In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.
Tutti i colori della pace
14/12/2007Carta
All’indomani di questa grande mobilitazione «dal basso» che porterà l’Europa a Vicenza, un segnale è però arrivato finalmente «dall’alto».
Ieri i capigruppo de «La sinistra l’arcobaleno» e tutti i deputati veneti schierati contro la nuova base militare Dal Molin hanno depositato una mozione sul blocco dei lavori di bonifica dell’aeroporto presso la camera dei deputati. Forse è l’inizio di un dialogo tra il movimento vicentino contrario alla costruzione della base e il governo.
Domani i cittadini contrari alla costruzione della nuova base militare in città scenderanno in piazza - insieme ai rappresentanti dei gruppi pacifisti d’Europa e agli altri comitati aderenti al «Patto di mutuo soccorso» - per partecipare all’iniziativa centrale della mobilitazione che da oggi, per tre giorni, coinvolgerà la città del Palladio. «Vicenza darà una nuova lezione di determinazione, democrazia e senso civico - assicurano gli organizzatori -, attraverso la partecipazione di famiglie, anziani, mamme e bambini». Parteciperanno alla manifestazione anche alcuni cittadini statunitensi e dei sindaci giunti a Vicenza dalla Repubblica Ceca, insieme a numerosi altri cittadini europei. Questa sera i diversi comitati arrivati a Vicenza si confronteranno all’interno di un dibattito sulla presenza militare Usa e Nato in Europa e sui movimenti che si oppongono all’espansione militare, che aprirà ufficialmente la tre giorni europea, alle 20.30 al Presidio di Ponte Marchese. Sempre in serata, dalle 18 nella chiesa di San Carlo in via Colombo 1, il coordinamento dei gruppi cristiani per la pace di Vicenza organizza un momento di confronto interreligioso, con testi, musiche dal vivo e testimonianze dalle differenti tradizioni religiose. Fino a mezzanotte, la chiesa sarà aperta per chi si vorrà fermare e partecipare all’iniziativa.
Il corteo di domani, sabato, partirà alle ore 14 dalla stazione dei treni, «e dimostrerà che la popolazione vicentina non si è affatto arresa alle imposizioni calate dall’alto», assicurano i vicentini no base. «Sarà un corteo variegato e trasversale. Chi voleva dipingerci divisi e litigiosi, ancora una volta, è stato smentito: questo movimento è un prisma di sensibilità diverse, unite dall’unico obiettivo di impedire la militarizzazione di Vicenza».
Si aspettano circa 20 mila presenze a Vicenza domani, per ribadire che «la vicenda Dal Molin non è affatto chiusa, a differenza di quanto vorrebbero lasciare intendere il ministro D’Alema e il presidente Napolitano», come sottolineano i portavoce del Presidio Permanente.
Per accogliere i movimenti europei che stanno arrivando in queste ore a Vicenza per partecipare alla manifestazione, i ragazzi del «collettivo Caserma No War» occupano da ieri sera una ex caserma, abbandonata da 10 anni, nella periferia di Vicenza. Il Presidio Permanente aveva chiesto al sindaco e al presidente della provincia di attivarsi per individuare spazi idonei all’ospitalità di chi arriverà a Vicenza per la manifestazione europea, ma nessuna risposta è mai arrivata da parte delle istituzioni vicentine. L’obiettivo dell’occupazione - che si concluderà domenica, con la chiusura della tre giorni europea - è quindi quello di garantire l’ospitalità ai manifestanti che stanno arrivando a Vicenza. «L’apertura dell’‘ostello caserma No War’ - spiega un ragazzo del collettivo - oltre a risolvere il problema pratico dell’accoglienza per chi giunge a Vicenza, dimostra che le strutture militari possono, attraverso la creatività, essere riconvertite ad usi civili e assumere una importante valenza sociale importante».
Questa sera, alle 19, il «collettivo Caserma No War» darà il benvenuto ai manifestanti con un aperitivo, per poi spostarsi alle 20.30 al Presidio di Ponte Marchese, per partecipare al dibattito in programma. Sempre alla caserma occupata «No War», domani mattina gli studenti delle scuole medie superiori si sono dati appuntamento per un momento di incontro e socialità prima della manifestazione del pomeriggio.
Il percorso deciso dai no base per la manifestazione di sabato non chiude il centro della città e lascia libero l’accesso a molti parcheggi cittadini e passerà per il centro storico. L’arrivo del corteo in viale Roma - ultima tappa della manifestazione - è previsto per le ore 16. Una volta conclusa la manifestazione, un altro corteo, dei vicentini a di chi si fermerà per la serata e per i workshop di domenica, partirà verso il Presidio Permanente. Proprio in questi giorni il Presidio è stato rinnovato e allargato: un «Presidio a cinque stelle» - come lo hanno definito i no base - è stato allestito per accogliere i movimenti nazionali ed europei. Sabato sera il gruppo donne No Dal Molin metterà in scena il proprio spettacolo teatrale alle 18.30 e dalle 19 si potrà cenare. La serata continuerà con la musica di Akatasuna, Don Ciccio Philarmonic Orchestra e l’Osteria Popolare Berica.
Le adesioni al corteo sono numerose, e non è mancata qualche sorpresa dell’ultimo minuto.
Tra queste, l’intenzione di partecipare dell’imprenditore Pierandrea Aggujaro, ex presidente della sezione Edili di Assindustria, e degli altri soci dell’Aeroclub di Vicenza. La loro è una protesta limitata al futuro della pista di volo dell’aeroporto Dal Molin [che dovrebbe essere demolita per lasciare spazio alla nuova base], come spiega Aggujaro. «Non siamo certo no global, ma vogliamo far sentire la nostra voce per difendere una realtà, quella dell’Aeroclub, che ha una storia lunga 80 anni e fornisce servizi importanti. Non possiamo accettare che nessuno si preoccupi del futuro dell’Aeroclub, per questo vogliamo far percepire la nostra presenza, senza confonderci con altre realtà, ma per attirare l’attenzione sulla pista di volo del Dal Molin».
Anche la Chiesa Evangelica Metodista di Vicenza ha deciso di dare la sua adesione, per testimoniare il proprio impegno per la pace e la nonviolenza. «Riteniamo che i cristiani abbiano il dovere di testimoniare una realtà di pace che non passa per le armi ma attraverso la ricerca della giustizia e della solidarietà e di denunciare come qualunque corsa agli armamenti testimoni di fatto la cultura opposta», dice la presidente del consiglio di chiesa, Gabriella Giannello. «Inoltre riteniamo che le conseguenze negative di un simile raddoppiamento, in una piccola città come Vicenza, che saranno i vicentini a sperimentare in prima persona, non possono essere ignorate in favore di cosiddetti interessi superiori di politica internazionale e che qualunque governo dovrebbe affrontare un progetto dal simile impatto ambientale e sociale con trasparenza e coinvolgendo pienamente la popolazione locale direttamente interessata, così come recita anche il programma elettorale dell’Unione», continua Giannello, criticando il silenzio delle chiese in simili momenti.
Anche la domenica vicentina, ultimo giorno della mobilitazione contro la base, si preannuncia ricca di spunti e stimoli interessanti. Alle 11 è in programma un reading di poesie dal titolo «Donne contro le guerre», con la lettura di «Pensieri di pace durante un'incursione aerea», di Virginia Woolf e alcuni brani di Lidia Munari. Dalle 14 alle 19, sempre al Presidio, sono in programma alcune tavole rotonde parallele con i rappresentanti dei vari movimenti europei contro la guerra. Oltre a quattro focus geografici, con altrettante tavole rotonde - sulla situazione politica e i movimenti di opposizione in Usa; sull’Europa dell’est; sulla Germania; sull’esperienza italiana del Patto di mutuo soccorso - vi sarà anche un’incontro organizzato da Emergency, con Carlo Garbagnati, vicepresidente dell’associazione e Carla Dani, ostetrica di ritorno dall’Afghanistan. Alle 17, nella bottega di commercio equo e solidale Unicomondo di Vicenza, vi sarà un reading dal titolo «Riflessi-oni sull’acqua», con Patricia Zanco. Chiuderà la tre giorni di mobilitazione lo spettacolo teatrale «Disarmati fino ai denti» di Roberto Caruso, con la Compagnia Abracalam, alle 20.30 al Presidio. Vicenza diventerà così il luogo di incontro e confronto dei movimenti per la pace e per la difesa dei beni comuni.
E chi pensa che tutto si concluderà in un fine settimana, potrebbe sempre fermarsi anche il lunedì. Per accorgersi che a Vicenza c’è chi non intende mollare, ma è invece determinato a continuare la propria battaglia pacifica per impedire la costruzione di una nuova base di guerra.
La mappa dell'altra Vicenza
10/12/2007Carta
«Il nostro obiettivo è quello di costruire una cultura di pace, partendo dalle azioni concrete sul territorio». Ilaria ha costituito con gli altri giovani del suo paese, Quinto Vicentino, un gruppo parrocchiale - non a caso chiamato Traiettorie di pace - per opporsi al progetto Dal Molin e fare della pace una pratica concreta. Proprio a Quinto Vicentino sarebbe dovuta sorgere la «cittadella militare» per le famiglie degli americani in servizio nella nuova base, se il consiglio comunale non avesse deciso all’unanimità di respingere la richiesta di realizzazione del villaggio residenziale. Quel primo no «istituzionale» al progetto Dal Molin è stato il frutto del lavoro di sensibilizzazione che il comitato Amiamo Quinto ha portato avanti in questi mesi, organizzando assemblee e incontri per informare la comunità locale.
Se le amministrazioni locali schierate contro il Dal Molin restano poche e indecise, si rafforza invece la posizione dei gruppi cristiani contro la base, coordinati dal gruppo Famiglie per la Pace. Di recente le Acli [Associazioni cristiane lavoratori italiani] vicentine hanno riconfermato la loro contrarietà al progetto, ritenendo la nuova base una «pedina strategica nella folle corsa agli armamenti», contraria ai principi etici e cristiani della pace. Sempre le Acli hanno anche denunciato nella questione vicentina «una grave carenza di informazione, un occultamento della verità, una mancanza di trasparenza, un'assenza di coinvolgimento, un perdurante rimpallo di responsabilità tra vari livelli istituzionali, che contribuiscono ad alimentare una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni». All’appello del movimento cristiano contro la base si è unito anche un gruppo di sacerdoti che affermano di non voler «restare indifferenti, né essere complici» e sottolineano l’importanza di arrestare la corsa agli armamenti e mettere al bando le armi nucleari, verso il disarmo.
Di disarmo si occupano attivamente anche i Beati costruttori di pace, attualmente impegnati in una raccolta firme per una legge d’iniziativa popolare per la messa al bando di tutte le armi nucleari nel rispetto dell’impegno assunto dall’Italia con la firma del trattato di non proliferazione nucleare nel 1975. «A Vicenza - dice Andrea Fusolo, dei Beati di Vicenza - si è creato per la prima volta un movimento vitale e vivace, che ha risvegliato una città addormentata dal mito del benessere economico.
Dello stesso parere è anche Marina Bergamin della Cgil di Vicenza. «Finalmente a Vicenza scorre pensiero - commenta -. In città coesistono culture diverse, che adottano pratiche politiche differenti, ma complementari. L’anno che inizia pone nuove sfide ai movimenti. In primavera ci saranno le elezioni amministrative in città e allora vedremo se e come la politica saprà ricomporre gli stimoli positivi che vengono dai movimenti vicentini».
Per promuovere una politica «che ascolti la base», a Vicenza si è costituito il comitato Più democrazia, che chiede l’introduzione del referendum propositivo e abrogativo all’interno dello statuto comunale, strumento utile per concretizzare la partecipazione dal basso di cittadini e associazioni locali. «I politici - spiega Eugenio Berti del comitato - usano il mandato degli elettori come strumento per fare solo gli interessi di partito. Il risultato di questa democrazia è la non rappresentanza dei cittadini, che sono esclusi dalla gestione della cosa pubblica, con pesanti ricadute sullo stato sociale e sul territorio. Vicenza ne è un esempio».
Tra i tanti strumenti messi in atto dalla comunità vicentina per opporsi alla base, quello maggiormente discusso in questi giorni è senza dubbio la moratoria dei lavori di costruzione della nuova base Usa, firmata lo scorso giugno da 170 parlamentari.
Il Presidio permanente, dopo l’impegno di tanti mesi di iniziative contro la base, chiede ora un impegno concreto e immediato da parte dei politici. «Chiediamo che alle parole seguano atti concreti in grado di riaprire la questione politica su Vicenza - dicono i rappresentanti del Presidio -. Vogliamo che la pace diventi azione concreta, a partire dalla questione vicentina. La moratoria deve essere attuata subito, ponendo a Prodi la discriminante su Vicenza».
Diversa la posizione del Coordinamento dei comitati, che durante la «festa grande No Dal Molin» del 2 dicembre scorso ha lanciato la petizione nazionale per una raccolta di firme che allarghi il consenso intorno alla lotta contro la base, a sostegno della moratoria parlamentare. «Con la raccolta firme - spiega Giancarlo Albera, del Coordinamento - chiediamo che il governo convochi entro i primi mesi del 2008 la seconda conferenza nazionale delle servitù militari e attivi gli strumenti necessari per ascoltare la popolazione locale. Vogliamo coinvolgere tutte le diverse componenti del movimento per la pace nella nostra lotta contro la nuova base militare, perché si amplifichino le possibilità di successo della mobilitazione».
Mentre alcuni lottano per impedire la costruzione di una nuova base, altri agiscono sulla base americana già presente in città, la caserma Ederle. L’obiettivo delle azioni del comitato Vicenza est è quello di ottenere la conversione della caserma ad uso civile. Durante questi mesi il comitato ha legato stretti rapporti con alcuni movimenti pacifisti americani e ha coinvolto nelle proprie azioni di protesta dei militari disertori e reduci di guerra.
Dai campi di guerra, anche l’esperienza di Emergency torna attuale a Vicenza. «La contrarietà alla guerra da parte di Emergency nasce tra le corsie degli ospedali, dall’incontro diretto con la guerra e dalla consapevolezza dei disastri che provoca - racconta Claudio Lupo del gruppo vicentino -. A Vicenza si sta costruendo la pace con fantasia e passione; Emergency si oppone alla costruzione della base Dal Molin e di altre basi militari, dalle quali partiranno le truppe impegnate nelle guerre di oggi e di domani».
Nella città del Palladio, l’arte non poteva mancare tra le diverse forme messe in atto per esprimere la propria contrapposizione alla nuova base. «Spero che l’arte fermi le nefandezze della politica», afferma il vicentino Alberto Peruffo, della Fattoria artistica Antersass. La sua opera, «The wandering cemetery», ispirata dalla situazione di Vicenza, è stata presentata all’ultima Biennale di Venezia. «I principi che hanno reso Vicenza patrimonio mondiale dell'Unesco - sostiene l’artista - sono inconciliabili con la situazione attuale della città. Dal momento in cui Vicenza metterà in atto il progetto Dal Molin, esemplare per mancanza di dialogo tra le parti, la nostra città non potrà più essere di esempio al mondo per l'urbanesimo».
Proprio tra le bellezze artistiche della città del Palladio sfilerà questo sabato il corteo europeo contro la base. Tenete in tasca le mappe e ripercorrete anche voi in un pomeriggio i diversi percorsi dei movimenti vicentini. «La meta è vicina - Francesco ne è convinto -. La base da cui deve ripartire Vicenza non è una base di guerra, ma quella costruita in questi mesi dalle esperienze di tutti i movimenti e della gente comune».
La mostra del cinema vista da Venezia
10/10/2007CartaQui in laguna, discorrendone tra uno spritz e l’altro, con le gambe comodamente buttate sotto un tavolino d’osteria, la chiamiamo il principio di compensazione o anche la legge del “non ti può andare tutto bene nella vita”. Recita così: “Ti piace vivere a Venezia? E allora beccati la mostra del Cinema, la Regata Storica, il carnevale, il ponte di Calatrava, la Biennale d’arte con tanto di coccodrilloni rosa lunghi 6 metri appesi fuori dalle finestre sul canal Grande che fanno tanto artistico! Ed ogni mattina, quando ti alzerai per andare a lavorare col sudore sulla fronte dovrai fare a spintonate per entrare in un vaporetto che galleggia per scommessa, strapieno di tedeschi e giapponesi.
E se la Fiat potrà a suo comodo e col ringraziamento della Regione sventrare palazzo Grassi con un impianto di ascensori per farne una sede espositiva, tu, per mettere una controfinestra dovrai attraversare un purgatorio di carte bollate”. Il grande Emilio Vedova, quando lo si incontrava al Paradiso Perduto o in qualche altra bettola, raccontava che questa città è piena di problemi “ed è bene discuterne a fondo. Altrimenti non sapremmo che altro fare la sera per tirare tardi”. E la mostra del cinema è un esempio perfetto dei problemi cui aspirava Vedova. Non ti fa incazzare (come succede se discutiamo del Mose), ci puoi spettegolare fin che vuoi, è divertente (leggetevi le interviste alla madrina Ambra Angiolini) e non scappa neppure il lato culturale. Anzi diciamo pure che dopo un paio di edizioni a dir poco letargiche, questa 64esima edizione sta dimostrando che l’encefalogramma cinematografico di quel che resta della civiltà occidentale non è ancora piatto. Piatto casomai lo è quello di tutti quei politici, puttanieri ed arrampicatori, – compresi vari assessori e consiglieri regionali - che si sono dannati l’anima per scroccare inviti in stile “lei non sa chi sono io” alle feste vip e alle inaugurazioni. “Ho assistito a certe sceneggiate che mi vergognavo io per loro” mi ha raccontato un amico che lavora all’ufficio stampa della mostra. Salvo poi disertare le sale quando in cartellone c’erano film troppo impegnati. Leghisti e forzisti non son strutturati per certe cose. “Questa storia è scandalosamente di parte. Ma sono solo i comunisti a fare i film?” ho sentito sussurrare due poltrone davanti alla mia durante una proiezione di “In the Valley of Elah”, duro film di denuncia sugli violenza delle guerra in Iraq di Paul Haggis. Purtroppo no. Avrei dovuto rispondere. Altri cinque anni di Berlusconi e alla mostra del cinema ci toccava applaudire il Bagaglino.
Ed è proprio la guerra in Iraq, i suoi orrori e le sue menzogne, che ha alzato l’interesse sulla mostra per merito del già citato Haggis ma grazie soprattutto al maestro Brian De Palma che nel suo Redacted ha raccontato con il linguaggio del documentario giornalistico la storia vera dello stupro di una ragazzina irachena ad opera dei militari statunitensi. Il film, lo confesso, non l’ho ancora visto ma ho avuto la fortuna di assistere alla conferenza stampa di Brian De Palma. “Se voi registi vi mettete a realizzare documentari giornalistici, a noialtri giornalisti potrebbe venire la tentazione di girare un film” lo ha punzecchiato il redattore di un giornale locale. “Ottima idea. Magari scoprite vi riesce meglio che fare i giornalisti”. Affondato il colpo, De Palma ha rigirato subito il coltello sulla piaga: “Parliamoci chiaro. Se siamo solo noi cineasti a prenderci la briga di denunciare certe situazioni vuol dire che i giornalisti non sanno, non vogliono o non possono fare il loro mestiere”. Silenzio in aula. Un altro giornalista ha cercato di cambiare discorso con una domanda sul protagonista del film, ma De Palma lo ha dribblato con eleganza e ha cominciato ad elencare, puntuale e preciso, tutti i meccanismi con i quali il Pentagono filtra, devia e costruisce tutte le informazioni provenienti dall’Iraq. “Quello che ci viene raccontato è tutto falsificato. Tutto” ha spiegato. E non solo negli Usa, se consideriamo che “gli inviati dei maggiori giornali del mondo che scrivono sulla guerra in Iraq lo fanno da Washington”. Quindici minuti di “lezione” di giornalismo ai giornalisti. Grande Brian! Li ha ammutoliti tutti. Quelli che ancora erano rimasti in sala, beninteso. Gli altri eran già corsi ad intervistare l’Ambra che di sicuro è meno piantarogne, non ti critica il mestiere e non ti complica la vita. O magari il vicepremier Francesco Rutelli che lo trovi sempre là, a gironzolare per i corridoi come fosse a casa sua. E se qualcuno gli chiede se si farà il nuovo palazzo del cinema al Lido risponde: “Certamente. Nel 2008 apriremo i cantieri. Il governo ha già stanziato 20 miliardi di euro. Come? Gli altro 57? Beh… basta soltanto trovare qualche privato…” Alla cerimonia di presentazione della Mostra, qualcuno gli ha suggerito di dirottare sul nuovo palazzo del cinema i finanziamenti per il Mose ma il vicepremier non l’ha degnato di una risposta. E’ un argomento tabù questo delle dighe mobili per il vicepremier. Proprio come i motivi per cui l’ex ragazza di “Non è la rai” è stata scelta come madrina. Da dire che Rutelli, in questa 64esima mostra, si è fatto notare per il fatto di pretendere sempre 13 posti riservati per le proiezioni, anche se poi resta in albergo o entra in sala da solo. Vorrà stare comodo. Quanto meno non è superstizioso. Neanche noi lo siamo. Ma chissà perché qui a Venezia speriamo che il 13 gli porti sfiga lo stesso.
E se la Fiat potrà a suo comodo e col ringraziamento della Regione sventrare palazzo Grassi con un impianto di ascensori per farne una sede espositiva, tu, per mettere una controfinestra dovrai attraversare un purgatorio di carte bollate”. Il grande Emilio Vedova, quando lo si incontrava al Paradiso Perduto o in qualche altra bettola, raccontava che questa città è piena di problemi “ed è bene discuterne a fondo. Altrimenti non sapremmo che altro fare la sera per tirare tardi”. E la mostra del cinema è un esempio perfetto dei problemi cui aspirava Vedova. Non ti fa incazzare (come succede se discutiamo del Mose), ci puoi spettegolare fin che vuoi, è divertente (leggetevi le interviste alla madrina Ambra Angiolini) e non scappa neppure il lato culturale. Anzi diciamo pure che dopo un paio di edizioni a dir poco letargiche, questa 64esima edizione sta dimostrando che l’encefalogramma cinematografico di quel che resta della civiltà occidentale non è ancora piatto. Piatto casomai lo è quello di tutti quei politici, puttanieri ed arrampicatori, – compresi vari assessori e consiglieri regionali - che si sono dannati l’anima per scroccare inviti in stile “lei non sa chi sono io” alle feste vip e alle inaugurazioni. “Ho assistito a certe sceneggiate che mi vergognavo io per loro” mi ha raccontato un amico che lavora all’ufficio stampa della mostra. Salvo poi disertare le sale quando in cartellone c’erano film troppo impegnati. Leghisti e forzisti non son strutturati per certe cose. “Questa storia è scandalosamente di parte. Ma sono solo i comunisti a fare i film?” ho sentito sussurrare due poltrone davanti alla mia durante una proiezione di “In the Valley of Elah”, duro film di denuncia sugli violenza delle guerra in Iraq di Paul Haggis. Purtroppo no. Avrei dovuto rispondere. Altri cinque anni di Berlusconi e alla mostra del cinema ci toccava applaudire il Bagaglino.
Ed è proprio la guerra in Iraq, i suoi orrori e le sue menzogne, che ha alzato l’interesse sulla mostra per merito del già citato Haggis ma grazie soprattutto al maestro Brian De Palma che nel suo Redacted ha raccontato con il linguaggio del documentario giornalistico la storia vera dello stupro di una ragazzina irachena ad opera dei militari statunitensi. Il film, lo confesso, non l’ho ancora visto ma ho avuto la fortuna di assistere alla conferenza stampa di Brian De Palma. “Se voi registi vi mettete a realizzare documentari giornalistici, a noialtri giornalisti potrebbe venire la tentazione di girare un film” lo ha punzecchiato il redattore di un giornale locale. “Ottima idea. Magari scoprite vi riesce meglio che fare i giornalisti”. Affondato il colpo, De Palma ha rigirato subito il coltello sulla piaga: “Parliamoci chiaro. Se siamo solo noi cineasti a prenderci la briga di denunciare certe situazioni vuol dire che i giornalisti non sanno, non vogliono o non possono fare il loro mestiere”. Silenzio in aula. Un altro giornalista ha cercato di cambiare discorso con una domanda sul protagonista del film, ma De Palma lo ha dribblato con eleganza e ha cominciato ad elencare, puntuale e preciso, tutti i meccanismi con i quali il Pentagono filtra, devia e costruisce tutte le informazioni provenienti dall’Iraq. “Quello che ci viene raccontato è tutto falsificato. Tutto” ha spiegato. E non solo negli Usa, se consideriamo che “gli inviati dei maggiori giornali del mondo che scrivono sulla guerra in Iraq lo fanno da Washington”. Quindici minuti di “lezione” di giornalismo ai giornalisti. Grande Brian! Li ha ammutoliti tutti. Quelli che ancora erano rimasti in sala, beninteso. Gli altri eran già corsi ad intervistare l’Ambra che di sicuro è meno piantarogne, non ti critica il mestiere e non ti complica la vita. O magari il vicepremier Francesco Rutelli che lo trovi sempre là, a gironzolare per i corridoi come fosse a casa sua. E se qualcuno gli chiede se si farà il nuovo palazzo del cinema al Lido risponde: “Certamente. Nel 2008 apriremo i cantieri. Il governo ha già stanziato 20 miliardi di euro. Come? Gli altro 57? Beh… basta soltanto trovare qualche privato…” Alla cerimonia di presentazione della Mostra, qualcuno gli ha suggerito di dirottare sul nuovo palazzo del cinema i finanziamenti per il Mose ma il vicepremier non l’ha degnato di una risposta. E’ un argomento tabù questo delle dighe mobili per il vicepremier. Proprio come i motivi per cui l’ex ragazza di “Non è la rai” è stata scelta come madrina. Da dire che Rutelli, in questa 64esima mostra, si è fatto notare per il fatto di pretendere sempre 13 posti riservati per le proiezioni, anche se poi resta in albergo o entra in sala da solo. Vorrà stare comodo. Quanto meno non è superstizioso. Neanche noi lo siamo. Ma chissà perché qui a Venezia speriamo che il 13 gli porti sfiga lo stesso.
Le gabbie di Gradisca
1/10/2007Carta
Perché il Ctp di Gradisca - di questo stiamo parlando - è un buco nero che inghiotte in ugual misura i diritti civili e la dignità di chi vi è rinchiuso con la sola imputazione a carico di un reato amministrativo: il mancato possesso di un documento valido per l’espatrio.
Entrarci da uomini liberi non è facile, nonostante tutte le assicurazioni di trasparenza che puntualmente rilascia il ministro Giuliano Amato. Venerdì 28 settembre, l’associazione Melting Pot e il consigliere regionale dei verdi del Friuli Venezia Giulia, Alessandro Metz, hanno organizzato l’ennesima ispezione e per l’ennesima volta sono stati lasciati fuori.
“Non c’è niente da fare –spiega Marco Visintin, portavoce di Meltig Pot –. Siamo un’associazione che stando al decreto Amato ha tutte le carte in regola per partecipare all’ispezione ma ogni volta trovano una scusa nuova. Adesso salta fuori che dovevamo presentare un documento che prova che lavoriamo in convenzione con la Regione. Gli ho detto che glielo facevo arrivare subito via fax ma pare che non siamo più in tempo…”
“A me hanno risposto che dovevo presentare una richiesta scritta del presidente del consiglio regionale. Tre giorni fa invece mi avevano assicurato che ci voleva il permesso del presidente della provincia di Gorizia e io me lo ero pure procurato – commenta amaro Metz -. La realtà è che sanno benissimo che se entravo non ne sarei uscito senza la bambina e la madre. Non è ammissibile continuare a tenerle dentro. Qualcosa bisogna fare. Domani [sabato 29.ndr] torneremo qui con un presidio e un sit in. Non possiamo far finta di niente e accettare che una bambina di otto mesi fuggita da un paese in guerra sulle braccia della madre, cresca in questo lager”
Dentro le mura di cemento sono riusciti ad entrare solo un gruppetto di giornalisti (tessera alla mano e fax di conferma inviato alla testata con tanto di firma del prefetto) e tre onorevoli: Iacopo Venier (Pdci), Franco Turigliatto (Sinistra Critica) e Sabina Siniscalchi (Rifondazione). Fuori della porta anche i collaboratori degli onorevoli. Non si può mai essere sicuri di chi entra, gli han spiegato. “Prima volta che mi succede, Neanche nei carceri di massima sicurezza” ha commentato stupito Venier.
Il Cpt infatti non è un carcere di massima sicurezza.
Nei carceri di massima sicurezza, si sa quanto tempo si dovrà trascorrere dietro le sbarre. Avvocati, familiari, associazioni di volontariato possono entrare. I detenuti hanno dei diritti. Chi vi è rinchiuso è stato giudicato da un tribunale colpevole di un qualche reato penale. C’è la possibilità di ricorrere ad altri gradi di giudizio. E c’è una legge che – perlomeno in teoria – è uguale per tutti, senza distinzione di razza o religione.
In questo, il Cpt è più vicino ad un lager. “Mi scusi, ma… perché sono qua?” ha chiesto educatamente a Venier un migrante somalo. Sono scappati in cinque dalla guerra, racconta. Due sono stati ammazzati in Libia dagli scafisti. Hanno attraversato il mare ammassati come bestie, pagando tutto quello che avevano, scarpe comprese. Sbarcati a Lampedusa, sperava che fosse finita. Ora si trova dietro le mura del Cpt di Gradisca. Separato dai suoi amici, finiti chissà dove. Pronto per essere rispedito in Somalia legato come un pacco postale. “Perché sono rinchiuso qua?” Venier scuote la testa. “Non lo so. Mi spiace…” Ci viene in mente quel brano di Primo Levi in cui un prigioniero ebreo appena arrivato in un lager si prende un calcio di fucile sui denti da un nazista. “Perché?” gli chiede. “Qui dentro non ci sono perché”.
Il giovane somalo fa parte di uno degli ultimi gruppi di profughi, uomini e donne, arrivato il 25 luglio a Gradisca direttamente da Lampedusa. Erano con loro la madre e la bambina di otto mesi, di nazionalità eritrea. Il Cir – centro italiano rifugiati - sta seguendo le loro pratiche di richiesta di asilo. Tra gli “ospiti della struttura”, come continuano a chiamarli i responsabili della cooperativa Minerva che gestisce il centro, sono anche i più fortunati. Loro non sono chiusi nel Cpt ma nel Cpa. Cioè non nel centro di Permanenza temporaneo ma nel centro di Prima accoglienza, con la possibilità di inoltrare una richiesta di asilo. Non è che cambi molto. Le sbarre sono sbarre per tutti. E così i muri di cemento. Ma gli “ospiti” del Cpa hanno la possibilità – tutta teorica – di uscire qualche ora al pomeriggio. Si intende: uscire senza soldi e pure senza vestiti pesanti. Già. “Se gli diamo i vestiti, poi fuori li vendono” mi hanno spiegato i gestori del centro.
Per entrare nel Cpt vero e proprio, bisogna attraversare altri due pesanti portoni antisommossa.
Gli interni non cambiano. Sbarre, cortili di cemento, altre sbarre, celle con brande e bagni alla turca. Cambia la gente che ci vive. Qui c’è più disperazione. Anche l’etnia è diversa. Sono tutti, o quasi tutti, di origine araba. Anche loro sono sbarcati a Lampedusa questa estate. Anche loro han fatto domanda di asilo. ma gli è stata respinta in meno di un paio di settimane. “Vengono dall’Egitto o dalla Tunisia – ha detto Ettore Rosato, sottosegretario agli interni, in occasione dell’ultimo vertice della sicurezza alla Prefettura di Gorizia - Da questi Paesi la gente non chiede asilo politico”. E come no? In Egitto e in Tunisia ci sono solo di quelle democrazie che neanche a Porto Alegre…
Grazie ad un interprete, riusciamo a ricostruire la sommossa di domenica 23 settembre, la terza nel giro di pochi giorni, che ha portato al ferimento della bambina e di altri “ospiti” del Cpt.
“Siamo disperati. Nessuno parla la nostra lingua. Non capiamo dove siamo. Gli avvocati quando capiscono che non possiamo pagare, se ne vanno e non li vediamo più. Ci fanno firmare carte che non sappiamo leggere. Domenica, giravano voci che all’indomani ci avrebbero mandato indietro. Abbiamo parlato tra noi e poi, alle 10 di sera, siamo saliti sulle sbarre, scorticandoci mani e piedi, per scappare via”. A vedere quella foresta di sbarre incurvate pare impossibile. “Pure a me. Ma li doveva vedere, dottore: si arrampicavano come scimmie” mi ha puntualizzato un rappresentante della Prefettura. Subito è arrivata la celere che, per non far torto a nessuno, ha cominciato a bombardare di lacrimogeni tutta la struttura. Finendo per asfissiare anche la bambina e le altre donne rinchiuse nelle vicine gabbie del Cpa. “Una reazione assolutamente ingiustificata – ha commentato Venier che annuncia una interrogazione parlamentare –. Una reazione insensata e violenta che ha messo a rischio la vita di tutti quelli che erano dentro. Una reazione, tra l’altro, non concordata né con la Prefettura né con gli operatori del centro che si trovavano all’interno e che stavano per convincere i pochi migranti che erano riusciti a salire sul tetto, a scendere pacificamente”. Poi i soliti racconti di botte e manganellate. “Ci hanno messo in ginocchio, ammanettati dietro le spalle dalle dieci di sera alle quattro del mattino. Anche chi era ferito. Anche io che mi ero rotto i piedi” spiega un giovanotto costretto in carrozzina . Il giorno dopo, tutti i rivoltosi, esclusi i feriti più gravi, sono stati rimpatriati con procedura urgente. “Eppure ci avevano detto che se denunciavamo gli scafisti ci avrebbero dato asilo in Italia – urla il ragazzo dai piedi rotti -. Sono bande organizzate di farabutti che si approfittano dei disgraziati come noi. Siamo pronti a raccontare tutto ma i poliziotti li abbiamo visti solo con i manganelli in mano. Perché nessuno vuole sapere la verità?” Meglio non fare domande. Meglio chiudere tutto e tutti nelle gabbie, sbarrate dietro le cancellate, dietro il muro, dietro il cortile, dietro l’altro muro senza numero civico, in via Udine, a Gradisca d’Isonzo.
Meglio non fare domande. Meglio chiudere tutto e tutti nelle gabbie, sbarrate dietro le cancellate, dietro il muro, dietro il cortile, dietro l’altro muro senza numero civico, in via Udine, a Gradisca d’Isonzo.
(Questo reportage è stato pubblicato sul primo numero di Carta on line)
Le ragioni dell'aragosta
6/09/2007CartaDice di no, Sabina, ma il suo è un film nostalgico. Tutto giocato sul “come eravamo” e sui “tempi belli di quando ancora avevamo qualcosa per cui lottare”. Anche il lieto fine – che giunge a sorpresa e che lo spettatore certo non si aspetta – non fa altro che rilevare questa malinconia di fondo: un “happy end” cinematografico che serve solo a rimarcare la differenza tra i mondi di celluloide e la cinica realtà delle cose.
Il cast de “Le ragioni dell’aragosta” pare una rimpatriata di vecchi amici che non si vedevano dai tempi del liceo. A fianco della Guzzanti troviamo Pierfrancesco Loche, Francesca Reggiani, Cinzia leone, Antonello Fassari e Stafano Masciarelli. Tutti i protagonisti di Avanzi. “Malinconia? Non direi –ha spiegato Sabina-. Però di sicuro quella di Avanzi è stata una grande stagione di televisione che non si ripeterà. E una ragione c’è. Allora la classe politica era così indaffarata ad evitare la galera che non si sognava di contrastare chi voleva fare satira in televisione. Oggi un programma come Avanzi non ce lo lascerebbero più fare. Ed infatti non si fa. Ma non c’è nostalgia nel mio film. Piuttosto parlerei di rimpianto per tutto quello di utile ed importante che potremmo fare e che non possiamo fare. Noi di Avanzi rappresentiamo l’altra faccia dell’Italia: quella sprecata”.
A voler citare il poeta Andrea Zanzotto, “Le ragioni dell’aragosta” è pervaso da un profondo senso di ‘spaesamento’ – d’ambiente ma anche etico - radicato in tutti i protagonisti, ex esponenti della sinistra degli anni ’80 ritiratisi in uno sperduto paesino della costa sarda. Come l’ex sindacalista della Fiat riconvertitosi alla pesca dopo la traumatica fine delle lotte operaie nell’azienda torinese. Sullo sfondo, una Sardegna che non è quella della ville e degli yacht, ma che certo è una terra ben diversa dal “continente” in cui questo piccolo circo di amici ritrovati ha maturato la sua esperienza politica. Diversa nei costumi ma uguale nella globalizzazione. Il Bush di turno che affama i pescatori di Su Pallosu impoverendo il mare da cui traevano le aragoste è una sorta di Capitan Findus, una multinazionale delle pesca che saccheggia il mare a bordo di sofisticati pescherecci ultra tecnologici. Spinti da una mai sopita generosità politica, ma anche per ridare un senso alla propria esistenza, la banda di amici si mette al servizio della cooperativa di pescatori sardi e prova ad allestire uno spettacolo per aggirare il vuoto mediatico (vi ricorda qualcosa?) che la multinazionale ha costruito ad arte per zittire le proteste della gente di Su Pallosu. L’entusiasmo iniziale si scontrerà ben presto con una dura realtà fatta di impotenza, muri di gomma e frustrazioni sino a porre in dubbio le stesse motivazioni che inizialmente avevano animato la battaglia “D’ora in poi lavorerò soltanto per soldi” dirà ad un certo punto Sabina. Ogni riferimento all’attuale situazione politica è ovviamente tutt’altro che casuale. “Non saprei dire se viviamo in un regime massone, fascista, sovietico, berlusconiano o che altro. Ma so che siamo ben distanti dalle democrazie che si incontrano viaggiando. In questo Paese, se qualcuno ha qualcosa da dire fuori dal coro, viene sempre stroncato e messo da parte senza pietà. Non mi illudevo che con Prodi le cose sarebbero cambiate. In Italia è ancora tutto come prima e il potere continua ad essere gestito da gente che non ha nulla da dire”.
“Le ragioni dell’aragosta” è un finto reality. Ogni personaggio interpreta se stesso e mette in scena la propria crisi, tra impotenza e paure. Loche e la Reggiani sono addirittura in scena col loro stesso nome. Cinzia Leone, in un sottile gioco tra vero e falso, racconta la sua malattia. “Fondamentalmente, questo è un film che parla delle nostre fragilità” ha commentato Cinzia leone.
Una fragilità che è anche quella di tutta la sinistra. “Cosa possiamo fare? – si chiede Sabina – L’unica risposta che posso dare è quella di affrontare le realtà e prendersi le proprie responsabilità. Lavorare, riprendere i contatti e non perdere mai la fiducia”. Oramai lo abbiamo imparato a nostre spese. Gli dei se ne vanno, ma gli arrabbiati restano sempre.
Il cast de “Le ragioni dell’aragosta” pare una rimpatriata di vecchi amici che non si vedevano dai tempi del liceo. A fianco della Guzzanti troviamo Pierfrancesco Loche, Francesca Reggiani, Cinzia leone, Antonello Fassari e Stafano Masciarelli. Tutti i protagonisti di Avanzi. “Malinconia? Non direi –ha spiegato Sabina-. Però di sicuro quella di Avanzi è stata una grande stagione di televisione che non si ripeterà. E una ragione c’è. Allora la classe politica era così indaffarata ad evitare la galera che non si sognava di contrastare chi voleva fare satira in televisione. Oggi un programma come Avanzi non ce lo lascerebbero più fare. Ed infatti non si fa. Ma non c’è nostalgia nel mio film. Piuttosto parlerei di rimpianto per tutto quello di utile ed importante che potremmo fare e che non possiamo fare. Noi di Avanzi rappresentiamo l’altra faccia dell’Italia: quella sprecata”.
A voler citare il poeta Andrea Zanzotto, “Le ragioni dell’aragosta” è pervaso da un profondo senso di ‘spaesamento’ – d’ambiente ma anche etico - radicato in tutti i protagonisti, ex esponenti della sinistra degli anni ’80 ritiratisi in uno sperduto paesino della costa sarda. Come l’ex sindacalista della Fiat riconvertitosi alla pesca dopo la traumatica fine delle lotte operaie nell’azienda torinese. Sullo sfondo, una Sardegna che non è quella della ville e degli yacht, ma che certo è una terra ben diversa dal “continente” in cui questo piccolo circo di amici ritrovati ha maturato la sua esperienza politica. Diversa nei costumi ma uguale nella globalizzazione. Il Bush di turno che affama i pescatori di Su Pallosu impoverendo il mare da cui traevano le aragoste è una sorta di Capitan Findus, una multinazionale delle pesca che saccheggia il mare a bordo di sofisticati pescherecci ultra tecnologici. Spinti da una mai sopita generosità politica, ma anche per ridare un senso alla propria esistenza, la banda di amici si mette al servizio della cooperativa di pescatori sardi e prova ad allestire uno spettacolo per aggirare il vuoto mediatico (vi ricorda qualcosa?) che la multinazionale ha costruito ad arte per zittire le proteste della gente di Su Pallosu. L’entusiasmo iniziale si scontrerà ben presto con una dura realtà fatta di impotenza, muri di gomma e frustrazioni sino a porre in dubbio le stesse motivazioni che inizialmente avevano animato la battaglia “D’ora in poi lavorerò soltanto per soldi” dirà ad un certo punto Sabina. Ogni riferimento all’attuale situazione politica è ovviamente tutt’altro che casuale. “Non saprei dire se viviamo in un regime massone, fascista, sovietico, berlusconiano o che altro. Ma so che siamo ben distanti dalle democrazie che si incontrano viaggiando. In questo Paese, se qualcuno ha qualcosa da dire fuori dal coro, viene sempre stroncato e messo da parte senza pietà. Non mi illudevo che con Prodi le cose sarebbero cambiate. In Italia è ancora tutto come prima e il potere continua ad essere gestito da gente che non ha nulla da dire”.
“Le ragioni dell’aragosta” è un finto reality. Ogni personaggio interpreta se stesso e mette in scena la propria crisi, tra impotenza e paure. Loche e la Reggiani sono addirittura in scena col loro stesso nome. Cinzia Leone, in un sottile gioco tra vero e falso, racconta la sua malattia. “Fondamentalmente, questo è un film che parla delle nostre fragilità” ha commentato Cinzia leone.
Una fragilità che è anche quella di tutta la sinistra. “Cosa possiamo fare? – si chiede Sabina – L’unica risposta che posso dare è quella di affrontare le realtà e prendersi le proprie responsabilità. Lavorare, riprendere i contatti e non perdere mai la fiducia”. Oramai lo abbiamo imparato a nostre spese. Gli dei se ne vanno, ma gli arrabbiati restano sempre.
Sabri non ha speranze
13/08/2007Carta
Lo hanno tenuto due giorni in questura per accertamenti e poi ingabbiato nel cpt di Gradisca. Neanche un avvocato ha visto. In gabbia ha cercato di parlare con qualcuno. Magari voleva spiegargli che non era una bestia. Ma al cpt ci va solo uno psicologo una volta alla settimana. E gli “ospiti” sono tanti. Così Sabri ha fatto lo sciopero della fame e della sete. Gliene fosse fregato qualcosa a qualcuno. Otto giorni dopo è cascato per terra nel cortile delle sbarre. Uno degli “ospiti” allora ha telefonato all’ambulanza. “La prossima volta – gli hanno spiegato gli operatori umanitari che gestiscono il cpt – ti denunciamo per procurato allarme e sono cazzi per te”. Non è arrivata l’ambulanza ma la questura. “Mi hanno portato su uno di quegli angoli dove non ci sono le telecamere –racconta Sabri – e sbattuto con la testa sul muro. Poi sono svenuto e mi sono ritrovato in questo letto d’ospedale con la flebo”. I ragazzi di Razzismo Stop mi hanno spiegato che Sabri ha tutte le carte in regola per chiedere un permesso di soggiorno per protezione umanitaria. La sua compagna tra l’altro è italiana, e un avvocato dell’associazione ha segue la domanda al Cir. Le speranza però sono praticamente zero. La pratica d’espulsione, per chi finisce in un cpt, corre sempre più veloce.
Nient'altro che prigioni
12/08/2007Carta
Falsa l’elegante cartellette stampa che le hostess della Minerva, la cooperativa che gestisce il centro [75 euro e 12 centesimo a migrante di contributo], mettevano nelle mani dei giornalisti con pagine in patinata che vantavano i “servizi offerti ai clienti” tra tornei di volley (non ho visto un pallone), calcetto (questo sì. Scassato ma c’era), biblioteche (non ho visto un libro), giornali (“Ne arrivano solo alcuni e saltuariamente –mi hanno spiegato i migranti-. Mai quelli che parlano dei cpt. Fuori, la gente sa come viviamo?”) E quello che non era falso era ipocrita. Il prefetto di Gorizia, Robeto De Lorenzo, il direttore del centro, Paolo Zotti, il presidente della Minerva, Adriano Ruchini, non parlano mai di detenuti o di gabbie. Scelgono eleganti perifrasi come “ospiti” o “contenitori per persone”. Il prefetto addirittura si scusa se i giornalisti troveranno “qualche cicca per terra o le carte delle merendine sui tavoli della refezione”. Per una questione di trasparenza, spiega, “abbiamo preferito farvi vedere il centro così come è tutti i giorni alle 11 di mattina”. Lo dice davanti ad un muro pitturato di fresco con il disegno di Topolino e Minni che si mandano bacini. Dietro il muro, in un angolo nascosto del corridoio, trovo l’unica scritta che gli “ospiti” sono riusciti a fare nella mattinata, dopo la ridipintura: “Siamo detenuti in carcere”. I prefetto intanto si lamenta con i giornalisti delle “basse insinuazioni” di quanti hanno ipotizzato che per far entrare i giornalisti, si attendesse prima un’operazione di restilyng. De Lorenzo si riferisce, senza nominarle, alle interrogazioni dei deputati Luana Zanella, Verdi, e Paolo Cacciari, Rifondazione, depositate dopo che la prima richiesta di ispezione avanzata dai ragazzi di Melting Pot era stata respinta. E altro che restyling! Nel cortile interno le sbarre da zoo che addirittura ingabbiavano le passeggiate, sono state tolte tre, dico tre, giorni fa. Ma questo non è restyling, spiega il prefetto, ma “un’opera di alleggerimento volta dal nuovo Governo delle cui volontà io sono solo un esecutore”.
Quello che non sono riusciti ad “alleggerire” sono i vetri antisfondamento, le sbarre che circondano tutto quel che c’è da circondare e su qualche punto nascondono anche il cielo. I gabinetti senza porte, i rasoi a lametta sostituiti da un rasoio elettrico buono per tutti per evitare i frequenti atti di autolesionismo degli “ospiti” [ospedale vuol dire uscire dal cpt], i portoni con scritto “uscita di sicurezza” senza maniglie.
Non sono riusciti soprattutto a nascondere la gente che ci tengono rinchiusa dentro. Ci hanno provato, però. Ogni giornalista era marcato a uomo da un agente in borghese della Digos e da un operatore della Minerva. Se una collega chiedeva dove era il bagno, tutti pronti: “La facciamo accompagnare”. E poi c’erano stati gli avvertimenti. Tarik, un migrante che la scorsa settimana aveva raccontato la sua storia ad un giornale locale, grazie ad una ricarica telefonica fattagli da Razzismo Stop, era stato espulso due giorni fa. Si capisce che gli “ospiti” avevano poca voglia di parlare e di farsi fotografare. Ma qua e là, a bassa voce, qualche storia emerge. Storie di gente che era venuta in Italia per sopravvivere e che l’Italia ha privato di quel che gli rimaneva. Diritti, affetti ed aspettative di vita. Storie di clandestini.
Città in svendita
4/08/2007Carta
Per accogliere il presidentissimo Usa come si merita, il Presidio permanente, i comitati autogestiti, le associazioni, i partiti della sinistra pacifista della città berica, hanno rimesso in moto il meccanismo partecipativo già rodato nella grande manifestazione di febbraio, preparandosi ad invadere pacificamente una Roma dove, ha assicurato la questura, non saranno predisposte Zone Rosse, ma solo cordoni di sicurezze, pur imponenti, attorno ai luoghi in cui transiterà il presidente Usa. Vedremo se è vero.
La sinistra pacifista torna quindi in piazza per ribadire il suo deciso «no» ad una politica di guerra permanente. E lo fa come è tradizione della sinistra: divisa. L’appello lanciato dalla senatrice di Rifondazione Lidia Menapace, e sottoscritto da altre personalità come Heidi Giuliani, Fosco Giannini e altri, per una «manifestazione unitaria contro la nefasta politica di guerra del governo Usa» non ha convinto quanti hanno sottolineato che questa «nefasta politica» è esattamente la politica estera del nostro Governo, pur eletto anche con i voti dei pacifisti. «Ci sembra ipocrita aderire ad un appello che pretende di scaricare tutte le colpe su Bush – ha commentato Cinzia Bottene, una delle voci più autorevoli del Presidio permanente – come se il nostro Governo non avesse approvato il rifinanziamento della missione in Afghanistan, non avesse aumentato le spese militari, non partecipasse programmi come lo scudo stellare. O non concedesse, come a Vicenza ma non solo, spazi agli Usa per farne basi militari, in barba alla volontà della cittadinanza».
Gli aderenti all’appello della Menapace [Rifondazione, Comunisti italiani, Fiom, movimenti vicentini vicini al Comitato più diritti e democrazia …] si ritroveranno alle ore 15 in piazza del Popolo. Per gli altri [disobbedienti, verdi –perlomeno quelli in partenza da Vicenza e dal Veneto -, vicentini vicini al Presidio Permanente …] l’appuntamento è alla stessa ora ma a piazza della Repubblica per sfilare in corteo sino a piazza Navona. A coloro che sognano una sinistra unita, non resta che augurarsi che sabato a Roma scenda tanta di quella gente per le strade da riempire tutti gli spazi tra il corteo e il sit in. «Sarebbe bello. E sarebbe bello anche che Prodi si mostrasse disponibile a fare quanto era stato promesso nel programma dell’Unione e ad ascoltare i cittadini prima di varare opere come il Mose a Venezia o la nuova base a Vicenza – commenta Olol Jackson, altra voce del presidio -. Nell’attesa, è bene ricordare che, per fortuna e a differenza dei partiti, i movimenti non soffrono la sindrome del Governo Amico».
Sindrome da cui i vicentini sono improvvisamente guariti lunedì 28 maggio, stando perlomeno ai risultati usciti dalle urne delle amministrative provinciali. Più precisamente, ai risultati «non» usciti dalle urne. Il 41,6 degli elettori se ne è rimasto a casa. Percentuale che sale quasi al 50% se si considera la sola Vicenza. Non male per una città che non faceva mancare il suo quorum neanche ai referendum dei radicali. A perdere sono stati soprattutto i partiti di governo. Il democratici praticamente sono nati già morti [-17%]. Hanno tenuto – non come numero di voti ma in percentuale - Lega e Forza Italia. Benino anche i partiti rossi e verdi [un 5% in più complessivamente], pur se l’impressione è che anche qua si sia fatta sentire la sfiducia degli astensionisti. Ma se consideriamo un significativo 5,6% di schede bianche o annullate, si può calcolare che il nuovo presidente della provincia berica, il leghista Attilio Shneck, è stato eletto con meno di un quarto del consenso degli aventi diritto. Una volta c’erano le percentuali bulgare. Questa è una percentuale di votanti da Stati Uniti. «I vicentini hanno capito che la politica non si fa più solo col voto perché solo votando non si riesce a far cambiare politica a chi comanda» taglia corto Cinzia Bottone. E lo hanno dimostrato quei trecento vicentini che domenica sono andati a contestare Prodi al festival dell’economia di Trento. Il premier è rimasto impietrito quando, appena preso la parola, ha visto gli striscioni No Dal Molin alzarsi anche tra il pubblico presente nell’elegante sala congressi di Santa Chiara. Tra cori, fischi e l’oramai classica «spignattata», gli organizzatori sono stati costretti a chiamare la battagliera Cinzia Bottone sul palco per un intervento. Un paio di minuti per ribadire duramente al presidente del consiglio che Vicenza ha scelto un futuro senza basi. Un paio di minuti che Prodi ha trascorso senza muovere un muscolo, per riprendere poi il suo discorso esattamente da dove era stato interrotto. Neanche la soddisfazione di un rimbrotto. «Non mi aspettavo una risposta –ha commentato Cinzia -. Se avesse voluto ascoltarci lo avrebbe fatto prima. Ma non cambia niente per noi. Prima o poi gli faremo intendere i nostri diritti. Domenica gli abbiamo rovinato la festa dell’economia. Sabato andiamo a rovinargli l’incontro con Bush e a ricordare a tutti che la nostra città non è in svendita».
La Vicenza pacifista ha preparato la vacanza romana con un importante convegno, giovedì sera al teatro Astra, che ha messo in chiaro come cambierà la città nel caso fosse realizzato l’aeroporto militare. Per la prima volta infatti, una commissione tecnica ha potuto esaminare il progetto esecutivo della nuova caserma e il rapporto della riunione tra le municipalizzate vicentine, la Setaf [Southern European Task Force] e la Nesco [lo studio di architettura con sede a Roma che disegna tutte le basi Usa europee. In altre parole, una «longa manus» del Pentagono, considerato che non ci crede nessuno che gli statunitensi si facciano progettare le basi da un qualunque gruppo di architetti].
«Innanzitutto va sottolineato che avere questi documentazione non è stato affatto facile – ci racconta l’ingegnere Guglielmo Verneau, uno dei coordinatori dell’equipe tecnica – E questo è contrario a tutte le regole nazionali ed europee sulla trasparenza della cosa pubblica. Un progetto va esaminato prima della sua approvazione da tutte le parti in causa, cittadinanza compresa, e non tenuto nascosto come è stato fatto in questo caso. Credo come cittadini che dovremmo imparare ad usare di più l’arma della denuncia e non solo quella dell’esposto, per farci consegnare dalle amministrazione le informazioni cui abbiamo diritto. In secondo luogo, la cosa che appare più evidente è che… ci hanno raccontato un sacco di balle!» L’aeroporto civile, intanto. Il sindaco Enrico Hullweck ha ribadito in più occasioni che la base Usa non avrebbe pregiudicato la funzionalità dell’aereoporto civile. «Ed invece se si fa la base - continua Verneau – possiamo metterci una bella croce sopra all’aeroporto civile. Il decreto legge sulla sicurezza aerea è chiarissimo, e così anche quello che determina i limiti di edificabilità attorno alle piste militari. E d’altra parte, era credibile che la più grande base aerea Usa del Mediterraneo sorgesse a soli 135 metri da una pista civile?» La seconda balla è quella dell’allargamento della Ederle per fare «solo un dormitorio in più». «Altro che allargamento. Stiamo parlando di un’area di 440 mila metri quadri a dieci chilometri dalla Ederle. Questa è una seconda base con 80 mila metri quadri coperti. E di tutto ciò le camerate dormitorio sono solo l’8%. Nessuno può sapere cosa conterrà il resto dell’edificato. Ma certo non brande». Terza balla. E bella grossa anche questa. La base Usa ai vicentini non costa niente. «Qui ci è bastato leggere la relazione presentata alle municipalizzate. Altro documento a parole pubblico e nei fatti tenuto nascosto con tutti i sistemi più o meno leciti. Soltanto tra acqua, fognatura ed energia elettrica, la nuova base consumerà l’equivalente di 30 mila abitanti –conclude l’ingegner Verneau-. Che vi devo dire? Son spreconi i militari. Tanto è tutta roba nostra che loro pagano a meno di metà prezzo, con esenzione di imposta e tariffe agevolate».
Di ritorno dagli Usa. Intervista con Cinzia Bottene
13/05/2007Carta
Come è nata l’idea del viaggio?
Dall’autunno siamo in contatto con tre associazioni pacifiste americane contrarie al progetto della nuova base a Vicenza, Peace&Justice, After Downing Street e Code Pink. Dopo il viaggio negli Stati Uniti delle parlamentari venete, le rappresentanti di Code Pink avevano avuto l’impressione che l’opinione pubblica fosse stata poco coinvolta e ci hanno proposto di andare a Washington per renderla partecipe in modo più significativo.
Dove avete alloggiato durante la vostra permanenza a Washington?
Nella sede dell’associazione Code Pink, una palazzina vicina alla sede del Congresso, in una posizione strategica per le quotidiane azioni di protesta dell’organizzazione. Code Pink è un’associazione pacifista di sole donne il cui nome è significativo: il “codice rosa” richiama i codici d’allarme usati dall’esercito americano.
Come erano organizzate le vostre giornate?
Le rappresentanti di Code Pink avevano già contattato tutte le persone che avremmo dovuto incontrare e fissato gli appuntamenti. Grazie ai loro contatti, abbiamo potuto fare degli incontri mirati, con le persone più interessate e sensibili al problema. Ogni giorno avevamo in programma diversi incontri, con i membri del Congresso, ma anche altre realtà.
Con chi avete potuto parlare al Congresso?
Abbiamo incontrato i membri delle sottocommissioni della Difesa per la costruzione delle basi militari e per il finanziamento, le due direttamente coinvolte nella questione Dal Molin. Abbiamo presieduto ai loro lavori e parlato con i presidenti, cui abbiamo consegnato del materiale sul Presidio Permanente e alcuni libri che illustravano la realtà artistica e culturale della nostra città.
Avete avuto dei contatti con i media locali?
Abbiamo fatto alcuni interventi durante delle trasmissioni radiofoniche e televisive. E’ stato uno dei momenti più importanti del nostro viaggio: l’occasione per confrontarci direttamente con l’opinione pubblica. Il riscontro che abbiamo avuto è stato immediato: abbiamo ricevuto numerose mail di persone che hanno ascoltato i nostri interventi e che ci hanno dato il loro appoggio. Mi ha molto colpita il loro senso di solidarietà, in Italia siamo troppo individualisti. Tra le persone che ho conosciuto c’era sempre un forte spirito di gruppo, che dà ai loro movimenti una potenza straordinaria.
Avete anche partecipato a delle manifestazioni di protesta?
Non abbiamo resistito ad organizzare una “spignattata” anche a Washington! Con le esponenti di Code Pink abbiamo manifestato davanti all’ambasciata italiana. Ma le pignatte non sono l’unica cosa che abbiamo esportato: spesso abbiamo avuto l’occasione di tirare fuori le bandiere No Dal Molin. Le abbiamo innalzate alla Casa Bianca, al Congresso e anche davanti ad un fast food della catena Popeyes, il cui proprietario è Ronald Spogli, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia. Un giorno, nei pressi del Congresso, con le bandiere abbiamo anche salutato il corteo che scortava l’auto del Presidente Bush.
Crede che tutto ciò sia servito?
Sicuramente abbiamo raggiunto due obiettivi: prima di tutto in America abbiamo creato un forte stupore, anche tra i politici. Se delle “cittadine qualunque” decidono di attraversare l’Oceano per protestare contro la costruzione di una nuova base militare americana in Italia, significa che il movimento che le supporta ha raggiunto un’importanza reale.
Inoltre, è stata una grande opportunità per prendere contatti con nuove realtà e consolidare quelli che già avevamo. In molti ci hanno chiesto notizie e documenti; a nostra volta, abbiamo ottenuto informazioni utili ed interessanti.
Si riferisce a qualcosa in particolare?
Abbiamo saputo che il progetto di costruzione della nuova base risale a 7 anni fa e che è stato il Governo italiano a proporre questa possibilità. Il progetto iniziale del Governo americano prevedeva solamente un ampliamento della base Ederle. Ci hanno anche detto che se il Governo italiano volesse retrocedere dalla sua proposta, sarebbero disposti a discutere per trovare un accordo.
Ora che siete tornate, quali sono le prospettive per il movimento No Dal Molin?
I ritmi sono come sempre frenetici, siamo subito tornate al lavoro per coordinare le iniziative dei diversi comitati. In particolare, stiamo pensando a come muoverci per l’arrivo del Presidente Bush a Roma, il 9 giugno: sicuramente saremo presenti. Inoltre, la Carovana della Pace arriverà a Vicenza all’inizio di giugno e anche quello sarà un momento importante per il nostro movimento. Oltre a questo, dobbiamo sempre mettere in conto le emergenze - è di poco fa la notizia dell’attacco della polizia al Presidio di Serre, a Salerno. L’appoggio ai movimenti che come noi e con noi lottano per la gestione dei beni comuni è fondamentale e imprescindibile.
L’unione fa la forza. Almeno su questo, Washington docet.
Morire di Mose e di altre devastazioni
25/04/2007Carta
La morte della Serenissima, la nuova ideologia dell’onnipotenza della tecnica, la costruzione di grandi canali rettilinei e profondi calibrati su scafi sempre più grandi, l’interrimento di ampie porzioni d’acqua salmastra e la chiusura con dighe di terra di altre, l’abbandono della manutenzione continua, l’emungumento delle acque sotterranee per l’alimentazione delle industrie, lo sversamento di acque di rifiuto sempre più velenose: tutto ciò ha pesantemente trasformato la Laguna.
Con la grande acqua alta del 1966 questa si è ribellata. Un ampio dibattito si è aperto. Due tesi si sono subito affrontate. Da una parte, chi proponeva di intervenire con interventi “hard”, con opere ingegneristiche e meccaniche di stampo otto-novecentesco. Dall’altra parte, chi proponeva di considererare la Laguna ciò che è, un ecosistema in equilibrio dinamico, e di intervenire di conseguenza con interventi mirati a ricostituire l’equilibrio perduto e i meccanismi della sua sopravvivenza.
Le leggi speciali per Venezia (1973, 1984) non scelgono nettamente tra l’uno e l’altro indirizzo, ma sono decisamente spostate verso la visione ecosistemica. Prescrivono infatti l’eliminazione del traffico petrolifero (causa principale dell’approfondimento dei canali, e quindi dell’aumento dell’immissione di acque marine in Laguna), l’apertura delle parti di Laguna chiuse all’espansione delle maree, il divieto assoluto dell’interrimento di nuove porzioni del bacino lagunare (mediante l’espansione delle terre ai suoi margini, o la costruzione o l’ampliamento di isole), la regimazione degli affluenti fluviali, il disinquinamento, la chiusura dei pozzi che attingevano alla falda, più una serie di altri interventi accuratamente definiti e indirizzati.
La legge prevedeva anche lo studio di interventi alla “bocche di porto” per la chiusura temporanea in caso di altee maree eccezionali, ma li subordinava ai tre principi che la Serenissima da secoli aveva adottato: tutti gli interventi previsti dovevano essere graduali, sperimentali, reversibili.
Tutto ciò è stato pesantemente contraddetto negli ultimi anni. È iniziata, e sta procedendo a rotta di collo, la distruzione della Laguna di Venezia.
Tutto è cominciato con il MoSE, un progetto illegittimo, devastante, inutile, costosissimo, affidato a un consorzio di imprese di costruzione. Ma al MoSE occorrerebbe dedicare un ‘intero numero di Carta. Oggi parliamo di alcuni interventi recenti, alcuni direttamente connessi al MoSE, altri espressione della stessa ideologia, dalla stessa indifferenza alla legalità: tutti interventi vietati dalle leggi vigenti, tutti interventi approvati nella generale indifferenza di un’opinione pubblica distratta e sviata.
Morire di Mose e di altre devastazione
Il Mose è come il virus dell’Hiv che aggredisce le difese immunitarie e rende l’organismo attaccabile da tutte le patologie. Per Venezia e la sua laguna, il Mose è stato il piede di porco che ha consentito alle lobby del cemento di scardinare tutta la legislazione di salvaguardia varata dopo l’alluvione del ’66. Ecco un elenco, che non ha neppure la pretesa di essere esaustivo, di grandi, costose e devastanti opere che massacreranno quella che ancora è la laguna più bella del mondo. Sempre che il Mose lasci qualcosa da massacrare.
Cinque piani di calcestruzzo sopra l’oasi
«Dove andarono a dormire, il giorno in cui fu terminata la Grande Muraglia, gli operai?» Non possiamo sapere dove andarono a dormire i muratori cinesi ricordati da Bertold Brecht, ma sappiamo dove andranno a dormire i circa 400 operai del Mose: in bei palazzoni frontemare di cemento alti 15 metri, lunghi 50 e larghi 25. Li stanno costruendo nell’isola di Pellestrina, proprio sopra le due riserve naturali di Ca’ Roman e Santa Maria del Mare. Va da sé che stiamo parlando di due veri e propri villaggi di cemento con tanto di fognature, impianti di depurazione, parcheggi e altre comodità. Qui sorgeranno anche le enormi piattaforme di calcestruzzo dove saranno assemblati i giganteschi «pezzi» in lavorazione e gli immani basamenti sommersi del Mose. A Santa Maria del Mare, il cantiere di prefabbricazione è composto da una piattaforma in cemento alta tre metri sul livello del mare che copre tutta la spiaggia e si protende per 450 metri sul mare per una larghezza di 350 metri. Inoltre. È prevista un’ulteriore struttura in avanzamento sul mare per l’alaggio dei cassoni di altri 200 metri. Non vale neppure la pena di ricordare che tutte queste devastanti realizzazioni sono irreversibili e che le aree che saranno distrutte sono protette [?] dai massimi vincoli paesaggistici e ambientali come Sic e Zps. Ricordiamo solo, tornando alla poesia del «Lettore operaio» di Brecht, che alla domanda «Chi pagherà le spese?» la risposta è facile.
Barene di plastica nel canal dei Marani
Trovato da dormire agli operai del Mose, trovate le oasi da cementare per i cantieri di prefabbricazione del Mostro, restano ancora altri problemi insoluti. I fanghi ad esempio. Dove depositare quel milione e mezzo di metri cubi [«quantitativi incrementabili» secondo la relazione del progetto] di sedimenti e caranto che saranno scavati per far spazio ai basamenti sommersi delle dighe mobili? Il progetto che sta prendendo corpo è quello di costruire alcune «barene artificiali» [un evidente ossimoro, perché le barene sono formazioni esclusivamente naturali] là dove non ce ne sono mai state. Perlomeno negli ultimi sette o ottomila anni di storia morfologica della laguna veneta. Il posto è il canal dei Marani, che collega Murano all’isola di S. Erasmo. Qualcuno potrebbe pensare che, se non ci sono mai state barene nel canal dei Marani, un motivo ci sarà. L’idrodinamica della laguna infatti non ne consente la formazione in quelle secche troppo soggette alle escursioni di marea. Queste «barene artificiali» dunque non potranno raggiungere mai il delicato equilibrio che caratterizza una barena, quella vera. Onde per cui, il progetto prevede il sostegno di queste «barene art…», ma no! Chiamiamole «porcherie» che è più corretto. Dunque, il progetto prevede il sostegno di queste «porcherie» con burghe [sorta di gabbioni] di plastica e poliestere ripiene di pietrame, accatastate in almeno quattro gradoni tutto attorno. Siccome qualcuno potrebbe obiettare che queste burghe sono quantomeno antiestetiche, il progetto prevede la loro immediata rimozione «non appena le opere saranno consolidate». Che è come dire mai, considerato che le burghe vengono costruite proprio perché nel canal dei Marani nessuna barena, neppure le «porcherie» plastificate, potranno mai raggiungere un equilibrio idrodinamico. Perlomeno sino alla prossima era glaciale.
La Grande Muraglia di rifiuti (tossici naturalmente)
La prima cosa che impara chi studia la laguna di Venezia, è che le acque alte e le altre devastazioni ambientali sono cominciate con gli interramenti [Porto Marghera, chiusura delle valli da pesca…] e i grandi scavi [canal delle Navi, canale dei Petroli…] che hanno rovesciato il delicatissimo equilibrio su cui si era sostenuta sino ai tempi dei Dogi quest’area umida unica al mondo. Eppure in laguna si continua a scavare come all’isola del Tesoro. Come se non bastasse, al danno intrinseco dello scavo, si sta aggiungendo il danno prodotto dallo smaltimento del prodotto dello scavo. Dopo il raddoppio dell’isola-scoassera [immondezzaio] delle Trezze, un progetto avanzato dal Commissario per lo Scavo dei Canali Portuali prevede la realizzazione di una vera e propria muraglia di immondizie alta 14 metri per oltre due chilometri, lungo la fascia terminale del Naviglio Brenta, sino a Fusina, a ridosso dell’abitato di Malcontenta. Qui finiranno i tre milioni di metri cubi di fanghi scavati per aumentare la profondità del canal dei Petroli e permettere anche alle superpetroliere [quelle che non ci son più!] di arrivare a Fusina. Perfetto esempio di Grande Opera inutile e dannosa. A sentire Giancarlo Zacchello, presidente dell'Autorità portuale di Venezia, che ha fortemente appoggiato il progetto di scavo, la costruzione della muraglia lungo il Brenta, comporterebbe un enorme risparmio per le casse delle Stato. Infatti, buona parte dei fanghi recuperati dal canale dei Petroli sono classificati come tossici e nocivi: conferirli in una discarica specializzata, come prevede la legislazione, costerebbe una fortuna allo Stato. E’ preferibile farne delle specie di mattonelle tossiche del Lego ed impilarle a Malcontenta, inquandrando il tutto in un più ampio progetto di «riqualificazione ambientale» dell’area. E’ vero che ognuna di queste mattonelle tossiche sarà infilata in una camicia di cemento, ma è anche vero che sopra la muraglia ci vogliono mettere fiori, panchine e magari qualche giostra per i bambini. Se il progetto non è ancora partito è solo perché le varie aziende che si contendono gli appalti si sono dichiarate guerra a furia di carte bollate. C’è sul piatto una torta mica male. Soltanto impedire che il canale si riempia di fango, dopo l’escavazione, per i primi tre anni, costerà oltre 37 milioni di euro. Ma, grazie a dio, risparmieremo sul mancato conferimento dei fanghi tossici in discarica speciale!
E dopo il petrolio, i cereali
Mentre in bacino San Marco si discute sul traffico e sul moto ondoso provocato dalle navi di crociera, l’Autorità Portuale che continua imperterrita a far riferimento al Piano della Terza Zona Industriale approvato nel ’65 [piano cancellato dalla Legge Speciale varata nel ’73] ha ripresentato in Commissione Salvaguardia, il famigerato progetto per la realizzazione di un enorme approdo per le navi cerealicole transoceaniche a porto San Leonardo, proprio in mezzo alla laguna veneta, dove già attraccano le petroliere. L’opera per il suo gigantismo è persino in contrasto con il Mose che prevede per il canale che conduce a San Leonardo una profondità massima di «soli» 14 metri. Il progetto comporta la costruzione di enormi banchine sulla gronda lagunare attrezzate per l’attracco di mostruose navi container di oltre 150 mila tonnellate di stazza. D’altra parte, in qualche posto dovranno pure scaricare tutti quei cereali geneticamente modificati prodotti dai Paesi in via di sviluppo. O vogliamo fermare il progresso?
Tutto qua?
Certo che no! L’elenco di devastazioni è ancora lungo. Ma per tirare la conclusione possiamo anche fermarci qui. Se non riusciremo a fermare questi mostri, della nostra bella laguna, così come abbiamo avuto l’immeritata fortuna di conoscerla noi che non abbiamo saputo difenderla, non resterà che quel tiepido vento di scirocco che ancora la bacia in queste luminose giornate di primavera.
Un Commissario per le Devastazioni Ambientali
L’alluvione del ’66 ha avuto il merito di portare all’attenzione del mondo il problema della conservazione di Venezia e della sua laguna. Sull’onda emotiva causata dall’avvenimento, i Governi hanno varato una serie di leggi di Salvaguardia che –pur con alterne vicende- hanno contribuito a difendere l’ecosistema lagunare sino al colpo di maglio portato dall’ultimo governo Berlusconi. Per agevolare le lobby del cemento, è stato nominato un «commissario all’emergenza socio, economica e ambientale» con poteri straordinari in grado di bypassare ogni prescrizione di legge e di norma di tutela. Per fare un esempio, il Commissario dirige il settore Via della Regione, le Istruttorie di Compatibilità Urbanistica e presiede per conto del presidente della Giunta Regionale, Giancarlo Galan, la Commissione di Salvaguardia. Un lampante esempio di controllato che si controlla da solo. Il Commissario quindi, dipende solo e direttamente dal forzista Galan, uomo che non ha fatto certo della tutela dell’ambiente il suo cavallo di battaglia politico. Ma se è vero che la Regione Veneto, tradizionale mangiatoia politica della destra, si è sempre dimostrata un’implacabile e dichiarata nemica di Venezia e della sua Laguna, va anche sottolineato che nonostante i ripetuti appelli degli ambientalisti, il governo Prodi non ha ancora risposto alla richiesta di revocare i poteri a questa figura istituzionale.
Venezia da record: la betoniera più grande d’Europa
La stanno costruendo a Santa Maria del Mare, nell’estremità settentrionale dell’isola di Pellestrina, proprio in mezzo a quello che è un Sito di Interesse Comunitario, e sarà la betoniera più grande del mondo. La sua bocca avrà il duro compito di vomitare tutti quei milioni di tonnellate di calcestruzzo necessari per costruire gli enormi cassoni di 150 metri per 30 che costituiranno la base sommersa del Mose. Sopra questi cassoni saranno realizzate le mastodontiche paratie mobili che strozzeranno le tre vie d’acqua che oggi collegano la laguna al mare Adriatico portandole la vita e garantendo quel fragile equilibrio che era rimasto inalterato nei secoli.
E intanto l’isola di Pellestrina che con i suoi settecenteschi «murazzi» costituiva la difesa dal mare della laguna di Venezia, sta cambiando volto. Le spiagge libere sono cementate per costruire avanzamenti a mare lunghi mezzo chilometro, un villaggio in cemento armato ha sfrattato quello che un tempo era una piccola colonia della Caritas. E i pescatori osservano con preoccupazione la «dozana» [corrente entrante dal porto] che non corre più come una volta e tutto quel cemento buttato a mare proprio sopra le «tegnue». Dove nessuno di loro si sarebbe mai sognato di gettare una rete, perché là il pesce va a riprodursi.