Huellas de la Memoria, le scarpe di chi non si stanca di cercare i suoi desaparecidos

humeOttantasei paia di scarpe appese ad un muro. Scarponi da contadino e stivali da uomo, ma anche mocassini e sandali da donna, "ballerine" da bambina. E sotto ciascun paio di scarpe una frase per ricordare.

Mi chiamo Letty Hidalgo e cerco mio figlio Roy. Fu fatto sparire l’11 Gennaio del 2011 in Monterrey.

Sono Teresa Vera. Cerco Minerva, mia sorella. Dove sta? La fecero sparire il 29 Aprile del 2006, in Matías Romero, Oaxaca. Mi manca

Milynali, la mia anima va seguendoti camminando fino ad incontrarti. Tua mamma Graciela Pérez.

I miei piedi si stancheranno forse di camminare, però la mia anima ed il mio cuore mai smetteranno di cercare, Pepe. Tua mamma.

Questi passi cercano Tomás Pérez Francisco. Seguiremo l’orma di nostro padre che non se ne andò e neppure si perse. Ce lo portarono via vivo.

Sono le scarpe di chi non si stanca di cercare. Sono le scarpe di chi chiede verità, di chi vuole sapere che fine hanno fatto le loro madri, i loro padri, i loro fratelli, i loro figli e le loro figlie. Vittime innocenti, desaparecidos nel nulla, con l'omertà e l'indifferenza, meglio ancora, con la complicità del Governo messicano.

L'idea di trasformare delle semplici scarpe in una denuncia del fenomeno delle sparizioni forzate in Messico è venuta allo scultore Alfredo Lopez Casanova. "Qualche tempo fa ho partecipato ad una grande marcia organizzata dalle associazioni di familiari delle vittime della sparizione forzata. Vedendo questo fiume di gente che camminava piangendo i loro cari senza speranza di una risposta da parte del governo, mi sono chiesto che cosa sarebbe rimasto di tutto questo dolore. Mi sono voltato dietro e ho visto le orme. Questa è gente che, sino a che avrà fiato, non si stancherà di camminare e di chiedere giustizia e verità. Così ho chiesto loro di darmi le scarpe che portavano ai piedi e di accompagnarle con una frase. Ne ho fatto un'esposizione artistica che ho chiamato Huellas de la Memoria (Orme della Memoria.ndr) e che, prima di tutto, vuole essere una denuncia della guerra che i messicani stanno combattendo contro il narcogoverno".
Una guerra che segue, come numero di vittime, solo a quella che si combatte in Siria. Secondo le stime tirate dalle associazioni per i diritti dell'uomo, dal 2006, anno in cui Usa e Messico hanno dichiarato la "guerra ai narcos" - guerra che ha avuto come unico risultato quella di consegnare lo Stato centroamericano ai narcotrafficanti - sono circa 30 mila i
desaparecidos. E parliamo solo di scomparsi. I morti accertati invece superano quota 100 mila. Dati aggiornati al 2016. Quest'anno il trend è in aumento. Solo di giornalisti, ne sono stati assassinati 7. L'ultimo, Javier Valdez Cárdenas, accoppato a pistolettate a Culiacan davanti alla porta del giornale di cui era direttore, aveva appena scritto in un suo editoriale:


Siamo in tanti noi giornalisti a cercare le notizie con molta cautela perché abbiamo ben chiaro che un giorno una pallottola può arrivare prima di noi. Siamo in tanti noi giornalisti ad essere indignati per il silenzio che ci vogliono imporre, per le menzogne ufficiali, dal momento che quotidianamente vediamo persone a cui sono stati rubati i sogni, donne con il bacio ardente di una granata in bocca, giovani, quasi bambini, colmi di dolore e cocaina, vediamo nelle strade sicari e madri disperate, commando armati e padri di famiglia sepolti nel fango o chiusi in sacchi neri al bordo di una strada buia. Per questo devo scrivere, per dare voce alle tante persone immerse nella disperazione e nella vana speranza...
Ho più paura del governo che dei narcos.

Una settimana prima, a morire crivellata di colpi nella sua casa di San Ferdinando, è stata Miriam Rodriguez. Aveva fondato un movimento di famiglie di
desaparecidos e non si stancava di chiedere giustizia per sua figlia, rapita e uccisa nel 2012. Per uccidere Miriam, i suoi assassini hanno aspettato il giorno della festa della mamma.
Assassini che, quando capita a loro di venir accoppati in uno scontro a fuoco con un cartello rivale, si scopre che per l'80% fanno parte della polizia o dell'esercito. Oppure provenivano dalle cosiddette Forze Speciali che l'esercito Usa arma e addestra per… combattere il narcotraffico!

Madre di un giovane scomparso è anche Ana Enamorado, portavoce del movimento Migrantes Mesoamericanos, che sta portando la mostra Huellas de la Memoria per il mondo. L'esposizione è arrivata anche nel veneziano grazie all'associazione Ya Basta Êdî Bese. In questi giorni, è esposta a Ca' Bembo, fondamenta Toffetti, Venezia, nell'area occupata dagli studenti universitari del Lisc, Liberi Saperi Critici, e ci rimarrà sino al 28 maggio. Apertura pomeridiana dalla 15 alle 20.

"Mi chiedono spesso chi siano i
desaparecidos - racconta Ana -. Sono sindacalisti, ambientalisti, gente che ha provato di ribellarsi o semplicemente che ha cercato di vivere con dignità. A sparire sono anche molti migranti che cercano di raggiungere gli Stati Uniti d'America spinti dalla fame e dalla miseria. Carne da macello, uomini e donne senza documenti, che spesso le stesse autorità messicane deputate al controllo delle migrazioni incarcerano e vendono ai narcotrafficanti. Le ragazze vengono obbligate a prostituirsi, i ragazzi venduti ai latifondisti o fatti a pezzi per il ricco mercato di organi delle cliniche Usa… Spesso vengono usati come capri espiatori. Vengono obbligati a firmare un documento in cui si auto accusano di un crimine che non hanno commesso in modo da far cadere le accuse su qualche politico o su qualche narcotrafficante. Teniamo presente che molti di loro non sanno leggere e che spesso, essendo indigeni, parlano male anche lo spagnolo. E siamo in tanti noi, padri, madri, sorelle e figli, che continuiamo a cercarli. Abbiamo le loro fotografie e ripercorriamo le loro orme che portano alla frontiera. Visitiamo le carceri e i postriboli, cerchiamo di entrare nei latifondi e nelle fabbriche dove i lavoratori sono resi schiavi, ispezioniamo i corpi senza nome che vengono estratti dalle fosse comuni… A tutti coloro che incontriamo mostriamo le loro immagini e chiediamo se, per caso, li hanno visti. E qualche volta, capita anche a noi si sparire nel nulla. Perché nel Messico dove il narcotraffico è una multinazionale che compra i giudici, assume i poliziotti e finanzia i politici sia di governo che di opposizione, certe domande non si possono fare. Ma noi non possiamo fare a meno di percorrere le orme dei nostri figli, di voler sapere che fine hanno fatto, di chiedere giustizia e verità".

Difendiamo Wirikuta. Intervista con Santos De La Cruz

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Si stava recando all'aeroporto,l'avvocato Santos De La Cruz, portavoce del popolo wixarikà, quando una macchina piena di uomini armati ha cercato di intercettarlo. La prontezza di riflessi dell'autista che lo accompagnava, che ha prontamente accelerato, ha probabilmente salvato la vita dell'avvocato De La Cruz. E questa è solo una delle tante minacce alla vita che è il legale che ha istruito le pratiche contro le compagnie minerarie, ha ricevuto nel corso della sua battaglia in difesa del Cuore Sacro del Messico: le alture di Wirikuta, uno dei luoghi più ricchi di biodiversità del mondo. Patria spirituale degli indigeni wixarikà ma anche terra ricca di argento e di altri minerali preziosi. Compagnie come la canadese First Majestic Silver Comp hanno ottenuto dal governo messicano l'autorizzazione ad aprire miniere a cielo aperto che inquinerebbero le falde acquifere e decreterebbero la morte di Wirikuta. E con Wirikuta, scomparirebbero anche i wixarikà che attraverso i pellegrinaggi in queste magiche colline tramandano la loro cultura orale. Chiamato in Europa da associazioni in difesa dei diritti dei nativi, come Salviamo Wirikuta, l'avvocato Santos de la Cruz, ha partecipato a due iniziative di Ya Basta Edi Bese nel veneziano; la prima nel centro sociale Dedalo di Mira, organizzata dall'associazione Argo, e la seconda nelle aule universitarie di San Basilio e poi nello spazio occupato di Ca' Bembo con gli studenti del Lisc.

In questa intervista con Camilla Camilli, il portavoce del popolo wixarikà fa il punto della situazione della battaglia contro le compagnie minerarie. Una battaglia che non è solo dei nativi messicani ma di tutti coloro che credono che l'acqua, la terra, l'ambiente contino più dell'argento.



Il sole nasce a Wirikuta

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Magari non avevano chiaro il significato del termine scientifico "biodiversità", ma certamente gli antichi del popolo wixarikà non avevano scelto male, quando avevano indicano in quelle colline che hanno chiamato Wirikuta il luogo dove è nato il sole. Siamo nel cuore del Messico, nello Stato federale di San Luis Potosí, a circa 360 chilometri a nord di Mexico City.
La riserva naturale di Wirikuta sorge nelle alture della Sierra de Catorce, in quella vasta area chiamata deserto del Chihuahua che dal Messico centrale sale sino a varcare il Rio Bravo ed a lambire le praterie del Texas e dell'Arizona. Un'area di 140 mila ettari quadrati che nel 2004 il governo messicano ha dichiarata Riserva Ecologica Naturale e Culturale, e che nello stesso anno è entrata a far parte dei siti Sacri Naturali dall’Unesco come Patrimonio mondiale dell’umanità.
Già. Perché questo "deserto" non è affatto… deserto. Tutto il contrario. In questo angolo di mondo si concentra la maggior biodiversità e ricchezza endemica cactacea per metro quadrato dell’intero pianeta terra.
Non è per caso quindi, che il popolo indigeno wixarikà, meglio conosciuti in Centroamerica come gli huichol, hanno visto in Wirikuta il luogo magico in cui nacque la vita. Su questa alture sacre, dimore elettive degli dei dei wixarikà, ebbe origine, in tempi remotissimi, la Creazione ed ancora oggi queste alture reggono il peso dell'equilibrio del vivente. Da Wirikuta si dipana nella nostra Terra l'eterno ciclo della natura.


Manco a dirlo, oltre che di biodiversità, queste colline sono ricche di minerali preziosi e il Governo Messicano, più incline alle argomentazione dei dollari messi in campo dalle multinazionali estrattive che alle sacre ragioni dei wixarikà, ha pensato bene di concedere ben 22 concessioni minerarie all’impresa canadese First Majestic Silver Corp. Mentre la zona più sacra della già sacra riserva di Wirikuta, l'area di Bernalejo che è la casa del cervo Kauyumari, è andata per intero ad un'altra multinazionale canadese, la West Timmins Mining.
"E’ come se volessero mettere un distributore di benzina in Piazza San Pietro a Roma o scavare sotto la Basilica della Madonna di Guadalupe a Città del Messico" ha sintetizzato Santos De La Cruz, portavoce della comunità wixárika.
"Il tipo di estrazione utilizzato dalle industrie minerarie è il sistema 'a cielo aperto' - spiega De La Cruz -. Questo sistema rimuove nel giro di qualche ora, lo strato superficiale della terra attraverso moderni scavatori e esplosioni al fine di rendere accessibile i minerali. Successivamente per separare il metallo dalla terra si utilizzano dei processi chimici, con il cianuro e il xantatos, altamente contaminanti, con delle enormi quantità di acqua. Ne consegue anche un inquinamento delle falde acquifere e lo svuotamento dei già precari bacini idrici".
Per le multinazionali minerarie, è un affare di miliardi ed una ulteriore conferma della loro ragione di essere. Esistono perché depredano, depredano perché esistono.
Per il Governo messicano - o meglio, per il Narcogoverno messicano, come lo chiamano da queste parti (e vai a capire il perché) - è un buon sistema per ottenere denaro da investire in facile consenso e voti. Senza contare l'appoggio di quelle finanziarie che oramai non dettano più i tempi solo all'economia ma anche alla politica.
Per i campesinos di San Luis Potosí, lo sfruttamento minerario che devasterà i loro campi, prosciugherà le falde acquifere e avvelenerà la loro terra, si tradurrà al massimo in qualche anno di lavoro, in condizione di sfruttamento e di semi schiavitù (che i padroni de las minas non amano avere sindacalisti tra i piedi). Poi, quando tutto l'estraibile sarà estratto, potranno prendere la via di una delle tante e sempre più numerose favellas che arricchiscono l'America latina. Parlo di quell'America che non fanno mai vedere ai turisti.
Per i wixárika, le concessioni minerarie significano la fine della comunità. Senza alternative. La lingua e la cultura huichol non si tramandano in forma scritta. Ogni giovane la impara in un lungo pellegrinaggio attraverso i luoghi sacri di Wirikuta. Un pellegrinaggio talmente importante che è stato definito una “università itinerante mesoamericana”.
"Questo pellegrinaggio - spiega il portavoce della comunità wixárika - è l’asse portante della nostra identità e il mezzo attraverso cui trasmettere alle nuove generazioni un sistema di conoscenza ancestrali basato sulla natura". Senza Wirikuta non possono esistere gli huichol. Così come senza laguna, non può sopravvivere la nostra Venezia. Perché gli huichol sono Wirikuta così come Venezia è laguna.
Ma la cosa che fa da pensare che davvero su quelle alture ci debba abitare un qualche dio è che la battaglia in difesa di Wirikuta non è ancora persa. Anzi, è tutta da combattere. La strenua resistenza degli huichol alle devastazioni minerarie, come quella di tanti Davide che non arretrano di fronte ai loro Golia, ha suscitato le simpatie di intellettuali, premi Nobel, musicisti e artisti di fama (l'elenco sarebbe davvero lungo) che hanno aderito alla campagna Salviamo Wirikuta. In rete, a questo link, trovate anche una sottoscrizione che vi invitiamo a firmare.
Ne è nato un agguerrito movimento di opinione che, grazia anche alle determinate azioni di resistenza sul campo degli huichol, è riuscito a congelare buona parte delle concessioni minerarie.
Ma la battaglia, come abbiamo detto, è ancora tutta da combattere. "Resistere" è un verbo da coniugare sempre al presente e al futuro. Mai al passato.

Parleremo della difesa di Wirikuta anche nel veneziano, con due incontri ai quali parteciperanno il portavoce della comunità Santos De La Cruz e la scrittrice e sciamana wixárika Maria Mendicino.
Gli appuntamenti sono al centro Dedalo di Mira, via Enrico Toti 35, mercoledì 3 maggio alle ore 18, e all'aula 1B San Basilio a Venezia, salizada San Basegio, giovedì 4 alle ore 17.
Se potete, partecipate e venite a discutere con noi di una lotta a difesa di un patrimonio di tradizioni e di biodiversità che non è solo degli wixárika ma di tutta l'umanità.
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Bertita Càceres nel segno della madre: "Svegliamoci, umanità"

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Porta un nome pesante, Berta Cáceres. Lo stesso nome di sua madre, uccisa con otto colpi di pistola dopo averle spezzato braccia e gambe per aver difeso la sua comunità indigena honduregna dalla devastazione procurata dalla privatizzazione dell’acqua e dalla realizzazione di una diga. Lo stesso nome di sua nonna, anch’essa attivista per i diritti civili e l’ambiente, e prima sindaca donna dell’Honduras. “E’ una tradizione di famiglia. Lo facciamo per ricordarci che le battaglie proseguono anche dopo di noi e che non ci si deve fermare. Mai”. Ho incontrato “Bertita” a Ferrara, in occasione del festival di Internazionale. Abbiamo parlato in uno di quei preziosi giardini, nascosti dentro gli eleganti palazzi rinascimentali, che si trovano solo nella città che fu di Lucrezia Borgia e che - nessuno lo crederebbe mai! - è una delle più verdi d’Italia. Ci siamo seduti, intanto che scendeva la sera, sull’antica vera di un pozzo, dopo una sua applauditissima conferenza, ed abbiamo parlato. Sorrideva come solo le ragazze del centroamerica sanno sorridere ad una persona che non hanno mai visto prima. Aveva i lunghi capelli sciolti e uno zainetto da ragazzina sulle spalle. Mi ha confessato di essere un po’ stanca. Il Cica (Collettivo Italia Centro America) che l’ha portata in Europa, le ha organizzato un vero e proprio tour de force tra incontri, partecipazioni a programmi radio e interviste. Io le ho detto che non volevo trattenerla ancora ma lei non ha voluto sentir ragioni. Bisogna fare quello che va fatto, mi ha spiegato. A tutti i costi. Stanchezza o no. E’ venuta in Europa p
er denunciare quanto succede in Honduras e non voleva, non poteva perdere nessuna occasione. C’è gente che non molla mai. Gente che fa la storia e le rivoluzioni. E “Bertita”, come sua madre Berta, come sua nonna Berta, è una di queste.
Prima di accendere il registratore - gesto che continuo a considerare invadente - le ho chiesto di lei, di come vive. Mi ha raccontato che è tornata dall’Argentina dove sua madre l’aveva spedita per metterla al sicuro, quando aveva capito che il suo nome era in cima alla lista degli avversari da eliminare, ed era tornata in comunità per portare avanti la battaglia contro la diga del Proyecto Hidroeléctrico Agua Zarca portato avanti dalla Desa, Desarrollo Energético Sociedad Anónima. Per gli indigeni non ci sono sbocchi scolastici in Honduras, così Berta sta seguendo una scuola rurale messicana per diventare maestra. Sì, avete capito bene. Una di quelle scuole rurali come quella di Ayotzinapa. Mi viene da pensare che quando i militari messicani le definiscono “nidi di guerriglieri” e “covi di bolscevichi”, ci hanno pure ragione!

Parlami da tua madre. Non è la sola persona che è stata uccisa in Honduras per aver difeso il diritto all’esistenza degli indigeni. Eppure solo lei è riuscita a superare i confini del Centroamerica e a far sentire la sua voce alla comunità internazionale. Cosa aveva di più?

Hai ragione. Molte persone sono morte nella battaglia contro le concessioni idriche e le attività minerarie nel mio Paese, prima di mia madre e anche dopo. Mia madre era una voce delle tante ma era una voce forte all’interno dei movimenti e capace di farsi sentire anche nel Governo. Non è un caso che sia stata messa a processo due volte e anche messa in prigione con l’accusa di aver danneggiato l’immagine della Desa. Un… “crimine” per il quale nel mio paese si va in galera! Lei contava molto sul sostegno della comunità internazionale per le sue, per le nostre battaglie. Pensava che questo fosse l’unico modo per superare quel muro di omertà costruito dall’alleanza tra il capitale e la politica, tra le multinazionali e il Governo.

Quando ha vinto il premio Goldman dedicato agli ambientalisti in prima linea, tua madre ha pronunciato una frase che mi ha colpito molto: “Despertemos, humanidad”. Svegliamoci, umanità. Non ha detto “svegliatevi” ma “svegliamoci”. Eppure lei, “sveglia” lo era da un pezzo!

Lei era così. Si sentiva fortemente parte di una comunità. Che era, per prima cosa, quella degli indigeni lenca, ovviamente, ma, proprio in quando indigena si sentiva anche parte di una comunità più grande che è quella dell’intera popolazione della terra. Aveva subito molte discriminazioni, nella sua vita. In quanto donna, in quanto indigena. Per questo lottava per un mondo che non escludesse nessuno e che rispettasse la natura e i beni che sono di tutti.

Per la polizia, l’assassinio di tua madre è stata una rapina finita male. I presunti criminali sono stati arrestati. Ma tu continui a chiedere giustizia.

L’omicidio di mia madre è stato un omicidio politico. La criminalità comune non c’entra nulla. Lo si evince anche dalle modalità con il quale è stato compiuto. Noi continuiamo a chiedere giustizia perché non ci basta, non ci può bastare l’arresto degli esecutori. Vogliamo che venga riconosciuta e punita anche la paternità intellettuale dell’omicidio. Vogliamo che sia smascherata la cultura criminale a tutti i livelli, sia quello del Governo che quello delle banche e delle finanziarie, che è la vera mandante degli assassini. Questa è la sola giustizia che vogliamo per quello che altro non è che un crimine di Stato.

Cosa possiamo fare per contribuire alla tua battaglia?
Qui in Italia ho conosciuti tante persone che, come in Honduras, combattono giornalmente per difendere la terra, l’acqua, i boschi e le montagne da un capitalismo sempre più aggressivo. Continuate in quello che state facendo, ciascuno con la propria creatività e i propri metodi, tenendo conto che facciamo tutti parte della stessa comunità, in Europa come in America. E che combattiamo tutti la stessa battaglia. Mia madre era la voce di un popolo ma parlava a tutta l’umanità. Chiedeva un mondo aperto, più giusto e migliore. Un mondo dove tutti, e non soltanto una parte della popolazione, potessero vivere con dignità. Per questo gridava “Despertemos, humanidad”. E noi non ci fermeremo sino a quando non lo avremo raggiunto, questo nuovo mondo.

La linea verde dietro il muro. Così Israele ruba l'acqua della Palestina

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Immaginate un extraterrestre. Immaginate che attraversi gli spazi siderali sulla sua lucente astronave per atterrare nella spianata del Tempio, scansando contraeree, missili e mitragliate varie da parte dell’esercito meglio armato del mondo. Immaginate che il nostro alieno esca dalla sua astronave e se ne vada a spasso per Gerusalemme chiedendo alla gente: “Scusate, come faccio a distinguere i palestinesi dagli israeliani, considerato che per me siete tutti terrestri: tutti ugualmente brutti, privi di antenne e tentacoli?”
Ebbene, voi cosa rispondereste?
Amira Hass, giornalista e scrittrice ebrea ed israeliana che ha scelto di vivere a Ramallah per raccontare al mondo quanto avviene in Palestina, non ha dubbi. “Gli risponderei di guardare i tetti delle case per controllare se ci sono serbatoi. E poi il verde. Gli direi di osservare se attorno alle case c’è del verde”.

Abbiamo incontrato Amira a Venezia, in una sala messa a disposizione dalla municipalità del centro storico perché l’attuale sindaco della città lagunare, Luigi “Gigio” Brugnaro, uno di quelli che non è né di destra né di sinistra, non vuol sentire discorsi che non abbiano dentro la parola “schei”. O, al più, il termine “sicurezza”. Appuntamento lunedì sera, 19 settembre, a 33 anni esatti dal massacro di Sabra e Chatila, nella grande sala San Leonardo, a tre passi dall’antico Ghetto ebraico che ha dato il nome a tutti i ghetti del mondo. A differenza del loro sindaco, i veneziani hanno accolto Amira Haaz regalandole una grande partecipazione di pubblico: perlomeno duecento persone presenti. E dopo l’incontro, organizzato dal coordinamento cittadino per il Medio Oriente e dal forum per l’Acqua, Amira si è intrattenuta con i giornalisti e con le attiviste e gli attivisti di Ya Basta che stanno organizzando una carovana verso l’altra sponda del mediterraneo, così come hanno già fatto per il Kurdistan, il Messico zapatista e tante altre realtà in lotta.


“Sto pensando di scrivere un libro per descrivere quanto accade in Palestina come se mi rivolgessi ad un alieno venuto dallo spazio che ignora tutto quanto accaduto sulla terra. E comincerei il mio racconto partendo dall’acqua. All’extraterrestre che vuole imparare a distinguere israeliani e palestinesi suggerirei di guardare sopra i tetti delle case per vedere se ci sono le grandi taniche nere che fungono da serbatoio per l’acqua. Se ci sono, la casa è di una famiglia palestinese. Nelle case degli israeliani non servono, perché l’acqua esce regolarmente dal rubinetto. Io, che vivo a Ramallah, in Cisgiordania, so bene che perlomeno due o tre volte alla settimana il rifornimento idrico viene interrotto. E allora bisogna ricorrere ai serbatoi. E bisogna stare sempre attenti agli sprechi. Una casa palestinese non può permettersi di avere vegetazione intorno. Se vedete del verde attorno ad una abitazione, là vive un israeliano”.

Un problema dovuto alla scarsità di materia prima oppure una imposizione politica?
“C’è un tetto massimo alla quantità di acqua che può essere distribuita ai palestinesi. E questo limite lo stabilisce ovviamente Israele. All’autorità palestinese spetta solo il compito di decidere come, quando e dove distribuire l’acqua concessa. Ma la coperta è sempre corta per le lunghe e torride estati di Ramallah. Non ne possiamo certo sprecare per l’orto o il giardinaggio. Al contrario, agli israeliani l’acqua non manca mai. Non è soltanto una cortina di cemento armato che ci separa. Se guardate oltre il muro, verso Israele, si snoda anche una lunga linea verde”.

Eppure prima dell’occupazione, la Palestina era descritta come una terra fertile e verde…
“lo è ancora, ma solo per gli israeliani. E questo perché l’acqua la rubano ai palestinesi. Nella sola valle del Giordano, che era il granaio della Palestina, ci sono 28 pozzi che estraggono 30 milioni di metri cubi d’acqua per soddisfare i bisogni di appena 10 mila coloni. Ai 2 milioni e 400 mila palestinesi, spettano solo 109 milioni di metri cubi. Appena quattro volte quanto concesso ai soli coloni. Quello che era un giardino si è trasformato in un deserto. Capita di vedere tribù beduine accampate sotto le tubature idriche alle quali non hanno accesso, costrette a recarsi nelle colonie per acquistare l’acqua che gli viene rivenduta ad un prezzo maggiorato 3 o 4 volte. Prima del ’67, i palestinesi avevano pozzi, condutture, impianti di depurazione e un sistema idrico completo. Israele si è preso tutto. Oggi non c’è neppure l’acqua per coltivare un piccolo campo. L’agricoltura è morta, la gente sopravvive a stento ed è costretta a comperare gli alimenti dai coloni. Molti hanno rinunciato a coltivare la terra e cercano lavoro come operai. Ma, per lo più, rimangono disoccupati”.

Non è possibile scavare altri pozzi?
“Non è che non sia possibile, è che non è consentito. E questo è un effetto degli accordi di Oslo. Accordi che dovevano essere provvisori ma che sono stati fatti diventare definitivi. I palestinesi non possono scavare pozzi di loro iniziativa. O meglio. Possono scavarli, ma solo fino a 200 metri, mentre Israele non ha limiti di sorta, e soltanto in alcune aree ad ovest del Paese. Proprio dove acqua non ce n’è o ce n’è poca, perché in quella zona le falde sono impoverite dai prelievi indiscriminati compiuti dagli israeliani. Sempre per gli accordi di Oslo, ai palestinesi non è concesso sistemare tubature per portare l’acqua nei posti dove non c’è. Per realizzare un sistema idrico, c’è bisogno del permesso del Governo israeliano che, come è da prevedersi, non lo concede mai. E non crediamo che tutta quest’acqua che rubano sia necessaria alla sopravvivenza di Israele! Questo furto, nella loro logica, è solo uno strumento politico per frammentare i palestinesi ed indebolire l’autorità palestinese, i cui rappresentanti sono ricattabili e sempre costretti a mendicare qualche goccia d’acqua in più per sopravvivere”.

Questa emergenza idrica…
“Non la chiamerei emergenza, considerato che è così da 50 anni. Piuttosto: scandalo”.

Volevo chiedere, considerato che la propaganda israeliana fa un gran vantarsi di riuscire a far fiorire i deserti, se le Colonie non hanno mai sofferto di mancanza di approvvigionamenti idrici.
“Ogni anno, come saprà, io scrivo sul tema dell’acqua. E ogni volta i coloni mi contestano arrabbiatissimi dicendo che anche loro non hanno acqua e che sono tutti nella stessa barca. Così, per documentarmi come giornalista, ogni volta pongo domande scomode al governo israeliano e mi reco in visita alle colonie. Ed ogni volta mi tocca sorbirmi la stessa messa in scena. Mi assicurano che l’acqua manca a tutti, che i palestinesi la rubano, che i palestinesi mentono affermando di essere più di quelli che sono per avere più acqua. Son tutte bugie. I numeri dei palestinesi presenti sono quelli stabiliti nei conteggi della Banca Mondiale che, su queste cose, non mente. E’ vero che alcuni palestinesi rubano l’acqua, allacciandosi abusivamente alle condutture, e l’autorità ha posto multe molto salate per chi lo fa, ma l’acqua che rubano, casomai, è solo quella che Israele ha già venduto ai palestinesi. D’altronde, basta guardare il verde. Tutta quell’acqua che i coloni possono permettersi di adoperare per l’agricoltura e che, tra l’altro, non viene neppure conteggiata dal Governo israeliano come rifornimento idrico alla colonia. La verità sta nel paradosso che non solo Israele ruba l’acqua ai palestinesi, ma poi li costringe pure ad acquistare il maltolto”.

Quindi Israele mente anche in tema di acqua?
“Di più. Israele mente soprattutto sulla questione dell’acqua. Più ancora che nelle detenzioni di prigionieri politici, negli abusi ai check point, negli assassini di oppositori… la questione è che sul tema dell’acqua non possono tirare in ballo la scusa della sicurezza. Qui non si sono statistiche che possono essere manipolate. La faccenda è chiara a tutti coloro che abbiano nel cuore un ideale di giustizia. Stanno compiendo un vero e proprio furto che, oltre a tutto, viola tutti gli accordi internazionali. Perché un Paese occupante non può rubare le risorse ad un Paese occupato. Eppure Israele lo fa da 50 anni nell’indifferenza di tutti. Parlando di acqua, parliamo un modo chiaro, e senza equivoci o scusanti, di come Israele voglia risolvere il ‘problema’ della presenza palestinese”.

Abbiamo detto della Cisgiordania. Come è la situazione a Gaza?
“A Gaza, c’è una falda acquifera che corre lungo la costa. Ma cominciamo con dei numeri. Oggi nella Striscia ci sono circa un milione e 800 mila palestinesi. Nel ’47 ce n’erano 70 mila, nel ’51, 270 mila. L’acqua che bastava una volta ora non può più bastare. Per soddisfare i bisogni della gente, la falda è stata impoverita, estraendo più acqua di quanta se ne riformasse. Il risultato è che si è mescolata acqua salata. Oggi, tutti i bambini di Gaza sanno che non si deve bere quello che esce dal rubinetto. E non soltanto, anche delle acque reflue sono entrate in falda, con la conseguenza che l’acqua è oleosa, oltre che salata, e non va bene neppure per lavarsi. Certo si potrebbe convogliare qui l’acqua della Cisgiordania, che è pulita, con una tubatura, ma gli accordi di Oslo hanno deciso che Gaza e la West Bank sono entità separate ed Israele vieta qualsiasi collegamento tra le due realtà”.

Lei parla di furto, ma forse per descrivere meglio la faccenda bisognerebbe parlare di rapina a mano armata con tanto di truffa finale. E con l’aggiunta della benedizione da parte della comunità internazionale.
“Già. Io ho vissuto alcuni anni a Salfit, in Cisgiordania. La città galleggia letteralmente sopra una falda acquifera cui si potrebbe accedere scavando solo per pochi metri di profondità. Un tempo, era una città verde, ricca di giardini, di orti e di coltivazioni. Oggi è una delle città più penalizzate da punto di vista idrico, forse per il ruolo che ha avuto durante la prima intifada. Salfit la Libera, la chiamano i palestinesi. I suoi cittadini vivono sopra un lago. Eppure, per molti mesi all’anno, dal rubinetto non esce una goccia d’acqua. E quella che esce non ti permette neppure di coltivare un cespuglio di menta. L’acqua viene pompata via dai pozzi israeliani. E poi, proprio dagli israeliani, la gente di Palestina è costretta a comperarla, e al loro prezzo, se vuole vivere”.

Le miniere aperte dell'America Latina

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C'era una volta zio Paperone. Con lo zaino in spalla ed un piccone in mano, il futuro fantastiliardario risaliva le innevate distese del Klondike alla ricerca del suo filone d'oro, confidando solo nelle sue forze papere e nel suo Decino portafortuna. Erano i tempi del capitalismo che fu, quando il guadagno realizzato da una concessione mineraria era proporzionato solo all'estratto. Con l'avvento dell'economia finanziaria, l'estrattivismo è entrato in borsa rivelandosi la più potente benzina per le speculazioni finanziarie. Le corporation minerarie oggi, sono tutte quotate nei mercati finanziari e il valore delle loro azioni non dipende da quanto effettivamente estratto dalle loro miniere ma da complessi calcoli speculativi su ricavi futuri che consentono ai loro investitori il perverso gioco di fare "soldi dai soldi". E' un gioco di scatole cinesi globale, dove gli Stati nazionali (e pure i loro governi) sono tenuti ai margini. Quando una legge nazionale pone restrizioni alle speculazioni, il capitale si sposta semplicemente su un'altra borsa. Proprio come è accaduto per il Canada, negli ultimi anni del secolo scorso, quando gli Usa imposero una serie di limiti speculativi sulle attività minerarie e le corporation risposero trasferendo le loro sedi legali a Toronto e continuando, come prima, ad acquistare concessioni speculative in tutto il mondo. Una indagine pubblicata su Le Monde Diplomatique ha dimostrato che, oggi, oltre tre quarti delle multinazionali minerarie del mondo ha sede legale in Canada, e il 60 per cento di queste fa riferimento alla borsa di Toronto, la Toronto Stock Exchange. "Il Canada si presenta come attento alle questioni ambientali a casa propria - scrive Le Monde - salvo poi offrire comodo approdo alle company che non esitano a perpetrare abusi, quando non crimini".
Le bolle economiche create dalla speculazione finanziaria hanno preso il posto delle pepite d'oro faticosamente raccolte nelle gelate sponde dello Yukon. Un capitalista old style come il buon Paperon De Paperoni, avrebbe presi tutti a picconate in testa. Questo processo, pur se virtuale, comporta però che, nella realtà, la miniera deve sempre e comunque continuare a produrre, anche quando, secondo i dettami del vecchio capitalismo, il gioco non varrebbe più la candela. Vuoi perché i costi gestionali o ambientali sono eccessivi, vuoi perché i governi impongono troppe tasse. Ecco perché le corporation dell'estrattivismo hanno assoluto bisogno di governi amici che detassino le attività minerarie, smagriscano le carte costituzionali troppo protettive dei beni comuni - è un caso esemplare il Messico dove assistiamo ad un lento ma continuo disgregamento della costituzione nata dalla rivoluzione zapatista -, tacciano sui danni ambientali e, come se non bastasse, siano pronti a soffocare qualsiasi soffio di rivolta tra le popolazioni locali. Governi non soltanto complici. Governi anche malavitosi. La corruzione è un elemento fondamentale per l'ottenimento di concessioni minerarie, considerando che l'attività estrattiva è, per dirla come va detta, assolutamente incompatibile con la tutela dell'ambiente e la difesa dei beni comuni. Pensiamo solo all'acqua che viene avvelenata col mercurio perché riveli eventuali tracce d'oro. Oppure allo spreco che si fa di questa risorsa durante la lavorazione dei metalli, in zone per lo più, dove l'approvvigionamento idrico è sempre critico. Solo otto mesi fa, crollavano due gigantesche dighe minerarie di contenimento a Bento Rodrigues in Brasile. 62 milioni di litri di acqua e fango tossico spazzavano via una intera regione. E' stato uno dei più grandi disastri ambientali della storia dell'umanità, che ha causato danni impossibili da quantificare e un numero di morti ancora da accertare. Eppure, oggi, sono in pochi a ricordarselo, nonostante i fanghi tossici continuino ad inquinare aree sempre più vaste del Paese. Le indagini hanno accertato che la Samarco, per risparmiare sui costi di gestione, aveva tralasciato le più elementari norme di sicurezza e aveva fatto pressione sulle autorità locali per mettere a tacere i rapporti dei tecnici che denunciavano la pericolosità delle dighe. L'aggiramento delle leggi - se non addirittura la loro modifica legale - è una prassi costante e necessaria dell'attività estrattiva, senza la quale non potrebbe prosperare. In alcuni Paesi dell'America latina, in particolare in quelli governati dalla destra, l'illegalità viene tollerata se non addirittura favorita dalle autorità costituite. Nella migliore delle ipotesi, polizia ed amministrazioni preferiscono seguire la politica dello struzzo e fingono di non vedere una quantità enorme di miniere a cielo aperto. Miniere clandestine che non esistono ufficialmente ma che comunque ottengono le loro brave quotazioni alla Toronto Stock Exchange! Un quinto dell'oro estratto dalle montagne del Perù, Paese che con le sue 160 tonnellate annue si pone al quinto posto della classifica mondiale, ha questa provenienza illecita. Al prezzo attuale di mercato, un giro di affari che sfiora il miliardo di euro all'anno. A gestire le vie del commercio illegale sono organizzazioni di stampo mafioso legate a doppio filo con il governo e con le multinazionali estrattive. E' appena il caso di sottolineare che dietro a queste miniere di nobile metallo - anzi, chiamiamolo meglio "oro sucio" (oro sporco), come lo appellano a queste latitudini - si trovano devastazioni ambientali, violenze, sfruttamento minorile, miseria, assassini di oppositori, genocidi di intere comunità indigene, corruzione politica. In altre parole, lo scenario perfetto per lo "sviluppo" di una sana economia neo liberista. Con orgoglio tutto renziano, possiamo affermare che dietro tutto questo c'è anche un po' di Italia. Visitando il Cile, lo scorso ottobre, il nostro premier, Matteo Renzi, ha elogiato il lavoro delle aziende italiane che operano nel continente come la Astaldi che passa dalla realizzazione di ospedali (privati) allo sfruttamento minerario, la Atlantia che sta realizzando le autostrade più contestate del Paese, e l'Enel che fracassa qua e là l'Amazzonia in cerca di petrolio di bassa qualità. "L'Italia qui è rispettata per il carico di civiltà che rappresenta e per la voglia di futuro che esprime" ha dichiarato il premier. "I presidenti delle società mineraria - mi disse tempo fa un giornalista messicano - vanno a pranzo col ministro ed a cena col mafioso. L'unica differenza tra l'estrattivismo e il narcotraffico è che il secondo non è quotato in borsa. Perlomeno direttamente!" Ad opporsi a questo malaffare imperante non sono certo polizie ed eserciti ma i popoli indigeni che si organizzano in autonomie, i contadini che occupano e lavorano le terre saccheggiate dalle multinazionali, i lavoratori che si organizzano in sindacati autonomi, i cittadini che difendono i quartieri, che chiedono istruzione statale, trasporti accessibili e una sanità pubblica e aperta a tutti. Sono loro i veri e gli unici nemici del neo liberismo. Una galassia di movimenti dal basso che, pur con le loro differenze e contraddizioni, sono il vero sangue che scorre nelle vene aperte - per citare Eduardo Galeano - dell'America Latina. La crisi dei Governi di sinistra, dall'ecuadoriano Correa al venezuelano Maduro, va imputata alla loro incapacità di rovesciare il modello socio economico imperante basato su una economia predatoria. Se in molti casi hanno migliorato le condizioni del loro popolo creando scuole e strutture sanitarie prima assenti, dall'altro hanno continuato a marciare sui binari dell'estrattivismo nel vano tentativo di gestire e umanizzare il capitalismo, ma finendo solo per trasformarsi da rivoluzionari a burattini delle corporation minerarie. In poche legislazioni, la loro carica innovativa si è esaurita, schiacciata dal peso di una economia che si nutre di disastri e di povertà, e perdendo credibilità di fronte ai loro elettori. Si spiega così la lenta ma decisa marcia verso l'autoritarismo in cui si sono incamminate o si stanno incamminando tutte le democrazie dell'America Latina. Il nuovo fascismo che avanza non veste la logora divisa delle vecchie Giunte Militari ma non è per questo meno reazionario e sanguinoso. Per imporre il suo potere si fa scudo della stessa democrazia. Il controllo dei giornali e dei media assieme all'imposizione di una giustizia sfacciatamente politica (vedi il caso della presidente brasiliana Dilma Rousseff) sono le armi con le quali i nuovi caudillos fanno piazza pulita degli oppositori, presentandosi poi alle folle come dei politici innovatori, telegenicamente trasgressivi, capaci di imbonire col sorriso sulle labbra fiabe su fiabe, mentendo smaccatamente, smerciando interessi privati come operazioni di pubblica utilità. Una democrazia recitativa che, a ben vedere, siamo stati noi italiani a lanciare nel mondo sulle ali del berlusconismo. Uno stile di cui l'argentino Mauricio Macri è un indiscusso maestro, considerando che lo stesso giorno in cui è uscita la notizia che lui e tutto il suo entourage erano implicati nello scandalo dei Panama Papers, è apparso in tutte le televisioni del Paese per dichiarare: "Questo governo combatterà la corruzione". Il Sudamerica - e con lui tutta la terra - è sull'orlo di un baratro che, va ricordato, non è solo politico o sociale. Non rischiamo solo un semplice ritorno del fascismo. Stavolta, in gioco c'è la stessa sopravvivenza della specie umana. L'economia estrattiva è la causa principale dei cambiamenti climatici e non ci sono formule per convertire in green le speculazioni finanziarie cui fa da motore. Il fascismo poi, è merda solo in senso figurato e, di per sé, non è materiale eco compatibile. Se vogliamo che la terra di domani sia ancora abitabile dall'uomo, non possiamo più cedergli spazio. L'Altro Mondo Possibile, per cui si battono i movimenti latinoamericani, dovrà in primo luogo slegarsi da questa economia speculativa che si nutre di disastri e di guerre. Non ci sono riusciti i governi di sinistra perché questo è il programma di una rivoluzione e non di un governo. E non sono mai i governi che fanno le rivoluzioni. Sono i popoli.

Una diga per mettere fine al Kurdistan

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Si chiama Güneydoğu Anadolu Projesi (Gup), traducibile con “Progetto per l’Anatolia Sud Occidentale”, e viene spacciato come un piano di proporzioni bibliche da 32 miliardi di dollari per trasformare gli alti bacini dei fiumi Tigri ed Eufrate con la realizzazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche.
Pensato da Kemal Ataturk, il fondatore dell’attuale Turchia, come un grimaldello per rifondare lo Stato in chiave moderna, spingendolo verso una industrializzazione forzata, nelle mani del presidentissimo Recep Tayyip Erdogan, il Gup è stato trasformato in un vero e proprio strumento di genocidio per sommergere sotto tonnellate d’acqua le città, i villaggi, i luoghi di resistenza e di memoria di quei curdi che continuano a resistere alla dittatura.
La fase attuativa del progetto è cominciata a cavallo degli anni ’80 e ’90, con la costruzione di due di queste dighe: la Karayak e la Ataturk. Per l’alto costo dell’operazione e per i risultati raggiunti - la Turchia non avrebbe necessità di altra energia -, sembrava che il Gup fosse arrivato alla sua conclusione. Era chiaro a tutti gli investitori che il gioco non valeva la candela. Il Governo turco si trovò senza più finanziatori, con oltre 90 mila sfollati da ricollocare e bersagliato dalle critiche degli ambientalisti di tutto il mondo per la distruzione di inestimabili tesori archeologici di origine persiana, romana, greca ed hittita. La censura della Comunità Europea - per quanto tardiva - favorì l’accantonamento del Gup che fu ultimato solo per un decimo scarso di quanto previsto inizialmente.
Con l’ascesa al potere di Erdogan, il Gup ha ripreso vita ma in funzione decisamente anti curda. L’Anatolia Sud Occidentale, cui fa riferimento il progetto, altro è che quel Kurdistan. Termine geografico che, a queste latitudini, non puoi neppure pronunciare a meno che tu non voglia finire dritto in galera, anche se sei avvocato, anche se sei giornalista, anche - o meglio, soprattutto se, - sei deputato.

E così sono ripresi i lavori di realizzazione di altre dighe come quella di Birecik che ha sommerso l’antica città di Zeugma. Lavori che hanno portato vantaggi pressoché nulli all’economia turca ma che, in compenso, hanno causato perdite irreparabili al patrimonio artistico che, ricordiamolo, non appartiene mai ad una solo Paese ma all’intera umanità.
La prossima vittima, con la ventilata realizzazione della diga di Ilisu, sarà Hasankeyf, antichissima cittadine con duemila abitanti che tutti gli archeologi sono concordi nel giudicare uno dei siti più promettenti al mondo per studiare i primi insediamenti umani alle radici della preistoria. Una città dove la storia si respira ad ogni passo e dove ad ogni passo si possono ammirare resti assiri, urartiani, persiani, romani, bizantini, omayyadi, abassidi, artuquidi… Tutto questo sta per scomparire ad opera di un uomo che l’Unione Europea ha eletto a suo alleato.
Il totale disprezzo per Erdogan nei confronti di tutti i reperti che non siano conducibili a quella disgrazia storica di cui lui si crede erede che è stato l’Impero Ottomano (che ha fatto per il Medio Oriente quello che la colonizzazione europea ha fatto per l’Africa) non è la sola chiave interpretativa per giustificare la diga di Ilisu.
Secondo gli attivisti, nelle mani di Erdogan, il Gup va inserito di una più vasta operazione che mira a genocidiare il popolo curdo. Non solo sommergendo i luoghi della sua memoria storica ma anche di abbattendo le principali roccaforti dove si nasconde la resistenza del Pkk, sommergendo i villaggi che sostengono i guerriglieri e quei sentieri di montagna dove i combattenti curdi si sono dimostrati invincibili. “I migliori amici di un curdo - recita un proverbio - sono le sue montagne”.
E proprio queste, sono le montagne che Erdogan vuole sommergere.
Il tutto, sotto l’ottica di una trasformazione radicale del territorio che prevede l’allontanamento dei pastori curdi per fare spazio ad una nuova economia fondata sull’agricoltura, affidando le nuove terre a quei contadini turchi di bassa estrazione sociale che sono la colonna vertebrale dell’elettorato di Erdogan. E magari, trasferire sulle sponde dei nuovi bacini idrici, anche qualche migliaio di quei profughi siriani per paura dei quali l’Unione Europea ha letteralmente venduto l’anima al diavolo.
Un vero e proprio “patto col diavolo”, questo che l’Europa ha sottoscritto con Erdogan, in virtù del quale i lavori alla diga di Ilsu sono stati recentemente ripresi, dopo l’abbandono a metà degli anni ’90 per le incursioni del Pkk, l’opposizione della popolazione che si era rifiutata di collaborare in qualsiasi modo alla realizzazione dell’opera e le determinate prese di posizione di associazioni ambientaliste e, all’epoca, pure di tanti Governi esteri.
Adesso le cose sono cambiate e l’Europa vede in Erdogan solo un alleato disposto a far barriera contro quelle “invasioni di profughi” che, numeri alla mano, non hanno nessun riscontro reale ma che le destre sanno cavalcare così bene. Un prezioso alleato per i cui servigi val la pena di chiudere un occhio ad ogni azione discutibile.
E così Erdogan può impunemente arrestare giornalisti ed oppositori, massacrare popolazioni, fare affari con gli stessi integralisti che afferma di voler contrastare.
E, infine, anche “atlantidizzare” una intera regione piena di storia, arte, cultura e di combattenti che resistono in nome di quella stessa libertà e quella stessa democrazia che dovrebbero essere anche le bandiere di una Europa dei popoli e non delle banche.

Messico - Continuano le mobilitazioni contro la Riforma Educativa

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Dieci anni dopo la battaglia di Oaxaca, la rivolta dei maestri torna ad infiammare le strade del Messico.
Ad un Governo che risponde con sanguinose cariche militari e minaccia licenziamenti in massa, los Trabajadores de la Educación rilanciano la mobilitazione e da oltre un mese continuano a bloccare strade, presidiare piazze ed occupare istituzioni pubbliche nei municipi del Chiapas, del Michoacán, del Guerrero, fino allo stesso Stato di Oaxaca. Più di 24 mila nel Chiapas, 80mila nella sola Oaxaca, secondo fonti sindacali, i maestri che non hanno esitato ad alzare barricate, letteralmente, contro la riforma della scuola varata dal governo neoliberale del presidente Enrique Peña Nieto.
A scatenare la protesta è stata l’istituzione di un esame obbligatorio valutativo per tutti i maestri, compresi coloro che sono già in attività. Esame che, col pretesto di valutare le competenze educative del candidato, altro non è che uno efficace sbarramento per allontanare dall’insegnamento quanti sono sgraditi al regime. In particolare, a pagare le spese della riforma, sarebbero los maestros delle normali rurali come la ben nota scuola di Ayotzinapa.
Più in generale, la Riforma Educativa fortemente sostenuta dal Governo Nieto, altro non è che una radicale pulizia con il detersivo del neo liberalismo delle ultime resistenti macchie di scuola pubblica nel Messico.
Quella stessa scuola che era nata sotto la spinta della rivoluzione del 1910 e sostenuta da Emiliano Zapata con l’obiettivo di alfabetizzare i popoli originari e le classi più povere dalla popolazione.

Scuole immediatamente attaccate da latifondisti (“covi di guerriglieri”, le hanno definite) e dall’alta gerarchia cattolica (“escuelas del diablo”) ma strenuamente difese dalla popolazione che vedeva nei loro “maestros” non solo dei semplici maestri elementari ma degli autentici avvocati dei diritti, donne e uomini capaci di insegnare ai loro figli che l’unica cosa alla quale non si possa mai rinunciare è la dignità. Nelle scuole popolari, come quella di Ayotzinapa, i campesinos indigeni imparano che quella terra che lavorano è la loro terra, un bene che non si vende e non si compra. Una terra che va difesa con tutti i mezzi necessari tanto dai narcos quanto dal mal gobierno. Le due facce, neppure contrapposte, dello stesso feroce sistema neoliberista che sta sbranando il Messico e il Sudamerica. Non è un caso che, nel solo Stato del Guerrero, dei 17 civili uccisi dai narcos nel 2014, nessuno era un poliziotto o un politico, ma 15 di loro erano studenti o maestri delle scuole popolari. Dei 33 desaparecidos, 28 frequentavano, o avevano frequentato, le rurali. Sono loro, i maestri delle scuole popolari e i loro studenti, il cuore, l’anima ed il sangue dei movimenti di resistenza popolare al neo capitalismo in Messico. Questo è il motivo per il quale la mobilitazione dei maestros delle scuole pubbliche suscita una tale eco nel Paese centroamericano e riesce sempre a trascinare nella protesta interi strati di popolazione, in particolare di origine indigena.

Proprio come successe ad Oaxaca nel giugno del 2006, quando l’intera città e i paesi limitrofi cominciarono una occupazione ad oltranza e senza bandiere di partito, a sostegno dei maestros e, sopratutto, di quanto questi rappresentavano. Una occupazione comunitaria che si concluse nel sangue dopo quattro mesi di assedio e di durissimi scontri con polizia, esercito e squadracce di paramilitari che lasciarono sulla strada, assassinati, quattro compagni, tra i quali un giornalista di IndyMedia, Brad Will. Oggi, dieci anni dopo la caduta della Comuna, lo zocalo - la piazza principale di Oaxaca - è ancora occupata dai maestros.
Chi pensava che della rabbia di dieci anni fa fossero rimasti solo pochi murales che turisti frettolosi fotografavano senza sapere cosa raccontavano, si sbagliava di grosso.

#OVERTHEFORTRESS

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Voi che leggete, lo sapete cosa è un confine chiuso? Chilometri e chilometri di filo spinato, arrotolati fitti davanti ad alti reticolati, rinforzati da sbarre di ferro. Garitte militari ogni cento metri, blindati armati pronti a sbarrarti il passo, plotoni di poliziotti con scudi sempre alzati dietro a sbarre che, per te che sei un uomo come altri ma come altri non hai in tasca il documento giusto, non si alzeranno mai. E’ un muro che ti si para davanti dopo tanto camminare e che aggiunge disperazione alla disperazione, dolore al dolore. E dentro di te sai che tutta questa sofferenza è inutile perché non potrà arrestare il tuo andare. Perché dietro di te non è rimasto niente e il tuo futuro, qualunque esso sia, sta tutto davanti. “Se di qui non ci lasciano passare andremo in Albania - mi racconta una donna in fuga dalla Siria col marito e tre figli piccoli -. Abbiamo qualche soldo da parte e cercheremo di imbarcarci in un gommone per l’Italia e di lì raggiungere la Danimarca dove abbiamo degli amici che ci aiuteranno. Anche loro sono scappati da Aleppo. Là non è rimasto niente. Non solo la nostra casa. Tutto il quartiere è stato raso al suolo”.
Perché un confine non lo puoi chiudere. Non è mai successo in tutta la storia dell’umanità. La Fortezza Europa è un bluff male giocato. Puoi far soffrire la gente in fuga. Puoi alimentare la paura e farne un cavallo di battaglia per alimentare leggi liberticide contro i tuoi stessi cittadini. Ma non puoi chiudere un confine.

Il campo profughi di Idomeni, ai confini tra la Grecia e la Macedonia, è un oceano di tende che nessuna legge riuscirà ad impedirgli di riversarsi sull’Europa. Neppure quella che l’Unione Europea ha stipulato col Governo turco e che mercifica le vite dei migranti, affidando ad un feroce dittatore come Erdogan la facoltà di selezionare il migrante “buono” da inviare in Europa come un pacco postale e quello “cattivo” da ricacciare a forza nel suo Paese d’origine. Il tutto per una vagonata di miliardi che ci potevi gestire tutta il flusso migratorio per dieci anni. Un trattato che tutte, tutte le associazioni che si battono per i diritti dei profughi hanno bollato come “infame”, oltre che perfettamente inutile allo stesso fine che si proponeva. Quello di limitare l’afflusso di migranti in una Europa che oramai non è più “l’Europa dei popoli” - se mai lo è stata - ma delle banche. Al tempo della guerra in Bosnia, il verde Alex Langer scriveva che “l’Europa nasce o muore a Sarajevo”. Adesso sappiamo che l’Europa è morta in quei giorni, sotto le granate dei fascisti serbo bosniaci. Oggi stiamo solo seppellendo il suo cadavere.
Ma ci son cose che vanno fatte anche quando sembra che non ci sia più niente da fare. Anzi, diciamo meglio, è proprio questo il momento migliore per mettersi in marcia perché questo è il momento dei cambiamenti. Una marcia #OverTheFortress, una marcia oltre i confini della Fortezza Europa che ha spinto più di 250 ragazzi italiani dei centri sociali e altre associazioni, e alcuni pari età d’Oltralpe dei Giovani Verdi Europei a raggiungere, durante le vacanze pasquali, il campo profughi greco di Idomeni col duplice scopo di portare aiuti e di denunciare le violazione della politica europea in tema di diritti umani.
Un viaggio per terra e per mare in una Grecia divisa tra comitati di solidarietà ai migranti e manifestazioni dei fascisti di Alba Dorato e degli integralisti ortodossi che sfilano brandendo teste di maiale mozzate. Un viaggio ostacolato dalla stessa polizia greca che, il secondo giorno, ha bloccato l’ingresso al campo con un cordone di polizia in assetto antisommossa e due blindati. Le ragazze, in netta maggioranza nella carovana, e i ragazzi non si sono persi d’animo. Le donne e i bambini della tendopoli di Idomeni - 12 mila persone in tutto secondo la stima più accreditata - attendevano la seconda distribuzione di medicinali, vestiti e scarpe, e nessuno dei carovanieri voleva deluderli. intanto che dall’altra parte della barricata si levavano voci di proteste e scontri, gli attivisti italiani si sono pacificamente accoccolati per terra davanti allo schieramento delle forze dell’ordine, tirando fuori dagli scatoloni e sistemando in fila, ai piedi dei poliziotti, il materiale che volevano distribuire. Immobili, senza cori e senza tentare di forzare il blocco, hanno tenuto duro sotto la pioggia per più di quattro ore. Sino a quando i poliziotti hanno lasciato il passo.
L’ingresso al campo è stata una festa. Per i generi di prima necessità che la carovana si apprestava a distribuire certamente, ma anche per qualcosa che chi non è mai entrato in un campo profughi non può capire e potrebbe addirittura scambiarla per rotorica. Ed invece, proprio quando sei abbandonato davanti un muro di confine, comprendi il valore di un sorriso, di una stretta di mano, di una persona che si siede per terra, nel fango, accanto te, ed ascolta silenziosamente la tua storia. Capisci che, d’altra parte del muro invalicabile, c’è qualcuno che non ha paura di te, che è pronto ad accoglierti ed a stare dalla tua parte.
Per tutto il pomeriggio, le ragazze e i ragazzi vanno di tenda in tenda a chiedere di cosa abbiano bisogno. Quello che non hanno adesso, lo porteranno quanto torneranno a Idomeni. Giocano con i bambini, discutono con gli adulti, montano due gazzebi informativi e sistemano una rete wifi.
Se ne vanno che è notte fonda. la polizia ha fatto perdere loro un bel po’ di ore ma non li ha fermati. Tra le tende, i profughi cominciano ad accendere dei grandi falò per difendere i bambini dal freddo. Questa notte, perlomeno, avranno qualche coperta in più.
Mentre saliamo nei nostri sgangherati autobus per tornare in Italia, ripenso alle parole di don Lorenzo Milani. “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”.

Idomeni, #OverTheFortress

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Non si fa mai. Non si comincia mai un articolo con una dedica, giusto? Ma questa volta cominciamo a raccontare cosa sono andati a fare più di 250 ragazze e ragazzi in quel mare di fango e di tende rabberciate che è il campo profughi di Idomeni, mentre tutti gli altri italiani festeggiavano in tranquillità la loro pasqua, con una bella dedica. Anzi, due. A tutti quelli che: “ma perché non ve li portate a casa vostra?” Ed anche a quelli che: “fanno i profughi e ci hanno lo smartphone”.

E cominciamo a raccontare partendo da un appello. Quello #OverTheFortess lanciato dal Progetto Melting Pot Europa a “marciare” verso i confini tra la Grecia e la Macedonia per portare solidarietà e generi di prima necessità ai profughi fermati alla frontiera. L’appello gira per i centri sociali di tutta Italia, sui siti delle associazioni che si battono per i diritti dei migranti e arriva anche oltralpe dove viene raccolto dai Giovani Verdi Europei che si mettono in marcia su una rotta alternativa, scendendo verso Idomeni da nord, lungo quei Balcani che, appena una ventina di anni fa, furono teatro di una guerra che l’Europa ha dimenticato troppo presto. Gli italiani si danno appuntamento ad Ancona per la mattina del venerdì di pasqua, ed arrivare ai confini da sud, dopo aver attraversato l’Adriatico in traghetto assieme ai furgoncini dove è stipato il materiale raccolto.

“Confesso che non ci aspettavamo una tale partecipazione - spiega Barbara Barbieri di Melting Pot -. Ad un certo punto siamo stati costretti a chiudere le iscrizioni perché non c’era più posto nei traghetti. In tutto, abbiamo portato più di 250 attivisti ad Idomeni da tutte le regioni d’Italia. Sicilia e Sardegna comprese. Se poi consideriamo i triestini che sono venuti in auto, i giovani verdi europei, le persone che si sono aggregate strada facendo e i nostri compagni che erano già là, abbiamo sfondata quota 300 partecipanti”.
Non è stata una operazione improvvisata, #OverTheFortess. Gli attivisti “che erano già là”, cui accenna Barbara, e che sono rimasti ancora là, adesso che la spedizione è rientrata, fanno parte di un progetto di staffetta solidale messo in campo da Melting Pot la scorsa estate, quando l’Austria e subito dopo la Macedonia, decisero autonomamente di chiudere il confine ai migranti. Con la conseguenza di trasformare la Grecia nel cortile di una gigantesca prigione per oltre 45 mila profughi.
Il corridoio che portava in Europa si è chiuso a Idomeni, sui binari di una ferrovia dove oramai non passa più nessun treno e che sono tutt’ora sorvegliati, notte e giorno, da blindati e da plotoni di poliziotti in assetto antisommossa. Qui troviamo la grande tendopoli. Dodicimila persone secondo la stima più accreditata. Donne e bambini in netta maggioranza. Sono siriani, iracheni, curdi in prevalenza. Ma anche pakistani pashtun e hazara, e ancora yazidi dai capelli chiari, armeni, turkmeni… Il Governo greco ha lasciato la gestione del campo a Medici Senza Frontiere e all’Unhcr e ha evitato di militarizzarlo. Con la conseguenza che non ci sono controlli e c’è un via vai continuo di gente che va e che viene. Alcune furgoni messi in campo da associazioni “filantropiche” - come si legge nei loro loghi - arabe provvedono alla distribuzione di pasti caldi. Ma c’è pure un mini mercatino - tre banchetti con 3 o 4 casse di verdure - per chi vuole provare a cucinare davanti alla sua tenda. Ci sono anche punti informativi realizzati da volontari greci. Una decina di ragazze bionde, tedesche e danesi, hanno organizzato un’area per l’infanzia. Trecento bambini fanno la fila davanti a due salterelli per un minuto a testa di felicità.

La carovana #OverTheFortess entra nel campo il pomeriggio di pasqua e comincia subito a dispensare i materiali. Vestiti pesanti che in Macedonia tira ancora freddo e scarpe, soprattutto, così indispensabili a persone che tanto hanno camminato e tanto dovranno ancora camminare. “Se qui non ci fanno passare andremo in Albania - mi racconta una signora in fuga con i suoi due figlia da una Aleppo che oramai non c’è più. Ho qualche risparmio e vedremo di trovare un passaggio da qualche scafista. I vostri governanti non capiscono che chiudendo un confine non ottengono altro che di farci soffrire un po’ di più e spendere anche quel poco di denaro che ci è rimasto. Indietro non possiamo più tornare oramai. Non abbiamo lasciato niente se non guerra e terrore”.

Il patto infame che l’Unione Europea ha stipulato con il Governo turco - e che trasforma un feroce dittatore come Erdogan in un giudice supremo, atto a decide quale sia il profugo meritevole di venir inviato in Europa e quale da ricacciare nella guerra - ha avuto come primo effetto la definitiva chiusura del confine con la Macedonia. Per i profughi di Idomeni non c’è più speranza che quelle sbarre che interrompono il filo spinato si alzino. Il Governo greco preme per sgomberare il campo e spostare le famiglie nei famigerati hotspot, già denunciati da tutte le associazione per i diritti, o in campi vicini gestiti da varie onlus.
Per questo, le autorità non vedono di buon occhi chi va a portare aiuti ai profughi che ancora resistono. Il lunedì di pasqua, quando le ragazze e i ragazzi di #OverTheFortess tornano al campo per la seconda distribuzione, trovano un cordone di polizia in assetto antisommossa ad attenderli.
Per quasi cinque ore, gli attivisti tengono duro e si rifiutano di fare marcia indietro. Si siedono davanti agli scudi dei poliziotti, col materiale che intendono distribuire in mano. Comincia a piovere ma nessuno si muove. Sono le 14 passate quando la polizia cede, e abbandona il campo.
“Eravamo determinati a restare là sino a notte. Non potevamo tornare in Italia con tutte le medicine e il materiale che la gente ha portato nei nostri centro sociali perché noi le consegnassimo ai profughi - commenta Antonio Pio Lancellotti di Global Project -. Ritengo comunque vergognoso che le autorità impediscano a dei volontari portare aiuti a chi ha ne tanto bisogno. Oramai in Europa è diventato illegale fare le cose giuste. Proprio come ai tempi dei nazisti era vietato aiutare i rom o gli ebrei”.

L’ingresso al campo delle ragazze e dei ragazzi con le pettorine arancioni con la scritta #OverTheFortess è una festa per tutti. La polizia gli ha fatto perdere la mattinata e la distribuzione va avanti sino a notte fonda. La gente in fila cerca qualche capo di vestiario caldo ma anche qualcuno cui raccontare la loro storia.
“Grazie per le scarpe. Un grazie più grande per essere venuti sin qui. Adesso so che dall’altra parte del muro che qualcuno che è non mi odia, my friend” mi dice un signore anziano in un inglese migliore del mio.
Cominciano anche i lavori per la sistemazione di un punto di ricarica dei cellulari e di una wifi gratuita che si concluderanno due giorni dopo, grazie ad un gruppo di attivisti che ha deciso di fermarsi nel campo e continuare la staffetta solidale. “Non molleremo come non abbiamo mollato questa mattina - mi spiega Chiara B una ragazza di Venezia che fa parte del collettivo Asc, assemblea sociale per la casa, che gestisce un nutrito numero di occupazioni in centro storico e nell’isola della Giudecca - Sino a che ci saranno confini, ci vorrà qualcuno che abbatti i muri. Sino a che saranno violati i diritti dei profughi, ci vorrà qualcuno che si batta per i loro diritti. Che sono poi i diritti di tutti”.
Ripenso a quando scriveva don Milani. “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
Saliamo negli autobus che è notte. Davanti alle tende i profughi accendono grandi falò per allontanare il gelo.
Domando a Chiara perché non se li porta tutti a casa sua. “Magari potessi! Tutti a Venezia li vorrei. Sai quante belle occupazioni riusciremmo ad organizzare?”
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