#OVERTHEFORTRESS

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Voi che leggete, lo sapete cosa è un confine chiuso? Chilometri e chilometri di filo spinato, arrotolati fitti davanti ad alti reticolati, rinforzati da sbarre di ferro. Garitte militari ogni cento metri, blindati armati pronti a sbarrarti il passo, plotoni di poliziotti con scudi sempre alzati dietro a sbarre che, per te che sei un uomo come altri ma come altri non hai in tasca il documento giusto, non si alzeranno mai. E’ un muro che ti si para davanti dopo tanto camminare e che aggiunge disperazione alla disperazione, dolore al dolore. E dentro di te sai che tutta questa sofferenza è inutile perché non potrà arrestare il tuo andare. Perché dietro di te non è rimasto niente e il tuo futuro, qualunque esso sia, sta tutto davanti. “Se di qui non ci lasciano passare andremo in Albania - mi racconta una donna in fuga dalla Siria col marito e tre figli piccoli -. Abbiamo qualche soldo da parte e cercheremo di imbarcarci in un gommone per l’Italia e di lì raggiungere la Danimarca dove abbiamo degli amici che ci aiuteranno. Anche loro sono scappati da Aleppo. Là non è rimasto niente. Non solo la nostra casa. Tutto il quartiere è stato raso al suolo”.
Perché un confine non lo puoi chiudere. Non è mai successo in tutta la storia dell’umanità. La Fortezza Europa è un bluff male giocato. Puoi far soffrire la gente in fuga. Puoi alimentare la paura e farne un cavallo di battaglia per alimentare leggi liberticide contro i tuoi stessi cittadini. Ma non puoi chiudere un confine.

Il campo profughi di Idomeni, ai confini tra la Grecia e la Macedonia, è un oceano di tende che nessuna legge riuscirà ad impedirgli di riversarsi sull’Europa. Neppure quella che l’Unione Europea ha stipulato col Governo turco e che mercifica le vite dei migranti, affidando ad un feroce dittatore come Erdogan la facoltà di selezionare il migrante “buono” da inviare in Europa come un pacco postale e quello “cattivo” da ricacciare a forza nel suo Paese d’origine. Il tutto per una vagonata di miliardi che ci potevi gestire tutta il flusso migratorio per dieci anni. Un trattato che tutte, tutte le associazioni che si battono per i diritti dei profughi hanno bollato come “infame”, oltre che perfettamente inutile allo stesso fine che si proponeva. Quello di limitare l’afflusso di migranti in una Europa che oramai non è più “l’Europa dei popoli” - se mai lo è stata - ma delle banche. Al tempo della guerra in Bosnia, il verde Alex Langer scriveva che “l’Europa nasce o muore a Sarajevo”. Adesso sappiamo che l’Europa è morta in quei giorni, sotto le granate dei fascisti serbo bosniaci. Oggi stiamo solo seppellendo il suo cadavere.
Ma ci son cose che vanno fatte anche quando sembra che non ci sia più niente da fare. Anzi, diciamo meglio, è proprio questo il momento migliore per mettersi in marcia perché questo è il momento dei cambiamenti. Una marcia #OverTheFortress, una marcia oltre i confini della Fortezza Europa che ha spinto più di 250 ragazzi italiani dei centri sociali e altre associazioni, e alcuni pari età d’Oltralpe dei Giovani Verdi Europei a raggiungere, durante le vacanze pasquali, il campo profughi greco di Idomeni col duplice scopo di portare aiuti e di denunciare le violazione della politica europea in tema di diritti umani.
Un viaggio per terra e per mare in una Grecia divisa tra comitati di solidarietà ai migranti e manifestazioni dei fascisti di Alba Dorato e degli integralisti ortodossi che sfilano brandendo teste di maiale mozzate. Un viaggio ostacolato dalla stessa polizia greca che, il secondo giorno, ha bloccato l’ingresso al campo con un cordone di polizia in assetto antisommossa e due blindati. Le ragazze, in netta maggioranza nella carovana, e i ragazzi non si sono persi d’animo. Le donne e i bambini della tendopoli di Idomeni - 12 mila persone in tutto secondo la stima più accreditata - attendevano la seconda distribuzione di medicinali, vestiti e scarpe, e nessuno dei carovanieri voleva deluderli. intanto che dall’altra parte della barricata si levavano voci di proteste e scontri, gli attivisti italiani si sono pacificamente accoccolati per terra davanti allo schieramento delle forze dell’ordine, tirando fuori dagli scatoloni e sistemando in fila, ai piedi dei poliziotti, il materiale che volevano distribuire. Immobili, senza cori e senza tentare di forzare il blocco, hanno tenuto duro sotto la pioggia per più di quattro ore. Sino a quando i poliziotti hanno lasciato il passo.
L’ingresso al campo è stata una festa. Per i generi di prima necessità che la carovana si apprestava a distribuire certamente, ma anche per qualcosa che chi non è mai entrato in un campo profughi non può capire e potrebbe addirittura scambiarla per rotorica. Ed invece, proprio quando sei abbandonato davanti un muro di confine, comprendi il valore di un sorriso, di una stretta di mano, di una persona che si siede per terra, nel fango, accanto te, ed ascolta silenziosamente la tua storia. Capisci che, d’altra parte del muro invalicabile, c’è qualcuno che non ha paura di te, che è pronto ad accoglierti ed a stare dalla tua parte.
Per tutto il pomeriggio, le ragazze e i ragazzi vanno di tenda in tenda a chiedere di cosa abbiano bisogno. Quello che non hanno adesso, lo porteranno quanto torneranno a Idomeni. Giocano con i bambini, discutono con gli adulti, montano due gazzebi informativi e sistemano una rete wifi.
Se ne vanno che è notte fonda. la polizia ha fatto perdere loro un bel po’ di ore ma non li ha fermati. Tra le tende, i profughi cominciano ad accendere dei grandi falò per difendere i bambini dal freddo. Questa notte, perlomeno, avranno qualche coperta in più.
Mentre saliamo nei nostri sgangherati autobus per tornare in Italia, ripenso alle parole di don Lorenzo Milani. “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri”.

Idomeni, #OverTheFortress

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Non si fa mai. Non si comincia mai un articolo con una dedica, giusto? Ma questa volta cominciamo a raccontare cosa sono andati a fare più di 250 ragazze e ragazzi in quel mare di fango e di tende rabberciate che è il campo profughi di Idomeni, mentre tutti gli altri italiani festeggiavano in tranquillità la loro pasqua, con una bella dedica. Anzi, due. A tutti quelli che: “ma perché non ve li portate a casa vostra?” Ed anche a quelli che: “fanno i profughi e ci hanno lo smartphone”.

E cominciamo a raccontare partendo da un appello. Quello #OverTheFortess lanciato dal Progetto Melting Pot Europa a “marciare” verso i confini tra la Grecia e la Macedonia per portare solidarietà e generi di prima necessità ai profughi fermati alla frontiera. L’appello gira per i centri sociali di tutta Italia, sui siti delle associazioni che si battono per i diritti dei migranti e arriva anche oltralpe dove viene raccolto dai Giovani Verdi Europei che si mettono in marcia su una rotta alternativa, scendendo verso Idomeni da nord, lungo quei Balcani che, appena una ventina di anni fa, furono teatro di una guerra che l’Europa ha dimenticato troppo presto. Gli italiani si danno appuntamento ad Ancona per la mattina del venerdì di pasqua, ed arrivare ai confini da sud, dopo aver attraversato l’Adriatico in traghetto assieme ai furgoncini dove è stipato il materiale raccolto.

“Confesso che non ci aspettavamo una tale partecipazione - spiega Barbara Barbieri di Melting Pot -. Ad un certo punto siamo stati costretti a chiudere le iscrizioni perché non c’era più posto nei traghetti. In tutto, abbiamo portato più di 250 attivisti ad Idomeni da tutte le regioni d’Italia. Sicilia e Sardegna comprese. Se poi consideriamo i triestini che sono venuti in auto, i giovani verdi europei, le persone che si sono aggregate strada facendo e i nostri compagni che erano già là, abbiamo sfondata quota 300 partecipanti”.
Non è stata una operazione improvvisata, #OverTheFortess. Gli attivisti “che erano già là”, cui accenna Barbara, e che sono rimasti ancora là, adesso che la spedizione è rientrata, fanno parte di un progetto di staffetta solidale messo in campo da Melting Pot la scorsa estate, quando l’Austria e subito dopo la Macedonia, decisero autonomamente di chiudere il confine ai migranti. Con la conseguenza di trasformare la Grecia nel cortile di una gigantesca prigione per oltre 45 mila profughi.
Il corridoio che portava in Europa si è chiuso a Idomeni, sui binari di una ferrovia dove oramai non passa più nessun treno e che sono tutt’ora sorvegliati, notte e giorno, da blindati e da plotoni di poliziotti in assetto antisommossa. Qui troviamo la grande tendopoli. Dodicimila persone secondo la stima più accreditata. Donne e bambini in netta maggioranza. Sono siriani, iracheni, curdi in prevalenza. Ma anche pakistani pashtun e hazara, e ancora yazidi dai capelli chiari, armeni, turkmeni… Il Governo greco ha lasciato la gestione del campo a Medici Senza Frontiere e all’Unhcr e ha evitato di militarizzarlo. Con la conseguenza che non ci sono controlli e c’è un via vai continuo di gente che va e che viene. Alcune furgoni messi in campo da associazioni “filantropiche” - come si legge nei loro loghi - arabe provvedono alla distribuzione di pasti caldi. Ma c’è pure un mini mercatino - tre banchetti con 3 o 4 casse di verdure - per chi vuole provare a cucinare davanti alla sua tenda. Ci sono anche punti informativi realizzati da volontari greci. Una decina di ragazze bionde, tedesche e danesi, hanno organizzato un’area per l’infanzia. Trecento bambini fanno la fila davanti a due salterelli per un minuto a testa di felicità.

La carovana #OverTheFortess entra nel campo il pomeriggio di pasqua e comincia subito a dispensare i materiali. Vestiti pesanti che in Macedonia tira ancora freddo e scarpe, soprattutto, così indispensabili a persone che tanto hanno camminato e tanto dovranno ancora camminare. “Se qui non ci fanno passare andremo in Albania - mi racconta una signora in fuga con i suoi due figlia da una Aleppo che oramai non c’è più. Ho qualche risparmio e vedremo di trovare un passaggio da qualche scafista. I vostri governanti non capiscono che chiudendo un confine non ottengono altro che di farci soffrire un po’ di più e spendere anche quel poco di denaro che ci è rimasto. Indietro non possiamo più tornare oramai. Non abbiamo lasciato niente se non guerra e terrore”.

Il patto infame che l’Unione Europea ha stipulato con il Governo turco - e che trasforma un feroce dittatore come Erdogan in un giudice supremo, atto a decide quale sia il profugo meritevole di venir inviato in Europa e quale da ricacciare nella guerra - ha avuto come primo effetto la definitiva chiusura del confine con la Macedonia. Per i profughi di Idomeni non c’è più speranza che quelle sbarre che interrompono il filo spinato si alzino. Il Governo greco preme per sgomberare il campo e spostare le famiglie nei famigerati hotspot, già denunciati da tutte le associazione per i diritti, o in campi vicini gestiti da varie onlus.
Per questo, le autorità non vedono di buon occhi chi va a portare aiuti ai profughi che ancora resistono. Il lunedì di pasqua, quando le ragazze e i ragazzi di #OverTheFortess tornano al campo per la seconda distribuzione, trovano un cordone di polizia in assetto antisommossa ad attenderli.
Per quasi cinque ore, gli attivisti tengono duro e si rifiutano di fare marcia indietro. Si siedono davanti agli scudi dei poliziotti, col materiale che intendono distribuire in mano. Comincia a piovere ma nessuno si muove. Sono le 14 passate quando la polizia cede, e abbandona il campo.
“Eravamo determinati a restare là sino a notte. Non potevamo tornare in Italia con tutte le medicine e il materiale che la gente ha portato nei nostri centro sociali perché noi le consegnassimo ai profughi - commenta Antonio Pio Lancellotti di Global Project -. Ritengo comunque vergognoso che le autorità impediscano a dei volontari portare aiuti a chi ha ne tanto bisogno. Oramai in Europa è diventato illegale fare le cose giuste. Proprio come ai tempi dei nazisti era vietato aiutare i rom o gli ebrei”.

L’ingresso al campo delle ragazze e dei ragazzi con le pettorine arancioni con la scritta #OverTheFortess è una festa per tutti. La polizia gli ha fatto perdere la mattinata e la distribuzione va avanti sino a notte fonda. La gente in fila cerca qualche capo di vestiario caldo ma anche qualcuno cui raccontare la loro storia.
“Grazie per le scarpe. Un grazie più grande per essere venuti sin qui. Adesso so che dall’altra parte del muro che qualcuno che è non mi odia, my friend” mi dice un signore anziano in un inglese migliore del mio.
Cominciano anche i lavori per la sistemazione di un punto di ricarica dei cellulari e di una wifi gratuita che si concluderanno due giorni dopo, grazie ad un gruppo di attivisti che ha deciso di fermarsi nel campo e continuare la staffetta solidale. “Non molleremo come non abbiamo mollato questa mattina - mi spiega Chiara B una ragazza di Venezia che fa parte del collettivo Asc, assemblea sociale per la casa, che gestisce un nutrito numero di occupazioni in centro storico e nell’isola della Giudecca - Sino a che ci saranno confini, ci vorrà qualcuno che abbatti i muri. Sino a che saranno violati i diritti dei profughi, ci vorrà qualcuno che si batta per i loro diritti. Che sono poi i diritti di tutti”.
Ripenso a quando scriveva don Milani. “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
Saliamo negli autobus che è notte. Davanti alle tende i profughi accendono grandi falò per allontanare il gelo.
Domando a Chiara perché non se li porta tutti a casa sua. “Magari potessi! Tutti a Venezia li vorrei. Sai quante belle occupazioni riusciremmo ad organizzare?”

La Pasqua dei profughi di guerra ed il progetto #Overthefortress

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Te lo trovi davanti all'improvviso, il campo profughi di Idomeni, che ti pare di cascare dentro un oceano di tende.
La strada che da Salonicco porta al confine con la Macedonia scorre facile in mezzo a verdi vallate, leggermente ondulate, con la sagoma ancora innevata del monte Olimpo a chiudere l'orizzonte. A metterti sull'avviso che non stai andando verso un confine qualunque ma verso un confine di guerra - come stanno diventando oramai tutti i confini - sono i campi profughi che sorgono attorno al villaggio di Idomeni, dove si trova ancora in grosso dei rifugiati in fuga da guerre e povertà. Ce ne sono tre, sino ad ora, ognuno gestito da una diversa onlus, con un numero di migranti che va dai 1500 ai 3000 ciascuno. Impossibile avere numeri certi per la grande flluidità della situazione. Gli accordi che l'Europa ha siglato col Governo Turco, hanno aggiunto altra disperazione a gente già disperata. I richiedenti asilo - circa 45 mila - che avevano raggiunto la Grecia credendo, sperando di essere oramai arrivati in Europa, hanno scopetto improvvisamente che il confine è chiuso e che non si aprirà più. Il loro futuro sarà il rimpatrio forzato, e gestito per di più da un governo che, per dirla eufemisticamente, non ha mai dimostrato sensibilità nei confronti dei diritti umani. E proprio al Governo di questo Erdogan, lautamente stipendiato dall'Ue, spetterà il compito di fare il "lavoro sporco", selezionando a sua totale discrezione i rifugiati "buoni" da far accogliere dall'Europa, da quelli "cattivi" da rispedire in Patria.


Quello che le attiviste e gli attivisti della carovana #Overthefortress trovano nel grande campo di Idomeni, sono 14mila persone, in maggioranza donne e bambini, che ancora stentano a credere che la civile Europa, l'Europa dei diritti, l'Europa dove non ci sono guerre, abbia cinicamente deciso di rispedirli tutti al "via".

All'appello di #Overthefortess, lanciato dal Progetto Melting Pot Europa, di raggiungere Idomeni col duplice intento di portare aiuti e di denunciare una politica criminale che trasforma i richiedenti asilo in carne da macello, hanno aderito quasi trecento attivisti italiani. Ragazze e ragazzi dei centri sociali del nord est e di tante altre regioni italiane, donne e uomini di tante associazioni per i diritti umani ed anche una rappresentanza del Giovani Verdi Europei, venuti a portare il loro sostegno ad una iniziativa volta a denunciare la costruzione di una Fortezza Europa che nega i diritti fondamentali, non solo a chi è fuori ma anche a chi è dentro ed è povero, dei suoi confini

Circa 190 persone hanno risposto a questo appello, e si sono imbarcate dal porto di Ancona venerdì 25, per poi raggiungere Idomeni in autobus e con cinque furgoni al seguito carichi di materiale come medicinali, vestiti, giocattoli per i bambini e, naturalmente, scarpe, indispensabili a chi ha camminato tanto e tanto dovrò ancora camminare.
Altri, hanno raggiunto il confine lungo la rotta balcanica.
"Perché abbiamo deciso di trascorrere la pasqua in un campo profughi invece di andare in vacanza in qualche bel posto di villeggiatura o rimanere nelle nostre case? - mi spiega una ragazza di 20 anni o poco più -. Se davvero mi fai questa domanda vuol dire che non puoi capire la risposta!"

Ci sono cose che non hanno bisogno di un perché ma che vanno semplicemente fatte. A qualunque costo. Il primo giorno, gli attivisti italiani trovano il campo aperto. E per i profughi è una festa. Le medicine sono importanti. I vestiti anche - qui la notte fa ancora tanto freddo e le tende sono piene di bambini - e non parliamo delle scarpe. Ma la cosa più importante è parlare. famiglie intere di afgani, yazidi, iracheni, pakistani, siriani, curdi... ciascuna ha la sua storia da raccontare che va ascoltata.
Il giorno dopo, all'arrivo per la seconda giornata di distribuzione di materiali, gli attivisti di #Overthefortress trovano ad attenderli un cordone di polizia in assetto da guerra davanti a due blindati. Le ragazze che guidano la carovana cercano il dialogo ma i militari rispondono loro che stanno eseguendo gli ordini. Ordini che dicono semplicemente "Vietato aiutare i profughi".

"E' una risposta inconcepibile oltre che inaccetabile - denuncia Marta Canino del Laboratorio Morion di Venezia - Oramai in Europa è diventato illegale fare la cosa giusta! Chi si batte per i diritti e per aiutare chi sta male rischia la denuncia. 'Vietato aiutare i profughi' ci hanno detto. Proprio come per i nazisti era vietato aiutare i rom e gli ebrei. Ma noi continueremo ugualmente in quello che è giusto, ad ogni costo e senza paura. La nostra Europa non ha confini".

Per cinque ore, le ragazze e i ragazzi di #Overthefortress e lo schieramento di polizia si fronteggiano senza che nessuno arretri. Le attiviste aprono i pacchi e, per far vedere che la loro sola intenzione è distribuire gli aiuti, sistemano lunghe file di scarpa davanti agli scudi. Comincia anche a piovere di brutto e tira freddo. Si gela, ma nessuno si muove. "Abbiamo portato cinque camion carichi di aiuti sino a qua e non torneremo in Italia con quello che tantissima gente ci ha regalato proprio perché la portassimo ai profughi".
Sono le due e un quarto del pomeriggio, quando sono i poliziotti a cedere. In fretta, salgono sui blindati e sgomberano la strada.
L'arrivo della carovana di #Overthefortress al campo, è un trionfo. La distribuzione comincia immediatamente. Le ragazze ed i ragazzi tentano di recuperare il tempo perso ma si finisce ugualmente a sera inoltrata. La carovana esce dal campo con i camion vuoti, mentre davanti alle loro piccole tende i profughi cominciano ad accedere i primi fuochi per scacciare il freddo che, quando tramonta il sole, ancora morde.
Nei pulman, quasi tutti cadono addormentati. Prima di abbandonarmi anche io al sonno, penso a quella risposta che se fai la domanda sbagliata non potrai mai capire.

Ucciso Omar Nayef

E’ morto Omar Nayef Zayed, il combattente dell’Fplp che da dicembre viveva rifugiato nell’ambasciata palestinese a Sofia per evitare l’estradizione in Israele. Abbiamo raccontato la sua storia su questa pagina. Secondo l’agenzia palestinese Maan, Nayef è stato trovato questa mattina gravemente ferito nel piccolo giardino davanti all’ambasciata, nel quartiere universitario della capotale Bulgara. Inutili i soccorsi. Omar Nayef è deceduto durante il trasporto.
Ancora ignote le cause della morte. Secondo l’associazione Samidoun che aveva lanciato una campagna contro l’estradizione, la morte della “bandiera di Palestina” va letta coma una vendetta israeliana. Ancora più esplicito Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che ha espressamente tirato in causa il Mossad, il servizio segreto di Israele.


Per Zayed si erano mobilitate molte associazioni per i diritti umani che si erano mobilitate perché fosse rispettato il suo status di rifugiato politico. Ricordiamo la manifestazione che gli attivisti di Ya Basta Edi Bese avevano organizzato una settimana fa nell’isola veneziana di San Giorgio.

Papa Francesco e le due chiese del sudamerica

papa-francisco-mexico-cnn-5Chiunque abbia viaggiato in America Latina, non avrà potuto fare a meno di notare che in questo angolo di mondo le chiese sono due. Non c’è possibilità di confondere l’una con l’altra. Non c’è neppure uno spazio di compromesso. Chiunque creda al messaggio evangelico, in Sudamerica, è chiamato a fare una drastica scelta: o sta di qua, o sta di là. Poi tutto viene di conseguenza.
Anche chi viene da oltreoceano, dove questa scelta non è imposta, e abbia percorso con una attenzione poco più superficiale le strade che spaziano tra le infinte pianure e le invalicabili montagne, tra impenetrabili selve e sterminate metropoli, non può non essersi accorto che le marmoree cattedrali con gli altari ricoperti di bandiere nazionali e i primi banchi perennemente riservati, in ordine di grado, alle alte gerarchie dell’esercito, non hanno nulla a che spartire con le coloratissime chiese di fango dove la statua di Maria partoriente divide la mensola di legno con divinità indigene raffiguranti la madre terra. Il Cristo di San Salvador, dalla faccia dura e dalla tunica immacolata che calpesta il mondo, non è lo stesso Cristo raffigurato nei crocifissi arcobaleno intento a mietere il grano mentre gli apostoli pescano o giocano con i bambini indigeni. Così come quei vescovi che aspergono di acqua santa i mezzi blindati che partono per pattugliare le strade del Chiapas, non hanno nessun dio in comune con quel prete col berretto rosso fuoco dei Sem Terra calcato sulla fronte, che ho conosciuto a nord di Rio mentre aiutava a tirare su una barricata per contrastare lo sgombero della favella. “Stavolta verranno da questo lato della collina - mi spiegava mentre sistemava la cassa con le bottiglie incendiarie -. Dalla strada principale li abbiamo già respinti due volte”. Che fosse un prete, lo ho scoperto solo il giorno che me ne sono andato, quando l’ho sgammato a dire messa in un seminterrato davanti a 4 persone 4. Devo aver fatto una faccia, ripensando a tutti i cristi e i santi che avevo tirato giù durante gli scontri… Lui mi ha dato una pacca sulle spalle e mi ha detto “Se hai problemi, laggiù in Italia, torna qua che tiriamo su una baracca anche per te”. Posso vantarmi di possedere potenzialmente una villetta con vista sul Pan di Zucchero.


A questo punto, avrete capito senza che debba aggiungere altro, quali sono le due chiese, l’una contro l’altra armata, cui mi riferisco. La notizia di questi giorni è che, per la prima volta nella storia della cristianità in questo Continente, un papa - vuoi come Capo di Stato, vuoi come rappresentante di dio in Terra - è sbarcato su questo lato del mondo con l’intento dichiarato di rendere omaggio all’altra chiesa.
Da quando i conquistadores spagnoli, di spada e di fuoco, portarono il vangelo su questa sponda d’oceano, mai un papa aveva fatto tanto. Non certo Karol Wojtyla, anzi, San Karol Wojtyla, che preferiva benedire dittatori delinquenti come il cileno Augusto Pinochet, consegnare vescovi come Oscar Romero al macello, allearsi con in carnefici del piano Condor e stendere il silenzio sui teorici della Liberazione. Tutte qualità che hanno fatto guadagnare a Giovanni Paolo secondo, anzi a San Giovanni Paolo secondo, un bell’altare di marmo lucido nelle chiese frequentate dai militari.
Francesco no. Al di là della retorica del “papa dalla parte degli umili” che ha accompagnato tanto il suo viaggio in America latina quanto il suo intero pontificato, non possiamo fare a meno di sottolineare come il suo inchinarsi alla tomba del vescovo “zapatista” Samuel Ruiz, le celebrazioni delle messe nelle lingue indigene come lo Tzotzil e lo Tzetal (che sono gli idiomi parlati dalle popolazioni insorgenti), siano importanti e inequivocabili segnali di un radicale cambio di rotta della Santa Sede. Anche la data del viaggio è un segnale: vent’anni esatti da quegli accordi di San Andres che il Governo sottoscrisse con l’Esercito Zapatista di Liberazione nazionale e che avrebbero garantito autonomia e dignità agli indigeni. Accordi che il Messico rinnegò dopo neppure tre mesi.

Se questo cambio di rotta verso un vangelo più attento ai diritti degli ultimi sia dettato da una riflessione etica o sia piuttosto un’abile mossa propagandistica per riconquistare consensi tra gli strati più poveri della popolazione (mai troppo devoti a Santa Romana Chiesa in questo continente dove il cattolicesimo deve fare i conti con un protestantesimo in forte ascesa), badando bene di non inimicarsi i poteri che contano, è il vero mistero che attraversa tutto il pontificato di Francesco.
Certo, anche il “papa dalla parte degli umili” si è ben guardato, non soltanto dall’incontrare i genitori, ma anche dal ricordare in una solo preghiera i 43 ragazzi desaparecidos della scuola di Ayotzinapa. Una scelta che lo avrebbe messo in aperto contrasto con il Governo messicano che, diciamola coma va detta, è il principale responsabile di questo (e di tanti altri) omicidi legati al narcotraffico. Non esita però Francesco a farsi applaudire dalla folla quando dal pulpito invita i fedeli messicani a non cedere alle lusinghe del narcotraffico, affiancato da ministri sorridenti e militari in divisa che, tanto per dirla come va detta anche questa volta, sono i primi ad avvantaggiarsi dai proventi economici e dal potere politico che derivano da questo floridissimo ed inarrestabile commercio.

Quello che è approdato in Messico, in sintesi, è lo stesso Francesco che è partito dall’Italia. Papa rivoluzionario, secondo alcuni, perché ha scritto una enciclica sull’ambiente e perché sottolinea le ingiustizie del capitalismo. Senza considerare che da mezzo secolo scienziati ed ambientalisti denunciano le devastazioni all’ecosistema globale e che, da quasi due, un tizio di nome Carlo Marx - che però non era un papa - ha messo in luce le contraddizioni del binomio capitale - lavoro.
Certo, nessuno può negare che, in Messico come in Italia, Francesco stia portando avanti una battaglia per una chiesa diversa da quella fatto di scandali economici e di pedofilia costruita da Karol Wojtyla, anzi - continuo a dimenticare che l’hanno fatto santo. Vai a capire il perché… - da San Karol Wojtyla.
Basta questo per definire Francesco un papa rivoluzionario? Sì, se vi accontentate… Io, personalmente, continuo a preferirgli quel prete di Rio che occupava latifondi per restituire la terra ai contadini, celebrava messa di nascosto e che mi chiedeva un sigaro per accendere le molotov.

Lo strano caso di Nayef Zayed

justice-for-omarVive da oltre vent'anni in Bulgaria, dove ha moglie, figli e lavoro. Eppure da dicembre non può uscire dall'ambasciata palestinese a Sofia, pena l'estradizione in Israele. Con la complicità del governo bulgaro e della debolezza dell'Autorità Palestinese

Non è solo la libertà di Omar Nayef Zayed, la posta in gioco a Sofia, ma quella di tutti i rifugiati politici palestinesi in Europa. “Partigiano e combattente” per i sostenitori della causa palestinese, “terrorista e criminale” per l’esercito e il governo israeliano, dal 17 dicembre scorso, Zayed vive assediato nei locali dell’ambasciata palestinese della capitale bulgara. Due giorni prima, il Governo sionista aveva inoltrato una ufficiale richiesta di estradizione ma, poco prima dell’arresto, Zayed era riuscito ad involarsi ed a raggiungere la sua ambasciata.
Oggi, dopo quasi due mesi, Zayed vive ancora assediato nei locali di quella villetta a ridosso della zona universitaria di Sofia, che dal punto di vista del diritto internazionale sono territorio palestinese inviolabile.
Assediato, abbiamo scritto, non soltanto in quanto Zayed non può mettere il naso fuori della porta senza venire ammanettato ed immediatamente imbarcato per Tel Aviv, ma anche perché, per tutto questo tempo, la polizia bulgara non ha consentito l’accesso a nessun avvocato ed a nessun portavoce delle varie associazioni europee che si sono spese a favore della sua causa.
Lo stesso non si può dire per le pressioni esercitate dal governo israeliano tanto sulla Bulgaria, quanto sull’Autorità Palestinese, la cui indipendenza da Israele, come sappiamo, è poco più che formale. “Zayed è una bandiera della Palestina” ha proclamato l’ambasciatore a Sofia, Ahmad Madbouh, ma ha subito aggiunto che, purtroppo, le risoluzioni internazionali vanno rispettate e ha dato alla “bandiera” vari ultimatum – tutti disattesi – perché abbandoni i locali della sua ambasciata. Di diverso avviso il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha diffidato l’ambasciatore dal mettere alla porta Zayed, ricordandogli che, se cadesse nella mani di Israele, ad attendere l’ex combattente ci sarebbe un futuro di prigionia dura, isolamento e torture.

Ma chi è Omar Nayef Zayed? Esattamente come ha detto l’ambasciatore, Zayed è niente di più e niente di meno che una “bandiera della Palestina”. Un modello al quale molti giovani palestinesi, in particolare quelli legati a movimenti di sinistra e lontani da derive integraliste religiose, si sono ispirati per le loro lotte contro l’occupazione militare israeliana. Nato a Jenin, nel cuore del West Bank, 52 anni fa in una famiglia di combattenti (tanto il padre, quanto la madre che i suoi otto fratelli hanno conosciuto le galere israeliane), nell’86 ha fatto parte di un commando di tre persone che ha ucciso un colono che si era macchiato di atrocità nei confronti dei palestinesi.
Una “azione di guerra” per i palestinesi, un “omicidio a sangue freddo” per i sionisti. Arrestato e condannato all’ergastolo da un tribunale militare assieme ai suoi due compagni, Zayed comincia nel ’94 uno sciopero della fame che lo porta quasi alla tomba. Ricoverato in ospedale, riuscirà a fuggire grazie all’aiuto di altri combattenti palestinesi e dopo aver peregrinato per vari Paesi arabi, riparerà in Bulgaria, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico ed un permesso di soggiorno a vita. Da oltre 20 anni, Zayed vive a Sofia con un lavoro, una moglie e due figli, entrambi con la cittadinanza bulgara. Una vita tranquilla con una famiglia che sarebbe stata applaudita pure al Family Day, se non fosse arrivata la richiesta di estradizione da parte della giustizia israeliana che non gli ha mai perdonato, più che l’attentato, la rocambolesca evasione. I suoi due compagni infatti, sono stati liberati tre anni fa, in virtù di uno scambio di prigionieri con Hamas.
Come abbiamo sottolineato in apertura, non è solo la vita di Omar Zayed, la posta in gioco. In un momento in cui si alza la tensione tra l’Europa e il governo di Netanyahu sull’occupazione e sulla colonizzazione dei Territori, il caso Zayed rischia di venir interpretato come una necessaria contropartita. Già il “via libera” all’estradizione può essere letto sotto questa luce di compensazione. Sa da un lato, l’Europa non può accettare passivamente l’aperta violazione di trattati come quello di Oslo, ai quali essa stessa ha fatto da testimone, dall’altro non vuole rompere con il Governo sionista, seppur colpevole di violare i diritti umani ed internazionali. Israele continua pur sempre, nell’ottica dell’attuale politica europea, ad essere la principale e più affidabile sponda di dialogo dell’altra parte del Mediterraneo. La “bandiera di Palestina” rischia di dover pagare il prezzo di tutto questo. E con lui, tanti altri combattenti palestinesi che nei Paesi europei hanno trovato asilo sotto il protettivo status di rifugiati politici. Il caso Zayed insomma, può rivelarsi un precedente pericoloso. Se la “bandiera” può essere arrestata ed estradata, allora tutti sono in pericolo.

Cristiani di trincea. Ad Alqosh, la piccola Roma dell’Iraq, il Pkk difende la comunità caldea dall’Isis

37532927I bombardamenti francesi e americani a Mosul? Assolutamente inutili. Gli unici che davvero combattono l’Isis? I peshmerga ma soprattutto i combattenti e le combattenti del Pkk. A dirlo è un prete. Ma un prete di frontiera. Anzi, di trincea. Ghazwan Baho, parroco della “piccola Roma dell’Iraq”: Alqosh. Siamo nella piana di Ninive, a ridosso del confine con la Turchia, in quello Stato autonomo ma non dichiarato che è il governatorato di Ninawa nel Kurdistan iracheno. Se salite sull’unico campanile della città e allungate lo sguardo oltre i fumo delle esplosioni riuscite a scorgere il tenue profilo della città di Mosul, neppure 50 chilometri a meridione.
Io ci sono stato per puro caso (volevo andare a Ninive ma avevo sbagliato strada e, soprattutto, momento) con due amici medici, nel 2011, dopo aver assistito ad un social forum ad Erbil che ve lo raccomando come inutile inutilità. Allora le bandiere nere dell’Isis non sventolavano ancora su Mosul. Alqosh era presidiato dai peshmerga. Le postazioni di mitragliatrici e di mortai erano puntate a valle ma si limitavano a controllare i combattenti sunniti dislocati a valle. L’Iraq, anche se nessuno lo ammetteva, era uno Stato che già non esisteva più: le sue piane petrolifere erano già state smembrate tra le aree controllate dagli sciiti e quelle dominate dai sunniti. A nord est, sulle montagne, i curdi costruivano governatorati autonomi. Frontiere che nessuna carta geografica riporta.
La croce di Alqosh stava proprio nel mezzo. La croce, sì. Perché i caldei di Alqosh sono l’unica comunità cristiana del Medio Oriente. Anzi di più. Loro sono i primi cristiani. Prima ancora degli ebrei e dei romani, sono stati oro ad aver accettato il Vangelo ed ad aver costruito le prime chiese.

Adesso, possiamo anche discutere sinché volete se questo possa definirsi un merito… senza dubbio è una verità storica. Ad Alqosh, la piccola Roma dell’Iraq, la popolazione parla ancora l’aramaico, la lingua dei vangeli. E se chiedete a Ghazwan Baho che effetto fa ad un prete, parlare la lingua di Gesù Cristo, ti risponde: “Non siamo noi che parliamo la lingua di Gesù, è Gesù che era ebreo che parlava la nostra lingua”.
Baho ha una cattedra di aramaico all’università di Roma. Due mesi all’anno lascia Alqosh e viene in Italia a tenere i suoi corsi. L’ho rivisto con piacere due giorni fa in un incontro ad Arco di Rovereto. Mi ci ha invitato quel mio amico medico col quale ero andato in Iraq. Lui è un ex di Potere Operaio e tutte le volte che mi vede, siccome sa che vengo da Venezia, mi chiede “E come sta Toni? L’ultima volta che l’ho sentito era ancora in Francia”.
La serata di Arco, martedì 24 novembre al teatro S. Gabriele, è stata organizzata dall’associazione Versolamesopotamia, che in Iraq gestisce vari progetti umanitari, per presentare il documentario “Le campane di Alqosh” del regista Roberto Spampinato e, in anteprima, un assaggio di un’opera rock dedicata ai profughi, “Quo vadis?”, realizzata dal gruppo Brb in collaborazione col progetto Melting Pot e il centro sociale Bruno di Trento. Di questo lavoro musicale, magari ne parleremo in un prossimo articolo.
La serata di Arco è stata per me, una occasione per salutare Baho, ricambiare quel caffè che mi aveva offerto nella canonica mitragliata di Alqosh e per informarmi di come va la guerra nella frontiera dove si combatte i fascisti dell’Isis.
“Per noi, il momento peggiore è stato il 6 agosto del 2014, quando gli integralisti hanno sfondato la linea e per una settimana hanno occupato la città. In quei sette giorni, per la prima volta da 2 mila anni, le campane di Alqosh non hanno suonato. La popolazione è riuscita a fuggire nelle montagne grazie alla protezione dei peshmerga e abbiamo avuto poche vittime. Con l’aiuto delle combattenti e dei combattenti curdi del Pkk, Alqosh è stata riconquistata una settimana dopo e noi abbiamo ripreso possesso delle nostre case. Dobbiamo solo ringraziare il Pkk. Quello stesso Pkk che l’Europa bolla come terrorista!”
Musulmani che difendono i cattolici. Qualcuno potrebbe vederci una contraddizione…
“Qualcuno che sia disinformato! La battaglia che combattono i peshmerga e il Pkk non è per questa o quella religione ma per la libertà e per difendere le nostre vite. Come cristiano, io aborro la violenza ma, se qualcuno vuole uccidere degli innocenti, sto dalla parte di chi li difende, anche con le armi”.
Come si vive ad Alqosh oggi? “La situazione è sempre tesa. Il fronte è pochi chilometri a sud. Ogni notte sentiamo il rombo dei bombardieri francesi e americani che vanno a sganciare i loro carichi su Mosul. pssano proprio sopra le nostre teste”.
Sono utili questi bombardamenti?
“Assolutamente no. A parte finanziare chi vende e costruisce bombe. Più che altro fanno vittime tra la popolazione civile che già è massacrata da quei delinquenti dell’Isis. Le linee militari non vengono assolutamente colpite. Vien da pensare che o siano totalmente incapaci o lo facciano apposta a mancare sempre il bersaglio!”
Cosa ha impedito all’Isis di conquistare Alqosh, a parte la resistenza dei peshmerga?
“Posso darti tre motivi. Il primo è la grande croce che abbiamo costruito in cima alla città e che ci protegge”.
Va bene. Adesso dimmi gli altri motivi?
“La strada che ogni giorno viene percorsa da centinaia di camion carichi di varie merci, armi comprese, che porta da Istanbul al sud dell’Iraq. La pista d’asfalto corre a pochi chilometri a sud di Alqosh, tra noi e le linee dell’Isis. Quella non gliela hanno mai lasciata prendere. Quando ci provano, i bombardamenti franco americani colpiscono gli obbiettivi giusti! Ma forse il motivo principale è un’altro ancora”.
Un’altra croce?
“No. Intendo l’enorme oleodotto che va da Kirkuk, il giacimento di petrolio più grande del mondo, a dove non si sa. Il tubo corre a ridosso dell’autostrada. Neppure quello gli hanno mai lasciato prendere. E’ brutto dirlo, ma è la nostra assicurazione sulla vita”.

La guerra degli inganni. Intervista con Gideon Levy

140808095340-gideon-levy-story-topUn israeliano come tanti. Nato e cresciuto in una Tel Aviv in perenne stato d’assedio e bombardato sin dai primi anni di scuola dalla macchina della propaganda. Così si racconta il giornalista Gideon Levy ai ragazzi del liceo artistico Guggenheim di Venezia che ha incontrato nell’aula magna del loro istituto giovedì scorso. Un israeliano come tanti con soltanto una particolarità in più.
Lui, si è fatto delle domande.
“Sin da bambini ci raccontano che le sole vittime siamo noi, che gli arabi vorrebbero buttarci tutti a mare, che il nostro esercito è il più morale del mondo, che è cosa normale accettare la brutalità di quanto accade a pochi metri da noi, che non ci sono alternative a questo stato di cose. Quando ho cominciato a fare il giornalista ed a girare per i territori palestinesi, ho cominciato a chiedermi come tutto ciò fosse possibile. Come può essere il più morale del mondo un esercito che massacra donne e bambini? Come può una società come quella israeliana che, se un terremoto sconquassa Haiti è la prima a portare soccorso, possa convivere con tutto questo orrore? Eppure, se fate queste domande ad un israeliano, vi risponderà offeso che sono loro, le vere vittime“.
Gideon ricorda Golda Meir, una delle fondatrici dello Stato di Israele, che ripeteva “Non perdoneremo mai ai palestinesi di averci costretto ad ammazzare i loro bambini”. Ma c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo. E Gideon Levy se lo è chiesto, prima ancora che come ebreo, come vero giornalista.
“L’idea che noi siamo il popolo eletto è radicata in Israele non solo tra i religiosi ma anche in chi non è credente e non lo ammetterebbe mai: ‘Noi siamo l’élite dei popoli della terra, noi siamo le più grandi vittime della storia. Dopo l’olocausto, noi abbiamo il diritto di fare quello che vogliamo, di prenderci tutto quello che ci aggrada’. Nella storia dell’uomo ci sono tante occupazioni ma quella di Israele in Palestina è l’unica in cui gli aggressori si presentano come vittime. ‘Noi non vorremmo occupare ma siamo costretti a farlo! I palestinesi sono dei mostri e ci ucciderebbero tutti se potessero’ ”.

Una spessa coperta di bugie che è dura da sollevare perché è saldamente cucita da tutti i settori della società israeliana, dall’esercito all’istruzione, dal governo ai servizi segreti, dai mass media ai lettori.
“Non c’è particolare censura nel mio Paese. Sono i giornalisti che non vogliono raccontare la verità. Preferiscono tranquillizzare i loro lettori raccontando la frottola che tutto va bene. Dissenso? Certo. Ci sono numerosi, eroici, gruppi di ebrei che si battono per i diritti umani, ma sono assolutamente minoritari. Inoltre, nessun giornale da loro spazio e li bolla anzi come traditori. Io, che ho raccontato la vera occupazione di Gaza, ho dovuto girare con la scorta. E quando ho scritto che trattiamo i palestinesi come animali, mi sono arrivate centinaia di lettere di protesta… ma da parte delle associazioni di tutela degli animali!”
Alle basi di quanto accade, sostiene Levy, c’è il tacito consenso della comunità internazionale che, per comodo o per sensi di colpa non ancora superati, consente ad Israele di fare ciò che non permetterebbe mai ad altre nazioni. Quello che è apartheid in Sudafrica, in Israele è legittima difesa.
“Eppure cosa è, se non apartheid, quanto accade da noi? Fino a quando Israele non pagherà a livello internazionale il prezzo della sua arroganza, non ci sarà speranza in Palestina”.
La pace, spiega Gideon, passa lungo la strada della democrazia. Inutile farsi illusioni sulla vecchia proposta “Due popoli, due Stati”.
“Ci sono 600 mila coloni nei territori occupati. Non vedo nessun politico che voglia o abbia la capacità di sgomberarli. E, d’altra parte, il Governo ha permesso la colonizzazione dei territori proprio per scongiurare la creazione di uno Stato autonomo palestinese. A questo punto, sperare di salire su questo treno già partito, sarebbe solo una perdita di tempo. Dobbiamo capire cosa è Israele oggi e renderci contro che, in realtà, Israele è tra Stati. Il primo, democratico e difensore dei diritti civili, con i suoi cittadini ebrei. Il secondo, quello della discriminazione nei confronti dei suoi cittadini di origine palestinese. Il terzo, quello dell’apartheid, quello che uccide e tortura le donne, gli uomini e i bambini dei territori occupati. Questo triplice sistema deve essere abbattuto con la formula: un solo Stato per tutti, con uguali diritti per tutti. Le colonie? Restino, ma su una base democratica. Ma per arrivare a ciò, la comunità internazionale deve rendersi conto che Israele è uno Stato come gli altri e non gli è permesso discriminare in base alla razza. Proprio come non è stato consentito di farlo al Sudafrica. Inutile sperare che cambi qualcosa all’interno della società israeliana o che il Governo israeliano conceda a tutti gli stessi diritti, se ciò non gli verrà imposto con sanzioni e la perdita di finanziamenti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Non vedo altri sistemi capaci di porre fine alle sofferenze del popolo di Palestina”.
Gideon Levy conclude con un messaggio di speranza.
“Nella storia, gli avvenimenti accadono spesso inaspettati. Penso al muro di Berlino e alla caduta dell’impero sovietico. Chi se lo sarebbe aspettato, solo qualche mese prima? Proprio come quegli alberi che ammiriamo alti e forti. Poi, improvvisamente un giorno, li vediamo crollare e scopriamo che erano marci dentro. E io non riesco ad immaginarmi nulla di più marcio dell’occupazione israeliana in Palestina”.

Economia vs umanità. La catastrofe di Bento Rodriguez

image-919319-galleryV9-sknt-919319Le catastrofi non sono mai naturali. Meno che meno, appare naturale quanto accaduto al villaggio di Bento Rodrigues, che giovedì 5 novembre è stato letteralmente spazzato dal mondo da uno tsunami di acqua, fango e rifiuti tossici, causato dal crollo di una diga mineraria.
Siamo nello stato brasiliano di Minas Gerais, 300 chilometri a nord di Rio de Janeiro. Una regione in cui la tradizionale economia agricola basata sulla soia, sul caffè, sulla frutta e sulla canna da zucchero è stata via via rimpiazzata da uno “sviluppo” devastante costruito sullo sfruttamento della manodopera e delle risorse minerarie presenti, come il ferro e l’alluminio. Nell’ultimo ventennio, la regione ha visto la nascita di industrie di siderurgia, trasformazione dei minerali, elettronica e automobili (anche la Fiat, così come la Iveco e la Mercedes Benz hanno trasferito qui alcune fabbriche) così che lo Stato, secondo uno studio datato 2015 del Ministero del Lavoro brasiliano (fonte: il Sole24Ore) risulta il secondo, dopo quello di San Paolo, nella classifica 2015 delle “opportunità lavorative”.
Ciò che lo studio del Ministero non dice, è il prezzo pagato per tutto questo “benessere”. Benessere - va puntualizzato - riservato a pochi, perché a fronte di una occupazione di 161 mila e 103 persone nell’industria e nelle miniere, si è registrato come attestano i contro-dati diffusi dalla lega dei contadini poveri, un aumento esponenziale della povertà nelle aree rurali dove chi non riesce ad arrivare ai sussidi statali (vere e proprie elemosine) non ha altra strada davanti che quella che porta alla favella per vivere degli scarti della grande metropoli. Ben lontano dall’attuare la promessa riforma agraria, il Pt (partito dei lavoratori - quello di “sinistra”) che governa anche nello Stato di Minas Gerais, ha scatenato, come si legge in una nota della lega dei contadini poveri, “una politica di governo delle campagne è fatta di repressione: si susseguono come mai violenti sfratti, arresti, torture e uccisioni di dirigenti contadini, ‘quilombolas’ e indigeni a livello nazionale”.

Una “guerra per la terra” tra i contadini che vorrebbero trarne sussistenza e i latifondisti che preferiscono darla in gestione alle grandi compagnie minerarie. Miseria, fame, massacri di indigeni, sparizione della foresta pluviale, devastazioni ambientali, rapine di beni comuni, inquinamenti delle acque, diritti violati, desaparecidos… eccola qua l’altra faccia della medaglia delle “opportunità lavorative” legate allo sfruttamento minerario.
La catastrofe di Bento Rodrigues non ha proprio niente di naturale. Il crollo della diga di proprietà della compagnia mineraria Samarco (una joint venture tra la multinazionale brasiliana Vele - compagnia tristemente nota e sulla quale vi rimando a questo articolo di Peacelink perché dovrei scriverci un libro - e l’anglo australiana Bhp Billiton) è soltanto l’ultima battaglia di una guerra globale: quella dell’economia contro ogni forma di vita su questa terra.
Non è neppure un caso che a travolgere il villaggio di 600 anime, causando 11 morti accertati e una dozzina di dispersi, non sia stata soltanto l’acqua o il fango che hanno travolto le pareti della diga, costruita al solo scopo di contenere le acqua reflue della vicina miniera di ferro. Tra i 500 milioni di metri cubi di liquami (la cui eccessiva pressione sulle pareti della diga era stata segnalata dai tecnici ma ignorata dai dirigenti aziendali) sono stati trovati quintali di rifiuti tossici che, in spregio alla legislazione di tutela ambientale e di smaltimento dei residui di lavorazione, la Samarco travasava nel “suo” lago. 
Una catastrofe nella catastrofe. Le acque inquinate (purtroppo non si sa ancora quanto e come, considerato che l’azienda continua a negare anche l’evidenza), oltre a compromettere la fertilità dei terreni agricoli sottostanti, stanno confluendo nel grande rio Doce che è una dei principali rifornitori d’acqua della Regione, dalla foresta amazzonica alla sponda atlantica. Alcuni siti giornalistici brasiliani, parlano già di cadaveri di animali avvelenati, trovati sulla sponde del fiume. Ma possiamo stare tranquilli che le compagnia che privatizzano dell’acqua, aumenteranno il loro fatturato grazie a questo “incidente”. 
Frattanto, nel momento in cui scrivo, nel sito della Samarco non trovo una parola su quanto accaduto a Bento Rodrigues. In compenso, ci sono un bel po’ di articoli che spiegano quanto investono nel loro Plano de Recuperação Ambiental e nelle loro Ações (azioni) Humanitárias.
Dei veri benefattori dell’umanità.

Wirikuta, il deserto dove l’uomo bianco ruba il sole

Il sole è nato a Wirikuta. Tanto tempo fa, quando quasi la totalità della terra era coperta dalle acque ed i nostri antenati vivevano in una canoa, il sole bambino si levò dalla collina sacra chiamata Cerro Quemado. Camminò per tutto il giorno e, già grande, si fermò sopra le nostre teste, asciugando il mondo che ha la forma tonda di un peyote. Quindi scese ad Haramara, nel lontano ovest, si trasformò in un serpente e dovette lottare per la sua vita. Vittorioso, salì ancora in cielo da est, soffermandosi in tutti i luoghi in cui gli antichi avevano piantato alberi affinché egli non cadesse. E così il tempo degli dei si tramutò nel giorno e nella notte, affinché il popolo degli uomini potesse vivere.
Così raccontano gli sciamani huichol ai xukuri kate, che significa pressapoco “portatori delle ciotole”, che si apprestano al lungo pellegrinaggio verso la collina sacra per raccogliere il cactus hikuli, meglio conosciuto da noi come “peyote”. Non importa la strada. Quello che conta è il viaggio. Come recita un antico proverbio huicol, “tutte le strade portano a Wirikuta”. L’importante è andare, rinnovare l’antico patto tra il dio e l’uomo, conoscersi per quello che si è e conoscere il mondo per quello che noi siamo. Perché le credenze, come ha spiegato Lévi-Strauss con la sua scienza del concreto, altro non sono che fatti pragmatici. Wirikuta non è solo un pezzo di deserto nello Stato messicano di San Luis Potosí, ma l’essenza stessa, la ragione di esistere del popolo huicol.
Di tutto questo, la compagnia mineraria canadese First Majestic Silver vuol fare un bel piazza pulita, con la complicità del governo messicano che ha pensato bene di mettere all’asta una terra che non era sua ma degli huicol. Non è la prima volta che questo accade nel mondo. In particolare, nell’America latina. In particolare, qui nel deserto di Wirikuta, dove già nel 1600 gli spagnoli, alla ricerca di miniere d’argento, causarono lo sterminio degli indigeni guachichiles.
Oggi la storia rischia di ripetersi con altri carnefici e con altre vittime.
“Gli huicol vedono in Wirikuta la propria casa, il cielo, l’universo. Questo luogo è il fondamento stesso del loro divenire materiale e immateriale. A Wirikuta le essenze delle divinità wixaritari si incontrano con la biodiversità. Wirikuta è anche riconosciuto come Luogo Sacro Naturale del popolo huichol. Nell’ottobre 2000 è stato dichiarato Area Naturale Protetta per il suo grande interesse naturalistico. Purtroppo, come abbiamo visto, questo non ha impedito che diversi governi abbiano concesso licenze minerarie su questo territorio” spiega l’antropologo messicano Arturo Gutiérrez del Ángel, una delle più autorevoli voci che si sono spese contro le concessioni minerarie nel Wirikuta.
A fianco degli indigeni, sono scesi in campo gli ambientalisti, in nome di un “diritto alla natura” che accomuna popoli antichi e moderni ecologisti che sanno guardare al futuro senza perdere di vista il passato. Il Wirikuta è una delle tre aree semidesertiche biologicamente più ricche del pianeta; ospita specie endemiche esclusive, e - per quel che vale - è stato dichiarato area protetta anche dall’Unesco. Da sottolineare che la zona minacciata dalle estrazioni minerarie, che poi è quella dove si svolge il pellegrinaggio dei xukuri kate, pur facendo geograficamente parte del deserto di Chihuahua per appena lo 0,28 per cento della sua superficie complessiva, ospita il 50 per cento della flora, l’85 per cento degli uccelli e il 60 per cento dei mammiferi della regione. Nel territorio sono state riconosciute 453 specie florali, alcune di queste a rischio di estinzione, come il peyote. Questo paradiso di biodiversità è messo a rischio dall’attività estrattiva canadese che presuppone l’uso di inquinanti chimici, di cave a cielo aperto e di esplosivi. Senza contare l’enorme utilizzo di acqua per la lavorazione del materiale che, in una regione arida come questa, sarebbe sottratta alle coltivazioni e all’ecosistema, con l’effetto di desertificare tutto.
Nel Wirikuta, come in tutto il mondo, la battaglia per l’ambiente è la battaglia per la democrazia. La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sugli indigeni tribali stabilisce che l’organo della consulta è un diritto di tutti i popoli. Lo Stato messicano l’ha adottata ufficialmente nel giugno del 1990. Eppure questo diritto viene sistematicamente negato ogni qual volta si presenta all’orizzonte una “grande opera” che colpisce gli interessi degli indigeni ma che è sostenuta da un potentato economico.
“Perché - si chiede Arturo Gutiérrez del Ángel - negli ultimi anni si concedono indiscriminatamente terre messicane e di altri paesi impoveriti a imprese minerarie soprattutto canadesi? Perché gli Stati, tanto in America Latina quanto in Asia o Africa hanno risposte tanto deboli di fronte a queste imprese? Certo, il denaro e la corruzione sono il lubrificante che permette il movimento di questo meccanismo ma non è questa la sola spiegazione. Il governo federale canadese, nonostante tutti i trattati sui diritti umani che ha sottoscritto, continua ad offrire alle imprese minerarie protezione giuridica ed economica perché non si sentano minacciate da nessun tipo di atti di pressione”.
Ma c’è anche un altro scenario da considerare. In Messico, come in altri Paesi dell’America latina e dell’Africa, l’attività mineraria era stata parzialmente abbandonata dopo una serie impressionante di fallimenti e di devastazioni ambientali che avevano portato interi popoli che prima campavano con proprie risorse a mendicare negli “slum” delle grandi città. La tendenza si è invertita quando, sul finire degli anni novanta, nel panorama dell’economia globale si è affacciato un nuovo attore: la Cina comunista. Metalli come lo zinco, l’oro, l’argento, lo stagno, il bronzo, il nichel e il ferro sono indispensabili per la nuova potenza industriale che spinge per riaprire un mercato nel quale i diritti umani contano zero ma al quale i governi più poveri, e più ricattabili, non sanno rinunciare. Secondo il rapporto 2012 di The Gaya Foundation, tra il 2005 e il 2010 il settore minerario cinese è aumentato del 25 per cento e, nello stesso periodo, sono stati portati avanti 173 progetti minerari in 212 comunità di 16 Paesi dell’America latina. Nessuna di loro è stata preventivamente consultata sull’avvio del progetto, alla faccia della Convenzione 169 dell’Onu.
“In Messico, negli anni ’90 - conclude Arturo Gutiérrez del Ángel - il governo del presidente Ernesto Zedillo ha aperto le porte alle imprese minerarie, offrendo concessioni senza misurare le conseguenze sociali ed economiche che si sarebbero avverate nel futuro. L’aumento in scala dell’estrazione mineraria negli ultimi dieci anni è stato sorprendente e spaventoso. Sappiamo che le imprese minerarie non si auto regolano affatto. Sono gli Stati che dovrebbero avere questo ruolo. E decisioni di questa portata devono sorgere dal consenso emanato da una consulta aperta, trasparente e pubblica, di tutti gli attori coinvolti, in primis, i popoli indigeni. Gli alti livelli del potere federale non possono decidere quello che conviene ai popoli. Gli huicol devono essere gli architetti del loro futuro e hanno l’inviolabile diritto di conservare la propria tradizione, che dipende sostanzialmente, e non misticamente, da Wirikuta”.
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