Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

La deportazione degli “enfants de la Creuse”

La storia dei bambini dell'isola della Riunione: strappati dalle loro famiglie e trasferiti in Francia

Rum, canna da zucchero e vaniglia. L’economia dell’Île de la Réunion, l’isola della Riunione, è tutta qua e niente di più. Tentativi di promuovere il turismo vengono periodicamente rilanciati dalle autorità francesi che governano l’isola ma senza ottenere risultati significativi. Non tanto perché la Riunione non goda di splendidi paesaggi naturali che spaziano da un mare azzurro cobalto e canyon ideali per il rafting, quanto per la distanza di questa isola, che si trova quasi 700 chilometri ad est del Madagascar. Perduta in mezzo al grande oceano Indiano, Riunione versa in una crisi economica pressoché endemica, cominciata con l’occupazione francese e l’imposizione delle sopracitate culture nel tentativo, fallito, di far concorrenza a Sua Maestà Britannica che importava queste merci dai Caraibi. Ancora oggi, l’isola, che costituisce un dipartimento d’oltremare della Francia, ha un tasso di disoccupazione e di povertà tra i più alti di tutti territori amministrati dai francesi.

Ed è proprio in questo quadro di povertà estrema che negli anni che vanno dal 1962 al 1984 è stata compiuta la più grande deportazione forzata di tutta la storia della Francia repubblicana e, presumibilmente, anche di tutta l’Europa. Una storia con la quale la Francia di oggi non ha ancora fatto i conti. Una storia che solo in questi ultimi tempi è uscita allo scoperto grazie alle testimonianze delle vittime raccolte in inchieste giornalistiche, libri e opere cinematografiche.

In quegli anni, 2 mila e 15 tra bambine e bambini di età compresa tra i due e i dodici anni, furono portati via dalle loro famiglie di Riunione e trasferiti di forza in Francia per essere distribuiti tramite adozioni forzate in aree rurali a bassa natalità. I giornali li chiamarono gli “enfants de la Creuse”, dal nome di una di queste zone. Artefice di questa politica di deportazione che continuò sino alla presidenza di François Mitterand, fu il prefetto dell’Île de la Réunion Michel Debré, già ex ministro gollista molto influente in quegli anni. Debré mascherò la deportazione forzata come un’opera umanitaria, volta a contrastare l’incremento demografico e la povertà dell’isola e, nello stesso tempo, a ripopolare le aree rurali più depresse della madre patria.

«Nei fatti, però, questi minori furono vittime di sequestro, deportazione e di ogni sorta di maltrattamento, quali riduzione in schiavitù e abusi sessuali. Essi erano per lo più impiegati in agricoltura e pastorizia, ma le condizioni durissime di vita e di lavoro portarono molti di loro alla morte o al suicidio» spiega Maria Stefania Cataleta, legale per i diritti umani alla Corte Penale Internazionale.

Solo a partire dai primi anni del nuovo secolo, le terribili testimonianze degli ex deportati trovarono spazio nei media, grazie soprattutto a libri di denuncia come “Une enfance volee” di Jean-Jacques Martial 1 e “La Déportation des Réunionnais de la Creuse” di Élise Lemai 2. Sempre in quegli anni, anche il cinema scese in campo per denunciare all’opinione pubblica la deportazione dei bambini di Riunione con opere come “Le Pays des enfants perdus”, una serie televisiva firmata dal regista Francis Girod 3. Questi lavori, fortemente criticati dalla destra sovranista, mettevano a nudo una concezione spiccatamente colonialista dell’infanzia: i bambini potevano essere sottomessi ad un processo di adattamento forzato che comportava la recisione dei legami familiari e di quelli con la società d’origine, per un superiore fine nazionalista.

«L’ideologia repubblicana sottesa era che ogni cittadino francese, in questo caso i cittadini dell’isola della Riunione, potevano essere trasferiti ovunque in Francia senza alcuna difficoltà – commenta l’avvocata Cataleta – . Dall’altro lato, la retorica ricorrente nell’immaginario del popolo della Riunione era che il bambino creolo poteva essere privato di tutto, anche di se stesso dalle forze egemoniche, che applicavano le vecchie pratiche di oppressione coloniale».

Lo scandalo che seguì alla pubblicazione di queste opere tra l’opinione pubblica francese, fornì agli ex “enfants de la Creuse” il coraggio di denunciare i soprusi patiti intentando azioni legali contro lo Stato francese, ma quasi tutte queste cause sono state rigettate dalle Corti di giustizia del paese transalpino.

Solo nel 2014, gli ex “enfants” e le associazioni che li sostengono hanno ottenuto un primo successo perché l’Assemblea Nazionale ha votato una “risoluzione della memoria”, che ha sancito le responsabilità morali della Francia nei confronti di questi bambini strappati alle loro famiglie e alla loro isola.

Fare i conti con il proprio passato non è facile neppure per la Francia democratica. La vergogna di quanto è accaduto sessant’anni fa all’Île de la Réunion continua a far discutere l’opinione pubblica ma le voci negazioniste sono sempre più frequentemente zittite dalle testimonianze che continuano ad emergere di quei bambini e di quelle bambine che furono rapite dalla loro isola per fare da schiavi nelle campagne e nelle case francesi. Scrive nel suo libro “La Bête que j’ai été” (quella bestia che sono stato) l’ex “enfant de la Creuse” Jean-Pierre Gosse 4. “I miei soli amici erano i maiali, così avevo finito per muovermi come loro, a quattro zampe”.

Le frontiere della memoria. Dai Pirenei alla Valsusa sulle rotte dei migranti di ieri e di oggi

Un viaggio lungo le rotte dei migranti. Un viaggio attraverso l’Europa di quelle frontiere che non dovrebbero esserci più ma che invece ci sono ancora, e che ancora continuano ad uccidere chi non ha il documento giusto in tasca. Ma un viaggio soprattutto nella memoria, questa carovana lanciata da Abriendo Fronteras, per ricollegare gli orrori del passato a quelli di oggi. Quegli orrori che la Spagna ha vissuto durante il periodo franchista, quando i combattenti libertari e repubblicani, costretti a fuggire oltre confine con le loro famiglie, sono stati internati in campi di concentramento francesi come quello di Gurs o di Argelès-sur-Mer o di Rivesaltes. Campi che con l’arrivo della Repubblica collaborazionista di Vichy si trasformarono in veri e propri lager di sterminio in cui vennero rinchiusi anche ebrei, rom ed oppositori francesi.

Campi di ieri e campi di oggi. Anche nell’Europa di Schengen, nell’Europa della “libera circolazione”, le frontiere continuano ad esigere tributi di sangue. I nuovi lager sono chiamati “Cpr” e, proprio come i campi di concentramento di un tempo, rinchiudono persone che non si sono macchiate di nessun delitto se non quello di non avere il documento “giusto” nelle tasche. E, proprio come i campi di concentramento, nei Cpr non c’è spazio per i diritti. Quando avviene dietro quelle mura deve rimanere dentro le mura. Impossibile, non solo per un attivista ma anche per un avvocato, per un giornalista, per un medico entrarci dentro per fare quelle che, in fin dei conti, è il suo lavoro: difendere un innocente, informare i lettori, curare un ammalato. Niente di tutto questo è consentito in un Cpr. E la carovana internazionale Abriendo Fronteras lo ha constatato durante la manifestazione di sabato scorso, 23 luglio, a Torino, davanti alla struttura tra corso Brunelleschi e via Monginevro, blindata da cordoni di poliziotti in assetto antisommossa. Agli attivisti e alle attiviste non è stato consentito neppure di depositare un mazzo di fiori dentro il Cpr per ricordare Moussa Balde, il ragazzo di 23 anni originario della Guinea, morto dentro quelle mura. I fiori possono essere solo depositati all’esterno, appoggiati alle mura. 

La “Caravana” organizzata dalla rete spagnola Abriendo Fronteras, ha coinvolto circa 150 partecipanti, una dozzina dei quali venuti dall’Italia con il gruppo di Carovane Migranti. Partita da Irun, nel paese basco, il 15 luglio, il cui fiume / frontiera ha già ucciso almeno 21 migranti, le attiviste e gli attivisti hanno viaggiato lungo le Alpi ed i Pirenei, valicando le frontiere di Francia, Spagna e Italia, concludendo il suo cammino a Barcellona, domenica 24 luglio.

In ogni tappa del suo viaggiare, la carovana ha incontrato le realtà locali che lottano per le difesa dei diritti e dell’ambiente. Due battaglie che sono la stessa battaglia, perché il nemico è comune: quel sistema economico capitalista che mercifica tanto i diritti quanto i beni comuni. Lo si è capito molto chiaramente incontrando la gente dalla Valsusa, gli “zapatisti d’Italia”, che difendono la loro valle da quella mostruosa assurdità chiamata Tav che nemmeno la Francia sostiene più ma che in Italia continua a mungere denaro pubblico. E così Abriendo Fronteras ha viaggiato lungo splendide valli verdi dove a pacifici presidi di cittadini dove sventolavano le bandiere dei No Tav, si contrappongono intere aree recintate con filo spinato e difese da reparti dell’esercito con tanto di mezzi pesanti, cantieri fermi ma comunque militarizzati e continui checkpoint di polizia. Blocchi istituiti per fermare tanto i No Tav quanto i migranti senza documenti diretti in Francia. Ha conosciuto la straordinaria esperienza solidale del Rifugio “Fraternità Massi” gestito dall’Associazione Talitá Kum insieme ad una rete di associazioni, attivisti e volontari, luogo che nel 2021 ha dato ospitalità e sostegno ad oltre 15.000 persone migranti che cercavano di varcare la frontiera, sfuggendo alla morte dei percorsi innevati e ai respingimenti di una frontiera sempre più militarizzata. 

Per gli antifascisti di ieri come per i valsusini di oggi, per gli ebrei di ieri come per i migranti di oggi, è la storia che si ripete.

In una stele posta nel campo di concentramento di Dachau, è incisa una frase di Edmund Burke: “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. Anche per questo Abriendo Fronteras ha attraversato i Pirenei e le Alpi.

Le orme verdi di Irún

 «Le prime orme le abbiamo tracciate di notte. Siamo andate avanti a lavorare sino all’alba. Ogni tre passi, un’orma, stando attenti a marcare bene le deviazioni. Abbiamo scelto un colore verde fosforescente così che si veda bene anche al buio». Così racconta Maite Santamaria, attivista di Irungo Harrera Sarea, traducibile dalla lingua basca come “rete di accoglienza di Irún”.

Una città di frontiera di lunga tradizione, la basca Irún, che sorge a ridosso del confine francese che sorge a ridosso del confine francese, città da dove è partita la Carovana Abriendo Fronteras.

A soli sette chilometri di distanza, proiettato sull’oceano Atlantico, si trova il porto di Pasaia, uno dei più importanti di tutta la penisola Iberica. Più a sud, sorge l’aeroporto internazionale di San Sebastian, il più grande del Paese Basco. Anche lo scalo ferroviario della città è uno degli snodi merci principali che collegano la Spagna con la Francia e il nord Europa. 

Ad Irún la frontiera è tangibile. Potremmo scrivere che i suoi cittadini ce l’hanno dentro casa. Il confine con la Francia corre sulla acque del fiume Bidasoa che la divide da Hendaye, la sua consorella che sorge in territorio francese. In pratica, è la stessa città con due nomi diversi. Tanto a sud quanto a nord del Bidasoa la gente è sempre la stessa, parla la medesima lingua e si identifica nella cultura basca. Nella parte spagnola, gli abitanti di Irún vanno a comprare le sigarette che costano meno. La benzina invece la vanno a fare in Francia, dove è meno cara. Quando manifestano contro la frontiera, cantano tutti insieme una versione in lingua basca della canzone di Eros Sciorilli, “La riva bianca, la riva nera”, che in Italia è diventata famosa cantata da Iva Zanicchi.

Photo credit: Caravana Abriendo Fronteras (il fiume Bidasoa)

I migranti, ad Irún, sono arrivati all’improvviso, nell’estate del 2018, in fuga dalla ripresa dei conflitti nel Sahel e nei Paesi sahariani. I più arrivavano in treno da Madrid o da altre città di Spagna, imbarcati con un biglietto di sola andata dalla stessa Croce Rossa. “Non sapevano nemmeno dove erano capitati – racconta Maite – Si guardavano attorno spauriti, non sapevano perché non potevano proseguire per il nord Europa. Nessun o gli aveva spiegato che c’era un confine tra la Spagna e la Francia e che le guardie di frontiera non li avrebbe lasciati continuare il loro cammino. Le autorità comunali di Irún non avevano predisposto nessuna accoglienza. Respinti ai controlli effettuati sui ponti che attraversano il fiume, non avevano altra scelta che aspettare la notte per gettarsi in acqua e raggiungere la Francia. Almeno ventuno di loro sono morti affogati”.

Ad aprire per primo la porta dell’accoglienza è stato il gaztetxe (centro sociale, in basco) Lakaxita. Ma con l’arrivo dell’inverno e l’aumento del numero di migranti, gli spazi del gaztetxe non bastavano più. Le attiviste e gli attivisti di Irún allora hanno messo in pedi una efficiente rete divisa in quattro gruppi di lavoro. Il primo, Gautxori, si occupa di accogliere i migranti che scendono nel piazzale della ferrovia e dei bus. “Ci sono degli orari abbastanza precisi per gli arrivi – continua Maite -. Noi andiamo ad accoglierli, spieghiamo loro dove sono capitati e li accompagniamo alla Croce Rossa, che sta dall’altra parte della Città, dove possono trovare da mangiare e da dormire, sia pure solo per poche notti. Le orme verdi le abbiamo dipinte per dare una indicazione a quelli che arrivano quando noi non ci siamo e collegano la stazione con la sede della Croce Rossa”. Poi c’è il gruppo Ropero, che si incarica di fornire vestiti e cibo ai migranti, il gruppo Acogida che fornisce informazioni e mezzi a coloro che hanno passato la notte dalla Croce Rossa e ora intendono proseguire l viaggio. La strada tra la sede della Croce Rossa e l’Acogida è segnata da un’altra serie di impronte ma di colore bianco. Il quarto gruppo Laguntza Ayuda, si occupa invece delle persone vulnerabili come malati, bambini, donne in attesa.

C’è una vergognosa ipocrisia di fondo alla base di un sistema di accoglienza così indegno – commenta Maite -. Questi migranti provenienti dal nord Africa non vogliono fermarsi in Spagna. Il Governo e la stessa Croce Rossa lo sanno bene, e così non si fanno scrupolo di spedirli con tanto di biglietto del treno alla frontiera, ben sapendo che non hanno i documenti in regola per poterla attraversare! La ‘soluzione’ che hanno adottato è quella di far finta di non vedere. Poi, se la gente affoga nel tentativo di guadare il fiume, tutto quello che hanno fatto è piazzare qualche cartello sulla riva con la scritta ‘Attraversare il fiume a nuoto è pericoloso’ scritto, per di più, in una lingua che ben pochi migranti conoscono”.

L’emergenza creata a Lampedusa aiuta a legittimare rimpatri e accordi dalla dubbia legittimità

Cumuli di immondizie alti come un uomo, bagni fatiscenti, stanzoni sovraffollati, pavimenti e mura di cemento, finestre sgarrate. Uomini malnutriti e stanchi, donne, bambini, che cercano riparo dal caldo assassino di questa estate, abbandonandosi su materassi sfondati, buttati nei cortili, sotto le fragili ombre di quei pochi alberi chi si alzano appena fuori del perimetro militarizzato del centro. 

Sono immagini e video davvero terribili quelli che i migranti rinchiusi nell’hotspot di Lampedusa inviano quotidianamente ai referenti della Campagna LasciateCIEntrare per denunciare il modo in cui sono costretti a vivere. 

LasciateCIEntrare già il 19 giugno aveva denunciato la situazione di sporcizia e sovraffollamento dell’hotspot. Ma ogni anno, soprattutto d’estate, si ripete lo stesso copione

Sin dal suo costituirsi la campagna ha denunciato i centri di detenzione e i grandi centri per migranti come zone franche in cui i diritti umani sono quantomeno sospesi, per non dire negati. Lampedusa non fa eccezione. Attivisti e giornalisti in queste strutture sono tenuti lontani. Impossibile anche solo sapere quante persone sono presenti nell’hotspot di Contrada Imbriacola. Secondo l’ex sindaca del Comune isolano Giusi Nicolini, la scorsa settimana sarebbero state ammassate almeno duemila e cento. Secondo i dati forniti dal governo venerdì scorso, 8 luglio, erano ospitate 1.878 persone per una capienza massima che dovrebbe essere di 350. 

Uomini, donne, quattro delle quali incinte, e anche bambini costretti a subire trattamenti inumani e degradanti, a mangiare e dormire per terra tra i rifiuti, senza assistenza medica anche per i più vulnerabili, senza neppure sapere quale sarà il loro futuro. «Sembra la Libia ma è l’Italia» aveva dichiarato l’ex sindaca. 

Il giro di purgatorio sulle navi quarantena, più volte denunciato come inutile, costoso e punitivo dalla campagna LasciateCIEntrare insieme a molte altre organizzazioni e inserito nella relazione al Parlamento dal Garante nazionale1, ha finalmente chiuso i battenti. L’ultimo viaggio è salpato i primi di giugno pure se la pandemia è tutt’altro che finita. Dopo le polemiche di questi ultimi giorni, a seguito del via vai delle navi militari che portano i migranti in accoglienza o nei CPR, il Viminale afferma che ora le persone presenti nell’hotspot sono 145. Ma sono numeri variabili e già gli approdi di queste ore e altri fattori li faranno aumentare o diminuire. 

I tunisini, in particolare, vengono rimpatriati d’urgenza, senza che venga data loro la possibilità di contattare un avvocato e avviare la richiesta di asilo2. Vengono smistati con costi altissimi nei diversi CPR sparsi in giro per l’Italia, perfino i soggetti vulnerabili sottoposti a trattenimenti anche prolungati. Non a caso e non di rado scoppiano proteste, in questi giorni è il CPR di Caltanissetta teatro di violenze della polizia, ma domani potrebbe essere Torino o Macomer. «Questo che accade da due anni ed oltre è il leitmotiv» – denuncia Yasmine Accardo, referente di LasciateCIEntrare. «Ci sono anche casi di persone tornate in Italia per la seconda volta (oggetto quindi per la nostra normativa di reato di reingresso). La prima volta erano stati espulsi senza aver accesso nemmeno ad una informativa, molti speravano con la seconda di riuscire a riconquistare un diritto. Ma nulla cambia. Nemmeno stavolta ci sono riusciti». 

«Le persone – prosegue l’attivista – sono trattenute nell’hotspot di Lampedusa senza accesso a legali di fiducia. Sanno che un giudice li giudicherà altrove, senza che possano essere presenti e soprattutto senza un difensore che ne conosca la storia, ricevendo così una veloce sentenza di condanna ed espulsione. Questa è la prassi oramai consolidata. Reato di reingresso che in realtà dovrebbe essere guardato come ricerca di giustizia negata ancora e ancora». 

Paesi come la Tunisia o l’Egitto continuano ad essere ipocritamente considerati come “sicuri”, oggetto di accordi sui quali cosa ci sia scritto non è dato a sapere e sulla cui legittimità molto ci sarebbe da dire e fare. 

«Vent’anni dopo, si continua ad affrontare il problema delle migrazioni sotto l’ottica dell’emergenza, creandola, come avviene oggi all’hotspot di Lampedusa – commenta amaramente Yasmine Accardo -. E proprio in virtù di quest’ottica, i diritti umani passano in secondo piano, se non addirittura disattesi. I finanziamenti milionari vengono dirottati in centri di detenzione e in pratiche di polizia invece che nell’accoglienza. Molte delle persone rinchiuse a Lampedusa non sanno nemmeno dove sono finite e perché. Non si aspettavano di ritrovarsi in un incubo simile. Uno dei tanti migranti tunisini che da Lampedusa è stato spedito nel CPR di Gradisca e qui trattenuto per otto mesi prima di essere rimpatriato, mi ha detto piangendo che lui l’Italia l’ha potuta vedere solo da dietro le sbarre». 

CPR di Gradisca – Le proteste spesso avvengono per le condizioni in cui le persone sono recluse e per la mancanza di assistenza sanitaria

E’ incredibile che ogni estate a Lampedusa si ripeta lo stesso copione. La possibilità di organizzare dei veloci trasferimenti verso le altre regioni italiane e il sistema di accoglienza sarebbe nelle facoltà di uno Stato che ad oggi è riuscito ad accogliere oltre 145 mila profughi ucraini. Ma lo stato di emergenza permanente serve a legittimare la politica del governo con le sue prassi d’urgenza e gli accordi bilaterali dalla dubbia legittimità, a stringere patti con dittatori costantemente riabilitati in quanto “necessari” fino a rifinanziare le milizie libiche, con l’ovvia conseguenza di riportarci ad un livello di dibattito pubblico sempre al punto di partenza e reso ancor più infimo dai facili slogan ed isterie della destra.

  1. Nel 2021 ha determinato un’ulteriore bolla temporale nel percorso di viaggio delle 35.304 persone che vi sono transitate, senza possibilità di esprimere negli undici giorni di permanenza media a bordo le proprie esigenze di protezione internazionale“. Dalla Relazione 2022 al Parlamento del Garante, pag. 62 : https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/c8c57989b3cd40a71d5df913412a3275.pd
  2.  “Nel 2021, la sorte dell’immediato trasferimento in un Cpr e del ritorno forzato a chi era appena giunto in Italia è toccata a 1.221 persone, per lo più di nazionalità tunisina (1049) o egiziana (170), tutte allontanate con voli charter organizzati dalla Polizia di Stato“. – pag. 63

Dai Pirenei alle Alpi, dalle rotte dei migranti al filo della memoria

Una carovana per riprendere il filo di una memoria perduta, intrecciare reti ed immaginare un diverso futuro di accoglienza. Una carovana che percorrerà le Alpi e i Pirenei, seguendo le rotte dei migranti, attraversando quelle frontiere che l’Europa ha prima abbattuto e poi ancora eretto. Frontiere che continuano a mietere vittime ed a causare sofferenze.

Cadono le frontiere di terra e di mare”, “Finalmente una Europa senza frontiere”. Così i giornali italiani aprivano le loro edizioni del 31 marzo 1998, lasciando ampio spazio alle cerimonie che i ministri dell’epoca avevano organizzato ai valichi di frontiera tra i Paesi europei, dove proprio quel giorno cominciavano a venir smantellati le barriere e le garrite di controllo. C’erano voluti tre anni per tradurre in pratica l’accordo di Schengen sulla libera circolazione, entrato ufficialmente in vigore il 26 marzo 1995. Accordo che inizialmente riguardava solo sette Stati ma che progressivamente si era esteso a quasi tutti i Paesi europei. Il 26 ottobre ’97 erano già stati aboliti i controlli aeroportuali, poco dopo toccava ai porti e ai traghetti.

Ma le frontiere non erano destinate a morire a Schengen. Altre frontiere venivano esternalizzate nel sud del Mondo, dalle acque del Mediterraneo al deserto del Sahara. Frontiere di sangue che hanno destabilizzando Paesi e portato guerre e devastazioni. L’Europa si trasformava in una fortezza. Poi altri muri, destinati a fermare le migrazioni “interne”, venivano alzati all’interno della stessa Unione Europea, là dove era stati abbattuti. 

«Le frontiere interne che nel secolo scorso erano clandestine per coloro che fuggivano dai regimi totalitari europei, sono oggi tornate clandestine per coloro che sono costretti ad affrontare le politiche migratorie, economiche e commerciali dell’UE» si legge nell’appello lanciato dalla rete spagnola Abriendo Fronteras, che conclude: «Pertanto, sarà il filo della memoria a guidare il percorso di questa carovana». E le frontiere da aprire sono quelle che ieri erano state alzate per noi, cittadini d’Europa, ed oggi per i migranti, cittadini della Terra.

«Visiteremo luoghi della memoria – continua l’appello – come il campo di concentramento di Gurs, accanto a Oloron, costruito nel 1939 in cui furono detenuti più di 5 mila repubblicani, per lo più di origine basca, che dopo la sconfitta della Seconda Repubblica attraversarono il confine con la Francia e che in seguito divenne un campo di concentramento per prigionieri politici francesi e per più di 14 mila ebrei». C’è sempre un ebreo, un terrorista, un “clandestino”, una menzogna dietro il sorgere di una frontiera.

«Proprio per questo è importante conoscere le storie di queste frontiere, sentire i racconti di chi ne ha subito le conseguenze e di chi ha lottato nel passato e lotta nel presente per abbattere questi muri costruiti su menzogne e politiche disumane e razziste – racconta Gianfranco Crua, attivista torinese di Carovane Migranti -. Una conoscenza che ci dà anche l’opportunità di intessere relazioni e di fare rete con le attiviste e gli attivisti dei movimenti europei per i diritti umani».

Il percorso della carovana

La carovana partirà da Irun il 15 luglio per attraversare due catene montuose, far tappa in Val di Susa e arrivare a Torino dove si svolgerà una manifestazione di denuncia davanti al Cpr di via Brunelleschi. Quindi i carovanieri torneranno in Spagna per concludere il viaggio a Barcellona il 24 luglio. Sul sito di Abriendo Fronteras potete scorrere il fitto elenco di iniziative e di incontri previsti durante la carovana.

Almeno 150 saranno le attiviste e gli attivisti che parteciperanno alla carovana lanciata da Abriendo Fronteras col sostegno dell’associazione italiana Carovane Migranti e della francese Tous Migrants. Una quindicina circa saranno i partecipanti provenienti dal nostro Paese. Tra le numerose adesioni all’iniziativa, anche Melting Pot Europa e LasciateCIEntrare. «Non possiamo guardare dall’altra parte nella più grande crisi umanitaria della storia in cui l’inevitabilità degli sfollamenti forzati sta distruggendo la vita di migliaia di persone – conclude l’appello -. Ecco perché percorreremo i confini interni di ieri e di oggi, in memoria di coloro che nel passato e nel presente hanno perso la vita, per rivendicare memoria, giustizia, riparazione e non ripetizione e per spogliare il neofascismo del suo travestimento. Vogliamo vita, accoglienza dignitosa e diritti per tutte le persone».

Bloccato il primo volo dei richiedenti asilo per il Ruanda

 Mobilitazione e Corte europea rovinano i piani del governo britannico

«Una giornata che sarà ricordata sui libri di storia». Così James Wilson, portavoce di Detention Action, una importante associazione per i diritti umani britannica, ha definito in una intervista al Guardian questo martedì 14 giugno. 

«Finalmente la Corte europea dei diritti dell’uomo, che, ricordiamocelo, è stata istituita all’indomani dell’Olocausto, ha fatto ciò che avrebbe sempre dovuto fare». La Corte infatti ha ingiunto alla Gran Bretagna di fermare il volo che avrebbe dovuto decollare verso il Rwanda alle 22.30, ora di Londra, dall’aeroporto militare di Amesbury con lo scopo di “ricollocare” i primi sette immigrati irregolari come conseguenza del discusso accordo che il governo britannico ha stabilito con quello di Kigali. 

«Raramente la Corte europea interviene in questioni legali dei paesi membri – ha spiegato Wilson -. Il fatto che lo abbia fatto ora, dimostra quanto sia potenzialmente pericolosa questa politica di ricollocazione forzata dei migranti in Africa».  Delusione per il rinvio del volo è stata manifestata dalla portavoce del governo di Kigali, Yolande Makolo, che ha ribadito come «Il Ruanda rimane pienamente impegnata a far funzionare questa partnership». Sulla stessa lunghezza d’onda la ministra degli interni britannica, Priti Patel: «L’ingiunzione della Corte europea non ci scoraggerà dal fare la cosa giusta e dal continuare a controllare i confini della nostra nazione. L’accesso al sistema di asilo del Regno Unito deve essere basato sulla necessità, non sulla capacità di pagare i trafficanti di persone. Le richieste al sistema attuale, il costo per i contribuenti e i flagranti abusi sono in aumento e i cittadini britannici ne hanno giustamente avuto abbastanza». 

“Oggi abbiamo vinto”, ha dichiarato Stop Deportations dopo che il volo è stato bloccato, “ma continueremo a lottare domani e contro ogni deportazione razzista”.

Proprio su i costi della fallita operazione di ricollocamento, i giornali britannici – tradizionalmente molto attenti alla gestione del denaro pubblico! – hanno insistito per rimarcare il fallimento del loro Governo. Il volo non partito è costato la 500 mila sterline (576 mila euro), la firma dell’accordo con il Rwanda per “ospitare” i migranti espulsi dalla Gran Bretagna, 120 milioni di sterline (poco più di 138 milioni di euro). Senza contare che, notano con disappunto quelli del Guardian, «Il Governo ha rifiutato di specificare quanto ha pagato in spese legali e non ha neppure detto quanto costerebbero i futuri voli e di fare un  bilancio di stima su l’alloggio e il costo della vita per i migranti inviati in Ruanda». Come dire: ci costa molto meno tenerli qua! Ma la vera notizia, al di là del mero calcolo economico che pure affascina da sempre l’elettorato inglese, e anche della sentenza della Corte europea a favore dei migranti, riguarda le partecipate manifestazioni di protesta che si sono svolte oltre Manica per impedire la partenza dell’aereo per Kibali contro le quali il Governo di Sua Maestà ha usato la mano pesante. 

Un gruppo di attivisti per i diritti umani si è incatenato anche davanti al cancello d’ingresso del Ministero della Difesa, resistendo ai tentativi di sgombero sino a quando non hanno avuto la sicurezza che il volo sarebbe stato cancellato. Enver Salomon, responsabile del Refugee Council, si è dichiarato contento che il volo sia stato bloccato e ha manifestato preoccupazione sulla gestione della politica inglese sull’immigrazione: «E’ chiaro che il Governo rimane determinato a proseguire con questo accordo col Rwanda. Il fatto che il volo non sia riuscito a decollare testimonia la disumanità di questo piano che causerebbe sofferenze indicibili a persone disperate che hanno semplicemente bisogno di sicurezza, ma questo il Governo non lo vuole capire. Quelli minacciati di rimozione sono persone sfuggite a guerre, persecuzioni, torture e violenze. Ed è incredibile che ci siano voluti interventi legali per dimostrare che questa ricollocazione forzata era una chiara violazione dei loro diritti. Addirittura abbiamo dovuto intervenire per impedire che i dei minorenni fossero falsamente valutati come adulti e portati in Rwanda». 


Nazia Perveen Bhatti in fuga dal patriarcato, vittima a Ferrara delle discriminazioni istituzionali

Fuori dalle graduatorie per una casa popolare perché il Comune privilegia gli anni di residenzialità al bisogno, e senza reddito di cittadinanza da tre mesi per una quando meno assurda motivazione dell’Inps. 

E’ ancora in alto mare l’odissea di Nazia Perveen Bhatti, la donna pakistana 42enne, e dei suoi due bambini italiani di nove anni e dieci anni, la cui vicenda abbiamo raccontato su un precedente articolo per Melting Pot1. La donna che risiedeva a Sant’Angelo in Vado, in Provincia di Pesaro e Urbino, era stata portata con l’inganno in Pakistan dal marito, Shahid Muzammal, cittadino italiano di origine pakistana, che qui l’aveva abbandonata con i due figli, dopo aver sequestrato loro tutti i documenti, per rientrare da solo in Europa e raggiungere la nuova compagna. Nazia, caparbiamente, ha trovato il coraggio di ribellarsi: è scappata dal Pakistan, dove una donna non può nemmeno sognarsi di opporsi alla volontà del marito padrone, ed è tornata in Italia nell’estate del 2019 dove ha denunciato l’uomo per le violenze alle quali è stata sottoposta durante la vita in comune. Grazie all’aiuto della volontarie dell’associazione PortAmico, Nazia ha intrapreso una difficile battaglia legale e nei primi di giugno del 2020, è riuscita a riportare i suoi due bambini in Italia.

Ma la sua coraggiosa decisone di ribellarsi al patriarcato pakistano, le ha fatto scattare un protocollo di sicurezza in quanto possibile obbiettivo di vendette violente da parte del marito o dei parenti.

In fuga dalle Marche, Nazia e i suoi bambini hanno trovato rifugio a Ferrara. Impossibilitata ad ottenere velocemente la cittadinanza italiana in virtù dei nuovi criteri sulla “sicurezza” – imposti dall’allora ministro Matteo Salvini e non del tutto cancellati con il decreto Lamorgese -, Nazia ha fatto comunque richiesta per una casa popolare, ma è stata esclusa dalle graduatorie che, nel Comune amministrato dalla Lega, privilegiano gli anni di residenza al bisogno in nome del principio tutto legista di “prima gli italiani”.

Una aberrazione non solo etica ma anche legislativa, contro la quale, sempre su sollecitazione di PortAmico, gli avvocati Asgi Alberto Guariso di Milano e Massimo Cipolla di Ferrara hanno inoltrato ricorso, vincendo in prima istanza la causa. “Il tribunale di Ferrara ha accertato il carattere discriminatorio della condotta del Comune che ha impostato le graduatorie su un requisito di residenza senza alcun tetto – ha spiegato l’avvocato Cipolla -. In questo modo, l’assegnazione dell’alloggio Erp viene determinato a prescindere dalle condizioni di bisogno o di disagio”.

L’amministrazione della città estense nella persona del sanguigno sindaco leghista Alan Fabbri, non ha preso bene la sentenza. Nazia e un’altra donna di origine marocchina che aveva inoltrato ricorso con lei, sono state immediatamente bullizzate sui social del Comune gestiti dalla nuova squadra di comunicazione messagli in piedi da Michele Lecci, già giornalista di Libero, già sanzionato dall’Ordine, ed organizzatore della squadra di 4 persone (64 mila 662 euro di stipendio lordo l’anno ciascuno pagati con denaro pubblico!) che con il loro operato favoriscono le campagne di shitstorming del Comune in puro stile della Bestia di salviniana memoria. Nonostante Nazia si trovasse sotto un regime di protezione, è stata segnalata con nome e cognome in un post Facebook a firma del sindaco e pesantemente accusata di “ingratitudine” nei confronti dei veri italiani, in questo caso l’amministrazione leghista della città. Vi risparmio i commenti e i relativi insulti dei “bravi cittadini ferraresi” o di semplici troll, che mi è toccato leggere sotto il post!

Alan Fabbri, va detto, non è nuovo a questi attacchi personali. Solo pochi giorni fa, un avvocato, noto in città per il suo impegno civile, ha subito lo stesso trattamento di macelleria sociale solo per aver criticato un post del sindaco in cui compariva una bambina delle elementari con in mano un cartello in cui si ringraziava il sindaco per il suo impegno a favore di Ferrara.

La sentenza del tribunale a favore delle ricorrenti non ha fatto cambiare rotta al Comune che è andato in appello a Bologna. Il 14 si è svolta l’udienza cartolare e si attende una sospensiva. Gli avvocati sono moderatamente fiduciosi ma, come è comprensibile, non si sbilanciano.

Come se non bastasse, l’Inps ha congelato da ottobre il reddito di cittadinanza che permetteva a Nazia e ai suoi bambini di tirare avanti. E il perché di questa decisione lascia sbigottiti. Dopo tre mesi di burocratismi e di inutili colloqui ai vari sportelli, e dopo l’inoltro di una formale diffida all’Inps dell’avvocato Cipolla in cui si chiedevano lumi su questa esclusione sino ad ora immotivata, l’ente ha risposto che il nucleo familiare di Nazia risulta composto anche da suo marito, specificando che “Coniugi con diversa residenza fanno sempre parte dello stesso nucleo ad eccezione dei casi di separazione, cessazione degli effetti civili del matrimonio, decadenza dalla potestà genitoriale, provvedimento di allontanamento dalla residenza familiare, abbandono del coniuge accertato giudizialmente”. E pazienza se la donna ha inoltrato un bel po’ di formali denunce sulle violenze subite da parte del coniuge e sull’abbandono di lei e dei figli con tanto di furto dei documenti.

Quello che non hanno fatto i servizi sociali di Ferrara, ancora lontani dall’attivare qualche ammortizzatore sociale per Nazia, lo hanno fatto la solidarietà di tanti ferraresi e, in particolare, la Curia arcivescovile e la Caritas. Lo stesso arcivescovo della città estense, Gian Carlo Perego, attraverso la Caritas, si è fatto carico in prima persona della donna e dei suoi due bambini trovando loro un alloggio a prezzo calmierato, senza sollecitare nessun arretrato d’affitto, ed aiutandola nel sostentamento quotidiano. Qualche giorno fa, l’alto prelato ha inviato una lettera a Nazia in cui si firma come “Gian Carlo arcivescovo” e nella quale tira indirettamente le orecchie all’assessorato all’Assistenza Sociale del Comune leghista. “Gentile signora Nazia – si legge -, capisco la sua delusione in una burocrazia che disarma e anche indebolisce la rete di solidarietà di amici, amiche e realtà attorno Lei. Non disperi. I suoi figli, la sua libertà sono le premesse importanti per una vita nuova. Da parte mia le chiedo di affidarsi ancora alla Caritas che è il nostro organismo ecclesiale che cerca di far sentire al meglio la prossimità alle persone in difficoltà. Spero che il nuovo anno sia per Lei pieno di giustizia e di pace”.

Nazia intanto che la Corte d’appello di Bologna la riammetta nelle graduatorie e che l’Inps si renda conto dell’assurdità della sua decisione, sopravvive sbrigando qualche lavoretto domestico che i vicini o le amiche le procurano. I suoi figli vanno a scuola e piano piano stanno recuperando gli anni che hanno perso in Pakistan, dove non potevano nemmeno accedere all’istruzione. Attende la sua cittadinanza e che si concluda la pratica di divorzio con l’assegnazione degli alimenti. “Il mio obiettivo è quello di emanciparmi – spiega Nazia -. Parlo bene l’inglese e sto migliorando con l’italiano che, seppure sono da tanti anni in Italia, non ho mai potuto imparare perché mio marito non mi lasciava uscire di casa. Adesso ho potuto seguire corsi di formazione professionale di cucina, pulizia e di informatica. Vorrei lavorare e far crescere i miei figli in un mondo più giusto”.

  1. Due bambini sottratti alla madre e nascosti in Pakistan: https://www.meltingpot.org/2020/02/due-bambini-sottratti-alla-madre-e-nascosti-in-pakistan/

Lo “straniero” non fa più notizia per il Rapporto Carta di Roma 2021

La prima notizia è che l’immigrazione non fa più notizia. Da gennaio ad oggi, sono solo 660 gli articoli su questo tema che si sono meritati almeno uno “strillo” in prima pagina nei quotidiani italiani. Un buon 21% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, il 2020, che già registrava un forte calo rispetto agli anni precedenti. L’immigrazione in altre parole, è un tema che preoccupa sempre meno gli italiani e la pandemia che è diventata il primo punto nelle agende delle redazioni, ha solo dato un’ulteriore spinta ad una tendenza al ribasso che si stava registrando da alcuni anni. Oggi, soltanto il 6% dei cittadini italiani ritiene l’immigrazione “un problema di emergenza prioritaria”. 

Ecco quanto emerge dalla IX rapporto presentato mercoledì in diretta streaming dalla sede romana della Stampa Estera dall’associazione Carta di Roma. Rapporto dal significativo titolo di “Notizie ai margini”.

La seconda notizia è che, pure se se ne parla poco, dell’immigrazione si continua a parlare male

Termini impropri e fuorvianti come “clandestino” o “invasione” continuano a tenere banco soprattutto in quotidiani come Il Giornale al quale va il triste primato dei titoli allarmistici. Va sottolineato che l’uso, anzi l’abuso, di questi termini, pur se diminuito in valore assoluto, è cresciuto di percentuale. Come a voler riconquistare l’interesse in calo dei lettori con toni più accesi e astiosi nel riportare la notizia.

Le notizie che in questi anni hanno catalizzato l’attenzione, ispirato campagne elettorali, condizionato le politiche europee, nutrito l’odio di molti, portato la pura nelle nostre case, nel 2021 sono rimaste prevalentemente lì, in quello spazio un po’ indefinito a due passi dall’indifferenza, relegate in un angolino della comunicazione giornalistica – ha commentato il presidente dell’associazione carta di Roma, Valerio Cataldi -, ma sempre pronte a riprendere vita quando lo pretenda il ringhio preparatorio della prossima campagna elettorale”.

Il rapporto è stato curato da Chiara Zanchi e Giuseppe Milazzo, dell’Osservatorio e dell’Università di Pavia. A commentarlo, tra tanti giornalisti, anche il politologo Ilvo Diamanti che ha sottolineato come i tempi delle “grandi paure” siano oramai alle nostre spalle. Lo dimostrerebbe la preoccupazione suscitata dall’entrata dei talebani a Kabul che non ha riguardato tanto l’arrivo di una nuova ondata di profughi nel nostro Paese quanto, come ha dimostrato un sondaggio condotto da Demos, le terribili condizioni in cui sono precipitate donne, uomini e bambini afghani. In fondo, ha concluso lo studioso, “uno straniero senza patria e senza volto che naviga tra noi senza bisogno di imbarcazioni o di attraversare confini clandestinamente, ce lo abbiamo già in casa: il covid. Uno straniero invisibile che ha reso meno visibili gli stranieri che provengono da altri Paesi”.

Camminando nell’occhio del ciclone

Sono loro le prime vittime dei cambiamenti climatici: le bambine e i bambini che questa crisi non l’hanno causata ma ereditata dalle generazioni precedenti. Ed a pagarne il prezzo più duro sono e saranno proprio i minori più vulnerabili, i figli di coloro che meno sono responsabili di questa crisi e che hanno meno risorse da investire per farci fronte: i bambini delle famiglie povere, nati in aree rurali ed in Paesi a basso reddito.

Una crisi, quella climatica, che non è un problema di domani ma dei nostri giorni e che, per come vanno le cose, rischia solo di peggiorare negli anni a venire, investendo strati sempre più larghi di popolazioni costretti ad abbandonare le loro case per le inondazioni, la desertificazione ed il fallimento dei metodi tradizionali di agricoltura che avevano sostenuto le generazioni precedenti. Nel 2017 almeno 300 mila bambini sono stati costretti ad emigrare da soli, senza nessun familiare a loro sostegno. Un numero cinque volte maggiore rispetto al 2012.

La copertina del rapporto

L’umanità intera sta per essere investita da un ciclone di proporzioni non ancora immaginabili di cui oggi stiamo avvertendo le prime avvisaglie. E già ora le prime vittime sono i bambini. Guardare nell’occhio del ciclone per prepararsi ad affrontare questa crisi è quanto ha fatto Save The Children nell’ultimo rapporto “Walking into the Eye of the StormHow the climate crisis is driving child migration and displacement” ("Nell’occhio del ciclone - la crisi climatica e le migrazioni dei minori") [1].

L’obiettivo della ricerca è quello di offrire una nuova prospettiva agli studi sulle conseguenze della crisi climatica, dando voce proprio a chi voce non ha mai avuto. Steve Morgan, direttore del programma sulle migrazioni di Save The Children e curatore del rapporto, e la sua squadra hanno intervistato 239 bambine e bambini, provenienti da diversi continenti e da 5 Paesi che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze dei vari tipi di devastazioni climatiche. “Volevamo imparare da loro - ha scritto Morgan nella prefazione - e sentire come la crisi climatica sta influenzando i loro sogni e le loro vite”. 
Non esiste un approccio unico per affrontare le svariate conseguenze dei cambiamenti climatici - conclude -, e proprio per questo è fondamentale ascoltare le voci delle persone più colpite da questi cambiamenti: i minori”.

Adolescente di età compresa tra 8 e 12 anni, Iraq
Stiamo assistendo a enormi cambiamenti nella quantità di acqua che riceviamo ogni giorno. Non c’è abbastanza acqua bere o lavarsi. Di giorno in giorno peggiora.

Il rapporto mette subito in chiaro che non è facile stabilire cosa si intenda per “migrate climatico”. Molti conflitti militari che provocano milioni di sfollati non sono legati a siccità o inondazioni ma sono comunque causati da guerre alimentate da fattori legati al clima. Solo per rimanere nell’ambito stretto di un contesto climatico ad alto rischio come, ad esempio, i luoghi soggetti a potenziali inondazioni, si stima che siano a forte rischio circa un miliardo e 200 milioni di minori.

Walking into the Eye of the Storm” ribalta il concetto secondo cui Il cambiamento climatico sia una sorta di “moltiplicatore" delle migrazioni, leggendolo invece come la causa principale: “La nostra ricerca mostra che il cambiamento climatico sta guidando direttamente la migrazione e lo spostamento, attraverso eventi meteorologici estremi più intensi come inondazioni, cicloni e incendi. (…) Solo nel 2020, ha causato lo sfollamento di 30 milioni di persone, di cui circa 10 milioni sono minori, all’interno del loro Paese: tre volte più del numero di persone sfollate quello stesso anno a causa di conflitti e violenze".

E stiamo parlando di fenomeni meteorologici estremi. Vanno considerate anche le cosiddette crisi ad “insorgenza lenta” che innescano processi irreversibili coma le siccità sempre più frequenti, le temperature estreme, l’innalzamento del livello del mare e la salinizzazione dei terreni agricoli.

Questo fattore “lento”, si deduce dal rapporto, sta già svolgendo un ruolo significativo in alcuni contesti e minaccia di rivelarsi una causa determinate nelle prossime migrazioni. Purtroppo, non esistono quadri normativi capaci di affrontare il problema nelle sue giuste dimensioni. Capita che intere comunità vangano trasferite all’interno delle stesso Paese a seguito di fenomeni come l’erosione costiera o le frane, solo per essere destinate in aree ugualmente ad alto rischio.

E se gli adulti hanno sempre la possibilità di scegliere se accettare il trasferimento o no, e molti di loro preferiscono rimanere in luoghi ad alto rischio pur di conservare il legame ancestrali e culturale verso la loro terra, ai bambini questo legame viene reciso e, con l’illusione di salvare loro la vita, vengono indirizzati dalle loro stesse famiglie verso luoghi lontani, senza la protezione di un adulto, privati di identità culturale, con pochissimo o nessun aiuto da parte dei Governi ad affrontare da soli gli impatti negativi dello sfollamento sulle comunità ospitanti, come le scuole sovraffollate, la diminuzione dei servizi e l’aumento degli insediamenti informali.

Photo credit: Kristiana Marton / Save the Children


In contesto migratorio, i bambini hanno molte più probabilità di essere fisicamente colpiti, perché anatomicamente, immunologicamente, fisiologicamente e metabolicamente, sono più vulnerabili degli adulti.
I minori sono più sensibili alla malnutrizione derivante dall’insicurezza alimentare indotta dal clima, alle infezioni ed alle malattie trasmesse dall’acqua che possono aumentare a causa degli impatti idrici legati al clima come la scarsità - si legge nel rapporto -; sono meno capaci degli adulti di regolare la temperatura corporea, quindi più vulnerabili al caldo estremo; e più probabilità di soffrire di asma e malattie respiratorie, che stanno aumentando a causa di più tempeste di polvere e aumento delle temperature”.

Danni fisici ma anche psicologici. “Essere in movimento può danneggiare in modo significativo la salute mentale di un bambino, in particolare se ha vissuto un evento estremo o si è separato dalla propria famiglia. Sono anche maggiormente a rischio di violenza, nonché di matrimoni precoci, lavoro minorile, tratta, accattonaggio, prostituzione o adesione a milizie armate”.

Sesso, età, disabilità, razza, orientamento sessuale, reddito, età e altri fattori socioeconomici determinano la vulnerabilità di un bambino migrante. Se lo studio mostra come il cambiamento climatico guida la migrazione e lo sfollamento più o meno allo stesso modo per ragazzi e ragazze, i bambini colpiti dalla disuguaglianza sociale e dalla discriminazione di genere hanno maggiori probabilità di subire gli impatti del cambiamento climatico in modo più acuto.

Questo preoccupante contesto purtroppo, non attira né i finanziamenti né l’attenzione che meriterebbe. “Sebbene vi sia un’attenzione emergente sul legame tra cambiamento climatico e sfollamento, la comunità internazionale rimane in gran parte ‘cieca’ sui bambini - conclude Steve Morgan - Attualmente non esistono quadri politici globali che affrontino in modo completo i bisogni e i diritti delle persone sfollate a causa del cambiamento climatico, figuriamoci sui bisogni specifici dei minori”.

Phot credit: Sacha Myers / Save the Children


Di seguito, alcune stralci tratti delle interviste raccolte nel rapporto

Ragazzo 15 anni, Mali
Sono preoccupato come tutti perché spesso la pioggia porta venti molto forti. Le conseguenze sono numerose: le case cadono, i teli di lamiera vengono spazzati via dal vento. Sono anche preoccupato per gli animali perché prima si poteva facilmente trovare erba intorno al villaggio ora andiamo molto lontano a cercare l’erba. Vediamo che gli animali stanno morendo di fame e anche molti di noi stanno morendo di fame.

Adolescente di età compresa tra i 14 ed i 17 anni, Perù
Ci mancano i nostri genitori. Qualche volta ci mandano da persone che dicono che si prenderanno cura di noi ma dobbiamo lavorare per loro e non ci mandano a scuola.

Ragazza 16 anni, Fiji
I cambiamenti climatici mi colpiscono molto. L’accesso al cibo è un problema. La piantagione è rovinata a causa delle inondazioni e della siccità. Usciamo tutti a lavorare poi per ripiantare i nostri raccolti. L’inondazione dell’acqua dal mare ha rovinato le nostre fonti di acqua potabile. Il ciclone fa chiudere la nostra scuola.

Mariam 12 anni, Mali 

Una mattina dello scorso agosto, la gente stava per partire per i campi quando abbiamo visto il cielo diventare improvvisamente molto nuvoloso. Non ho mai visto una pioggia così forte. Ha distrutto tutto sul suo cammino. Le case crollarono, gli animali furono spazzati via e l’acqua nei pozzi divenne inadatta per bere. Per grazia di Dio, nessuno è morto o ferito. Dobbiamo molto ai nostri vicini che ci hanno esortato a lasciare la casa in tempo. Senza di loro probabilmente saremmo morti perché non appena siamo usciti, tutto è crollato. Abbiamo perso i pochi mobili che avevamo.

Adolescente di età compresa tra 14 e 17 anni, Perù
Le nostre vite cambiano, le gelate e le piogge eccessive fanno perdere animali e raccolti... i bambini più grandi vanno a cercare lavoro per mantenere la famiglia.

Ragazzo adolescente di età compresa tra i 13 e i 16 anni, Mozambico
Sono i bambini con disabilità a soffrire di più. Quando arriva il disastro, non sono in grado di muoversi velocemente o da soli.

Adolescente di età compresa tra i 14 e i 17 anni, Perù
Andiamo in città per lavorare. Anche se l’alloggio è costoso, ci mettiamo al lavoro, anche se non molto. Ci manca la nostra comunità, ma ora la terra non dà molto. Se c’è il gelo o la siccità, i raccolti vengono persi e, peggio ancora, gli animali muoiono.

Elenoa 13 anni, Fiji
Dopo il ciclone, siamo tornati a casa. Ogni cosa è stata gravemente distrutta. Abbiamo dovuto vivere in una tenda. Abbiamo avuto poco da mangiare per alcuni mesi. È stato difficile per me vedere cosa fosse successo al mio villaggio.

Ragazzo 13 anni, Mozambico

Mi sono trasferito da solo e tornerò quando avrò abbastanza soldi per tornare indietro e aiutare la mia famiglia.

Ragazza adolescente di età compresa tra i 13 ed i 17 anni, Iraq

Alle ragazze viene impedito di completare la scuola [mentre sono sfollate] perché non è sicuro o a causa dei costi elevati. Le ragazze che vanno a scuola lottano perché a scuola non ci sono latrine per loro. Devono andare nelle case vicine e vengono molestati per le strade. Abbiamo sentito i nostri parenti e abbiamo visto che molte ragazze giovani sono costrette a sposarsi.

Ragazza 17 anni, Figi

C’è solo una fontana, non sempre l’acqua esce e non c’è scuola né elettricità.

Ragazza adolescente tra i 12 ed i 15, Mozambico

Fa molto male vedere i miei fratelli in lacrime a causa della mia decisione di trasferirmi. Dopo essermi trasferito, ho continuato a pensare a loro. Nessuno sa quanto significhino davvero per me.

Adolescente tra gli 8 ed i 12 anni, Iraq

I padri che migrano ci comprano tutto il materiale di cui abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno [di fare affidamento] sull’aiuto dello zio, dei parenti o della moschea. Non dobbiamo più lavorare.

Perché non è vero che “tutti vogliono venire in Europa” ed è scorretto parlare di “invasione” di migranti?

Una Comunità sotto assedio. Una Europa, culla della democrazia e dello sviluppo, circondata da fameliche ed incivili orde di migranti che premono insistentemente ai suoi confini. Intere popolazioni provenienti da continenti devastati da guerra e fame che si accalcano ai nostri confini. Eserciti di disperati - se non di terroristi - pronti ad invaderci e a sostituirci “etnicamente”, imponendoci la loro religione e la loro cultura. Soltanto chilometri di impenetrabili muri, alte barriere di filo spinato ed una incessante sorveglianza armata di soldati ben addestrati e dotati delle più sofisticate tecnologie, possono tenere questa minaccia lontana dalle nostre tiepide case.

Ecco come vengono dipinte le migrazioni, nel sentito comune. Ecco quale narrazione porta altri 12 Paesi dell’Ue a costruire nuovi muri. Ma è davvero così? Oppure siamo di fronte ad una narrazione tossica, paragonabile solo a quella dei Protocolli dei Savi di Sion e del complotto giudaico di hitleriana memoria?

Basta solo leggere qualche dato per capire che è tutta fuffa, funzionale solo ad una certa politica che altri mezzi non ha che cavalcare paure e vigliaccherie.

In realtà, non c’è mai stata nessuna invasione. Tanto meno possiamo parlare di pericoli di “sostituzione etnica”, sempre ammesso che questo termine fantasioso e forviante possa costituire davvero un pericolo per qualche cosa. Nell’anno in cui si è registrato il maggior numero di ingressi irregolari - il 2015 - è arrivato in Europa lungo le varie rotte, da quella balcanica a quella Mediterranea, meno di un milione di persone. Considerato che i cittadini europei sono oggi circa 450 milioni (e senza tener conto dei circa 70 milioni di abitanti della Gran Bretagna che pure nel 2015 non era ancora uscita) per pareggiare il conto tra europei doc e nuovi arrivati, ci vorrebbero altri 449 anni!

Non è neppure vero che “tutti i migranti vogliono venire da noi”. Il continente che più sopporta il peso delle migrazioni è proprio l’Africa. Secondo una stima del World Migration Report nel solo 2020 guerre e carestie hanno trasformato 21 milioni di africani in profughi forzati. Ma la maggior parte di loro sono profughi interni, persone cioè che hanno cercato riparo in regioni meno fragili del loro stesso Paese. Magari con la speranza di poter ritornare, prima o poi, nelle loro case. E questo non vale solo per l’Africa ma per tutti i Paesi devastati dalle guerre come, ad esempio, la Siria. La maggior parte dei profughi di questo Paese, allo scoppiare del conflitto, ha cercato rifugio appena oltre confine. Ne abbiamoincontrato a migliaia nei campi della valle della Bekaa, nel nord est del Libano, che altro non desideravano che far ritorno nella loro terra. Pochissimi, sono quelli che decidono di giocarsi la carta Europa. Non fosse altro perché sono pochissimi coloro che possono permettersi di affrontare le spese, oltre che i disagi, di un viaggio che può costare anche 15 mila euro.

Ad ospitare il maggior numero di profughi sono, paradossalmente, i Paesi che ne producono di più. Un esempio è il Congo dove l’enorme ricchezza mineraria del suo sottosuolo ha come contraltare un reddito pro capite tra i più bassi del mondo, per non parlare di guerre, precarietà politica, diffusione della povertà e di malattie come l’ebola o la malaria. Ebbene, il Congo che negli ultimi anni ha prodotto una media di 6 mila sfollati al giorno, per un totale di 2,8 milioni di profughi interni, secondo stime Unhcr, è una meta di migrazione di profughi provenienti dal Sudan, dal Ruanda e dal Burundi, e dalla Repubblica Centrafricana stimato di circa 2,2 milioni di persone.

Concludendo, degli 80 milioni di profughi che, secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr si aggirano per questa nostra terra cercando rifugio e salvezza - come dire l’uno per cento dell’intera popolazione mondiale - coloro che cercano di superare i muri della Fortezza Europa sono appena il 2 per cento. Adesso è chiaro perché parlare di “invasione” è una enorme fesseria?

Vedi gli articoli precedenti
Stacks Image 9