al Mose

Ricordare, a disastro avvenuto, che “noi l’avevamo sempre detto”, è una soddisfazione ben misera. Eppure, tante, troppe volte, altro non rimane agli ambientalisti, che debbono assistere al verificarsi delle loro fosche previsioni per dimostrare che avevano ragione. Lo stesso destino della Cassandra omerica, condannata ad urlare una verità talmente scomoda che nessuno vuole ascoltare sino a quando non è troppo tardi. Non stupisce quindi, l’amara ironia con la quale il consigliere comunale Beppe Caccia ha commentato i risultati dello studio del Cnr Ismar sul sistema di paratie mobili Mose.
“Ci fa piacere che ora sia il Cnr a confermare le perplessità che noi abbiamo avanzato da anni. E cioè che il Mose non servirà a difendere Venezia dall’acqua alta”. A riaccendere la polemica sull’ecomostro lagunare stavolta, non sono stati i “soliti” ambientalisti del No Mose, ma gli scienziati del Cnr Ismar – l’istituto di scienze marine del consiglio nazionale della ricerca – che la scorsa settimana ha partecipato ad un convegno al Lido di Venezia, organizzato dal Ciesm, la commissione scientifica per il Mediterraneo presieduta dal principe Alberto di Monaco di cui fanno parte una ventina di Paesi. Lo stesso direttore dell’Ismar, Fabio Trincardi, ha messo in dubbio l’utilità del Mose in previsione dell'innalzamento dei livelli dei mari del livello del mare conseguente ai cambiamenti climatici. "Sappiamo che il Mose è funzionale all'interno di un determinato scenario di innalzamento del livello dell‘Adriatico. Oltre una certa misura la protezione fornita dal sistema di paratoie mobili potrebbe essere totalmente inadeguata se non od addirittura nociva". Parole pesanti per i tecnici del Consorzio Venezia Nuova che di fronte ai dati forniti dall’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, hanno sempre preferito fare orecchie da mercante, scegliendo sempre gli scenari meno impattanti e più favorevoli alle previsioni già confezionate per il funzionamento delle dighe mobili o addirittura sposando le tesi dei negazionisti. Negli ultimi tempi, man mano che la comunità scientifica si spostava su previsioni non più compatibili con il sistema Mose, il Consorzio se ne è uscito addirittura con una trovata spettacolare: “Se davvero il mare si innalzerà. Venezia sarà l’unica città costiera che sopravviverà grazie alle paratoie del Mose”. Ma stavolta sono stati gli stessi scienziati del Cnr ha smentire il Consorzio. Il sistema, hanno ribadito, è stato pensato senza tener conto dei climate change. Che funzioni o no, con livelli di marea superiori a quelli previsti è, quantomeno, tutto da dimostrare. Così, come è tutto da dimostrare, il vero impatto che l’ecomostro avrà sulla laguna di Venezia. Per il direttore del Corila, Pierpaolo Campostrini, la costola per le ricerche il laguna del Consorzio, l’ecomostro “non ha avuto sino ad ora nessun impatto ambientale”. Campostrini dimentica che il Mose è un’opera irreversibile. E un’opera irreversibile, per sua natura, ha un inevitabile impatto ambientale. D’altra parte, basta fare un giro in barca per le bocche di porto per farsi una idea dell’impatto che l’ecomostro ha avuto sulla laguna. Basta anche navigare a vela o a remi per sentire come sono cambiate quelle correnti che un tempo facevano respirare la laguna secondo ritmi millenari. Quella laguna che ora è stata trasformata in un braccio di mare aperto separato dalla terra da colate di cemento.

E' nata l'associazione In Comune

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La lista In Comune con Bettin è diventata una associazione. “Un passaggio indispensabile – ha commentato l’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin – per trasformare una esperienza nata per appoggiare la mia candidatura al Comune di Venezia in una struttura capace di proseguire e sviluppare un percorso condiviso, accompagnare il lavoro istituzionale e politico degli eletti e capace di muoversi a 360 gradi nella città attorno alle tematiche che abbiamo individuato prima come lista e ora come associazione”. L’associazione che si chiamerà semplicemente “In Comune”, è stata tenuta a battesimo da 44 soci fondatori mercoledì 19 maggio, al Laurentianum di Mestre. Federica di Piazza e Franco Vianello Moro sono stati eletti presidenti dall’assemblea. La nuova associazione si propone nel panorama politico e culturale della città lagunare come un punto di riferimento per quanti vogliono contribuire, per dirla con le parole di Bettin, “a colmare quel deficit di partecipazione che ora innegabilmente rallenta l'attuale macchina comunale”.


“La lista e ora l’associazione In Comune – prosegue l’ambientalista – ha avuto il merito di forzare la politica cittadina ricavando nuovi spazi in un panorama desolante come quello della sinistra italiana e veneziana, incapace di rinnovarsi al di là della stratificazione delle sigle. In Comune ha fornito le parole per dire qualcosa di nuovo ad una politica cittadina che balbettava parole vecchie, maturando le capacità per condizionare e addirittura egemonizzare il dibattito politico e culturale. Un problema come la tutela dell'ambiente, oggi non è solo una denuncia ma una linea guida del governo della città”. Una esperienza che a Venezia, al contrario di quanto accaduto in altre città italiane, ha avuto esito positivo.
La nascita dell’associazione In Comune, non significa comunque lo scioglimento dei verdi di Venezia. Casomai un punto di ripartenza per l’avvio di quella costituente ecologista lanciata dall’ultimo congresso di Fiuggi. “In Comune non è il nostro nuovo partito – ha scritto Bettin in una lettera inviata agli iscritti verdi -, ma un luogo prezioso di cooperazione tra persone diverse, e tra gruppi o anche parti di forze politiche, che hanno avuto lo scopo, raggiunto, di aprire una via al rinnovo dell’amministrazione comunale alternativa a quelle che si configuravano nello scorso autunno. I verdi veneziani sono pienamente dentro la ricerca di una nuova dimensione per l’ecologia politica, in linea con le più avanzate ricerche europee, specie quelle tedesche e francesi e ora anche britanniche, in rapporti ben avviati con la Fondazione culturale dei Verdi europei”. La lettera si conclude con l’invito ad “assumere consapevolmente e chiaramente questa collocazione, questo profilo di forza in metamorfosi, difficile ma creativa”.
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