Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Il naufragio a Torre Melissa e la solidarietà che viene dal basso

E’ successo tutto alle 4 di mattina di giovedì scorso.
Il rassicurante rumore della risacca marina che si infrange sulla spiaggia di Torre Melissa è stato soverchiato all’improvviso da una esplosione di urla di paura e grida di soccorso.
Gli abitanti del piccolo Comune che sorge ad appena 25 chilometri da Crotone, sono saltati giù dai letti e si sono precipitati sul bagnasciuga per trovarsi di fronte alla scena di una piccola imbarcazione a vela che si era rovesciata in mare, a qualche decina di metri dall’arenile.
Nonostante fosse notte fonda e le temperature di poco sopra lo zero, i cittadini di Torre Melissa non hanno esitato a bagnarsi per prestare soccorso ai naufraghi, utilizzando anche l’imbarcazione di salvataggio messa a disposizione dal vicino hotel Miramare.
Tra i primi a precipitarsi sul luogo del naufragio, c’era anche il sindaco di Torre Melissa, Gino Murgi, che ha immediatamente provveduto ad organizzare i soccorsi (qui la commovente intervista al sindaco di Radio Capital).
Quando sono arrivato ho trovato una situazione drammatica. Gente seminuda, mezzo morta di freddo, che gridava… mamme che si disperavano con urla strazianti che i loro bambini erano rimasti bordo della barca. Così abbiamo provveduto a fare quello che bisognava fare: aiutare chi era in difficoltà. Gli abitanti del villaggio hanno portato stufe, coperte, vestiti, bevande calde… c’è stato un intervento pronto e professionale da parte delle forze dell’ordine che ho immediatamente avvertito ma anche una grande risposta di solidarietà da parte dei miei concittadini. Ho visto persone che si sono tolte i giubbotti e li hanno dati a questi sfortunati”.
Alla fine dell’operazione, sono state tratte in salvo e rifocillate 51 persone che si sono dichiarati curdi. Tra loro 6 donne e 4 bambini. Un elogio al coraggio e alla solidarietò dei cittadini del piccolo paese calabrese, è venuto dalla stessa Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr).
E’ stato un avvenimento drammatico ma che per fortuna si è concluso senza vittime- ha concluso il sindaco Murgi -. Un avvenimento al quale, quantomeno, va dato il merito di aver fatto emergere tutta l’umanità che c’è nelle persone”.
Una unanimità tutta dal basso che fa contraltare alla disumanità di un Governo che continua a veicolare razzismo ed a cavalcare fake new. Quando non le crea direttamente. Pensiamo, tanto per fare un esempio, al ministro Matteo Salvini che proprio ieri in tv, senza che nessuno si sognasse di contraddirlo, ha parlato di “soli” 23 morti in mare nel 2018 quando in realtà sono stati 1.313, e senza contare i dispersi.
Quando è accaduto a Torre Melissa dimostra l’ipocrisia di gente come Salvini che orchestra crudeli campagne elettorali su vicende come quella dei 49 profughi della Sea Watch, al solo scopo di diffondere paure e distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti del suo Governo - commenta Pino De Lucia, fondatore delle cooperativa calabrese Agorà Kroton ora impegnato ad assistere i 51 profughi curdi -. Il ministro parla di chiudere i porti ma non si rende conto, o finge di non rendersi conto, che il mare non si può chiudere. Anche con i porti chiusi, in Calabria i profughi continuano a sbarcare come prima. Questa cieca politica volta ad innalzare muri, invece di gestire la questione migratoria, può creare sofferenze ai profughi e diffondere paure tra gli italiani, ma non può certo fermare le migrazioni”.
Chiusi o aperti che siano i porti, gli sbarchi continuano. I primi curdi sono sbarcati nel coste calabresi nel 1998 e tra i volontari che si erano impegnati nell’accoglienza, assieme a Pino De Lucia, c’era un giovane Mimmo Lucano. “E’ proprio dall’esperienza maturata con i curdi in Calabria che, nel 2001, sono nati lo Sprar ed il modello Riace - spiega De Lucia - La provincia di Crotone è una delle più povere d’Italia ma, forse proprio per questo, la gente si fa in quattro per aiutare chi ha bisogno. Nonostante tutte le parole di odio che escono dalle bocche dei nostri ministri, la notte del naufragio tutta Torre Melissa è corsa sulla spiaggia per aiutare quei poveretti portando tutto ciò che poteva portare: viveri, medicine, biancheria pulita, indumenti dalle scarpe ai giubbotti. Il sindaco Gino Murgi non ve lo confesserà mai, ma lui stesso è andato a casa a prendere i pigiami dei suoi figli per portarli ai bambini curdi che avevano le vesti bagnate. Quando ci troviamo di fronte a persone in difficoltà, tutti agiamo così”.
Tutti tutti? 
Beh… tutti tutti magari no. Mi viene in mente un tizio che, conoscendo la sua passione per i giubbotti, si sarebbe fregato una delle giacche dei soccorritori”.

Quanto accade in Libia va al di là di ogni possibile giustificazione politica

Lo dice un rapporto dell’Onu che invita gli Stati europei a soccorrere in mare i migranti e ad evitare qualsiasi collaborazionismo con le autorità libiche


L’ultimo rapporto degli osservatori Onu sulle condizioni dei migranti in Libia è un campionario di orrori indicibili. Ve lo diciamo col cuore in mano: abbiamo fatto fatica a leggerlo sino alla fine. Eppure per l’Italia e per l’Europa, rimane un “Paese sicuro” e chi se ne frega se le autorità libiche non hanno mai ratificato la Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, si guardano bene dal riconoscere l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e non si sono nemmeno mai sognate di abbozzare una qualsiasi politica di asilo, abbandonando volontariamente queste persone allo sbaraglio, in mano ai ricatti e alle vessazioni delle bande criminali organizzate, se non dalla stessa polizia, senza nessun diritto riconosciuto dallo Stato.
Il rapporto, che potete scaricare integralmente in fondo alla pagina, si basa su informazioni raccolte dai funzionari dei diritti umani tra gennaio 2017 e agosto 2018, su visite di monitoraggio regolari a 11 centri di detenzione e su una serie di interviste raccolte in Nigeria e in Italia ai migranti che sono riusciti ad abbandonare il Paese “sicuro”.
“Migranti e rifugiati – leggiamo – soffrono orrori inimmaginabili durante il loro transito e soggiorno in Libia. Dal momento in cui entrano nel territorio libico, diventano vulnerabili a uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti, detenzione arbitraria e privazione illegale della libertà, stupri e altre forme di violenza sessuale e di genere, schiavitù e lavoro forzato, estorsione e sfruttamento da parte di attori sia statali che non statali”.
“Tali violazioni cominciano nel momento in cui migranti e rifugiati attraversano il confine meridionale della Libia durante il loro viaggio verso la costa settentrionale. Il viaggio prosegue con il pericoloso attraversamento del Mar Mediterraneo, che finisce sempre col l’intercettazione da parte dalla Guardia costiera libica che li riportano indietro, dove sono sottoposti a detenzione indefinita e frequenti torture e altri maltrattamenti in centri inadatti ad ospitare esseri umani”.
A tutto questo orrore le autorità libiche non possono, o non vogliono, porre rimedio e si sono rivelate “incapaci o riluttanti a porre fine alle violazioni e agli abusi commessi contro migranti”.
“Anni di conflitti armati e divisioni politiche hanno indebolito le istituzioni libiche, compresa la magistratura, che non sono state capaci, se non addirittura riluttanti, ad affrontare la pletora di abusi e violazioni commessi contro migranti e rifugiati da parte di contrabbandieri, trafficanti, membri di gruppi armati e funzionari statali che godono di totale impunità”.
“Questo clima di illegalità fornisce terreno fertile per attività illegali illecite, come la tratta di esseri umani e il traffico criminale, e lascia uomini, donne e bambini migranti e rifugiati in balia di innumerevoli predatori che li considerano come merci da sfruttare e estorcere al massimo guadagno finanziario. Gli abusi contro i migranti e rifugiati subsahariani, in particolare, sono aggravati dal fallimento delle autorità libiche nell’affrontare il razzismo, la discriminazione razziale e la xenofobia”.
La stragrande delle detenzioni, spiega il rapporto, sono assolutamente arbitrarie “in quanto non sono mai stati accusati o processati in base alla legislazione sulla migrazione”.
Gli osservatori Onu hanno “costantemente osservato un grave sovraffollamento, mancanza di adeguata ventilazione e illuminazione, accesso inadeguato alle strutture di lavaggio e latrine, confinamento costante, rifiuto di contatto con il mondo esterno e malnutrizione. Le condizioni portano alla diffusione di infezioni cutanee, diarrea acuta, infezioni delle vie respiratorie e altri disturbi, e le cure mediche sono inadeguate. I bambini, compresi quelli separati o non accompagnati, sono tenuti insieme agli adulti in condizioni similmente squallide“. Sono state documentate “torture e altri maltrattamenti, lavori forzati, stupri e altre forme di violenza sessuale perpetrate dalle guardie. Il fatto che le donne siano detenute in strutture senza guardie di sesso femminile facilita ulteriormente l’abuso e lo sfruttamento sessuale”.
“Molti di coloro che sono detenuti nei centri sono sopravvissuti a orrendi abusi da parte di contrabbandieri o trafficanti e avrebbero bisogno di assistenza medica e psicologica. Eppure sono sistematicamente tenuti prigionieri in condizioni abusive, tra cui fame, gravi percosse, ustioni con metalli caldi, elettrocuzione e abusi sessuali di donne e ragazze, con l’obiettivo di estorcere denaro alle loro famiglie … Sono spesso venduti da una banda criminale a un’altra e hanno l’obbligo di pagare il riscatto più volte prima di essere liberati o portati nelle zone costiere per attendere la traversata del mar Mediterraneo. La stragrande maggioranza delle donne e delle adolescenti più giovani intervistate ha riferito di essere stata violentata da gruppi di trafficanti e spesso sono stati portate in alloggi predisposti per per essere abusate collettivamente”.
“Le donne più giovani che viaggiano senza parenti maschi sono anche particolarmente vulnerabili all’essere costrette a prostituirsi. Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita durante la prigionia da contrabbandieri o trafficanti di esseri umani dopo essere stati uccisi, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o di negligenza medica. In tutta la Libia è facile trovare corpi non identificati di migranti e rifugiati con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni mortali in depositi di immondizia, argini di torrenti, vicoli o nel deserto”.
Tutto questo lo compiono non solo le bande di trafficanti ma anche polizia ed esercito regolare. Gli osservatori hanno ricevuto molte “informazioni credibili sulla complicità di alcuni attori statali, inclusi funzionari locali, membri di gruppi armati formalmente integrati nelle istituzioni statali e rappresentanti del Ministero dell’Interno e del Ministero della Difesa, nel contrabbando o traffico di migranti e rifugiati. Questi attori statali si arricchiscono attraverso lo sfruttamento e l’estorsione di migranti e rifugiati vulnerabili”.
“Oltre alla detenzione per violazione della legislazione sull’immigrazione, i migranti e i rifugiati sono vulnerabili ad essere arbitrariamente arrestati e detenuti, anche da gruppi armati nominalmente sotto il controllo del Ministero dell’Interno, in relazione ad accuse di furto, reati legati alla droga, lavoro sessuale, consumo di alcool e terrorismo. In questo modo si tengono centinaia di persone, la maggior parte senza accusa né processo per periodi prolungati”.
“Migranti e rifugiati sono a rischio di arresto o cattura arbitraria ai posti di blocco o in strada da parte di forze di sicurezza, membri di gruppi armati ma anche privati ​​cittadini privi di qualsiasi autorizzazione”. Come dire che un libico vede un migrante per strada, se è una donna la può stuprare liberamente, se è un uomo se lo può portare nei campi o nella fabbrica e metterlo al lavoro a suon di frustate. “Migranti e rifugiati sono spesso sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli che si rifiutano di pagare i loro stipendi, sapendo che in pratica non hanno alcun ricorso alla giustizia”. E questo non solo per i migranti in transito verso l’Europa ma anche per quelli che già si trovavano in Libia prima della rivoluzione e lavoravano legalmente. “La mancanza di liquidità nelle banche libiche ha lasciato migranti e rifugiati impiegati nel settore pubblico come insegnanti, infermieri e ingegneri che non riescono a ritirare i loro stipendi”.
Anche l’esistenza medica più elementare viene negata a chi non è libico. Gli osservatori hanno “raccolto informazioni su migranti e rifugiati malati e feriti, tra cui anche donne incinte e in travaglio, che sono state allontanate dagli ospedali pubblici”. Rivolgersi alla legge è peggio che andar di notte. “Migranti e rifugiati cui sono stati commessi abusi, compresi i sopravvissuti alla tratta e allo stupro, si astengono dal presentare denunce o reclami alla polizia, temendo di essere arrestati e di trasformarsi da vittime a colpevoli”.
Il rapporto Onu termina con una raccomandazione all’Europa che è esattamente l’opposto di quanto sta facendo attualmente il nostro Governo Lega 5 Stelle che ha scelto di perseguire la stessa politica varata da Minniti di affidare alla Libia – “Paese sicuro”! – il compito di fermare le migrazioni, condendola, per di più, con una valanga di razzismo e xenofobia, chiusura dei porti e criminalizzazione delle navi delle Ong.
“Raccomandiamo che l’Unione europea e i suoi Stati membri intensifichino le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e facilitino il lavoro salvavita delle navi di soccorso gestite dalle organizzazioni umanitarie. Esortiamo inoltre gli Stati europei a sincerarsi che qualsiasi cooperazione con le istituzioni libiche includa la garanzia del rispetto dei diritti umanitari, e che non contribuiscano o facilitino, direttamente o indirettamente, la violazioni di questi diritti”.

E’ sposato con una italiana, il giudice lo dichiara inespellibile ma finisce lo stesso in un centro espulsioni. L’incredibile vicenda di Diego Ndoudi

Capita anche questo. Va in questura a ritirare il permesso di soggiorno, la polizia lo "impacchetta" e lo spedisce in un centro espulsioni. E pazienza se è sposato con una donna italiana ed è stato dichiarato inespellibile dal giudice. E’ successo lo scorso giugno ad un cittadino congolese, Diego Dieumerci Ndoudi. La moglie ha contattato la redazione di Melting Pot ma ci ha chiesto di mantenere il silenzio sino a che il marito non fosse uscito dal centro, per evitargli guai peggiori. Oggi, Diego, è stato finalmente rimesso in libertà. E’ tornato dalla moglie, ci ha lasciato una intervista video e possiamo raccontare la sua vicenda.

E partiamo da quel giorno in questura quando, invece di vedersi consegnare il permesso di soggiorno, si trova chiuso in una stanza, pronto per essere spedito nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Potenza. La moglie, toscana di Grosseto, viene avvisata con un sms e corre in questura solo per scoprire che non può neppure avvicinarsi al marito.

"Il giudice ha detto che non può essere espulso, mica che ha diritto al permesso di soggiorno", le dice un poliziotto. Va in scena insomma, il solito teatrino del poliziotto buono e poliziotto cattivo.

"Sì, te lo portiamo al centro di espulsione di Potenza, ma vedrai che te lo rimandano a casa in un paio di giorni. Stai tranquilla" la tranquillizza il primo. "Gente così deve tornarsene a casa sua. Vi va bene che tu sei sua moglie e soltanto per questo gli abbiamo concesso il permesso di mandarti un sms e non lo abbiamo imbarcato immediatamente a Fiumicino - le dice il secondo, che puntualizza - Della sentenza del giudice, a noi, non ce ne frega nulla".

Dieumerci Ndoudi ha 28 anni. E’ congolese e lo chiamano tutti Diego perché il padre è un tifoso di Maradona. Nel 2010 è convolato a nozze con una ragazza toscana che che lavorava in un progetto di cooperazione sociale locale in Congo. Finito il periodo di lavoro all’estero, la moglie è tornata in Italia e Diego è andato con lei. Ma il loro, più che un matrimonio, è una odissea barcamenata tra soprusi e assurdità burocratiche.

La moglie ce l’ha raccontata quando Diego era ancora rinchiuso nel centro espulsioni di Potenza. Comunicavano con un cellulare del quale doveva gestire con parsimonia la carica, in quanto non gli era concesso di collegarlo ad una presa di corrente. Un cellulare con la telecamera rotta. "Pare che sia la prassi, altrimenti la polizia non potrebbe riconsegnare il telefono ai migranti. Non è consentito scattare foto delle strutture" ci ha spiegato la moglie quando ci ha chiesto di allertare la rete di legale di LasciateCIEntrare.

Come sia potuto succedere che un cittadino straniero regolarmente sposato con una italiana, possa essere espulso, ce lo ha spiegato così: "All’inizio del nostro matrimonio tutto era filato alla perfezione. Diego aveva imparato l’italiano, preso la patente e anche trovato lavoro come operaio nel settore degli infissi. Lui, nel suo Paese, lavorava il legno. Era uno scultore. Poi l’azienda è andata in crisi e lui è rimasto a casa. Ha avuto dei problemi con la giustizia: in questo periodo, si è preso qualche denuncia perché ogni volta che i carabinieri lo fermavano per un controllo, lui reagiva".

In questo periodo accade poi un episodio fondamentale. Una signora viene scippata da due neri e la polizia ferma Diego che era nelle vicinanze. La signora lo scagiona subito, spiegando che non era lui uno dei due ladri, ma Diego viene ugualmente portato in caserma per accertamenti. Ammanettato mani e piedi le prende di santa ragione.
"Ne esce con otto punti di sutura alla testa e una denuncia per resistenza - racconta la moglie -. L’accusa di scippo cade subito perché tutti i testimoni concordano nell’affermare che non era stato lui. La stessa signora scippata lo scagiona. Ma gli rimane comunque una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale. Diego era su una bicicletta senza lucchetto e non voleva abbandonarla per seguire in questura i poliziotti".

Così Diego Dieumerci Ndoudi va a processo e, come recidivo, si becca 4 anni "esemplari" tra carcere e comunità.

"Pensavamo che fosse tutto a posto ed invece è cominciato il calvario". Diego va su e giù decine di volte per gli uffici della questura di Grosseto a chiedere quello che è solo un suo diritto: restare a vivere nel Paese della moglie. Ed invece ogni volta il personale dell’ufficio tira fuori una novità: prima deve avere un avvocato, poi torna con l’avvocato e non lo ricevono. Ad un certo punto lo mandano dai sindacati, non si è capito a far cosa. In un giorno solo lo fanno tornare ben cinque volte, sempre per una carta che manca. Lo mandano anche a Roma, alla sua ambasciata, a farsi rinnovare il passaporto. La cosa va avanti per mesi. Alla fine gli dicono che è tutto a posto, che gli daranno il permesso di soggiorno, e che torni domani (venerdì 15 giugno ndr.) alle ore 9 che gli consegneranno le carte. Lui ci va e lo tengono, senza dirgli nulla, sino alle tre del pomeriggio, quando improvvisamente gli sequestrano cellulare e documenti e gli dicono che sarà immediatamente portato al centro espulsioni di Potenza per essere successivamente rispedito in Congo. Diego credeva che stessero preparando il suo permesso di soggiorno ed invece stavano scrivendo il decreto di espulsione.

Solo, alla sera, mentre lo portano al pronto soccorso per la visita di prassi, la polizia gli consente di mandare un sms alla moglie che lo raggiunge là con l’avvocato. "Non me lo hanno fatto neppure vedere, mio marito. I poliziotti ci hanno dato risposte assurde e il nostro avvocato è rimasto scioccato di fronte a tanta arroganza. Una sentenza del giudice non vale dunque più niente? E come possono arrogarsi il diritto di separare una famiglia? Ho potuto vederlo solo all’uscita, mio marito, mentre lo caricavano nella volante. Ho fatto appena in tempo a porgergli un panino perché neppure da mangiare gli hanno dato".

Oggi, quattro mesi dopo, possiamo scrivere che la vicenda è finita bene. Diego è stato liberato ed è potuto tornare dalla sua compagna. Non tutto però è risolto, c’è ancora un ricorso in Cassazione depositato perché la Questura ancora non rilascia il permesso di soggiorno. Diego sta anche avviando una attività come falegname ed artigiano del legno nella sua Grosseto. Ma dentro, gli rimangono ancora le ferite dei tanti soprusi subiti e una domanda che non ha trovato risposta. Perché tutto questo?

La merce siamo noi

E' un camminare infinito, quello di Raffaello Rossini. Un camminare sulle rotte balcaniche, sulle strade di Turchia, della Grecia, del Kurdistan. Un camminare domandando, sempre con la telecamera sulle spalle, per guardare e per mostrare a chi ha il coraggio di guardare, cosa nascondono gli insanguinati confini della Fortezza Europa. Un camminare per cercare di capire. E, proprio per questo, un camminare destinato a non avere meta ne fine.
Perché capire è sempre la cosa più difficile.

"Prima di partire per realizzare un documentario - mi confida - ho, come tutti, delle idee e delle opinioni a proposito di quello che andrò ad incontrare. Certo, idee ed opinioni tutt'altro che monolitiche ma comunque capaci di seguire una loro logica. Poi, quando sono là, tutto si frantuma. Mi rendo conto che il mosaico che mi ero costruito era sbagliato. Allora ricomincio da capo, provo a ricostruire un nuovo quadro. Ma quando torno a casa, tutto cambia ancora colore. Confermandomi che la ricerca della verità è un pretesto, perché una verità assoluta non esiste mai."

Giovane regista di reportage come "La merce siamo noi", prodotto da Melting Pot, Borders of Borders e Pettirouge Prod, è una di quelle rare persone cha mantengono salde la capacità di sorprendersi ad ogni viaggio.
"Le cose cambiano a seconda del punto di vista da cui le guardi. Per questo è indispensabile partire, a valicare quei muri di confine che ci chiudono lo sguardo sull'orizzonte. Nel sud Est Turco, o in una tenda di siriani in Grecia, spesso mi è capitato di sentirmi "europeo", sia nel tentativo di comprendere il mondo intorno a me, sia nell'osservare come il mondo attorno cercava di comprendere me. E questo è emblematico di come funziona la comunicazione. Viaggiare spacca ogni corazza. Viaggiare con gli occhi aperti, intendo, e la telecamera è utilissima in questo senso".

Per questo, i racconti che si delineano dietro i suoi documentari sono racconti dove nessuno è colpevole. "Perché al di là delle guerre, delle religioni, delle rivoluzioni e delle ideologie, al di là di tutto questo, e prima di tutto, quello che posso dire è che la merce siamo noi".
Ed è proprio nell'ambito del progetto #Overthefortress che si propone di documentare quando accade oltre la Fortezza Europa, che Rossini ha realizzato, in collaborazione con Gloria Chillotti ed Andrea Panico, il reportage "La merce siamo noi". Una tappa di quell'infinito andare che lo ha portato dai campi profughi di Idomeni sino alle città turche di Gaziantep, Kilis, Antakya. Sino a quei laboratori dove migliaia di ragazzini e bambini siriani e turchi vengono sfruttati sino alla distruzione nei laboratori tessili. Sono questi piccoli schiavi i veri protagonisti del miracolo economico che il Paese di Erdogan sta attraversando nel settore tessile. Vigliacche conseguenze di quei trattati di controllo di che l'Europa ha voluto ma di cui non vuole vedere le conseguenze.
Un documentario di forte denuncia ma che non è mai una denuncia fine a se stessa o atta a nascondere la complessità della situazione. Una denuncia senza tifo, in altre parole.
"Seduti nelle comode poltrone di casa nostra, viene facile tifare per Assad o contro Assad. Ma così si finisce per svuotare il discorso dalla sua complessità oppure di giocare a fare il relativista, sospendere ogni giudizio, sino ad arrivare ad un 'chi e ne frega'. Non sono queste le strade giuste per chi vuole comprendere quanto succede".

Le strade giuste di cui parla Raffaello sono quelle da percorrere domandando. Quelle che non hanno fine ma solo mete. E la prossima meta sarà Beirut, capitale dell'antico Paese dei Cedri, il Libano, dove domenica 6 maggio si svolgerà la consultazione elettorale per eleggere il nuovo Governo. Un momento difficile per un Paese che vive in prima persona la tragedia dei profughi siriani così come quella dei palestinesi cacciati da Israele. Lo scontro tra io partito di dio, sciita e filo iraniano, e lo schieramento filo saudita attualmente al governo, rischia di compromettere quel "fragile mosaico" mediorientale che ancora resiste attorno alla Siria in fiamme.

E "Fragile mosaico" è proprio il nome che Raffaello ha scelto per questa sua nuova esperienza che forse si tradurrà in un altro reportage. Ci saremo naturalmente anche noi di Melting Pot, naturalmente. E vi racconteremo su questo sito quello che non tutti vorrebbero leggere.

Vittime e carnefici. I 300 mila bambini soldato nel mondo

Settanta capi d’accusa per crimini di guerra e crimini contro l’umanità a carico. Eppure non è affatto facile, sia per la Corte penale internazionale dell’Aja che lo ha messo a processo che per le nostre coscienze, stabilire se Dominic Ongwen è più un carnefice o una vittima. Perché Dominic Ongwen, uno dei leader più importanti di quell'Esercito di resistenza del Signore (Lra), ritenuto responsabile di migliaia di stupri e di torture, di almeno 100 mila assassini e di aver rapito oltre 60 mila minori per trasformarli in bambino soldato, è stato lui stesso un bambino soldato. Un bambino che gli integralisti cristiani dell'Lra, che insanguinano l'Uganda per instaurare un regime basato sui Dieci Comandamenti, fa hanno fatto sprofondare nell'inferno una quarantina di anni fa: rapito, abusato, torturato fisicamente e psicologicamente, costretto a compiere atti indicibili sino a che lui stesso non è diventato uno dei comandanti di quello stesso esercito ed ha cominciato a fare a tanti altri bambini tutto quello che avevano fatto a lui. E Dominic Ongwen è solo uno dei tanti. I dati dell'Unicef infatti parlano di oltre 300 mila minori arruolati nei conflitti di tutto il mondo e costretti a fare il lavoro più sporco della guerra. Quello che nemmeno un soldato di mestiere dovrebbe mai fare. Come torturare i civili o ammazzare i prigionieri. O correre sui campi minati per aprire il passaggio alle proprie truppe, come facevano nella guerra tra l'Iran e l'Iraq, per guadagnarsi un posto tra i martiri di dio.
Lunedì 12 febbraio, si è svolta la giornata che le nazioni Unite hanno dedicato al fenomeno dei bambini soldato. Gli Ordini dei Giornalisti e degli Avvocati del Veneto hanno organizzato un incontro formativo sul tema nella sede dell'Ateneo veneto, Venezia. Qui abbiamo incontrato l'avvocata Maria Stefania Cataleta, una dei rari legali italiani abilitata al patrocinio innanzi alla Corte penale internazionale, oltre che al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, alle Camere Straordinarie presso le Corti della Cambogia e al Tribunale Speciale per il Libano. Maria Stefania Cataleta si interessa alle tematiche inerenti la violazione dei diritti umani sia come avvocata che come attivista di associazioni nazionali ed internazionali come la Lega italiana dei diritti dell'uomo, la prima associazione italiana in questo campo, e l'Association Europeenne pour la Défense des Droits de l'Homme.

Cominciamo con qualche dato. Si stima che nel mondo ci siano più di 300 mila bambini costretti a vivere con un fucile in mano. Quali sono i Paesi dove la pratica è più diffusa?

Anche se il Myanmar presenta l'esercito di bambini più numeroso al mondo, è l'Africa il Paese più colpito dal fenomeno, con circa 100 bambini-soldato. In Sudan, si stima vi siano 22 mila bambini-soldato distribuiti tra l'esercito governativo e i ribelli del Sudan People's Liberation Army. In Uganda, circa 20 mila piccole reclute sono state assoldate dall'Esercito di Resistenza del Signore e nella Repubblica Democratica del Congo i minori coinvolti nel conflitto, specie nella regione di Ituri, sarebbero tra i 23 e i 30 mila, molti dei quali anche di 7 anni. Come anticipavo, in Myanmar esiste l'esercito di piccoli guerriglieri più numeroso, con circa 70 mila bambini al servizio delle truppe governative. Ma anche la Colombia è responsabile di questo flagello, con circa 14 mila minori, di cui alcuni hanno anche 12 anni, arruolati nelle diverse fazioni armate e milizie paramilitari.

Cosa si intende per bambino soldato? E quale è l'età in cui vengono portati via alle loro famiglie?

Conformemente alla definizione partorita nel 1997 a Città del Capo in occasione dei lavori della Conferenza organizzata dall'UNICEF sulla prevenzione, la smobilitazione e la reintegrazione sociale dei bambini-soldato, questi ultimi sono "tutte le persone, maschi o femmine, con meno di 18 anni, appartenenti ad un esercito regolare o ad un gruppo comunque armato, arruolate su base volontaria o con la forza". Tuttavia, l'espressione riguarda anche chi ricopre ruoli di cuoco, portatore, messaggero, spia o venga arruolato ai fini di sfruttamento sessuale o costretto al matrimonio. La definizione, quindi, non riguarda solo i bambini che portano le armi. La loro età media risulta essere al di sotto dei 13 anni e questo vuol dire che vengono arruolati anche bambini molto piccoli, di 7 anni o meno.

Non parliamo solo di bambini, quindi. Anche le bambine vengono arruolate?

Sì. L'Unicef stima che circa il 40 per cento dei bambini-soldato al mondo sia rappresentato da bambine, che vengono impiegate in combattimento o sfruttate come schiave sessuali. Nelle Farc della Colombia, un quarto dei bambini-soldato era costituito proprio da bambine.

Contrariamente a quanto si crede, il fenomeno dei bambini soldato non è solo legato solo a formazioni integraliste o comunque irregolari. Gli arruolamenti di minori sono una pratica diffusa anche tra le truppe governative e approvata, implicitamente o esplicitamente, da Governi i cui rappresentanti siedono all'Onu. Ma stiamo parlando solo di Paesi poveri oppure questa pratica è diffusa anche nei Paesi ricchi e cosiddetti "democratici"?

Anche in Europa o nel nord America ci sono bambini arruolati precocemente pur se in questi Paesi occidentali il fenomeno ha una diversa connotazione. Per esempio, negli Stati Uniti la legge fissa a 17 anni l'età per l'arruolamento nell'esercito e per la partecipazione ad operazioni di guerra. Minori hanno partecipato alle campagne militari in Afghanistan, Iraq, Bosnia, Somalia e nella Guerra del Golfo. Inoltre, il Programma giovanile dei Marine, lo "Young Marines", recluta bambini dell'età di 8 anni. Mentre in Gran Bretagna, paradossalmente, vi è una situazione altrettanto allarmate, poiché il governo londinese è l'unico in Europa che manda regolarmente in combattimento ragazzi di 17 anni. Il reclutamento di questi giovani soldati avviene tramite le scuole militari quali le Cadet Forces, che arruolano ragazzi e ragazze tra i 12 e i 13 anni.

I conflitti sono cambiati negli ultimi tempi. Maneggiare un kalashnikov non richiede la stessa preparazione e lo stessa forza fisica di una spada o di un arco. E neppure dei fucili in uso nello scorso secolo. Una interessate ricerca di una studiosa veneziana, Cristina Gervasoni, spiega come la guerra oggi non sia più un mezzo ma un fine ed i conflitti che hanno essenzialmente una ragione finanziaria, anche quando questa è mascherata da fedi religiose o nazionalismi, finiscono per autoalimentarsi: la guerra si fa per le risorse e le risorse servono per la guerra. I bambini hanno un ruolo preciso in tutto ciò?

Secondo lo studio di questa ricercatrice, nei conflitti contemporanei, i bambini sono reclute preziose. Il mutamento di morfologia di questi "conflitti per le risorse", da internazionali a non internazionali, ha anche dilatato la durata degli stessi, che possono protrarsi per decenni. Questo richiede un costante ricambio di reclute per supplire alle perdite. Tali nuove reclute sono state individuate nei bambini. Questi ultimi, in quanto alternativa al reclutamento degli adulti, moltiplicano la capacità militare dei gruppi armati, che grazie a loro possono rigenerarsi facilmente e rimpiazzare rapidamente le perdite. Il ricorso ai fanciulli, inoltre, abbatte i costi, poiché nella maggior parte dei casi essi non vengono pagati.

Come dire che la guerra è diventata un bene di consumo - forse l'unico - al quale anche, e soprattutto, i più poveri possono accedere facilmente! Ma quale è il ruolo dei bambini nella guerra? Come combattono, come vengono impiegati? E le bambine?

Posso fornire un esempio. Nell'Esercito di Resistenza de Signore, capeggiato dal sanguinario Joseph Kony, attualmente ricercato dalla Corte penale internazionale, dopo una iniziazione cruenta, caratterizzata dall'uccisione brutale di familiari o amici, i piccoli guerrieri vengono divisi in gruppi di dieci affinché familiarizzino. Poi uno di loro viene allontanato ed accusato di essere un disertore. Viene, così, ordinato ai suoi compagni di braccarlo ed ucciderlo. Solo dopo questo "battesimo del fuoco" saranno considerati "soldati di Dio". Dopo un periodo di addestramento, alcuni bambini vengono destinati alla prima linea. Vengono formati plotoni di circa 40 fanciulli che agiscono come squadre d'assalto, con il compito di sparare a raffica con le loro armi automatiche. Ad altri bambini vengono assegnati altri compiti tra i quali la posa di mine, azioni di spionaggio o di sorveglianza. Mentre alle bambine vengono affidati anche altri compiti legati alla sussistenza dei militari, al trasporto di materiale, ma vengono sfruttate sopratutto sessualmente o date in mogli ai comandanti. Quelle che rimangono incinte sono costrette a combattere prima e dopo il parto. Lo sfruttamento sessuale procura alle bambine molti problemi fisici e psichici, tra cui malattie come la sifilide e l'Hiv, alcune muoiono a seguito delle violenze. Inoltre, la nascita di un figlio, a seguito dello stupro, ostacola sia la fuga che il reinserimento nella comunità di origine.

Uno dei Paesi più colpiti da questa vergogna è la Repubblica democratica del Congo. Le fazioni in lotta sono una mezza dozzina, legate ad oligarchie locali e sostenute da finanziarie occidentali con forti interessi nel campo estrattivo. In particolare, ad arruolare i bambini sono anche gruppi estremisti cristiani, mi può dire qualcosa di specifico sul fenomeno in atto su in questo Paese?

Il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo è stato definito la prima guerra mondiale africana, per il coinvolgimento di eserciti appartenenti a diversi Stati. Si ritiene che tutte le parti in lotta abbiano utilizzato bambini e continuino a farlo. Le forze armate congolesi hanno ammesso la presenza di minorenni tra i propri ranghi, mentre tra i numerosi gruppi di ribelli il fenomeno è più massiccio, al punto che vi sono veri e propri contingenti composti solo da piccoli soldati, come l'Unione dei Patrioti Congolesi, con circa 15 mila bambini-soldato. In molte fazioni armate, come i Mai Mai, che reclutano bambini con la forza, il 40% dei combattenti è formato da ragazzini.

Come vengono arruolati i bambini? Sono rapiti, convinti spontaneamente o venduti dalle famiglie?

Il reclutamento di bambini da utilizzare come soldati può avvenire in modo coercitivo, attraverso il rapimento, oppure ottenendo il loro "consenso" mediante tecniche di persuasione. Nella maggior parte dei casi si tratta di soggetti fragili e poveri, quali orfani, bambini di strada, esuli, che vengono rapiti negli orfanotrofi, a scuola o nei villaggi. Alcuni, invece, si arruolano "volontariamente", tuttavia occorre tener conto del contesto in cui tale decisione viene maturata, quasi sempre si tratta di una scelta spinta dalla necessità di salvezza o di sopravvivenza.

Quali sono i mezzi con i quali questi bambini vengono trasformati in soldati e spinti a compiere azioni sanguinose?

E' molto semplice trasformare un bambino in un combattente, si usa la violenza così come la persuasione. Spesso si fa ricorso all'uso di droghe, tranquillanti e alcolici, unitamente al ricatto e alla manipolazione mentale. Una delle droghe più utilizzate in Liberia e Sierra Leone è la "brown-brown", cocaina o eroina tagliata con polvere da sparo. Se non vi sono aghi, si fanno delle incisioni sulle tempie o sulle braccia del bambino dove si applica la sostanza, che così circola rapidamente nell'organismo e provoca in poco tempo l'assuefazione.

Tutto questo rende assai difficile recuperare alla società civile un bambino che è stato sottoposto a tali torture fisiche e mentali. Sono stati fatti dei tentativi ed è stato ottenuto qualche risultato positivo? Come?

L'articolo 39 della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo prevede che gli Stati si impegnino ad adottare provvedimenti per agevolare il recupero psicofisico ed il reinserimento sociale di ogni bambino vittima di un conflitto armato. Tuttavia, la fissazione dell'età minima per il reclutamento a 15 anni risulta incoerente sia rispetto al principio per cui sono minori tutti i soggetti con un'età inferiore ai 18 anni, sia rispetto al principio di non discriminazione sancito nella Convenzione stessa per cui i diritti enunciati devono essere garantiti ad ogni minore senza distinzione di sorta. Importante in tale campo è stata anche la risoluzione delle Nazioni Unite n.1261 del 1999, che ha inserito il tema dei bambini-soldato nell'agenda del Consiglio di Sicurezza, in quanto questione attinente al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali. Lo stesso Statuto della Corte penale internazionale include tra i crimini di guerra la coscrizione e l'arruolamento dei fanciulli di età inferiore ai 15 anni nelle forze armate nonché la loro partecipazione attiva alle ostilità, prevedendo anche forme riabilitative per le vittime di questo crimine di guerra. Rilevante è anche il Rapporto "Machel" del 1996, documento ufficiale delle Nazioni Unite volto a sensibilizzare l'opinione pubblica e le istituzioni su questa problematica. In seguito alla sua pubblicazione, sono stati negli anni destinati fondi e programmi per la smobilitazione, la riabilitazione e la reintegrazione dei bambini vittime dei conflitti armati. Infine, è stato istituito l'Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i bambini in situazioni di conflitto armato. Tuttavia, una innovazione, a mio modo di vedere, essenziale sarebbe quella di innalzare a 18 anni il limite di età per l'arruolamento, ciò che ha cercato di fare il Protocollo Opzionale alla succitata Convenzione, poiché mantenere il limite a 15 anni vuol dire considerare un minore di 18 anni immaturo per la pace e maturo per la guerra. Molto lavoro, dunque, resta ancora da fare.

Il Cas dalle porte aperte: la cooperativa Caracol di Marghera

C’è un Centro di accoglienza straordinaria (Cas) con le porte aperte. C’è un Cas che organizza feste musicali e cene "accoglienti" aperte a tutta la cittadinanza per raccontare il lavoro svolto dagli operatori e dagli ospiti.
E se, come è capitato a me, vi è toccato di vederne altri, di Cas, sapete bene che tante, troppe, di queste strutture destinate all’accoglienza dei richiedenti asilo sono poco meno che fortezze, con portoni sbarrati e filo spinato sopra muri, dove agli operatori è vietato parlare con i giornalisti e gli attivisti della campagna LasciateCientrare che chiedono di ispezionare le strutture vengono accolti a colpi di querele.
Ma che alla Cooperativa Caracol si respiri un’aria radicalmente diversa lo si capisce non appena ti ci trovi davanti, con tutte quelle biciclette recuperate e messe a disposizione degli ospiti che hanno voglia di farsi un giro per la città. Siamo in via Fratelli Bandiera a Marghera, nell’entroterra veneziano. Il Cas senza porte sorge a ridosso del Centro Sociale Rivolta. Sull’esterno dell’edificio, un grande murales colorato ricorda che "Non dobbiamo chiedere il permesso per essere liberi".
All’interno, gli spazi comuni e le sette stanze da letto sono colorate con fantasia e arredate in maniera… artistica. E si capisce presto il perché. Mobili e infissi provengono niente meno che da una installazione della Biennale. La celebre architetta indiana Anupama Kundoo, nell’ambito del progetto Rebiennale per l’utilizzo delle istallazioni dismesse, ha messo a disposizione della Caracol i materiali del padiglione "Building Knowledge" e ha organizzato un laboratorio di riutilizzo al quale hanno partecipano tanto gli operatori della Caracol quanto le persone ospiti.
Vittoria Scarpa, operatrice della Caracol, ricorda quel 18 luglio in cui la Prefettura ha deciso di affidare alla cooperativa i primi profughi: "Erano ventuno ragazzi provenienti dal Mali, dalla Nigeria, dal Senegal e dal Ghana. Venivano dal campo di Cona dove avevano trascorso un anno intero. Tutti stanchi dello scorrere delle giornate senza prospettive o cambiamenti. Ci dissero subito che volevano cucinare loro e noi gli abbiano detto che andava bene. Gli abbiamo affidato il budget mensile destinato alla spesa e non ce ne siamo mai pentiti. Ora gestiscono loro la cucina e i pasti. Così abbiamo fatto anche per il vestiario. Perché dovrei essere io a scegliere per loro?".
La gestione in prima persona di cucina e degli spazi comuni ha rinforzato il senso di comunità, superando i confini delle diverse nazionalità. Senso di comunità che ha coinvolto anche il giovane bengalese, l’unico richiedente asilo del gruppo che non proviene da un paese subsahariano.
"L’accoglienza funziona se è diffusa su tutto il territorio e con centri di piccole dimensioni - spiega Vittoria -. Non è umanamente possibile pensare di accogliere in maniera adeguata in un Cas con centinaia o addirittura migliaia di richiedenti asilo. Neppure se hai a disposizione un battaglione di operatori. Magari si riescono a garantire i servizi fondamentali ma è quasi impossibile seguire un’adeguata assistenza legale, percorsi di integrazione e ricerca lavoro che sono le condizioni per potersi costruire una vita nel nostro paese. Ma questo è quello che succede quando molti comuni chiudono le porte e quindi l’unica risorsa sono i grandi centri di accoglienza. Queste persone, per arrivare in Italia, hanno subito trattamenti inenarrabili come rapimenti, torture, ricatti. Senza contare la terribile e rischiosa traversata in mare sui gommoni. Non puoi pensare di gestirle solo come numeri, senza conoscerle di persona, chiacchierarci e fare amicizia. E’ anche di questo che hanno bisogno, loro e anche noi".
L’accoglienza che funziona tiene meno banco nei media rispetto a quella dello sfruttamento e dei tanti scandali di cui ci tocca leggere ogni giorno. E’ una regola del giornalismo, che la notizia è più notizia se è brutta. Non possiamo farci nulla, ma ogni tanto per fortuna qualcuno racconta anche storie diverse. E la Caracol, pur nei suoi pochi mesi di vita come Cas, ne ha raccolte tante, di storie diverse. Come quella dell’aiuto che gli ospiti hanno dato all’associazione Il Portico, salvando la tradizionale festa con il loro impegno e rivelando le persone migranti per quello che davvero sono: una risorsa per tutti.
Anche per questo, la Caracol - nome che viene dai tanti viaggi nel Chiapas zapatista dei suoi fondatori, tra i "caracol", vale a dire municipi autogestiti, degli indigeni ribelli - ha deciso che si merita una bella festa. E lo farà con l’orchestra più numerosa del mondo, quella degli Stregoni, la band che gira l’Europa per svolgere laboratori sonori con tutti i migranti, e poi organizza spettacoli aperti a tutta la cittadinanza.
L’appuntamento è per sabato 28 ottobre al Centro Sociale Rivolta. Seguirà una cena di autofinanziamento. Una cena solidale e accogliente, naturalmente.

"Human flow" alla Mostra del Cinema. Ai WeiWei presenta il suo docufilm sui rifugiati

I confini non esistono. Non esistono nell'arte, non esistono nella vita e non esistono neppure nella geografia. "I confini esistono solo dentro di noi. Nelle nostre menti e nelle nostre anime". Parole di uno dei più quotati artisti contemporanei. Artista a "tutto campo", o se preferite, senza confini; attivo nella scultura, nella pitture, nell'architettura, nelle installazioni, nella scrittura, nel teatro, nella fotografia, nel cinema… E se poi gli chiedete cosa sia l'arte vi risponde:"Un gesto politico. Che altro?"
Stiamo parlando di Ai Weiwei. Figlio del grande
poeta Ai Qing, Ai Weiwei ha compiuto sessant'anni giusto un paio di giorni fa ed ha alle spalle una lunga storia di ribellione contro l'autoritarismo cinese culminata con l'arresto il 2 aprile del 2011 ed conseguente ritiro del passaporto. Misura cautelativa terminata nel luglio del 2015, anno in cui l'artista si è trasferito a Berlino, pure se, sul suo sito ufficiale - più volte chiuso dalle autorità cinesi - continua a definirsi "residente a Pechino". L'attivismo per i diritti umani, che è poi l'unica costante della sua multiforme genio artistico, non lo ha abbandonato dopo il suo trasferimento in Europa.
Ricordiamo i 10 mila giubbotti di salvataggio realmente utilizzati dai migranti sbarcati a Lesbo che l'artista cinese ha appeso alle colonne del Konzerthaus di Berlino. Oppure i barconi rosso sangue con i quali ha ornato le pareti di palazzo Strozzi, a Firenze.
Migrante lui stesso, costretto ad abbandonare la sua amata città natale, Ai Weiwei ha voluto raccontare con queste installazioni la tragedia dei profughi di tutto il mondo. Un "flusso umano" che non risparmia nessun Paese del mondo e che si stima superiore ai 65 milioni di sfollati costretti a cercare lontano dalle loro casa condizioni accettabili di vita.
E "flusso umano", "Human Flow", è anche il titolo del docufilm che AI Weiwei, nei panni di regista e di produttore, presenterà venerdì 1 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un progetto, racconta l'artista, nato nel dicembre 2015 quando si è recato nell'isola greca di Lesbo per assistere all'arrivo dei migranti provenienti dalle coste africane ed ha deciso di realizzare un documentario sulle migrazioni e "su cosa potessero rivelare sulla nostra umanità le nostre reazioni di fronte alla crisi".
Nei due anni successivi, Ai Weiwei ha visitato oltre 40 campi profughi in tutto il mondo e viaggiato dalla Libia ai confini tra Messico e Stati Uniti, intervistato centinaia di persone per raccogliere storie e narrazioni.
"Tutti possono essere rifugiati - ha spiegato l'artista cinese -. Quella che chiamiamo la crisi dei rifugiati è di fatto una crisi umanitaria. Non importa chi può essere rifugiato, potreste essere voi o potrei essere io. Credo che il problema dovrebbe essere compreso da chi ha la fortuna di vivere in pace. E credo che la pace sia sempre una situazione temporanea. Nessuno può essere certo di vivere sempre in pace. Nessuno".

La nave nera

Succede sempre così. Vai ad investigare cosa c'è sotto una operazione dell'internazionale nera e ci trovi una vera e propria fogna di commistioni con il malaffare e la finanza sporca; quella che commercia in armi e in uomini, e campa di guerre e di sangue. "Defend Europe" non fa certo eccezione. La nave dei "patrioti", come solo il Giornale poteva definirli, che in questo momento si sta dirigendo verso Catania, con lo scopo dichiarato di smascherare le "Ong criminose che raccolgono i migranti presso le coste libiche", è un concentrato di farneticanti ideologie complottiste e di propagande razziste abbondantemente foraggiato da losche società multinazionali che commerciano in mercenari e armamenti.
Ma vediamo per prima cosa chi sono questi "identitari".

Generazione identitaria

Come c'era da aspettarsi, la prima cosa che sottolineano è che il loro movimento "non è né di destra, né di sinistra". Ma, anche senza addentrarsi troppo nel dilemma gaberiano ""Che cosa è la destra, che cosa è la sinistra", se la xenofobia, il razzismo e il nazionalismo sono peculiarità della destra, loro sono tutti di destra. Nati nel 2012 in Francia come prosieguo dell'esperienza politica del Bloc identitaire - movimento estremista a destra dei Le Pen, per intendersi - e subito diffusi in Germania, Génération Identitaire si presenta come il volto pulito del fascismo europeo. Potete farvene una idea cliccando su
questo video di presentazione di un loro campo di addestramento diffuso su YouTube. Il filmato, così come tutti i loro eleganti siti, mostrano volti ben diversi dalla classica mascellona incarognita alla Benito: sono tutti visi giovani o giovanissimi, facce pulite, capelli preferibilmente biondi e tratti, secondo una logica lombrosiana, rigorosamente "europei". Generazione Identitaria, come spiega il nome stesso, è ossessionata dal problema dell'identità. "Essere identitari - si legge nel loro sito - significa difendere in ogni ambito l’identità etnica e culturale dei quali siamo detentori". Cosa intendano col termine "identità" non lo spiegano affatto. Non sono troppo portati per le discussioni filosofiche o psicoanalitiche, questi tipi. Gli basta sapere che "Essere identitari non è un dogma né un’ideologia, ma al contrario un principio fondato sulla realtà, su ciò che realmente siamo". L'identità, per loro, è solo una gabbia in cui rinchiudere le loro paure. E la prima paura è quella del diverso, del migrante, perché è proprio attraverso l'incontro con l'altro che noi mettiamo la nostra identità - anzi, diciamo meglio al plurale - le nostre identità in discussione.
Per tanti, questo è fonte di progresso, di crescita umana e sociale, di conoscenza di se stessi. Per Generazione Identitaria è puro terrore. Ed è proprio questa fobia a farli salire sulle vette del complottismo con la teoria della Grande Sostituzione, rispolverando una tesi delle scrittore Renaud Camus, già condannato per incitamento all'odio razziale. "L’invecchiamento della popolazione e lo scarso tasso di natalità coabitano con la sempre più poderosa immissione forzata di masse di immigrati terzomondiali nei territori dell’Europa - affermano -. E’ facile prevedere che, se non invertita immediatamente, questa tendenza, prolungandosi nel tempo, porterà alla completa sostituzione degli elementi etnici e dei popoli originari dell’Europa".
Lo scopo dichiarato del movimento è la cosiddetta "remigrazione", cioè il rimpatrio forzato di tutti coloro che non sono in sintonia con questa "identità". Il che si traduce con: abolizione di qualsiasi tipologia di Ius Soli (non hanno ancora approvato la legge in Italia ma loro voglio abolirla lo stesso); abolizione di qualsiasi tipo di ricongiungimento familiare; congelamento di tutti i processi di naturalizzazione in atto; accesso a servizi sociali e case popolari riservata esclusivamente a cittadini italiani; criteri di preferenza, negli uffici di collocamento, a favore di cittadini italiani; divieto di costruire moschee o minareti; scioglimento di tutte le associazioni islamiche; lotta senza quartiere al razzismo anti-italiano.
Nel nostro Paese, Génération Identitaire è sbarcata nel novembre del 2012, poco dopo la sua costituzione in Francia. Ha sezioni a Bergamo, Milano, Brescia, Modena, Torino e anche in Sardegna. Il suo portavoce è un giovane studente di scienze politiche di Milano, Lorenzo Fiato.

La nave dei patrioti
Si definiscono un "movimento assolutamente pacifico e non violento". Qualità gandhiane che fanno un pochettino a pugni col loro manifesto intitolato "Dichiarazione di guerra" e che comincia con "Noi siamo la generazione della frattura etnica, del fallimento totale del vivere insieme". Defend Europe, l'operazione che li ha portati all'attenzione della stampa europea quando hanno annunciato la partenza di una nave dal porto di Gibuti con lo scopo si mettere il bastone tra le eliche delle navi delle Ong che salvano i migranti abbandonati in mare, è stata preparata con cura, in silenzio e con molto anticipo. Questa è gente che lavora nell'ombra e che proprio dalle ombre delle finanza trae le risorse economiche necessarie per organizzare le loro iniziative. Un modo di fare caratteristico dell'internazionalismo nero.
"Hanno una forte presenza in rete, con molti siti realizzati professionalmente - ha osservato il giornalista Andrea Palladino -. Ma è difficile incontrarli fisicamente se non si fa parte del loro network. Quando organizzano le riunioni non indicano mai il luogo pubblicamente; l'indirizzo lo inviano all'ultimo momento via email solo a chi è iscritto". La stampa ha saputo della loro esistenza solo quando hanno voluto loro, quando la nave era già pronta per salpare.
La domanda a questo punto è: come ha fatto un movimento di ragazzini (perlomeno è così che si presentano) assolutamente sconosciuto ai più, a raccattare una nave a Gibuti? La risposta l'ha trovata sempre Andrea Palladino in una inchiesta pubblicata su Famiglia Cristiana in cui ha ripercorso a ritroso l'operazione Defend Europe, cercando i mandanti e soprattutto scoprendo i nomi di chi ci ha messo i capitali.
La nave, intanto. Si chiama C-Star e batta una improbabile bandiera della Mongolia. L'imbarcazione, che prima si chiamava Suunta ed era di proprietà di una società specializzata nella sicurezza, la Sovereign Global Solution, fa normalmente scalo a Gibuti. Piccolo Stato indipendente nel Corno d'Africa, noto per essere un mercato all'aperto di armi e di mercenari. La Sovereign Global Solution infatti lavora proprio in questo settore: lo scopo della società è offrire "protezione contro la pirateria dei mari". Che è come dire: "affittasi mercenari, addestrati e bene armati". Navi come la Suunto, o la C-Star, se preferite, sono solo piattaforme galleggianti di armi e uomini per aggirare le politiche di embargo degli armamenti imposte dall'Onu in un angolo di mondo che è da 40 anni non conosce pace.
La Sovereign avrebbe venduto lo scorso marzo la nave ad una società inglese con sede a Cardiff, la Maritime Global Service Limited, che ha la sua stessa mission di mettere in "sicurezza" gli agitati mari somali. La Maritime Global è una strana società con un unico socio: il 49enne svedese Sven Tomas Egerstrom, già condannato a due anni e mezzo per frode dai tribunali del suo Paese e quindi trasferitosi in pianta stabile in Inghilterra. Egerstrom è presidente di un network di società specializzate in difesa privata con filiali in tutta Europa e collegato alla britannica The Marshals Group che riunisce altre sei società specializzate in, avete indovinato?, sicurezza in aree di guerra! Società che ti garantiscono che, se ti affidi a loro, i tuoi traffici, qualunque essi siano, nei martoriati Paesi dell'Africa orientale potranno continuare indisturbati e senza pericoli.
In altre parole, sono tutte società che fanno soldi con le guerre. E questi sono i capitali con i quali è stata armata la nave che ora naviga col patriotico scopo di "tutelare pacificamente il nostro patrimonio culturale", come ha spiegato l'ex ufficiale di marina Gianmarco Concas, responsabile tecnico di Defense Europe.
Ma le navi come la C-Star, che la Maritime Global ha gentilmente concesso ai fascisti - chiamiamoli per quel che sono - di Generazione Identitaria di pacifico e di culturale non hanno proprio niente. Sono chiamate dai mercenari e dai contractors: "floating armoury". Botteghe d'armi galleggianti, dove tutto si compra e si vende a suon di milioni. Anche la guerra.
E se consideriamo che è proprio per colpa della guerra che migliaia di profughi stanno abbandonando le loro case per tentare la fortuna sula mare, ecco che il cerchio si chiude.

In viaggio con Mozart per piantare semi

Ci sono anche storie che fa piacere raccontare. Quella del chitarrista Isaac e del violinista Alaa è una di queste. Ed è una storia che si è intrecciata sotto le stelle del jazz, anche se i suoni che si udivano all'inizio erano solo quelli delle bombe.
Siamo a Damasco, nell'anno 2011. La guerra deve ancora cominciare ed il giovane Alaa Arsheed studia violino nella scuola superiore di musica della sua città. "I miei genitori - racconterà Alaa - gestivava una galleria d'arte chiamata Alpha nella cittadina di al-Suwayda. Era un punto di ritrovo per intellettuali e artisti dissidenti e la polizia segreta di Assad ci teneva d'occhio".
L'arte è libertà e la libertà non piace ai dittatori.
"Sapevamo di essere controllati, ma mio padre si ostinava a continuare lo stesso la sua attività - ricorda il violinista - Il governo siriano non è mai stato tenero con gli intellettuali e i gli artisti. Un giorno i poliziotti fecero irruzione nella galleria e, inneggiando al presidente, ruppero tutti i quadri e distrussero l'intera galleria".
Il padre di Alaa si fece qualche settimana di galera e quando fu rilasciato, gli fu proibito di riprendere l'attività.
Poi arriva la rivoluzione. Prima invocata e poi tradita. La rivoluzione che si è presto trasformata in una guerra feroce tra le milizie fasciste di Assad e i terroristi dell'Isis.
Alaa e la sua famiglia sono rifugiati in Libano. Qui il violinista conosce Alessandro Gassmann che girava un documentario in collaborazione con l'Unhcr sui musicisti siriani diventati profughi di guerra. Alaa diventa uno dei protagonisti di "Torn. Strappati 2015" . "I media dipingono i siriani con lo stereotipo del povero rifugiato - spiega il musicista - e non vedono altro di quell'enorme patrimonio dell'umanità che è la cultura siriana. Io vorrei far capire alla gente che noi siamo molto di più di un popolo disperato".
La partecipazione al documentario firmato dal regista Gassmann gli apre le porte d’Europa. Alaa ha la possibilità di registrare in Italia il suo primo album che esce puntualmente nel settembre del 2015. Alaa lo titola col nome antico della sua perduta città, Damasco: Sham.
Ed è propio durante la registrazione di Sham che Alaa incontra Isaac de Martin. Isaac è nato ad Abano Terme una trentina di anni fa. E' un chitarrista e jazzista di talento con tanto di laurea al conservatorio. Compone musica per cinema e teatro, ha fondato l'Adovabadan Jazz Band e il collettivo internazionale Sound Illustrators con sedi a Helsinki ed a Berlino.
"Un giorno, mi dicono che di là c'è un profugo siriano che suona il violino da dio. 'Perché non provate a suonare qualcosa insieme, per una mezz'ora, tanto per conoscervi?' Abbiamo suonato tre ore senza fermarci mai! E' stata una contaminazione di generi. Io suono jazz, lui folk mediorientale ma la musica, per sua natura, non sta dentro nessuna barriera e ci siamo subito intesi a meraviglia".
La musica non ha frontiere. La musica supera qualsiasi muro e abbatte qualsiasi stereotipo di genere.
Perché non può essere così anche per gli esseri umani? "La musica, così come l'arte in generale, è la più grande forma di comunicazione che abbiamo noi, esseri umani. Un giorno Alaa mi ha raccontato che il suo sogno è usare questo strumento per incontrare le persone che bussano ai confini d'Europa. Molti di loro sono musicisti come noi e hanno dovuto abbandonare speranze e rinunciare a talenti per fuggire dalle guerre. Ma i sogni invece, vanno sempre nutriti. E qui la musica può dare il suo prezioso contributo".
Nasce così l'idea di attrezzare un camper come sala registrazione e partire verso le frontiere d'Europa per suonare con tutti quelli che sanno suonare e farsi ascoltare da tutti coloro che sanno ascoltare. Ci può essere forma di comunicazione migliore?
Alaa e isaac dicono di no e al festival del giornalismo di Ferrara presentano il loro progetto che ottiene subito il favore del pubblico e l'interessamento dell'Unhcr e di Amesty Italia.
I due musicisti hanno lanciato anche un crowdfunding a questo link per coprire il costo del camper, delle attrezzature di registrazione e degli strumenti musicali che porteranno con loro.
Il progetto, che potrete seguire alla loro pagina Facebook e che presto sarà supportata da un blog, si chiama "In viaggio con Mozart". "Anche il piccolo Mozart - spiega Isaac - fu talento costretto a viaggiare in lungo e largo per tutte le corti d'Europa per dar da vivere alla sua famiglia. Col nostro camper vogliamo incontrare tutti i Mozart che oggi sono costretti a vivere sotto le tende dei campi profughi".
Il risultato sarà un documentario e un album che chiameranno Seeds (semi).
"Partiremo, perché partiremo di sicuro, tra il 26 e il 30 luglio - conclude Isaac -. Seguiremo, al contrario, la cosiddetta 'rotta balcanica' per incrociare i tanti profughi che cercano di entrare in Europa. Ancora non abbiamo un itinerario preciso. Dipende da chi incontreremo, da chi vorrà suonare con noi, da cosa ci dirà la gente… Non abbiamo scadenze o itinerari fissi, per carità! Anche la partenza, non abbiamo ancora deciso se sarà da Treviso o da Milano. Intanto andiamo a suonare in giro e organizziamo concerti per raccogliere denaro".
E' un jazzista, Isaac, ed è abituato ad improvvisare. La musica, la vita è bella anche per questo.

I sindaci dell'accoglienza degna

Ci sono anche sindaci che dicono di sì. Ci sono anche sindaci che preferiscono gettare ponti piuttosto che alzare muri. Pochi, magari, ma ci sono. E alla fin fine, quando si tratta di tirare due conti, sono loro ad avere in mano le carte migliori.
Due di loro, hanno sfilato con tanto di fascia tricolore alla manifestazione Side By Side che, domenica scorsa su invito di #OverTheFortress e Melting Pot, ha colorato di speranza le calli di Venezia. Tanto per ribadire che il Veneto non è soltanto la terra dei leghisti, dei forconi e delle barricate incivili e vergognose.
Sono Alessandra Buzzo, prima cittadina di Santo Stefano di Cadore, e Franco Balzi, suo omologo a Santorso, nell'alto Vicentino. Dai monti alla pianura, luoghi e storie diverse per un unico percorso di accoglienza.
Diamo voce ai loro racconti in una sorta di intervista incrociata, così come loro hanno saputo incrociare, senza paure e senza preconcetti, le loro vite e lo loro cariche amministrative con i bisogni dei richiedenti asilo e le aspettative dei loro concittadini ed elettori.

Alessandra Buzzo
Il 13 maggio 2011, di pomeriggio, stavo lavorando nella mia scuola - io sono impiegata nell'amministrazione - e mi chiama il prefetto per dirmi che, quella sera stessa, sarebbe arrivato nel mio paese un pullman con 90 profughi. Sono rimasta senza parole. Mi avessero dato perlomeno una giornata intera di preavviso. Invece me lo hanno comunicato poche ore prima dell'arrivo. E poi ho capito perché lo hanno fatto. Era una specie di punizione perché, quando la prefettura convocava i sindaci della provincia per discutere sull'emergenza umanitaria in corso, tutti dicevano di no, che nei loro paesi avevano già troppi problemi e non ne volevano altri. Io ero l'unica a ribadire che di fronte a tali tragedie non ci sono alternative e neppure calcoli politici che tengano. Chi ha bisogno va aiutato e basta. E così, alla prima emergenza, tutti i profughi che avrebbero dovuti essere distribuiti nell'intera provincia, li hanno mandati da me. 'Vediamo come se la cava ora' devono aver pensato.

Franco Balzi
Il mio Comune non si è mai tirato indietro sul fronte dell'accoglienza. Sin dal 2002 è capofila di un progetto Sprar che coinvolge 12 paesi dell'Alto Vicentino e che ha saputo seguire più di 400 migranti. A Santorso, li abbiamo ospitati in appartamenti e affidati ad una associazione seria, Mondo nella Città, che ha maturato una lunga esperienza su questo settore e ha saputo costruire percorsi virtuosi ed efficaci per i migranti. Io vengo dalla cooperazione sociale, dove ho lavorato per oltre trent'anni. Bisogna stare attenti a scegliere con i criteri giusti chi deve occuparsi di accoglienza. Soprattutto bisogna saper distinguere le cooperative serie e motivate dalle cooperative delinquenziali che speculano e sono interessate solo al business. A Santorso lo abbiamo saputo fare e il mio Comune è diventato un punto di riferimento per le politiche di accoglienza. Poi, nell'agosto del 2014, tutto il sistema va in cortocircuito. Di punto in bianco, la prefettura mi chiama per avvertirmi che hanno requisito un albergo per dare alloggio ad un centinaio di migranti e affidato la gestione ad una cooperativa che neppure avevo mai sentito nominare.

Alessandra Buzzo
Là per là, mi venne la tentazione di rispondere alla prefettura che non se ne parlava nemmeno. Che non potevano spedirmi 90 persone dalla sera alla mattina… ma poi ho pensato a cosa avrei voluto che un sindaco facesse se fosse toccato ad uno dei miei figli scappare dalla guerra. Così mi sono fatta coraggio e, grazie ad un gruppo di volontari, ho sistemato 90 brande e preparato 90 pasti, immaginando che, oltre che stanchi, quei ragazzi dovevano essere anche affamati. Li abbiamo accolti così, al meglio che abbiamo potuto. Ragazzi, ho detto loro, noi cercheremo di aiutarvi per quanto possiamo. Voi cercate di non darci problemi. Non me ne hanno dati. Né quelle volta, né dopo.

Franco Balzi
E così, a Santorso, è andato in scena una specie di esperimento. In un solo paese di circa 5700 anime, sono state avviate due pratiche parallele: l'accoglienza diffusa e consolidata gestita dal Comune e quella emergenziale gestita dalla prefettura. Quale fosse quella migliore e più efficace sotto tutti i punti di vista, apparve subito chiaro a tutti. Così la mia amministrazione è stata in prima fila nella battaglia a favore di una accoglienza degna e diffusa. Una battaglia che si è conclusa nel settembre del 2015, quando lo Stato si è improvvisamente ricordato che esisteva lo Sprar e ha lanciato un protocollo di intesa che riprendeva anche la nostra proposta di introdurre un dato quantitativo: tre richiedenti asilo, secondo quanto riportato nel decreto che dovrebbe essere approvato dal Senato, per ogni mille abitanti. Un limite che consente al Comune non solo di farsi carico di un problema umano uscendo dalla logica emergenziale ma anche di avviare percorsi di vera accoglienza.

Alessandra Buzzo
I problemi non mi sono venuti dai profughi ma da alcuni concittadini spaventati dalla presenza di queste persone con una pelle di colore diverso dalla loro. Alcuni genitori mi organizzarono un picchetto davanti alla mia scuola. Finimmo anche nei giornali locali quando alcune mamme chiesero al parroco di non dare la comunione ai loro figli con le mani con le quali avevano toccato i migranti. Che assurdità! Ma alle amministrative del 2014 fui confermata sindaca anche per il secondo mandato. Credo di essere stata premiata per la coerenza con la quale affronto i problemi di Santo Stefano ma anche perché questi 90 ragazzi si rivelarono sin da subito una risorsa per tutti, ad esempio, ridipingendo l'anagrafe e il municipio. Affittando le case di alcune signore anziane, contribuiscono al pagamento della retta della casa di riposo. E poi ci sono stati anche tre matrimoni e la nascita di alcuni bambini. In una valle che ha il problema dello spopolamento non è poco. Senza contare che uno di questi bambini è mio nipote! Mia figlia infatti ha sposato uno di questi ragazzi in fuga. I Modena City Ramblers ci hanno scritto pure una canzone.

Franco Balzi
I giornali e le televisioni preferiscono fare leva sulla paura e agitare lo spettro dell'invasione. Fanno poca notizia storie come quella di Santorso, dove l'accoglienza si è rivelata una risorsa e tutti hanno potuto capire che i migranti sono tutt'altro che delinquenti incalliti ma persone come noi, e possono essere integrati in lavori di pubblica utilità come la manutenzione di sentieri montagna, la tutela ambientale o l'accompagnamento di anziani.
Concetti difficili da far capire a tanti colleghi sindaci che preferiscono cavalcare l'onda della paura? Bisogna rendersi conto che i miei non sono discorsi buonisti ma pragmatici, piuttosto. A Santorso abbiamo aperto una porta e tutti possono vedere che l'accoglienza diffusa e responsabile, con l'amministrazione comunale protagonista, è anche la soluzione più pratica. Fosse solo perché evita di vedersi scavalcare dalle logiche emergenziali che, come abbiamo constatato, portano solo risultati disastrosi per tutti. E questo dovrebbero capirlo anche i sindaci che oggi sanno dire solo di no.
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