In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Le ragioni dell'aragosta

Dice di no, Sabina, ma il suo è un film nostalgico. Tutto giocato sul “come eravamo” e sui “tempi belli di quando ancora avevamo qualcosa per cui lottare”. Anche il lieto fine – che giunge a sorpresa e che lo spettatore certo non si aspetta – non fa altro che rilevare questa malinconia di fondo: un “happy end” cinematografico che serve solo a rimarcare la differenza tra i mondi di celluloide e la cinica realtà delle cose.
Il cast de “Le ragioni dell’aragosta” pare una rimpatriata di vecchi amici che non si vedevano dai tempi del liceo. A fianco della Guzzanti troviamo Pierfrancesco Loche, Francesca Reggiani, Cinzia leone, Antonello Fassari e Stafano Masciarelli. Tutti i protagonisti di Avanzi. “Malinconia? Non direi –ha spiegato Sabina-. Però di sicuro quella di Avanzi è stata una grande stagione di televisione che non si ripeterà. E una ragione c’è. Allora la classe politica era così indaffarata ad evitare la galera che non si sognava di contrastare chi voleva fare satira in televisione. Oggi un programma come Avanzi non ce lo lascerebbero più fare. Ed infatti non si fa. Ma non c’è nostalgia nel mio film. Piuttosto parlerei di rimpianto per tutto quello di utile ed importante che potremmo fare e che non possiamo fare. Noi di Avanzi rappresentiamo l’altra faccia dell’Italia: quella sprecata”.
A voler citare il poeta Andrea Zanzotto, “Le ragioni dell’aragosta” è pervaso da un profondo senso di ‘spaesamento’ – d’ambiente ma anche etico - radicato in tutti i protagonisti, ex esponenti della sinistra degli anni ’80 ritiratisi in uno sperduto paesino della costa sarda. Come l’ex sindacalista della Fiat riconvertitosi alla pesca dopo la traumatica fine delle lotte operaie nell’azienda torinese. Sullo sfondo, una Sardegna che non è quella della ville e degli yacht, ma che certo è una terra ben diversa dal “continente” in cui questo piccolo circo di amici ritrovati ha maturato la sua esperienza politica. Diversa nei costumi ma uguale nella globalizzazione. Il Bush di turno che affama i pescatori di Su Pallosu impoverendo il mare da cui traevano le aragoste è una sorta di Capitan Findus, una multinazionale delle pesca che saccheggia il mare a bordo di sofisticati pescherecci ultra tecnologici. Spinti da una mai sopita generosità politica, ma anche per ridare un senso alla propria esistenza, la banda di amici si mette al servizio della cooperativa di pescatori sardi e prova ad allestire uno spettacolo per aggirare il vuoto mediatico (vi ricorda qualcosa?) che la multinazionale ha costruito ad arte per zittire le proteste della gente di Su Pallosu. L’entusiasmo iniziale si scontrerà ben presto con una dura realtà fatta di impotenza, muri di gomma e frustrazioni sino a porre in dubbio le stesse motivazioni che inizialmente avevano animato la battaglia “D’ora in poi lavorerò soltanto per soldi” dirà ad un certo punto Sabina. Ogni riferimento all’attuale situazione politica è ovviamente tutt’altro che casuale. “Non saprei dire se viviamo in un regime massone, fascista, sovietico, berlusconiano o che altro. Ma so che siamo ben distanti dalle democrazie che si incontrano viaggiando. In questo Paese, se qualcuno ha qualcosa da dire fuori dal coro, viene sempre stroncato e messo da parte senza pietà. Non mi illudevo che con Prodi le cose sarebbero cambiate. In Italia è ancora tutto come prima e il potere continua ad essere gestito da gente che non ha nulla da dire”.
“Le ragioni dell’aragosta” è un finto reality. Ogni personaggio interpreta se stesso e mette in scena la propria crisi, tra impotenza e paure. Loche e la Reggiani sono addirittura in scena col loro stesso nome. Cinzia Leone, in un sottile gioco tra vero e falso, racconta la sua malattia. “Fondamentalmente, questo è un film che parla delle nostre fragilità” ha commentato Cinzia leone.
Una fragilità che è anche quella di tutta la sinistra. “Cosa possiamo fare? – si chiede Sabina – L’unica risposta che posso dare è quella di affrontare le realtà e prendersi le proprie responsabilità. Lavorare, riprendere i contatti e non perdere mai la fiducia”. Oramai lo abbiamo imparato a nostre spese. Gli dei se ne vanno, ma gli arrabbiati restano sempre.

Sabri non ha speranze

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Sabri è steso in un letto dell’ospedale di Gorizia. Dalla sua finestra si vede la frontiera slovena. Parla a fatica, Sabri. Otto giorni di sciopero della fame e della sete lo hanno quasi ammazzato. Lo assistono i ragazzi di Razzismo Stop. Ma anche gli infermieri non lo perdono d’occhio un momento, considerato che Sabri ha cercato di scappare due volte in tre giorni. Si è fatto riprendere quasi subito, svenuto per terra nella strada che va dall’ospedale alla stazione dei treni. Cercava di tornane a casa, a Padova, dalla sua compagna che aspetta un bambino. Faceva il muratore a Trento. Pagato in nero, 30 euro al giorno, senza ferie o riposo settimanale perché è tunisino e clandestino. Lo hanno preso alla stazione di Padova una mattina come le altre che andava a lavorare. Un normale controllo di documenti della polizia ferroviaria. E lui poi, ci ha una faccia da immigrato che basta e avanza.


Lo hanno tenuto due giorni in questura per accertamenti e poi ingabbiato nel cpt di Gradisca. Neanche un avvocato ha visto. In gabbia ha cercato di parlare con qualcuno. Magari voleva spiegargli che non era una bestia. Ma al cpt ci va solo uno psicologo una volta alla settimana. E gli “ospiti” sono tanti. Così Sabri ha fatto lo sciopero della fame e della sete. Gliene fosse fregato qualcosa a qualcuno. Otto giorni dopo è cascato per terra nel cortile delle sbarre. Uno degli “ospiti” allora ha telefonato all’ambulanza. “La prossima volta – gli hanno spiegato gli operatori umanitari che gestiscono il cpt – ti denunciamo per procurato allarme e sono cazzi per te”. Non è arrivata l’ambulanza ma la questura. “Mi hanno portato su uno di quegli angoli dove non ci sono le telecamere –racconta Sabri – e sbattuto con la testa sul muro. Poi sono svenuto e mi sono ritrovato in questo letto d’ospedale con la flebo”. I ragazzi di Razzismo Stop mi hanno spiegato che Sabri ha tutte le carte in regola per chiedere un permesso di soggiorno per protezione umanitaria. La sua compagna tra l’altro è italiana, e un avvocato dell’associazione ha segue la domanda al Cir. Le speranza però sono praticamente zero. La pratica d’espulsione, per chi finisce in un cpt, corre sempre più veloce.

Nient'altro che prigioni

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Nel cpt di Gradisca d’Isonzo, Giorizia, sono imprigionati - ingabbiati come animali e con meno diritti civili di un comune carcerato - 52 migranti che non hanno mai rapinato una banca, sequestrato un imprenditore, falsato un bilancio d’amministrazione o evaso le tasse. L’unica colpa che hanno commesso è un reato amministrativo: quello di essere irregolari. Questa è l’unica cosa vera nella “visita guidata per giornalisti” che la Prefettura di Gorizia, e solo grazie alle pressanti richieste di Melting Pot, ha organizzato lunedì scorso, 11 giugno. Tutto il resto era falso. Falsi i muri colorati di fresco con gli arcobaleni della pace e disegni che neanche all’asilo infantile tra Sirenette Disney e pagliacci col naso rosso. Falso il cancello che si apriva su un campetto di calcio con le reti delle porte appena tirare fuori dal nylon. “Mai visto aperto prima” mi ha detto un migrante.


Falsa l’elegante cartellette stampa che le hostess della Minerva, la cooperativa che gestisce il centro [75 euro e 12 centesimo a migrante di contributo], mettevano nelle mani dei giornalisti con pagine in patinata che vantavano i “servizi offerti ai clienti” tra tornei di volley (non ho visto un pallone), calcetto (questo sì. Scassato ma c’era), biblioteche (non ho visto un libro), giornali (“Ne arrivano solo alcuni e saltuariamente –mi hanno spiegato i migranti-. Mai quelli che parlano dei cpt. Fuori, la gente sa come viviamo?”) E quello che non era falso era ipocrita. Il prefetto di Gorizia, Robeto De Lorenzo, il direttore del centro, Paolo Zotti, il presidente della Minerva, Adriano Ruchini, non parlano mai di detenuti o di gabbie. Scelgono eleganti perifrasi come “ospiti” o “contenitori per persone”. Il prefetto addirittura si scusa se i giornalisti troveranno “qualche cicca per terra o le carte delle merendine sui tavoli della refezione”. Per una questione di trasparenza, spiega, “abbiamo preferito farvi vedere il centro così come è tutti i giorni alle 11 di mattina”. Lo dice davanti ad un muro pitturato di fresco con il disegno di Topolino e Minni che si mandano bacini. Dietro il muro, in un angolo nascosto del corridoio, trovo l’unica scritta che gli “ospiti” sono riusciti a fare nella mattinata, dopo la ridipintura: “Siamo detenuti in carcere”. I prefetto intanto si lamenta con i giornalisti delle “basse insinuazioni” di quanti hanno ipotizzato che per far entrare i giornalisti, si attendesse prima un’operazione di restilyng. De Lorenzo si riferisce, senza nominarle, alle interrogazioni dei deputati Luana Zanella, Verdi, e Paolo Cacciari, Rifondazione, depositate dopo che la prima richiesta di ispezione avanzata dai ragazzi di Melting Pot era stata respinta. E altro che restyling! Nel cortile interno le sbarre da zoo che addirittura ingabbiavano le passeggiate, sono state tolte tre, dico tre, giorni fa. Ma questo non è restyling, spiega il prefetto, ma “un’opera di alleggerimento volta dal nuovo Governo delle cui volontà io sono solo un esecutore”.
Quello che non sono riusciti ad “alleggerire” sono i vetri antisfondamento, le sbarre che circondano tutto quel che c’è da circondare e su qualche punto nascondono anche il cielo. I gabinetti senza porte, i rasoi a lametta sostituiti da un rasoio elettrico buono per tutti per evitare i frequenti atti di autolesionismo degli “ospiti” [ospedale vuol dire uscire dal cpt], i portoni con scritto “uscita di sicurezza” senza maniglie.
Non sono riusciti soprattutto a nascondere la gente che ci tengono rinchiusa dentro. Ci hanno provato, però. Ogni giornalista era marcato a uomo da un agente in borghese della Digos e da un operatore della Minerva. Se una collega chiedeva dove era il bagno, tutti pronti: “La facciamo accompagnare”. E poi c’erano stati gli avvertimenti. Tarik, un migrante che la scorsa settimana aveva raccontato la sua storia ad un giornale locale, grazie ad una ricarica telefonica fattagli da Razzismo Stop, era stato espulso due giorni fa. Si capisce che gli “ospiti” avevano poca voglia di parlare e di farsi fotografare. Ma qua e là, a bassa voce, qualche storia emerge. Storie di gente che era venuta in Italia per sopravvivere e che l’Italia ha privato di quel che gli rimaneva. Diritti, affetti ed aspettative di vita. Storie di clandestini.

Città in svendita

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Parola di generale. «L’incontro del presidente Bush con Prodi, il 9 giugno, sarà l’occasione per sbloccare finalmente i lavori di costruzione della nuova base al Dal Molin». Sabato a Roma, saranno in tanti a scendere per le strade per spiegare a Frank Hellmick, il comandante della base Usa di Vicenza, che si sbaglia. Che un incontro tra due presidenti non può bastare a decidere il destino di una città patrimonio dell’Unesco. Una città che non la guerra globale non vuole avere niente a che fare e che rivendica l’elementare diritto di decidere del suo futuro.
Per accogliere il presidentissimo Usa come si merita, il Presidio permanente, i comitati autogestiti, le associazioni, i partiti della sinistra pacifista della città berica, hanno rimesso in moto il meccanismo partecipativo già rodato nella grande manifestazione di febbraio, preparandosi ad invadere pacificamente una Roma dove, ha assicurato la questura, non saranno predisposte Zone Rosse, ma solo cordoni di sicurezze, pur imponenti, attorno ai luoghi in cui transiterà il presidente Usa. Vedremo se è vero.



La sinistra pacifista torna quindi in piazza per ribadire il suo deciso «no» ad una politica di guerra permanente. E lo fa come è tradizione della sinistra: divisa. L’appello lanciato dalla senatrice di Rifondazione Lidia Menapace, e sottoscritto da altre personalità come Heidi Giuliani, Fosco Giannini e altri, per una «manifestazione unitaria contro la nefasta politica di guerra del governo Usa» non ha convinto quanti hanno sottolineato che questa «nefasta politica» è esattamente la politica estera del nostro Governo, pur eletto anche con i voti dei pacifisti. «Ci sembra ipocrita aderire ad un appello che pretende di scaricare tutte le colpe su Bush – ha commentato Cinzia Bottene, una delle voci più autorevoli del Presidio permanente – come se il nostro Governo non avesse approvato il rifinanziamento della missione in Afghanistan, non avesse aumentato le spese militari, non partecipasse programmi come lo scudo stellare. O non concedesse, come a Vicenza ma non solo, spazi agli Usa per farne basi militari, in barba alla volontà della cittadinanza».
Gli aderenti all’appello della Menapace [Rifondazione, Comunisti italiani, Fiom, movimenti vicentini vicini al Comitato più diritti e democrazia …] si ritroveranno alle ore 15 in piazza del Popolo. Per gli altri [disobbedienti, verdi –perlomeno quelli in partenza da Vicenza e dal Veneto -, vicentini vicini al Presidio Permanente …] l’appuntamento è alla stessa ora ma a piazza della Repubblica per sfilare in corteo sino a piazza Navona. A coloro che sognano una sinistra unita, non resta che augurarsi che sabato a Roma scenda tanta di quella gente per le strade da riempire tutti gli spazi tra il corteo e il sit in. «Sarebbe bello. E sarebbe bello anche che Prodi si mostrasse disponibile a fare quanto era stato promesso nel programma dell’Unione e ad ascoltare i cittadini prima di varare opere come il Mose a Venezia o la nuova base a Vicenza – commenta Olol Jackson, altra voce del presidio -. Nell’attesa, è bene ricordare che, per fortuna e a differenza dei partiti, i movimenti non soffrono la sindrome del Governo Amico».
Sindrome da cui i vicentini sono improvvisamente guariti lunedì 28 maggio, stando perlomeno ai risultati usciti dalle urne delle amministrative provinciali. Più precisamente, ai risultati «non» usciti dalle urne. Il 41,6 degli elettori se ne è rimasto a casa. Percentuale che sale quasi al 50% se si considera la sola Vicenza. Non male per una città che non faceva mancare il suo quorum neanche ai referendum dei radicali. A perdere sono stati soprattutto i partiti di governo. Il democratici praticamente sono nati già morti [-17%]. Hanno tenuto – non come numero di voti ma in percentuale - Lega e Forza Italia. Benino anche i partiti rossi e verdi [un 5% in più complessivamente], pur se l’impressione è che anche qua si sia fatta sentire la sfiducia degli astensionisti. Ma se consideriamo un significativo 5,6% di schede bianche o annullate, si può calcolare che il nuovo presidente della provincia berica, il leghista Attilio Shneck, è stato eletto con meno di un quarto del consenso degli aventi diritto. Una volta c’erano le percentuali bulgare. Questa è una percentuale di votanti da Stati Uniti. «I vicentini hanno capito che la politica non si fa più solo col voto perché solo votando non si riesce a far cambiare politica a chi comanda» taglia corto Cinzia Bottone. E lo hanno dimostrato quei trecento vicentini che domenica sono andati a contestare Prodi al festival dell’economia di Trento. Il premier è rimasto impietrito quando, appena preso la parola, ha visto gli striscioni No Dal Molin alzarsi anche tra il pubblico presente nell’elegante sala congressi di Santa Chiara. Tra cori, fischi e l’oramai classica «spignattata», gli organizzatori sono stati costretti a chiamare la battagliera Cinzia Bottone sul palco per un intervento. Un paio di minuti per ribadire duramente al presidente del consiglio che Vicenza ha scelto un futuro senza basi. Un paio di minuti che Prodi ha trascorso senza muovere un muscolo, per riprendere poi il suo discorso esattamente da dove era stato interrotto. Neanche la soddisfazione di un rimbrotto. «Non mi aspettavo una risposta –ha commentato Cinzia -. Se avesse voluto ascoltarci lo avrebbe fatto prima. Ma non cambia niente per noi. Prima o poi gli faremo intendere i nostri diritti. Domenica gli abbiamo rovinato la festa dell’economia. Sabato andiamo a rovinargli l’incontro con Bush e a ricordare a tutti che la nostra città non è in svendita».
La Vicenza pacifista ha preparato la vacanza romana con un importante convegno, giovedì sera al teatro Astra, che ha messo in chiaro come cambierà la città nel caso fosse realizzato l’aeroporto militare. Per la prima volta infatti, una commissione tecnica ha potuto esaminare il progetto esecutivo della nuova caserma e il rapporto della riunione tra le municipalizzate vicentine, la Setaf [Southern European Task Force] e la Nesco [lo studio di architettura con sede a Roma che disegna tutte le basi Usa europee. In altre parole, una «longa manus» del Pentagono, considerato che non ci crede nessuno che gli statunitensi si facciano progettare le basi da un qualunque gruppo di architetti].
«Innanzitutto va sottolineato che avere questi documentazione non è stato affatto facile – ci racconta l’ingegnere Guglielmo Verneau, uno dei coordinatori dell’equipe tecnica – E questo è contrario a tutte le regole nazionali ed europee sulla trasparenza della cosa pubblica. Un progetto va esaminato prima della sua approvazione da tutte le parti in causa, cittadinanza compresa, e non tenuto nascosto come è stato fatto in questo caso. Credo come cittadini che dovremmo imparare ad usare di più l’arma della denuncia e non solo quella dell’esposto, per farci consegnare dalle amministrazione le informazioni cui abbiamo diritto. In secondo luogo, la cosa che appare più evidente è che… ci hanno raccontato un sacco di balle!» L’aeroporto civile, intanto. Il sindaco Enrico Hullweck ha ribadito in più occasioni che la base Usa non avrebbe pregiudicato la funzionalità dell’aereoporto civile. «Ed invece se si fa la base - continua Verneau – possiamo metterci una bella croce sopra all’aeroporto civile. Il decreto legge sulla sicurezza aerea è chiarissimo, e così anche quello che determina i limiti di edificabilità attorno alle piste militari. E d’altra parte, era credibile che la più grande base aerea Usa del Mediterraneo sorgesse a soli 135 metri da una pista civile?» La seconda balla è quella dell’allargamento della Ederle per fare «solo un dormitorio in più». «Altro che allargamento. Stiamo parlando di un’area di 440 mila metri quadri a dieci chilometri dalla Ederle. Questa è una seconda base con 80 mila metri quadri coperti. E di tutto ciò le camerate dormitorio sono solo l’8%. Nessuno può sapere cosa conterrà il resto dell’edificato. Ma certo non brande». Terza balla. E bella grossa anche questa. La base Usa ai vicentini non costa niente. «Qui ci è bastato leggere la relazione presentata alle municipalizzate. Altro documento a parole pubblico e nei fatti tenuto nascosto con tutti i sistemi più o meno leciti. Soltanto tra acqua, fognatura ed energia elettrica, la nuova base consumerà l’equivalente di 30 mila abitanti –conclude l’ingegner Verneau-. Che vi devo dire? Son spreconi i militari. Tanto è tutta roba nostra che loro pagano a meno di metà prezzo, con esenzione di imposta e tariffe agevolate».

Di ritorno dagli Usa. Intervista con Cinzia Bottene

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"E’ stato un viaggio intenso, siamo soddisfatte”. “Intenso” è l’aggettivo con cui Cinzia Bottene, del Presidio No Dal Molin, inizia il racconto del loro viaggio a Washington. Dal primo all’otto maggio, le rappresentanti del movimento No Dal Molin, Cinzia Bottene e Thea Gardellin, accompagnate da Stefanie Westbrook, dell’associazione Peace&Justice, si sono recate a Washington per portare la loro testimonianza al Congresso americano.

Come è nata l’idea del viaggio?
Dall’autunno siamo in contatto con tre associazioni pacifiste americane contrarie al progetto della nuova base a Vicenza, Peace&Justice, After Downing Street e Code Pink. Dopo il viaggio negli Stati Uniti delle parlamentari venete, le rappresentanti di Code Pink avevano avuto l’impressione che l’opinione pubblica fosse stata poco coinvolta e ci hanno proposto di andare a Washington per renderla partecipe in modo più significativo.



Dove avete alloggiato durante la vostra permanenza a Washington?
Nella sede dell’associazione Code Pink, una palazzina vicina alla sede del Congresso, in una posizione strategica per le quotidiane azioni di protesta dell’organizzazione. Code Pink è un’associazione pacifista di sole donne il cui nome è significativo: il “codice rosa” richiama i codici d’allarme usati dall’esercito americano.
Come erano organizzate le vostre giornate?
Le rappresentanti di Code Pink avevano già contattato tutte le persone che avremmo dovuto incontrare e fissato gli appuntamenti. Grazie ai loro contatti, abbiamo potuto fare degli incontri mirati, con le persone più interessate e sensibili al problema. Ogni giorno avevamo in programma diversi incontri, con i membri del Congresso, ma anche altre realtà.
Con chi avete potuto parlare al Congresso?
Abbiamo incontrato i membri delle sottocommissioni della Difesa per la costruzione delle basi militari e per il finanziamento, le due direttamente coinvolte nella questione Dal Molin. Abbiamo presieduto ai loro lavori e parlato con i presidenti, cui abbiamo consegnato del materiale sul Presidio Permanente e alcuni libri che illustravano la realtà artistica e culturale della nostra città.
Avete avuto dei contatti con i media locali?
Abbiamo fatto alcuni interventi durante delle trasmissioni radiofoniche e televisive. E’ stato uno dei momenti più importanti del nostro viaggio: l’occasione per confrontarci direttamente con l’opinione pubblica. Il riscontro che abbiamo avuto è stato immediato: abbiamo ricevuto numerose mail di persone che hanno ascoltato i nostri interventi e che ci hanno dato il loro appoggio. Mi ha molto colpita il loro senso di solidarietà, in Italia siamo troppo individualisti. Tra le persone che ho conosciuto c’era sempre un forte spirito di gruppo, che dà ai loro movimenti una potenza straordinaria.
Avete anche partecipato a delle manifestazioni di protesta?
Non abbiamo resistito ad organizzare una “spignattata” anche a Washington! Con le esponenti di Code Pink abbiamo manifestato davanti all’ambasciata italiana. Ma le pignatte non sono l’unica cosa che abbiamo esportato: spesso abbiamo avuto l’occasione di tirare fuori le bandiere No Dal Molin. Le abbiamo innalzate alla Casa Bianca, al Congresso e anche davanti ad un fast food della catena Popeyes, il cui proprietario è Ronald Spogli, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia. Un giorno, nei pressi del Congresso, con le bandiere abbiamo anche salutato il corteo che scortava l’auto del Presidente Bush.
Crede che tutto ciò sia servito?
Sicuramente abbiamo raggiunto due obiettivi: prima di tutto in America abbiamo creato un forte stupore, anche tra i politici. Se delle “cittadine qualunque” decidono di attraversare l’Oceano per protestare contro la costruzione di una nuova base militare americana in Italia, significa che il movimento che le supporta ha raggiunto un’importanza reale.
Inoltre, è stata una grande opportunità per prendere contatti con nuove realtà e consolidare quelli che già avevamo. In molti ci hanno chiesto notizie e documenti; a nostra volta, abbiamo ottenuto informazioni utili ed interessanti.
Si riferisce a qualcosa in particolare?
Abbiamo saputo che il progetto di costruzione della nuova base risale a 7 anni fa e che è stato il Governo italiano a proporre questa possibilità. Il progetto iniziale del Governo americano prevedeva solamente un ampliamento della base Ederle. Ci hanno anche detto che se il Governo italiano volesse retrocedere dalla sua proposta, sarebbero disposti a discutere per trovare un accordo.

Ora che siete tornate, quali sono le prospettive per il movimento No Dal Molin?
I ritmi sono come sempre frenetici, siamo subito tornate al lavoro per coordinare le iniziative dei diversi comitati. In particolare, stiamo pensando a come muoverci per l’arrivo del Presidente Bush a Roma, il 9 giugno: sicuramente saremo presenti. Inoltre, la Carovana della Pace arriverà a Vicenza all’inizio di giugno e anche quello sarà un momento importante per il nostro movimento. Oltre a questo, dobbiamo sempre mettere in conto le emergenze - è di poco fa la notizia dell’attacco della polizia al Presidio di Serre, a Salerno. L’appoggio ai movimenti che come noi e con noi lottano per la gestione dei beni comuni è fondamentale e imprescindibile.

L’unione fa la forza. Almeno su questo, Washington docet.

Morire di Mose e di altre devastazioni

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Un ambiente delicatissimo e prezioso. L’unica laguna al mondo che sia rimasta tale per un millennio: tutte le altre sono diventate paludi e poi campi, oppure bracci di mare. E questo grazie un accorto lavoro di manutenzione quotidiana, che ha accompagnato le forze della natura senza forzarle. In tutti i secoli della Repubblica serenissima le grandi opere (la diversione dei fiumi nella Terraferma, la costruzione delle difese a mare dei lidi) sono state fatte fuori dalla Laguna e per proteggerla. Poi si è cominciato a cambiare.
La morte della Serenissima, la nuova ideologia dell’onnipotenza della tecnica, la costruzione di grandi canali rettilinei e profondi calibrati su scafi sempre più grandi, l’interrimento di ampie porzioni d’acqua salmastra e la chiusura con dighe di terra di altre, l’abbandono della manutenzione continua, l’emungumento delle acque sotterranee per l’alimentazione delle industrie, lo sversamento di acque di rifiuto sempre più velenose: tutto ciò ha pesantemente trasformato la Laguna.


Con la grande acqua alta del 1966 questa si è ribellata. Un ampio dibattito si è aperto. Due tesi si sono subito affrontate. Da una parte, chi proponeva di intervenire con interventi “hard”, con opere ingegneristiche e meccaniche di stampo otto-novecentesco. Dall’altra parte, chi proponeva di considererare la Laguna ciò che è, un ecosistema in equilibrio dinamico, e di intervenire di conseguenza con interventi mirati a ricostituire l’equilibrio perduto e i meccanismi della sua sopravvivenza.
Le leggi speciali per Venezia (1973, 1984) non scelgono nettamente tra l’uno e l’altro indirizzo, ma sono decisamente spostate verso la visione ecosistemica. Prescrivono infatti l’eliminazione del traffico petrolifero (causa principale dell’approfondimento dei canali, e quindi dell’aumento dell’immissione di acque marine in Laguna), l’apertura delle parti di Laguna chiuse all’espansione delle maree, il divieto assoluto dell’interrimento di nuove porzioni del bacino lagunare (mediante l’espansione delle terre ai suoi margini, o la costruzione o l’ampliamento di isole), la regimazione degli affluenti fluviali, il disinquinamento, la chiusura dei pozzi che attingevano alla falda, più una serie di altri interventi accuratamente definiti e indirizzati.
La legge prevedeva anche lo studio di interventi alla “bocche di porto” per la chiusura temporanea in caso di altee maree eccezionali, ma li subordinava ai tre principi che la Serenissima da secoli aveva adottato: tutti gli interventi previsti dovevano essere graduali, sperimentali, reversibili.
Tutto ciò è stato pesantemente contraddetto negli ultimi anni. È iniziata, e sta procedendo a rotta di collo, la distruzione della Laguna di Venezia.
Tutto è cominciato con il MoSE, un progetto illegittimo, devastante, inutile, costosissimo, affidato a un consorzio di imprese di costruzione. Ma al MoSE occorrerebbe dedicare un ‘intero numero di Carta. Oggi parliamo di alcuni interventi recenti, alcuni direttamente connessi al MoSE, altri espressione della stessa ideologia, dalla stessa indifferenza alla legalità: tutti interventi vietati dalle leggi vigenti, tutti interventi approvati nella generale indifferenza di un’opinione pubblica distratta e sviata.

Morire di Mose e di altre devastazione

Il Mose è come il virus dell’Hiv che aggredisce le difese immunitarie e rende l’organismo attaccabile da tutte le patologie. Per Venezia e la sua laguna, il Mose è stato il piede di porco che ha consentito alle lobby del cemento di scardinare tutta la legislazione di salvaguardia varata dopo l’alluvione del ’66. Ecco un elenco, che non ha neppure la pretesa di essere esaustivo, di grandi, costose e devastanti opere che massacreranno quella che ancora è la laguna più bella del mondo. Sempre che il Mose lasci qualcosa da massacrare.

Cinque piani di calcestruzzo sopra l’oasi
«Dove andarono a dormire, il giorno in cui fu terminata la Grande Muraglia, gli operai?» Non possiamo sapere dove andarono a dormire i muratori cinesi ricordati da Bertold Brecht, ma sappiamo dove andranno a dormire i circa 400 operai del Mose: in bei palazzoni frontemare di cemento alti 15 metri, lunghi 50 e larghi 25. Li stanno costruendo nell’isola di Pellestrina, proprio sopra le due riserve naturali di Ca’ Roman e Santa Maria del Mare. Va da sé che stiamo parlando di due veri e propri villaggi di cemento con tanto di fognature, impianti di depurazione, parcheggi e altre comodità. Qui sorgeranno anche le enormi piattaforme di calcestruzzo dove saranno assemblati i giganteschi «pezzi» in lavorazione e gli immani basamenti sommersi del Mose. A Santa Maria del Mare, il cantiere di prefabbricazione è composto da una piattaforma in cemento alta tre metri sul livello del mare che copre tutta la spiaggia e si protende per 450 metri sul mare per una larghezza di 350 metri. Inoltre. È prevista un’ulteriore struttura in avanzamento sul mare per l’alaggio dei cassoni di altri 200 metri. Non vale neppure la pena di ricordare che tutte queste devastanti realizzazioni sono irreversibili e che le aree che saranno distrutte sono protette [?] dai massimi vincoli paesaggistici e ambientali come Sic e Zps. Ricordiamo solo, tornando alla poesia del «Lettore operaio» di Brecht, che alla domanda «Chi pagherà le spese?» la risposta è facile.

Barene di plastica nel canal dei Marani
Trovato da dormire agli operai del Mose, trovate le oasi da cementare per i cantieri di prefabbricazione del Mostro, restano ancora altri problemi insoluti. I fanghi ad esempio. Dove depositare quel milione e mezzo di metri cubi [«quantitativi incrementabili» secondo la relazione del progetto] di sedimenti e caranto che saranno scavati per far spazio ai basamenti sommersi delle dighe mobili? Il progetto che sta prendendo corpo è quello di costruire alcune «barene artificiali» [un evidente ossimoro, perché le barene sono formazioni esclusivamente naturali] là dove non ce ne sono mai state. Perlomeno negli ultimi sette o ottomila anni di storia morfologica della laguna veneta. Il posto è il canal dei Marani, che collega Murano all’isola di S. Erasmo. Qualcuno potrebbe pensare che, se non ci sono mai state barene nel canal dei Marani, un motivo ci sarà. L’idrodinamica della laguna infatti non ne consente la formazione in quelle secche troppo soggette alle escursioni di marea. Queste «barene artificiali» dunque non potranno raggiungere mai il delicato equilibrio che caratterizza una barena, quella vera. Onde per cui, il progetto prevede il sostegno di queste «barene art…», ma no! Chiamiamole «porcherie» che è più corretto. Dunque, il progetto prevede il sostegno di queste «porcherie» con burghe [sorta di gabbioni] di plastica e poliestere ripiene di pietrame, accatastate in almeno quattro gradoni tutto attorno. Siccome qualcuno potrebbe obiettare che queste burghe sono quantomeno antiestetiche, il progetto prevede la loro immediata rimozione «non appena le opere saranno consolidate». Che è come dire mai, considerato che le burghe vengono costruite proprio perché nel canal dei Marani nessuna barena, neppure le «porcherie» plastificate, potranno mai raggiungere un equilibrio idrodinamico. Perlomeno sino alla prossima era glaciale.

La Grande Muraglia di rifiuti (tossici naturalmente)
La prima cosa che impara chi studia la laguna di Venezia, è che le acque alte e le altre devastazioni ambientali sono cominciate con gli interramenti [Porto Marghera, chiusura delle valli da pesca…] e i grandi scavi [canal delle Navi, canale dei Petroli…] che hanno rovesciato il delicatissimo equilibrio su cui si era sostenuta sino ai tempi dei Dogi quest’area umida unica al mondo. Eppure in laguna si continua a scavare come all’isola del Tesoro. Come se non bastasse, al danno intrinseco dello scavo, si sta aggiungendo il danno prodotto dallo smaltimento del prodotto dello scavo. Dopo il raddoppio dell’isola-scoassera [immondezzaio] delle Trezze, un progetto avanzato dal Commissario per lo Scavo dei Canali Portuali prevede la realizzazione di una vera e propria muraglia di immondizie alta 14 metri per oltre due chilometri, lungo la fascia terminale del Naviglio Brenta, sino a Fusina, a ridosso dell’abitato di Malcontenta. Qui finiranno i tre milioni di metri cubi di fanghi scavati per aumentare la profondità del canal dei Petroli e permettere anche alle superpetroliere [quelle che non ci son più!] di arrivare a Fusina. Perfetto esempio di Grande Opera inutile e dannosa. A sentire Giancarlo Zacchello, presidente dell'Autorità portuale di Venezia, che ha fortemente appoggiato il progetto di scavo, la costruzione della muraglia lungo il Brenta, comporterebbe un enorme risparmio per le casse delle Stato. Infatti, buona parte dei fanghi recuperati dal canale dei Petroli sono classificati come tossici e nocivi: conferirli in una discarica specializzata, come prevede la legislazione, costerebbe una fortuna allo Stato. E’ preferibile farne delle specie di mattonelle tossiche del Lego ed impilarle a Malcontenta, inquandrando il tutto in un più ampio progetto di «riqualificazione ambientale» dell’area. E’ vero che ognuna di queste mattonelle tossiche sarà infilata in una camicia di cemento, ma è anche vero che sopra la muraglia ci vogliono mettere fiori, panchine e magari qualche giostra per i bambini. Se il progetto non è ancora partito è solo perché le varie aziende che si contendono gli appalti si sono dichiarate guerra a furia di carte bollate. C’è sul piatto una torta mica male. Soltanto impedire che il canale si riempia di fango, dopo l’escavazione, per i primi tre anni, costerà oltre 37 milioni di euro. Ma, grazie a dio, risparmieremo sul mancato conferimento dei fanghi tossici in discarica speciale!

E dopo il petrolio, i cereali
Mentre in bacino San Marco si discute sul traffico e sul moto ondoso provocato dalle navi di crociera, l’Autorità Portuale che continua imperterrita a far riferimento al Piano della Terza Zona Industriale approvato nel ’65 [piano cancellato dalla Legge Speciale varata nel ’73] ha ripresentato in Commissione Salvaguardia, il famigerato progetto per la realizzazione di un enorme approdo per le navi cerealicole transoceaniche a porto San Leonardo, proprio in mezzo alla laguna veneta, dove già attraccano le petroliere. L’opera per il suo gigantismo è persino in contrasto con il Mose che prevede per il canale che conduce a San Leonardo una profondità massima di «soli» 14 metri. Il progetto comporta la costruzione di enormi banchine sulla gronda lagunare attrezzate per l’attracco di mostruose navi container di oltre 150 mila tonnellate di stazza. D’altra parte, in qualche posto dovranno pure scaricare tutti quei cereali geneticamente modificati prodotti dai Paesi in via di sviluppo. O vogliamo fermare il progresso?

Tutto qua?
Certo che no! L’elenco di devastazioni è ancora lungo. Ma per tirare la conclusione possiamo anche fermarci qui. Se non riusciremo a fermare questi mostri, della nostra bella laguna, così come abbiamo avuto l’immeritata fortuna di conoscerla noi che non abbiamo saputo difenderla, non resterà che quel tiepido vento di scirocco che ancora la bacia in queste luminose giornate di primavera.

Un Commissario per le Devastazioni Ambientali
L’alluvione del ’66 ha avuto il merito di portare all’attenzione del mondo il problema della conservazione di Venezia e della sua laguna. Sull’onda emotiva causata dall’avvenimento, i Governi hanno varato una serie di leggi di Salvaguardia che –pur con alterne vicende- hanno contribuito a difendere l’ecosistema lagunare sino al colpo di maglio portato dall’ultimo governo Berlusconi. Per agevolare le lobby del cemento, è stato nominato un «commissario all’emergenza socio, economica e ambientale» con poteri straordinari in grado di bypassare ogni prescrizione di legge e di norma di tutela. Per fare un esempio, il Commissario dirige il settore Via della Regione, le Istruttorie di Compatibilità Urbanistica e presiede per conto del presidente della Giunta Regionale, Giancarlo Galan, la Commissione di Salvaguardia. Un lampante esempio di controllato che si controlla da solo. Il Commissario quindi, dipende solo e direttamente dal forzista Galan, uomo che non ha fatto certo della tutela dell’ambiente il suo cavallo di battaglia politico. Ma se è vero che la Regione Veneto, tradizionale mangiatoia politica della destra, si è sempre dimostrata un’implacabile e dichiarata nemica di Venezia e della sua Laguna, va anche sottolineato che nonostante i ripetuti appelli degli ambientalisti, il governo Prodi non ha ancora risposto alla richiesta di revocare i poteri a questa figura istituzionale.

Venezia da record: la betoniera più grande d’Europa
La stanno costruendo a Santa Maria del Mare, nell’estremità settentrionale dell’isola di Pellestrina, proprio in mezzo a quello che è un Sito di Interesse Comunitario, e sarà la betoniera più grande del mondo. La sua bocca avrà il duro compito di vomitare tutti quei milioni di tonnellate di calcestruzzo necessari per costruire gli enormi cassoni di 150 metri per 30 che costituiranno la base sommersa del Mose. Sopra questi cassoni saranno realizzate le mastodontiche paratie mobili che strozzeranno le tre vie d’acqua che oggi collegano la laguna al mare Adriatico portandole la vita e garantendo quel fragile equilibrio che era rimasto inalterato nei secoli.
E intanto l’isola di Pellestrina che con i suoi settecenteschi «murazzi» costituiva la difesa dal mare della laguna di Venezia, sta cambiando volto. Le spiagge libere sono cementate per costruire avanzamenti a mare lunghi mezzo chilometro, un villaggio in cemento armato ha sfrattato quello che un tempo era una piccola colonia della Caritas. E i pescatori osservano con preoccupazione la «dozana» [corrente entrante dal porto] che non corre più come una volta e tutto quel cemento buttato a mare proprio sopra le «tegnue». Dove nessuno di loro si sarebbe mai sognato di gettare una rete, perché là il pesce va a riprodursi.

Voci dal corteo

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Sette chilometri di festa, musica, tamburi, trombe, trombette e pure una cornamusa. Sette chilometri di grandi bandiere e di lunghi striscioni colorati d’arcobaleno. Ma quello che è sfilato sabato scorso a Vicenza è stato soprattutto un corteo di fortissime emozioni. In queste righe, proviamo a dare voce a qualcuna di loro.

Coraggio
Alla manifestazione con carrozzina e due bambini. Alice, una giovane professoressa di Verona, è una delle tantissime mamme che non si è fatta spaventare dai titoloni che i mass media sparavano in prima pagina nei giorni antecedenti la manifestazione. “Hanno cercato di fare un vero e proprio terrorismo psicologico. Ieri sera ho fatto un po’ di zapping con la televisione. Il primo canale, il secondo, Rete Quattro e Canale Cinque facevano a gara a chi trasmetteva le più cruenti scene di guerriglia urbana! Devo ammettere che una certa paura me l’hanno messa addosso. Con mio marito abbiamo discusso a lungo se era il caso di portare i bambini alla manifestazione.


Poi ci siamo detti che, proprio per loro, per la loro educazione e per il loro futuro, non potevamo arrenderci alla paura! Abbiamo scelto la speranza e non ne siamo rimasti delusi. Noi adulti abbiamo ribadito il nostro diritto a manifestare liberamente senza farci condizionare da falsi timori costruiti ad arte da giornalisti venduti. Per i bambini poi, è tutto una bella sfilata di carnevale”.

Delusione
“Siamo stati traditi noi dalla Lega, come siete stati traditi voi da Prodi” commenta Giacomo, leghista doc di Conegliano. Sventola un povero Leone Marciano ingraffettato con un l’arcobaleno della pace. “Io ho litigato in sezione e poi ho addirittura restituito la tessera per protestare contro la svendita della nostra terra agli americani. E quelli mi hanno risposto dandomi del comunista! A me! Dica lei, ho la faccia da rosso?”
L’unico rosso con cui avrà a che fare immagino, è quello dentro i bicchieri...
“Sì, quello non mi dispiace proprio! Ma qui, a Vicenza, siamo venuti in oltre una trentina dalla marca trevigiana. Ci saranno anche le bandiere rosse, non dico di no, ma soprattutto c’è gente sacrosanta che vorrebbe soltanto comandare in casa loro! Guardi le facce che sfilano. Guardi quelli vestiti da alpino. Altro che sinistra radicata!”
Radicale...
“Sì, quella cosa là!”

Orgoglio
Ma voi di Rifondazione, senza una bandiera Falce&Martello, proprio non sapete sfilare! L’Assemblea Permanente non aveva forse chiesto di lasciare a casa le bandiere di partito?
“L’Assemblea ha il diritto di chiederlo, ma noi abbiamo il diritto di portale dove vogliamo le nostre bandiere –spiega Maurizio di Mestre- Non abbiamo nulla di cui vergognarci. La nostra posizione è sempre stata chiara anche in Parlamento. Il problema non è far cedere il Governo, ma non cedere sulla base. Per questo siamo qui a sfilare con le nostre bandiere”
E domani?
“Domani sfileremo un’altra volta. E dopodomani un’altra volta ancora. A Vicenza come in val di Susa. Quello che la politica tradizionale non può fare, lo faremo noi in piazza”.
Sempre sotto la bandiera rossa per non sentirvi orfani?
“Sempre sotto tutte le bandiere rosse che serviranno”
Hasta la victoria.

Allegria
Manuela, costume azzurro da pagliaccio, nasone di plastica rosso. E’ arrivata da Milano con un numeroso gruppo di amici, tutti dell’area dei Centri Sociali, tutti conciati alla stessa maniera. Ballano come ossessi a ritmo di tamburo per tutta la sfilata. Approfittiamo di uno dei suoi rarissimi momenti di tregua per parlarle.
“Non mi dica anche lei che Venezia e il suo Carnevale erano la fermata dopo! E’ una battuta che oggi ci hanno rivolto tutti... “
Va bene. Prendo atto che non avete sbagliato stazione. Ma voi fate i pagliacci in tutte le manifestazioni?
“No. E’ la prima volta che ci vestiamo da circo. E’ il nostro modo di rispondere a chi ha cercato in tutti i modi di buttarla sulla violenza, a chi finanzia e sostiene le guerre in Afghanistan, in Iraq e fra poco anche in Iran, ma ipocritamente accusa noi di essere violenti. Che cosa abbiamo a che fare noialtri con gli ultras degli stadi? Metterci tutti nello stesso brodo è solo un trucco per non darci risposte sulle cose che poi contano davvero. E’ stata fatta una campagna di stampa vergognosa per terrorizzare la gente e spingerla a non partecipare a questa grande manifestazione. Ma non c’è cascato nessuno. Siamo una moltitudine e pretendiamo delle risposte serie anche se siamo vestiti da pagliacci!”

Ironia
“Più basi sì! Ma co la lengua” Lo striscione alzato da due studentesse vicentine non dovrebbe aver bisogno di traduzione. Una volta si diceva “facciamo l’amore e non la guerra”. Slogan sempre applaudito soprattutto quando le ragazze in questione sono piuttosto carine. Anna studia architettura. “Abito proprio sopra l’area che vorrebbero far diventare una caserma. Sono pacifista, non mi piacciono i generali e le armi, avrei manifestato anche se la base la volessero costruissero, che so, a Rovigo o in Germania. Ma un’inconcepibile scempio urbanistico tale e quale quello che vorrebbero fare sotto le mie finestre non riuscirei ad immaginarlo in nessuna parte del mondo! Ecco, vorrei dire a Prodi, vieni a casa mia... ti faccio vedere dal vivo di che cosa si parla quando si discute dell’allagamento della Ederle. Non posso credere che non cambierebbe immediatamente idea!”
Magari valutando l’alternativa proposta sul tuo striscione.
“Sì. Da sua moglie però. Il cartello risponde ad un tramite comunicativo che si chiama ironia. Io sono felicemente fidanzata e mio moroso è la dietro che mi tiene d’occhio. Credi di essere il primo che si fa avanti con la scusa dell’intervista?”
Ho capito. Niente basi. Neanche co la lengua.

Risolutezza
E adesso che il corteo è arrivato in piazza? Alfonso arrotola la bandiera No Tav E’ un vecchio valsusino ed è stato tra i primi a partecipare ai comitati contro l’Alta Velocità. Da allora non si è perso una manifestazione in tutta l’Italia.
“Adesso si torna a casa ma la bandiera non la si porta in soffitta ad ammuffire. La si lascia vicino alla porta. Pensi che io la metto nel portaombrelli. Un po’ perché non ho altro posto a casa, un po’ perché penso a lei come ad un ombrello da tirar fuori tutte le volte che piove. Ogni volta che viene giù qualche porcheria, la si srotola e si parte. In val di Susa come a Vicenza. A differenza dell’ombrello che ripara solo una testa, le bandiere funzionano solo se le si sventola tutte insieme per riparare tutte le teste. Sia che piova a casa tua, che a casa del tuo vicino. Una lezione che abbiamo imparato bene, noi della val di Susa. La bandiera della No Tav, quella dei verdi, dei comunisti, dell’Italia o di chi volete voi. Son solo stracci. L’importante è piantarle per terra e resistere almeno un minuto più di loro”.

Le pentole di Vicenza

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La Vicenza che non vuole trasformarsi in una caserma non si è arresa. Bandiere, striscioni, campane e campanelle, sirene, pentole e tamburi… tutto tornava buono, nella serata di giovedì 26 ottobre, per far casino sotto un municipio blindato da tre cordoni di celerini in assetto antisommossa. Al primo piano di palazzo Trissino, i consiglieri eletti si giocavano la partita decisiva tra i favorevoli e i contrari alla Superbase Usa in terra berica. Maggioranza ed opposizione si davano battaglia su temi di politica estera che neanche all’Onu si sentono spesso. Gioco duro giocato da duri: quello che piace tanto al sindaco ex missino ed ora forzista Enrico Hüllweck. L’opposizione veniva subito messa sul banco degli imputati con accuse di simpatizzare per il terrorismo islamico e di farsi scudo di un antiamericanismo ideologico. Il primo cittadino dava il via allo scontro sventolando una lettera inviatagli una settimana prima dal vescovo in cui si ringrazia genericamente il Comune di Vicenza per la solidarietà espressa al papa Benedetto XVI in occasione della recente polemica sul fondamentalismo islamico.


Rifondazione rispondeva con la Madonna in persona. “E che vuol dire? –replicava il consigliere Emilio Franzina- Io sono appena stato al santuario della madonna di Monte Berico ad implorarle la grazia di allontanare da Vicenza guerre e caserme!” Dentro il palazzo, a finestre chiuse, i consiglieri si insultavano e si spintonavano. Fuori del palazzo, mezza Vicenza scuoteva campanacci e urlava “Ver-go-gna! Ver-go-gna!” “Siamo alla dittatura della maggioranza –commentava Ciro Asproso, consigliere verde- Vogliono trasformare la città in una portaerei Usa!” E’ finita come doveva finire. A notte fonda, la maggioranza votava compatta per la Superbase: 21 contro 17. Favorevoli Forza Italia, An e Lega. Quest’ultima con un distinguo. “Avrei voluto votare no –ha commentato la pasionaria del Carroccio, Manuela Del Lago- soltanto per vedere la faccia di D’Alema. Col nostro sì, gli abbiamo tolto le castagne da fuoco”.
Già, perché la palla adesso passa alle alte sfere. Spetta a D’Alema, Parise & Soci compiere la scelta definitiva. Spetta al Governo decidere se schierarsi col centrodestra vicentino che vuole trasformare la città nella caserma della 173esima Airborne Brigade o con la sinistra che ha detto no alla logica della Guerra Globale. Con Hüllweck o con la Vicenza di Pace che il 2 dicembre scenderà ancora in piazza per ribadire ancora una volta No ad un aereoporto Usa di guerra in pieno centro abitato.

Vicenza Iù Es Ei

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Nella ridente e cattolicissima città di Vicenza sono in arrivo due bei pacchi targati Iù Es Ei. Il primo è 2 milioni 160 mila metri cubi di cemento e bombe, il secondo è meravigliosamente... Beautiful! Ma andiamo con ordine che non voglio rovinarvi la sorpresa.
Capitolo primo: Guerra Globale Permanente a casa nostra. Il Pentagono ha già deciso e gli altri si accomodino: lo spazio attualmente occupato dalla caserma Ederle sarà raddoppiato per diventare la sede operativa della 173esima Airborne Brigade. Il che significa che sotto il colle del santuario della Madonna Berica bisognerà far spazio ad un aeroporto di guerra, ad una caserma per altri 2 mila militari statunitensi –oltre a quelli già presenti nella caserma Ederle-, una sessantina di Tank M1 Abrams, 85 corazzati di vario tipo, 14 mortai pesanti semoventi, 40 Humvee con sistemi elettronici di ricognizione, due nuclei di aerei spia Predator, almeno due batterie di obici semoventi, svariate postazioni di lanciarazzi multipli a lungo raggio Mrls, una sezione di “Intelligence” da Guerre Stellari… e ci fermiamo qua perché l’elenco sarebbe ancora lungo.


A Washington devono vedere la faccenda come una specie di Risiko dove vince chi occupa più Paesi e piazza più carriarmatini. I cittadini di Vicenza che in questi giorni si sono mobilitati a migliaia con raccolte di firme, sit in davanti al municipio, manifestazioni di piazza e occupazioni delle aree in via di trasformazione, sono più propensi a vedere l’altro lato della medaglia. “Anche a voler prescindere da un giudizio sulla logica di Guerra Globale che sta dietro questa operazione che con la difesa del Paese non ha nulla a che fare –ha commentato Olol Jackson, portavoce dei Verdi di Vicenza e tra i promotori del comitato nazionale contro le servitù militari-, trasformare l’area Dal Molin in una seconda caserma Ederle comporterebbe dei costi insostenibili per una città come Vicenza che non è certo una metropoli. Basti pensare della viabilità e all’inquinamento che una base di tale dimensioni comporterebbe. Tutti costi che saremo soltanto noi cittadini a pagare. I generali Usa assicurano che non hanno bisogno di altre infrastrutture come una nuova strada d’accesso alla nuova caserma. Mi chiedo allora per dove faranno passare i carri armati? Per il casello di Mestre?”
La cosiddetta “politica del sorriso” adottata a Vicenza dal Pentagono, tra promesse di sviluppo, rassicurazioni di lavoro per tutti e giuramenti solenni che la base Dal Molin con la guerra non ha proprio nulla a che fare –ha spiegato Andrea Licata, presidente del centro studi per la pace dell’università di Trieste- non è altro che un procedimento oramai standardizzato. Quando la base andrà a regime, nemmeno un deputato potrà metterci il naso dentro, i controlli ambientali e le verifiche sulle reali dotazioni di guerra saranno impossibili. A Vicenza non resterà altro che pagare di tasca propria i costi delle bonifiche, lo smaltimento dei rifiuti, la manutenzione della viabilità, gli enormi consumi energetici, i privilegi dei militari che non si pagano neppure il biglietto del tram.
Conti che evidentemente non spaventano il sindaco Enrico Hüllweck: “Accoglieremo ancora gli americani così come li abbiamo accolti 50 anni fa”, ha sentenziato. Proprio lui che -da vecchio militante nell’Msi- 50 anni fa si sarebbe trovato dall’altra parte della barricata. Quella color nero!
E con il centrodestra al governo in Comune, Provincia e Regione, ad intonare “The Star Spangled Banner”, è scesa in campo pure la Cisl. Gli americani, dicono, portano lavoro, pace e cultura.
Ah sì, la cultura… e qui veniamo al secondo pacco, quello tanto Beautiful. Parlo della soap opera che appassionava tanto Cossiga!
Le star di Beautiful sbarcheranno pure loro a Vicenza. Due settimane di riprese che ci (e sottolineo il “ci”) costeranno la miseria di un milione di euro. L’assessore regionale Fabio Gava, dalla Cina dove è in missione di studio, si è detto entusiasta e pronto a finanziare l’operazione. Il sindaco Hüllweck pure.
Va da se, che i belloni e le bellone di Beautiful si impegnano a calzare scarpe vicentine, vestire abiti veronesi e pelletterie della riviera berica, adoperare occhiali del bellunese… ed a pranzare nei Mac Donald italiani.
Potete scommettere che non mancherà un bel giro in gondola. Partenza sotto il ponte di Rialto e pittoresco approdo a Camp Ederle Stelle E Strisce.
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