E torniamo a parlare di schiavitù
11/09/2016Non si vedono, non si sentono, non se ne parla. Eppure esistono e sono tanti. E tanti di loro vivono in Italia. Nascosti, senza documenti, senza diritti. Sfruttati, ricattati dai padroni, pagati con quel minimo di sostentamento necessario a cominciare domani un’altra giornata lavorativa. Molti sono minorenni, tantissimi sono bambini. Per il capitalismo predatorio, rappresentano il carburante indispensabile a far “girare” l’economia e portare in attivo le aziende. Stiamo parlando dei moderni schiavi. Schiavi che non hanno nulla da invidiare a quelli che raccoglievano cotone nelle grandi piantagioni del Sud confederato, se non che, se allora la proprietà di un altro essere umano era considerata legale, oggi è l’essere umano che nasce dalla parta sbagliata del “muro” ad essere considerato illegale e, di conseguenza, privato di qualsiasi tutela. Niente di più che una “merce” da vendere e comperare seguendo i flussi del mercato. Una merce, contrariamente agli schiavi dei secoli passati, illegale ma a bassissimo costo e capace di offrire profitti altissimi agli sfruttatori. Schiavi “usa e getta”, qualcuno li ha definiti. Vittime indifese di una ricattabilità cucitagli addosso dalle leggi esclusive dei cosiddetti Paesi civili.
Secondo l’ultimo rapporto stilato dalla Walk Free Foundation, almeno 45 milioni e 800 mila persone vivono nel mondo in condizioni di schiavitù. Una stima per difetto e in continua crescita nel corso degli ultimi anni. 28 per cento in più rispetto all’anno scorso. Per lo più sono bambini. Minorenni costretti a fare i soldati nella Sierra Leone o arruolati a forza nelle milizie di Boko Haram, bambine prostituite in Thailandia al mercato del sesso o tessitrici di tappeti in Pakistan e in India, piccole domestiche spedite a lavorare nelle case del Golfo Persico, bambini assemblatori di prodotti Made in China, di costosi telefonini di gran marca a Singapore o utilizzati come manodopera a costo zero dalla compagnie di disboscamento amazzoniche.
Nella speciale classifica mondiale che vede in testa come numero di schiavi l’India, seguita dalla Cina e dal Pakistan, anche il nostro Bel Paese fa la sua porca figura e si colloca al secondo posto in Europa, dopo la Polonia, con 129 mila e 600 persone ridotte in schiavitù (dieci volte di più della Francia che pure ha, pressapoco, il nostro stesso numero di abitanti), e al 44esimo nel mondo, dopo il Guatemala e prima della Malesia.
Una menzione a parte in tema di schiavitù moderna, la merita la Corea del Nord, dove il lavoro forzato è stato reso legale per accumulo di debiti, povertà o semplicemente per reati contro la società (o meglio, contro il regime) ed è diventato parte integrante del sistema produttivo. Il Paese dove si giustiziano gli oppositori politici con la contraerea, infatti, è al primo posto come percentuale di schiavi in proporzione al numero di abitanti: 4,37 coreani su cento sono schiavi. Seguono l’Uzbekistan dove la raccolta statale del cotone è effettuata con “arruolamento forzato” e il Qatar dove oltre il 99% dei manovali che realizzano quegli incubi architettonici che tanto piacciono agli sceicchi, sono stati “acquistati” in India, in Nepal e in Bangladesh tramite apposite agenzie.
In Italia e in Europa, i nuovi schiavi sono legati alle migrazioni irregolari e sono la dimostrazione vivente della debolezza della Comunità Europea in tema di diritti umani. Che poi è la ragione della stessa debolezza politica e strutturale dell’Ue che non ha saputo ritagliarsi un ruolo, e una dignità, che non sia solo quello di garantire la fluidità dei mercati.
E così, quei migranti che non abbiamo saputo accogliere e che ci siamo rifiutati di regolarizzare, sono diventati linfa vitale per le mafie, che si sono specializzate nella tratta di esseri umani. Capitolato che oggi rappresenta la loro terza voce di introiti dopo il commercio delle armi e della droga. Solo nel campo della prostituzione forzata, le organizzazioni malavitose mettono a bilancio un introito stimato sui 4 mila 831 milioni di euro all’anno (fonte: centro di documentazione universitario Transcrime). La raccolta di pomodori o di altri ortaggi nei campi del sud Italia sotto il giogo del caporalato, il lavoro in nero in cantieri edili, sotto ricatto di essere denunciati dal padrone per immigrazione clandestina, nel nord del Paese, sono le forme di schiavitù più comuni destinate agli uomini.
Ancora più misteriosa la sorte dei tanti bambini che arrivano alle nostre frontiere e che pure dovrebbero essere tutelati dalle leggi sui minori ma che vengono avviato alla schiavitù per vie traverse. In Europa, almeno diecimila tra bambini e bambine sono spariti senza lasciare traccia e la metà di questi in Italia. Venduti a gruppi criminali che li addestrano ad elemosinare o al furto o allo spaccio o allo sfruttamento sessuale o addirittura, secondo alcune fonti, al mercato illegale di organi.
C’è da sottolineare che il sopra citato rapporto dalla Walk Free Foundation (una associazione finanziata da un magnate del settore minerario australiano, Andrew Forrest, convinto che la schiavitù sia “economicamente” sbagliata) stila anche un puntuale resoconto dell’impegno dei Governi nella lotta alla schiavitù. Questo fenomeno infatti, si legge sul rapporto, ha radici smaccatamente politiche, più che economiche, e può essere abbattuto con interventi concreti e leggi atte ad estendere ed a garantire a tutti gli esseri umani i diritti fondamentali. “Sradicare la schiavitù è giusto moralmente, politicamente, da un punto di vista logico ed economico. Attraverso un uso responsabile del potere, della forza di convinzione, della volontà collettiva, possiamo portare il mondo verso la fine della schiavitù” scrive Forrest.
Un plauso nella lotta alla schiavitù moderna, secondo il rapporto, se lo merita tutto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si è personalmente adoperato perché negli Usa sia vietato importare e commercializzare prodotti realizzati con lavoro forzato o minorile. Menzione di merito anche al Regno Unito che lo scorso anno ha introdotto una speciale legge anti-tratta denominata Modern Slavery Act. Ma Usa e Regno Unito sono rispettivamente al secondo e al terzo posto della classifica dei Paesi virtuosi guidata dall’Olanda che rimane lo Strato che investe di più per fronteggiare il problema, investigarlo e portare aiuto alle vittime della tratta. Seguono Svezia e Australia. E l’Italia? Bisogna, ahimè, scendere al 42esimo posto. Le misure adottate dal nostro Paese, secondo la Walk Free, sono poche ed inefficaci. Non esiste un piano di intervento nazionale, né strutture preposte a sostenere le vittime, né tantomeno sufficienti investimenti in materia. Il tavolo nazionale istituito in mera ottemperanza alle direttive comunitarie si è riunito poche volte e non ha preso nessuna decisione di rilievo. Combattere la schiavitù, evidentemente, non è nella lista di priorità del nostro Governo.
Secondo l’ultimo rapporto stilato dalla Walk Free Foundation, almeno 45 milioni e 800 mila persone vivono nel mondo in condizioni di schiavitù. Una stima per difetto e in continua crescita nel corso degli ultimi anni. 28 per cento in più rispetto all’anno scorso. Per lo più sono bambini. Minorenni costretti a fare i soldati nella Sierra Leone o arruolati a forza nelle milizie di Boko Haram, bambine prostituite in Thailandia al mercato del sesso o tessitrici di tappeti in Pakistan e in India, piccole domestiche spedite a lavorare nelle case del Golfo Persico, bambini assemblatori di prodotti Made in China, di costosi telefonini di gran marca a Singapore o utilizzati come manodopera a costo zero dalla compagnie di disboscamento amazzoniche.
Nella speciale classifica mondiale che vede in testa come numero di schiavi l’India, seguita dalla Cina e dal Pakistan, anche il nostro Bel Paese fa la sua porca figura e si colloca al secondo posto in Europa, dopo la Polonia, con 129 mila e 600 persone ridotte in schiavitù (dieci volte di più della Francia che pure ha, pressapoco, il nostro stesso numero di abitanti), e al 44esimo nel mondo, dopo il Guatemala e prima della Malesia.
Una menzione a parte in tema di schiavitù moderna, la merita la Corea del Nord, dove il lavoro forzato è stato reso legale per accumulo di debiti, povertà o semplicemente per reati contro la società (o meglio, contro il regime) ed è diventato parte integrante del sistema produttivo. Il Paese dove si giustiziano gli oppositori politici con la contraerea, infatti, è al primo posto come percentuale di schiavi in proporzione al numero di abitanti: 4,37 coreani su cento sono schiavi. Seguono l’Uzbekistan dove la raccolta statale del cotone è effettuata con “arruolamento forzato” e il Qatar dove oltre il 99% dei manovali che realizzano quegli incubi architettonici che tanto piacciono agli sceicchi, sono stati “acquistati” in India, in Nepal e in Bangladesh tramite apposite agenzie.
In Italia e in Europa, i nuovi schiavi sono legati alle migrazioni irregolari e sono la dimostrazione vivente della debolezza della Comunità Europea in tema di diritti umani. Che poi è la ragione della stessa debolezza politica e strutturale dell’Ue che non ha saputo ritagliarsi un ruolo, e una dignità, che non sia solo quello di garantire la fluidità dei mercati.
E così, quei migranti che non abbiamo saputo accogliere e che ci siamo rifiutati di regolarizzare, sono diventati linfa vitale per le mafie, che si sono specializzate nella tratta di esseri umani. Capitolato che oggi rappresenta la loro terza voce di introiti dopo il commercio delle armi e della droga. Solo nel campo della prostituzione forzata, le organizzazioni malavitose mettono a bilancio un introito stimato sui 4 mila 831 milioni di euro all’anno (fonte: centro di documentazione universitario Transcrime). La raccolta di pomodori o di altri ortaggi nei campi del sud Italia sotto il giogo del caporalato, il lavoro in nero in cantieri edili, sotto ricatto di essere denunciati dal padrone per immigrazione clandestina, nel nord del Paese, sono le forme di schiavitù più comuni destinate agli uomini.
Ancora più misteriosa la sorte dei tanti bambini che arrivano alle nostre frontiere e che pure dovrebbero essere tutelati dalle leggi sui minori ma che vengono avviato alla schiavitù per vie traverse. In Europa, almeno diecimila tra bambini e bambine sono spariti senza lasciare traccia e la metà di questi in Italia. Venduti a gruppi criminali che li addestrano ad elemosinare o al furto o allo spaccio o allo sfruttamento sessuale o addirittura, secondo alcune fonti, al mercato illegale di organi.
C’è da sottolineare che il sopra citato rapporto dalla Walk Free Foundation (una associazione finanziata da un magnate del settore minerario australiano, Andrew Forrest, convinto che la schiavitù sia “economicamente” sbagliata) stila anche un puntuale resoconto dell’impegno dei Governi nella lotta alla schiavitù. Questo fenomeno infatti, si legge sul rapporto, ha radici smaccatamente politiche, più che economiche, e può essere abbattuto con interventi concreti e leggi atte ad estendere ed a garantire a tutti gli esseri umani i diritti fondamentali. “Sradicare la schiavitù è giusto moralmente, politicamente, da un punto di vista logico ed economico. Attraverso un uso responsabile del potere, della forza di convinzione, della volontà collettiva, possiamo portare il mondo verso la fine della schiavitù” scrive Forrest.
Un plauso nella lotta alla schiavitù moderna, secondo il rapporto, se lo merita tutto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si è personalmente adoperato perché negli Usa sia vietato importare e commercializzare prodotti realizzati con lavoro forzato o minorile. Menzione di merito anche al Regno Unito che lo scorso anno ha introdotto una speciale legge anti-tratta denominata Modern Slavery Act. Ma Usa e Regno Unito sono rispettivamente al secondo e al terzo posto della classifica dei Paesi virtuosi guidata dall’Olanda che rimane lo Strato che investe di più per fronteggiare il problema, investigarlo e portare aiuto alle vittime della tratta. Seguono Svezia e Australia. E l’Italia? Bisogna, ahimè, scendere al 42esimo posto. Le misure adottate dal nostro Paese, secondo la Walk Free, sono poche ed inefficaci. Non esiste un piano di intervento nazionale, né strutture preposte a sostenere le vittime, né tantomeno sufficienti investimenti in materia. Il tavolo nazionale istituito in mera ottemperanza alle direttive comunitarie si è riunito poche volte e non ha preso nessuna decisione di rilievo. Combattere la schiavitù, evidentemente, non è nella lista di priorità del nostro Governo.
Aiutare i migranti è un reato. Tre attiviste di Udine sotto inchiesta per aver fornito assistenza e informazioni ai profughi
15/06/2016Anche questo è un muro. Non bastassero i chilometri di filo spinato alle frontiere, anche la Procura ci mette del suo per far passare un pericoloso principio giuridico per il quale aiutare un profugo, anche solo fornendogli una semplice indicazione, diventa un reato perseguibile penalmente.
E’ accaduto a Udine dove sette volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo che stavano distribuendo coperte e generi di prima necessità a dei richiedenti asilo sono stati identificati e poi denunciati per "invasione di terreni o edifici". Tre di loro - la presidente e la vice presidente dell’associazione e un giovane che faceva da interprete - sono stati iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Reato per il quale rischiano 4 anni di carcere.
Gli attivisti, per prestare assistenza, erano entrati in ex caserme e aree abbandonate di proprietà privata. Che sono poi le zone dove si rifugiano i senza tetto di Udine.
E qui vale la pena di ricordare che, pur se il Friuli Venezia Giulia è una terra di passaggio della cosiddetta “rotta balcanica”, la Questura di Udine è tra le più lente in tutta Italia a consegnare la ricevuta della domanda di protezione umanitaria. L’iter burocratico, che altre Questure sbrigano in una mezz’ora, in Friuli dura anche tre settimane e oltre. Senza questo documento, il profugo non può accedere a nessun servizio di assistenza. Neppure potrebbe trovare un letto in un albergo, anche ammesso che gli sia rimasto in tasca il denaro sufficiente, perché sprovvisto di documenti in regola. Cercare riparo in un luogo abbandonato diventa quindi una naturale conseguenza di un sistema che non offre alternative. Gli attivisti di Ospiti in Arrivo si occupano di fornire un po’ di assistenza a questi migranti, incontrandoli nei luoghi in cui sono costretti a vivere per portargli una coperta, fornendo loro le indicazioni burocratiche per la domanda di asilo ed indicandogli le strutture di assistenza.
Comportamento che, solo alcuni anni fa, sarebbe stato considerato encomiabile e meritevole di un qualche Premio Bontà ma che oggi viene interpretato come un pericoloso atto di ribellione.
In Italia, così come in Europa, sta passando la visione neoliberista per la quale “fare politica” - inteso nella sua accezione più nobile, cioè lottare per a tutela dei beni comuni e dei diritti - sia ideologicamente sbagliato e vada pesantemente sanzionato. La decisione della Procura di Udine, per quanto grottesca, non punta tanto a colpire il dissenso politico in tema di migrazione quanto a far passare l’idea che sia “sbagliato” aiutare i profughi ed a sdoganare l’indifferenza come un atteggiamento positivo e conforme alla legge.
Fare la cosa giusta è diventato sbagliato. Hanno cominciando trasformando in siti di interesse nazionale i cantieri della Tav, in modo da convertire qualsiasi protesta in un reato, e continuano colpendo chi non riesce a rimanere insensibile di fronte alla tragedia dei migranti.
L’accusa alla quale le due ragazze e il loro interprete dovranno rispondere, è di “favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a scopo di lucro”. Il “lucro”, spiega la Procura, starebbe nel 5 per mille che l’associazione intascherebbe, “ottenendo così un ingiusto profitto dalle condizioni di illegalità dei migranti extracomunitari”. Il particolare che Ospiti in Arrivo sia una associazione non iscritta nel registro delle associazioni beneficabili col 5 per mille, non gli è neppure passato per la testa!
Le giovani attiviste avrebbero “fornito il proprio numero di cellulare a svariati soggetti al fine di assicurarne la diffusione in capo ai clandestini che arrivavano a Udine o provincia, così venendo da loro contattato al fine di poterne poi organizzare il ricovero presso strutture o altro … Fornendo indicazioni precise su come muoversi in Italia, in particolare per quanto concerne la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico”. Non solo. Secondo la Procura, le due ragazze e il loro interprete avrebbero fatto anche di peggio: “accogliendo e accompagnando circa trenta clandestini afghani presso la Caritas di via Treppo il 29 dicembre”.
Tutto qua il reato da 4 anni di galera.
“In Friuli il filo spinato che divide l’Europa è già entrato nel codice penale” ha sintetizzato sull’Espresso il giornalista Fabrizio Gatti cui va il merito di aver sollevato il caso dinanzi all’opinione pubblica. E nel caso che il procedimento giudiziario procedesse, sottolinea Gatti, si “aprirebbe invece un nuovo, drammatico corso che metterebbe in discussione l'operato di migliaia di volontari, di associazioni laiche, parrocchie, l'Alto commissariato per i rifugiati, le stesse direttive attuali del ministero dell'Interno. Tanto da dover considerare perfino il messaggio del Papa, più volte ribadito, alla stregua di una pericolosa istigazione a delinquere”.
Cosa più unica che rara in un collega giornalista, Fabrizio Gatti, non si è limitato a diffondere la notizia ma si è fatto promotore di un appello a favore delle due attiviste e del loro interprete giungendo persino ad autodenunciarsi, dichiarandosi “mandante morale e complice in concorso dei reati contestati dalla Procura… per aver più volte segnalato a cittadini stranieri, sprovvisti di documenti, strutture di assistenza sanitaria e legale”.
Ma quanti di noi non hanno mai fatto queste cose? Arrestateci tutti, allora!
Non per caso, l’appello in questione, che può essere letto integralmente e sottoscritto a questo link si chiama proprio “Arrestateci tutti!” Primo firmatario Loris De Filippi, presidente di Medici senza Frontiere.
Non per caso, l’appello si richiama esplicitamente al rispetto di quell’articolo 2 della Costituzione su ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Doveri che, letti oggi, sembrano davvero rivoluzionari e pericolosi, visti sotto la lente del neoliberalismo.
Non per caso, l’appello conclude così: “Se donare soccorso, vestiti, scarpe, coperte e cibo a persone abbandonate per strada dalle istituzioni - che sembrano ricordarsi di loro solo quando viene il momento di sgomberarle dai luoghi in cui hanno trovato rifugio - è un reato, allora noi tutti ci dichiariamo pubblicamente colpevoli”.
Arrestateci tutti, allora!
E’ accaduto a Udine dove sette volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo che stavano distribuendo coperte e generi di prima necessità a dei richiedenti asilo sono stati identificati e poi denunciati per "invasione di terreni o edifici". Tre di loro - la presidente e la vice presidente dell’associazione e un giovane che faceva da interprete - sono stati iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Reato per il quale rischiano 4 anni di carcere.
Gli attivisti, per prestare assistenza, erano entrati in ex caserme e aree abbandonate di proprietà privata. Che sono poi le zone dove si rifugiano i senza tetto di Udine.
E qui vale la pena di ricordare che, pur se il Friuli Venezia Giulia è una terra di passaggio della cosiddetta “rotta balcanica”, la Questura di Udine è tra le più lente in tutta Italia a consegnare la ricevuta della domanda di protezione umanitaria. L’iter burocratico, che altre Questure sbrigano in una mezz’ora, in Friuli dura anche tre settimane e oltre. Senza questo documento, il profugo non può accedere a nessun servizio di assistenza. Neppure potrebbe trovare un letto in un albergo, anche ammesso che gli sia rimasto in tasca il denaro sufficiente, perché sprovvisto di documenti in regola. Cercare riparo in un luogo abbandonato diventa quindi una naturale conseguenza di un sistema che non offre alternative. Gli attivisti di Ospiti in Arrivo si occupano di fornire un po’ di assistenza a questi migranti, incontrandoli nei luoghi in cui sono costretti a vivere per portargli una coperta, fornendo loro le indicazioni burocratiche per la domanda di asilo ed indicandogli le strutture di assistenza.
Comportamento che, solo alcuni anni fa, sarebbe stato considerato encomiabile e meritevole di un qualche Premio Bontà ma che oggi viene interpretato come un pericoloso atto di ribellione.
In Italia, così come in Europa, sta passando la visione neoliberista per la quale “fare politica” - inteso nella sua accezione più nobile, cioè lottare per a tutela dei beni comuni e dei diritti - sia ideologicamente sbagliato e vada pesantemente sanzionato. La decisione della Procura di Udine, per quanto grottesca, non punta tanto a colpire il dissenso politico in tema di migrazione quanto a far passare l’idea che sia “sbagliato” aiutare i profughi ed a sdoganare l’indifferenza come un atteggiamento positivo e conforme alla legge.
Fare la cosa giusta è diventato sbagliato. Hanno cominciando trasformando in siti di interesse nazionale i cantieri della Tav, in modo da convertire qualsiasi protesta in un reato, e continuano colpendo chi non riesce a rimanere insensibile di fronte alla tragedia dei migranti.
L’accusa alla quale le due ragazze e il loro interprete dovranno rispondere, è di “favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a scopo di lucro”. Il “lucro”, spiega la Procura, starebbe nel 5 per mille che l’associazione intascherebbe, “ottenendo così un ingiusto profitto dalle condizioni di illegalità dei migranti extracomunitari”. Il particolare che Ospiti in Arrivo sia una associazione non iscritta nel registro delle associazioni beneficabili col 5 per mille, non gli è neppure passato per la testa!
Le giovani attiviste avrebbero “fornito il proprio numero di cellulare a svariati soggetti al fine di assicurarne la diffusione in capo ai clandestini che arrivavano a Udine o provincia, così venendo da loro contattato al fine di poterne poi organizzare il ricovero presso strutture o altro … Fornendo indicazioni precise su come muoversi in Italia, in particolare per quanto concerne la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico”. Non solo. Secondo la Procura, le due ragazze e il loro interprete avrebbero fatto anche di peggio: “accogliendo e accompagnando circa trenta clandestini afghani presso la Caritas di via Treppo il 29 dicembre”.
Tutto qua il reato da 4 anni di galera.
“In Friuli il filo spinato che divide l’Europa è già entrato nel codice penale” ha sintetizzato sull’Espresso il giornalista Fabrizio Gatti cui va il merito di aver sollevato il caso dinanzi all’opinione pubblica. E nel caso che il procedimento giudiziario procedesse, sottolinea Gatti, si “aprirebbe invece un nuovo, drammatico corso che metterebbe in discussione l'operato di migliaia di volontari, di associazioni laiche, parrocchie, l'Alto commissariato per i rifugiati, le stesse direttive attuali del ministero dell'Interno. Tanto da dover considerare perfino il messaggio del Papa, più volte ribadito, alla stregua di una pericolosa istigazione a delinquere”.
Cosa più unica che rara in un collega giornalista, Fabrizio Gatti, non si è limitato a diffondere la notizia ma si è fatto promotore di un appello a favore delle due attiviste e del loro interprete giungendo persino ad autodenunciarsi, dichiarandosi “mandante morale e complice in concorso dei reati contestati dalla Procura… per aver più volte segnalato a cittadini stranieri, sprovvisti di documenti, strutture di assistenza sanitaria e legale”.
Ma quanti di noi non hanno mai fatto queste cose? Arrestateci tutti, allora!
Non per caso, l’appello in questione, che può essere letto integralmente e sottoscritto a questo link si chiama proprio “Arrestateci tutti!” Primo firmatario Loris De Filippi, presidente di Medici senza Frontiere.
Non per caso, l’appello si richiama esplicitamente al rispetto di quell’articolo 2 della Costituzione su ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Doveri che, letti oggi, sembrano davvero rivoluzionari e pericolosi, visti sotto la lente del neoliberalismo.
Non per caso, l’appello conclude così: “Se donare soccorso, vestiti, scarpe, coperte e cibo a persone abbandonate per strada dalle istituzioni - che sembrano ricordarsi di loro solo quando viene il momento di sgomberarle dai luoghi in cui hanno trovato rifugio - è un reato, allora noi tutti ci dichiariamo pubblicamente colpevoli”.
Arrestateci tutti, allora!
La vera emergenza non sono i profughi ma i diritti. Il rapporto di LasciateCIEntrare racconta la “malaccoglienza”
16/03/2016“Ci sentiamo come se fossimo spazzatura scaricata su una strada”. “Ci trattano peggio degli animali. Non ci danno i saponi e poi dicono che siamo sporchi!” “Qui non ci lasciano fare niente! Ci sentiamo perseguitati e a casa nostra non possiamo tornare, è tutto distrutto!” “Nessuno ci dice niente. Neppure quando abbiamo la commissione” “Se abbiamo dei problemi fanno finta di niente e ci dicono domani, domani… e se ti ammali nessuno si occupa di te. C’è un ragazzo che ha sempre la febbre. Ma credete che qualcuno lo veda?” “Siamo stanchi di essere trattati come bestie, qui dentro ci viene negato qualsiasi diritto”.
Sono solo alcune delle voci raccolte dagli attivisti della campagna LasciateCIEntrare e pubblicate nel loro ultimo rapporto 2015. Ricordiamo che LasciateCIEntrare, come si evince dal nome stesso, è una campagna nata nel 2011 quando l’allora ministro
Roberto Maroni chiuse militarmente i Cie impedendo non solo agli operatori sociali ma anche a giornalisti e deputati di entrare nelle strutture. Il divieto fu successivamente ritirato anche grazie all’opera di sensibilizzazione portato avanti dagli attivisti della campagna. Da allora, LasciteCIEntrare monitora l’attività di questi centri e redigendo ogni anno un puntuale rapporto.
Nel 2015, gli attivisti sono riusciti ad entrare in una ottantina di questi cosiddetti centri di “accoglienza”: dai Cie ai Cas sino ai centri del sistema Protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), i centri per minori stranieri non accompagnati (Msna), i centri di Primo soccorso e accoglienza (Cpsa) e i cosiddetti centri “informali”.
Tante sigle per un solo risultato: quando un rifugiato varca le mura di uno di questi, chiamiamoli col loro nome, carceri, i suoi diritti restano fuori. Ma considerato che anche i carcerati hanno più diritti riconosciuti dei richiedenti asilo, dovremo scrivere forse “lager” al posto di carcere. Qui il migrante viene trattato come un soggetto totalmente passivo, con il quale l’operatore evita di interloquire e di rapportarsi. Un “sacco di rifiuti” - come hanno detto gli stessi migranti - che non ha neppure il diritto di sapere in quale discarica sarà gettato.
L’incertezza del proprio futuro e la mancanza di trasparenze nelle trafile burocratiche, caratteristiche di un ambiente nel quale i diritti sono merce sconosciuta, è la principale fonte di malessere degli “ospiti”, così infatti vengono ipocritamente chiamati i migranti, di questi centri.
Nei Cie, in particolare, gli attivisti della campagna si sono imbattuti nelle situazioni più drammatiche. Ricordiamo solo le continue vessazioni che periodicamente tengono banco in cronaca, cui sono sottoposti i migranti della struttura di Ponte Galeria a Roma, dove la scorsa estate è esploso il caso delle ragazze nigeriane, alcune delle quali minorenni, vittime della tratta che sono state detenute senza alcun tipo di sostegno e, in alcuni casi, anche rimpatriate.
“I Cie si sono confermati inutili, lesivi di ogni livello della dignità umana, luoghi di deprivazione e di lesione sistematica dei diritti dei trattenuti - si legge nel documento diffuso da LasciateCIEntrare-. In quanto tali confermiamo la convinzione che debbano essere il più rapidamente possibile chiusi e che con essi debba sparire ogni forma di detenzione amministrativa”.
Ma anche se non sono Cie, tutti i centri di “malaccoglienza” testimoniano una totale mancanza di progettazione del problema dei rifugiati e, in generale, delle migrazioni, che continua ad essere gestito sotto la logica militare dell’emergenza e della percezione della cosiddetta “sicurezza”. Ghettizzazione e sovraffollamento sono solo conseguenze dell’affidamento di quello che è un problema sociale alle prefetture che operano senza nessun vincolo di consultazione e, non di rado, in totale disaccordo con le politiche degli enti locali.
Proprio nei Cas, strutture direttamente prefettizie dove si trova il 72 per cento dei richiedenti in attesa di una risposta di asilo, il rapporto di LasciteCIEntrare ha rilevato le criticità più pesanti “ascoltando le storie e la rabbia di chi da mesi vive in condizioni pessime, all’interno di centri che - come sottolinea l’associazione Cronache di Ordinario Razzismo che ha diffuso il documento - non solo sono fonte di business incontrollabili, ma che si rivelano anche socialmente disastrosi, producendo marginalizzazione e abbrutimento”.
E proprio per fare chiarezza su questi “business incontrollabili” che LaciateCIEntrare, CittadinanzAttiva e Libera hanno promosso la campagna InCAStrati per chiedere al Ministero dell’Interno di rendere pubblici e trasparenti i bilanci dei Cas, fornendo inoltre tutte le informazioni sulle gare di appalto e le convenzioni.
Le richieste sono state inviate nel giugno del 2015. Tutt’oggi, le risposte da parte del ministero sono state, secondo il rapporto, scarse, vaghe ed incomplete.
“Segno che il monitoraggio della situazione non viene sempre assicurato, forse proprio a causa delle indegne condizioni spesso rilevate - spiegano -. Le tante disfunzioni sono state segnalate anche alle Prefetture, con lettere che è possibile leggere all’interno del rapporto. Ancora assenti le risposte. Questo silenzio, così come i dinieghi ricevuti alle richieste di accesso, dimostrano come la trasparenza rispetto alle proprie azioni sia un concetto che ancora raramente si affaccia nei nostri Palazzi”.
Tutto questo mentre si allargano le indagini e gli scandali sulle allegre gestioni di tanti, troppi enti gestori di questi centri di “malaccoglienza”: da Roma a Mineo, da Avellino sino a Gradisca di Isonzo.
Sono solo alcune delle voci raccolte dagli attivisti della campagna LasciateCIEntrare e pubblicate nel loro ultimo rapporto 2015. Ricordiamo che LasciateCIEntrare, come si evince dal nome stesso, è una campagna nata nel 2011 quando l’allora ministro
Roberto Maroni chiuse militarmente i Cie impedendo non solo agli operatori sociali ma anche a giornalisti e deputati di entrare nelle strutture. Il divieto fu successivamente ritirato anche grazie all’opera di sensibilizzazione portato avanti dagli attivisti della campagna. Da allora, LasciteCIEntrare monitora l’attività di questi centri e redigendo ogni anno un puntuale rapporto.
Nel 2015, gli attivisti sono riusciti ad entrare in una ottantina di questi cosiddetti centri di “accoglienza”: dai Cie ai Cas sino ai centri del sistema Protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), i centri per minori stranieri non accompagnati (Msna), i centri di Primo soccorso e accoglienza (Cpsa) e i cosiddetti centri “informali”.
Tante sigle per un solo risultato: quando un rifugiato varca le mura di uno di questi, chiamiamoli col loro nome, carceri, i suoi diritti restano fuori. Ma considerato che anche i carcerati hanno più diritti riconosciuti dei richiedenti asilo, dovremo scrivere forse “lager” al posto di carcere. Qui il migrante viene trattato come un soggetto totalmente passivo, con il quale l’operatore evita di interloquire e di rapportarsi. Un “sacco di rifiuti” - come hanno detto gli stessi migranti - che non ha neppure il diritto di sapere in quale discarica sarà gettato.
L’incertezza del proprio futuro e la mancanza di trasparenze nelle trafile burocratiche, caratteristiche di un ambiente nel quale i diritti sono merce sconosciuta, è la principale fonte di malessere degli “ospiti”, così infatti vengono ipocritamente chiamati i migranti, di questi centri.
Nei Cie, in particolare, gli attivisti della campagna si sono imbattuti nelle situazioni più drammatiche. Ricordiamo solo le continue vessazioni che periodicamente tengono banco in cronaca, cui sono sottoposti i migranti della struttura di Ponte Galeria a Roma, dove la scorsa estate è esploso il caso delle ragazze nigeriane, alcune delle quali minorenni, vittime della tratta che sono state detenute senza alcun tipo di sostegno e, in alcuni casi, anche rimpatriate.
“I Cie si sono confermati inutili, lesivi di ogni livello della dignità umana, luoghi di deprivazione e di lesione sistematica dei diritti dei trattenuti - si legge nel documento diffuso da LasciateCIEntrare-. In quanto tali confermiamo la convinzione che debbano essere il più rapidamente possibile chiusi e che con essi debba sparire ogni forma di detenzione amministrativa”.
Ma anche se non sono Cie, tutti i centri di “malaccoglienza” testimoniano una totale mancanza di progettazione del problema dei rifugiati e, in generale, delle migrazioni, che continua ad essere gestito sotto la logica militare dell’emergenza e della percezione della cosiddetta “sicurezza”. Ghettizzazione e sovraffollamento sono solo conseguenze dell’affidamento di quello che è un problema sociale alle prefetture che operano senza nessun vincolo di consultazione e, non di rado, in totale disaccordo con le politiche degli enti locali.
Proprio nei Cas, strutture direttamente prefettizie dove si trova il 72 per cento dei richiedenti in attesa di una risposta di asilo, il rapporto di LasciteCIEntrare ha rilevato le criticità più pesanti “ascoltando le storie e la rabbia di chi da mesi vive in condizioni pessime, all’interno di centri che - come sottolinea l’associazione Cronache di Ordinario Razzismo che ha diffuso il documento - non solo sono fonte di business incontrollabili, ma che si rivelano anche socialmente disastrosi, producendo marginalizzazione e abbrutimento”.
E proprio per fare chiarezza su questi “business incontrollabili” che LaciateCIEntrare, CittadinanzAttiva e Libera hanno promosso la campagna InCAStrati per chiedere al Ministero dell’Interno di rendere pubblici e trasparenti i bilanci dei Cas, fornendo inoltre tutte le informazioni sulle gare di appalto e le convenzioni.
Le richieste sono state inviate nel giugno del 2015. Tutt’oggi, le risposte da parte del ministero sono state, secondo il rapporto, scarse, vaghe ed incomplete.
“Segno che il monitoraggio della situazione non viene sempre assicurato, forse proprio a causa delle indegne condizioni spesso rilevate - spiegano -. Le tante disfunzioni sono state segnalate anche alle Prefetture, con lettere che è possibile leggere all’interno del rapporto. Ancora assenti le risposte. Questo silenzio, così come i dinieghi ricevuti alle richieste di accesso, dimostrano come la trasparenza rispetto alle proprie azioni sia un concetto che ancora raramente si affaccia nei nostri Palazzi”.
Tutto questo mentre si allargano le indagini e gli scandali sulle allegre gestioni di tanti, troppi enti gestori di questi centri di “malaccoglienza”: da Roma a Mineo, da Avellino sino a Gradisca di Isonzo.
La confisca dei beni dei migranti è legge in Danimarca
30/01/2016Nient’altro che una infamata. Un infamata che, per come stanno andando le cose in una Europa che ha tradito Schengen, rischia di venir fotocopiata da tutti gli altri Paesi della Comunità. Ci riferiamo alla legge approvata martedì 26 gennaio dal parlamento danese e che riforma la normativa sulla protezione internazionale, introducendo la possibilità di confiscare i beni dei richiedenti asilo. Non solo. La riforma altro non à che un giro di vite per tutti gli aspetti dell’accoglienza: allunga da uno a tre anni il tempo di permanenza nel Paese prima di poter avviare le pratiche per il ricongiungimento familiare, riduce i sussidi ai migranti del 10 per cento e accorcia il permesso di soggiorno da cinque a due anni.
Ma l’aspetto più pesante, immediatamente rimbalzato tra gli ambienti politici nostrani più xenofobi che hanno subito proposto di replicarlo anche in Italia, è la confisca dei beni dei migranti che bussano alla frontiera.
La nuova legge autorizza la polizia a perquisire i profughi ed a confiscare loro ogni bene o somma di denaro superiore alle 10 mila corone (al cambio attuale 1340 euro e 2 centesimi). Sono esentati oggetti considerati “affettivi” come, ad esempio, le fedi nuziali, ma a dettar legge rimane l’insindacabile giudizio del poliziotto. Cosa che non è precisamente una garanzia di giustizia ed imparzialità.
Va sottolineato che l’approvazione di questa legge ha colto di sorpresa tanto i giornali danesi più critici quanto le associazioni per i diritti dei migranti che la consideravano alla stregua dell’ennesima provocazione da parte della destra al governo del Paese e del premier Lars Lokke Rasmussen. Salvo poi ritrovarsi con l’atto legislativo approvato da una larghissima maggioranza del parlamento: 81 favorevoli su 109 votanti. Il che significa che anche l’opposizione socialdemocratica ha votato il provvedimento, vantandosi, per di più, di essere riuscita a far innalzare il tetto delle corone confiscabili dalle 3 mila cui faceva riferimento la proposta iniziale, alle attuali 10 mila. Non c’è che dire. Una bella vittoria politica per un centrosinistra danese che somiglia fin troppo a quello italiano!
D’ora in poi, una famiglia che entra in Danimarca per chiedere asilo, lo potrà fare solo in braghe di tela, abbandonando nella mani dei poliziotti tutto il denaro e i beni che erano riusciti a portar via. Ciò che non ha distrutto la guerra e che non ha rubato lo scafista, finirà nelle tasche del Governo Danese.
La motivazione avanzata da Rasmussen è naturalmente quella di “aiutare lo Stato a coprire le spese dell’accoglienza”. In realtà, lo scopo è soltanto quello di allontanare i migranti dalle loro frontiere. Una delle tante, ovvie conseguenze della totale assenza di una vera politica europea, comune ed autorevole, fondata sulla solidarietà e sui diritti riguardo le migrazioni ed i richiedenti asilo.
Come era lecito aspettarsi, il provvedimento danese ha subito fatto scuola e già il ministro degli Interni di Baviera, Joachim Herrmann, ha dato mandato alla polizia tedesca di confiscare ai rifugiati ogni bene superiore ai 750 euro.
A questo punto, pare quasi banale affermare che il progetto di una Europa dei popoli, se mai era stato concepito, è abortito tra fili spinati, muri, frontiere armate e centri di detenzioni che altro non sono veri che propri lager.
Il marcio non è solo in Danimarca.
Ma l’aspetto più pesante, immediatamente rimbalzato tra gli ambienti politici nostrani più xenofobi che hanno subito proposto di replicarlo anche in Italia, è la confisca dei beni dei migranti che bussano alla frontiera.
La nuova legge autorizza la polizia a perquisire i profughi ed a confiscare loro ogni bene o somma di denaro superiore alle 10 mila corone (al cambio attuale 1340 euro e 2 centesimi). Sono esentati oggetti considerati “affettivi” come, ad esempio, le fedi nuziali, ma a dettar legge rimane l’insindacabile giudizio del poliziotto. Cosa che non è precisamente una garanzia di giustizia ed imparzialità.
Va sottolineato che l’approvazione di questa legge ha colto di sorpresa tanto i giornali danesi più critici quanto le associazioni per i diritti dei migranti che la consideravano alla stregua dell’ennesima provocazione da parte della destra al governo del Paese e del premier Lars Lokke Rasmussen. Salvo poi ritrovarsi con l’atto legislativo approvato da una larghissima maggioranza del parlamento: 81 favorevoli su 109 votanti. Il che significa che anche l’opposizione socialdemocratica ha votato il provvedimento, vantandosi, per di più, di essere riuscita a far innalzare il tetto delle corone confiscabili dalle 3 mila cui faceva riferimento la proposta iniziale, alle attuali 10 mila. Non c’è che dire. Una bella vittoria politica per un centrosinistra danese che somiglia fin troppo a quello italiano!
D’ora in poi, una famiglia che entra in Danimarca per chiedere asilo, lo potrà fare solo in braghe di tela, abbandonando nella mani dei poliziotti tutto il denaro e i beni che erano riusciti a portar via. Ciò che non ha distrutto la guerra e che non ha rubato lo scafista, finirà nelle tasche del Governo Danese.
La motivazione avanzata da Rasmussen è naturalmente quella di “aiutare lo Stato a coprire le spese dell’accoglienza”. In realtà, lo scopo è soltanto quello di allontanare i migranti dalle loro frontiere. Una delle tante, ovvie conseguenze della totale assenza di una vera politica europea, comune ed autorevole, fondata sulla solidarietà e sui diritti riguardo le migrazioni ed i richiedenti asilo.
Come era lecito aspettarsi, il provvedimento danese ha subito fatto scuola e già il ministro degli Interni di Baviera, Joachim Herrmann, ha dato mandato alla polizia tedesca di confiscare ai rifugiati ogni bene superiore ai 750 euro.
A questo punto, pare quasi banale affermare che il progetto di una Europa dei popoli, se mai era stato concepito, è abortito tra fili spinati, muri, frontiere armate e centri di detenzioni che altro non sono veri che propri lager.
Il marcio non è solo in Danimarca.
Incitano alla violenza. Un avvocato tedesco denuncia tre top manager di Facebook
21/10/2015La notizia viene dalla Germania. Un avvocato tedesco, nonché attivista sul tema dei diritti umani di chiara origine coreana, Chan-jo Jun, ha denunciato tre manager di Facebook per i reati di incitamento alla violenza e diffusione di odio razziale. I tre denunciati sono Shane Crehan, Jaspal Singh Athwal e David William Kling; tutti top manager di Facebook Germany GmbH che gestisce il noto social network in terra tedesca per conto dell’azienda statunitense fondata da Mark Elliot Zuckerberg. La notizia viene dalla pagina on line della rivista Spiegel ed è stata riportata in Italia, sino ad ora ed a quanto ci risulta, solo dal sito www.stranieriinitalia.it.
L’accusa mossa dell’avvocato riguarda una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza che non sono stati bannati nonostante le segnalazioni. Il procedimento è stato preso in carico dalla procura di Amburgo, dove ha sede la Facebook Germany GmbH, e apre finalmente la strada dell’azione legale contro i seminatori di odio e di bugie in rete in quell’oceano senza etica che è Facebook, dove ti obbligano a cambiare nome se usi quel soprannome con il quale tutti ti conoscono, ma puoi scrivere impunemente che bisognerebbe “sparare ai clandestini”. Petizioni e richieste anche formali di dotarsi di un regolamento etico, non sono sortite a nulla perché - e questo Zuckerberg lo sa bene - il successo di Facebook si nutre di impunità. Qualsiasi cretino può aprire la sua pagina come se aprisse un giornale tutto suo e vomitarci su tutti i parti del suo cervello malato. Fascisti, leghisti, complottisti e xenofobi con le loro “notizie” tendenziose quando non espressamente inventate di buzzo buono, sono la clientela privilegiata di Facebook. La benzina da bruciare in rete, al pari degli ultimi gossip dei personaggi televisivi.
Zuckerberg lo sa bene, abbiamo scritto, ma non lo confesserebbe neppure a sua madre ed a domande specifiche risponde candidamente: “Non possiamo bloccare contenuti per il semplice fatto che sono falsi: questo violerebbe quella stessa libertà d’espressione che promuoviamo”. Vale appena la pena di ribattere che una cosa sono le opinioni che tutti noi possiamo avere su una determinata questione, un’altra è raccontare la fiaba che “ai clandestini regalano 38 euro al giorno sottratti agli italiani poveri, e li fanno vivere negli hotel a cinque stelle”. Stesso discorso per gli incitamenti alla violenza. Gli sfoghi dei frustrati che invitano a prendere a cannonate le barche dei profughi non possono avere cittadinanza né su Facebook né sugli altri social. E neppure nel mondo dove voglio vivere io, se vogliamo dirla tutta!
Un appello in tale senso viene da una frequentata community di giornalisti italiani, che dal suo sito www.giornalistisocial.it ha lanciato un appello all'Ordine, al Parlamento ed a Facebook “perché si attivino il prima possibile, ciascuno per quanto di sua competenza, per fermare questo fenomeno”.
“Da tempo - scrivono - i social media sono invasi da notizie false pubblicate da siti di dubbia natura, il cui unico scopo appare quello di inventare titoli più eclatanti possibile (spesso addirittura inventando gravi fatti di cronaca legati a immigrati, sesso, droga o personaggi pubblici) per acquisire clic sfruttando la credulità popolare. Queste ‘notizie’, in pochi minuti, fanno il giro d'Italia e della rete, saltellando da una bacheca all'altra di Facebook. E mettono in serio pericolo la verità dei fatti e la credibilità dei media”.
Il problema vero, tanto in questo appello come nella denuncia pendente ad Amburgo, sta nell’individuare le responsabilità (Zuckerberg… vai a pigliarlo!) La genialità dell’avvocato Chan-jo Jun sta nell’aver individuato non tanto tre tecnici informatici, pure di alto livello, ma i tre maggiori responsabili nel campo della raccolta pubblicitaria di Facebook in Germania! La legislazione tedesca infatti prevede serie aggravanti per chi dall’incitamento all’odio, ricava un interesse economico.
Se questa strada porterà a qualche risultato lo vedremo nei prossimi giorni.
Intanto ecco tre proposte concrete segnalate su GiornalistiSocial sulle quali possiamo impegnarci sin da adesso: 1) Chiedere all’Ordine dei Giornalisti di pubblicare sulle sue pagine ufficiali l’elenco dei siti internet che pubblicano sistematicamente "notizie" tendenziose e false; 2) fare pressione sui nostri parlamentari perché si attivino per arrivare alla stesura di un regolamento etico per Facebook e gli altri social (a questo punto, personalmente, ci credo poco considerando che sono proprio tanti nostri parlamentari a diffondere balle e xenofobia sui social…); 3) segnalare sempre le bufale xenofobe e presentare esposti alla magistratura contro le testate che diffondono regolarmente false notizie per esercizio abusivo della professione giornalistica.
Magari, già che ci siamo, ricordiamoci che in Italia esiste ancora di incitamento all’odio razziale e che anche quello di apologia di fascismo, a quanto mi risulta, non è ancora stato depennato!
L’accusa mossa dell’avvocato riguarda una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza che non sono stati bannati nonostante le segnalazioni. Il procedimento è stato preso in carico dalla procura di Amburgo, dove ha sede la Facebook Germany GmbH, e apre finalmente la strada dell’azione legale contro i seminatori di odio e di bugie in rete in quell’oceano senza etica che è Facebook, dove ti obbligano a cambiare nome se usi quel soprannome con il quale tutti ti conoscono, ma puoi scrivere impunemente che bisognerebbe “sparare ai clandestini”. Petizioni e richieste anche formali di dotarsi di un regolamento etico, non sono sortite a nulla perché - e questo Zuckerberg lo sa bene - il successo di Facebook si nutre di impunità. Qualsiasi cretino può aprire la sua pagina come se aprisse un giornale tutto suo e vomitarci su tutti i parti del suo cervello malato. Fascisti, leghisti, complottisti e xenofobi con le loro “notizie” tendenziose quando non espressamente inventate di buzzo buono, sono la clientela privilegiata di Facebook. La benzina da bruciare in rete, al pari degli ultimi gossip dei personaggi televisivi.
Zuckerberg lo sa bene, abbiamo scritto, ma non lo confesserebbe neppure a sua madre ed a domande specifiche risponde candidamente: “Non possiamo bloccare contenuti per il semplice fatto che sono falsi: questo violerebbe quella stessa libertà d’espressione che promuoviamo”. Vale appena la pena di ribattere che una cosa sono le opinioni che tutti noi possiamo avere su una determinata questione, un’altra è raccontare la fiaba che “ai clandestini regalano 38 euro al giorno sottratti agli italiani poveri, e li fanno vivere negli hotel a cinque stelle”. Stesso discorso per gli incitamenti alla violenza. Gli sfoghi dei frustrati che invitano a prendere a cannonate le barche dei profughi non possono avere cittadinanza né su Facebook né sugli altri social. E neppure nel mondo dove voglio vivere io, se vogliamo dirla tutta!
Un appello in tale senso viene da una frequentata community di giornalisti italiani, che dal suo sito www.giornalistisocial.it ha lanciato un appello all'Ordine, al Parlamento ed a Facebook “perché si attivino il prima possibile, ciascuno per quanto di sua competenza, per fermare questo fenomeno”.
“Da tempo - scrivono - i social media sono invasi da notizie false pubblicate da siti di dubbia natura, il cui unico scopo appare quello di inventare titoli più eclatanti possibile (spesso addirittura inventando gravi fatti di cronaca legati a immigrati, sesso, droga o personaggi pubblici) per acquisire clic sfruttando la credulità popolare. Queste ‘notizie’, in pochi minuti, fanno il giro d'Italia e della rete, saltellando da una bacheca all'altra di Facebook. E mettono in serio pericolo la verità dei fatti e la credibilità dei media”.
Il problema vero, tanto in questo appello come nella denuncia pendente ad Amburgo, sta nell’individuare le responsabilità (Zuckerberg… vai a pigliarlo!) La genialità dell’avvocato Chan-jo Jun sta nell’aver individuato non tanto tre tecnici informatici, pure di alto livello, ma i tre maggiori responsabili nel campo della raccolta pubblicitaria di Facebook in Germania! La legislazione tedesca infatti prevede serie aggravanti per chi dall’incitamento all’odio, ricava un interesse economico.
Se questa strada porterà a qualche risultato lo vedremo nei prossimi giorni.
Intanto ecco tre proposte concrete segnalate su GiornalistiSocial sulle quali possiamo impegnarci sin da adesso: 1) Chiedere all’Ordine dei Giornalisti di pubblicare sulle sue pagine ufficiali l’elenco dei siti internet che pubblicano sistematicamente "notizie" tendenziose e false; 2) fare pressione sui nostri parlamentari perché si attivino per arrivare alla stesura di un regolamento etico per Facebook e gli altri social (a questo punto, personalmente, ci credo poco considerando che sono proprio tanti nostri parlamentari a diffondere balle e xenofobia sui social…); 3) segnalare sempre le bufale xenofobe e presentare esposti alla magistratura contro le testate che diffondono regolarmente false notizie per esercizio abusivo della professione giornalistica.
Magari, già che ci siamo, ricordiamoci che in Italia esiste ancora di incitamento all’odio razziale e che anche quello di apologia di fascismo, a quanto mi risulta, non è ancora stato depennato!
#nohatespeech: giornalisti e lettori contro la diffusione del razzismo nel media
21/09/2015Il razzismo non è una opinione come tutte le altre e la xenofobia non è una “notizia giornalistica”. Chi lavora nella comunicazione ha il dovere di non fare da amplificatore a discorsi che fomentano l’odio e, già che ci siamo, dovrebbe anche smetterla di far girare notizie false al solo scopo di aumentare la tiratura del proprio giornale, l’audience della propria trasmissione tv e i “click” del proprio sito web. Scopo che, tra l’altro, non si raggiunge con questi sistemi tra il furbetto ed il vigliacco. Perché se si manda a puttane la deontologia va a puttane la stessa credibilità dei giornalisti e il motivo per cui i lettori ci leggono.
Questo è il motivo per il quale l’associazione Carta di Roma e la Federazione Europea dei Giornalisti ha lanciato l'appello #nohatespeech (non incitiamo l’odio) volto a contrastare il proliferare di notizie false e xenofobe, con contorno di commenti o dichiarazioni palesemente razzisti e violenti, nei media tutti, dalla carta stampata alle televisioni, dai blog ai social media.
L’appello parte dai giornalisti ma si rivolge anche agli editori, agli amministratori dei social network ed ai lettori (finalmente visti non solo come fruitori del prodotto editoriale ma anche come parte integrante del sistema comunicativo).
Ai giornalisti #nohatespeech chiede di recuperare un ruolo di “filtro” delle notizie. Il che non vuol dire “censura”. Mi spiego con un esempio. Se il sindaco leghista di Bondeno, quattro case in croce in provincia della civilissima Ferrara, convoca una conferenza stampa in cui sostiene che aumenterà l’Imu a chi accoglie i profughi, l’operatore dell’informazione che gli sta davanti deve avere chiaro in testa che questa non è una notizia ma una cagata. E’ una cagata, non perché il sindaco di Bondeno sia un imbecille e la sua opinione non vada rispettata, ma perché, semplicemente, non rientra nei poteri di un primo cittadino aumentare l’Imu secondo criteri del cavolo, come le persone che io, libero cittadino, mi tiro in casa. La “verità putativa dei fatti”, come ti spiegano nei corsi, è che questo signore ci ha convocato soltanto per avere un suo spazio - e gratis - nei giornali in cui amplificare e far rimbalzare il suo poco riverito nome in quel fognaio di urla razziste che ammorbano l’informazione e le menti dei lettori più… deboli. Onde per cui, non c’è nessuna notizia da scrivere, se non che il sindaco di Bondeno è quel mentecatto che tutti conoscevamo. Il giornalista a questo punto, deve fare una sola cosa. Chiudere il taccuino, salutare il signor sindaco (ma questo è facoltativo) e andarsi a cercare qualcosa di più interessante da scrivere.
Adesso, sono il primo a riconoscere che non sempre è così facile. Come comportarsi quando è un eurodeputato a vomitare razzismo? Non sempre è possibile chiudergli il microfono in faccia. Interrogazioni, proposte di legge chiaramente xenofobe sono notizie che non si possono non dare. In questo caso, è importante non amplificarle (ce lo ha detto il dottore di invitare Salvini in ogni trasmissione?), ricollocarle nel giusto contesto, e segnalarle alla magistratura se violano leggi come l’istigazione all’odio razziale o l’apologia del fascismo.
Tutte cose queste, che non possono fare solo i giornalisti. Categoria sempre più ai margini del sistema comunicativo. #nohatespeech si rivolge anche ai lettori, perché segnalino alle redazioni articoli e commenti razzisti o fomentatori d’odio. L’appello chiede a tutti coloro che usufruiscono del mezzo comunicativo di “isolare chi esprime discorsi di odio, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto”.
E questo è un punto molto, molto importante. Se cade il muro che ci impedisce di legittimare il razzismo come una opinione tra le tante, cadono i presupposti della nostra democrazia. E stiamo bene attenti, perché questo muro può cadere anche nelle nostre stesse teste. Ricordiamoci sempre, quando ci viene la baldracca idea di provare a far ragionare un nazista, che il razzismo non è una opinione ma un reato. Come il diritto di stupro.
L’appello dell’associazione Carta di Roma si rivolge anche alle testate giornalistiche, chiedendo loro di bannare quei feroci commenti che si trovano sotto gli articoli di cronaca e scritti per di più da persone malate ma non per questo meno pericolose. Qualche giornale lo ha fatto. Un bel po’ di cortesi ma determinate segnalazioni alle testate on line che non lo hanno ancora fatto potrebbe risultare vincente.
Più difficile sarà convincere i proprietari o gli amministratori dei social network a fare altrettanto ed a bannare pagine razziste o fasciste. I vari signori Zuckerberg sembrano più interessati a contare soldi che ad intervenire con dei provvedimenti che, alla fin fine, gli fanno solo perdere clienti. Preferiscono trincerarsi dietro ad una ipocrita difesa di una democrazia e di una libertà di pensiero che è proprio lo scudo di chi sparge violenza per sopprimere democrazia e libertà di pensiero.
Qui potete leggere, a magari anche sottoscrivere, l’appello #nohatespeech. Se lo facciamo in tanti, forse riusciremo a convincere anche i vari signori Zuckerberg.
Questo è il motivo per il quale l’associazione Carta di Roma e la Federazione Europea dei Giornalisti ha lanciato l'appello #nohatespeech (non incitiamo l’odio) volto a contrastare il proliferare di notizie false e xenofobe, con contorno di commenti o dichiarazioni palesemente razzisti e violenti, nei media tutti, dalla carta stampata alle televisioni, dai blog ai social media.
L’appello parte dai giornalisti ma si rivolge anche agli editori, agli amministratori dei social network ed ai lettori (finalmente visti non solo come fruitori del prodotto editoriale ma anche come parte integrante del sistema comunicativo).
Ai giornalisti #nohatespeech chiede di recuperare un ruolo di “filtro” delle notizie. Il che non vuol dire “censura”. Mi spiego con un esempio. Se il sindaco leghista di Bondeno, quattro case in croce in provincia della civilissima Ferrara, convoca una conferenza stampa in cui sostiene che aumenterà l’Imu a chi accoglie i profughi, l’operatore dell’informazione che gli sta davanti deve avere chiaro in testa che questa non è una notizia ma una cagata. E’ una cagata, non perché il sindaco di Bondeno sia un imbecille e la sua opinione non vada rispettata, ma perché, semplicemente, non rientra nei poteri di un primo cittadino aumentare l’Imu secondo criteri del cavolo, come le persone che io, libero cittadino, mi tiro in casa. La “verità putativa dei fatti”, come ti spiegano nei corsi, è che questo signore ci ha convocato soltanto per avere un suo spazio - e gratis - nei giornali in cui amplificare e far rimbalzare il suo poco riverito nome in quel fognaio di urla razziste che ammorbano l’informazione e le menti dei lettori più… deboli. Onde per cui, non c’è nessuna notizia da scrivere, se non che il sindaco di Bondeno è quel mentecatto che tutti conoscevamo. Il giornalista a questo punto, deve fare una sola cosa. Chiudere il taccuino, salutare il signor sindaco (ma questo è facoltativo) e andarsi a cercare qualcosa di più interessante da scrivere.
Adesso, sono il primo a riconoscere che non sempre è così facile. Come comportarsi quando è un eurodeputato a vomitare razzismo? Non sempre è possibile chiudergli il microfono in faccia. Interrogazioni, proposte di legge chiaramente xenofobe sono notizie che non si possono non dare. In questo caso, è importante non amplificarle (ce lo ha detto il dottore di invitare Salvini in ogni trasmissione?), ricollocarle nel giusto contesto, e segnalarle alla magistratura se violano leggi come l’istigazione all’odio razziale o l’apologia del fascismo.
Tutte cose queste, che non possono fare solo i giornalisti. Categoria sempre più ai margini del sistema comunicativo. #nohatespeech si rivolge anche ai lettori, perché segnalino alle redazioni articoli e commenti razzisti o fomentatori d’odio. L’appello chiede a tutti coloro che usufruiscono del mezzo comunicativo di “isolare chi esprime discorsi di odio, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto”.
E questo è un punto molto, molto importante. Se cade il muro che ci impedisce di legittimare il razzismo come una opinione tra le tante, cadono i presupposti della nostra democrazia. E stiamo bene attenti, perché questo muro può cadere anche nelle nostre stesse teste. Ricordiamoci sempre, quando ci viene la baldracca idea di provare a far ragionare un nazista, che il razzismo non è una opinione ma un reato. Come il diritto di stupro.
L’appello dell’associazione Carta di Roma si rivolge anche alle testate giornalistiche, chiedendo loro di bannare quei feroci commenti che si trovano sotto gli articoli di cronaca e scritti per di più da persone malate ma non per questo meno pericolose. Qualche giornale lo ha fatto. Un bel po’ di cortesi ma determinate segnalazioni alle testate on line che non lo hanno ancora fatto potrebbe risultare vincente.
Più difficile sarà convincere i proprietari o gli amministratori dei social network a fare altrettanto ed a bannare pagine razziste o fasciste. I vari signori Zuckerberg sembrano più interessati a contare soldi che ad intervenire con dei provvedimenti che, alla fin fine, gli fanno solo perdere clienti. Preferiscono trincerarsi dietro ad una ipocrita difesa di una democrazia e di una libertà di pensiero che è proprio lo scudo di chi sparge violenza per sopprimere democrazia e libertà di pensiero.
Qui potete leggere, a magari anche sottoscrivere, l’appello #nohatespeech. Se lo facciamo in tanti, forse riusciremo a convincere anche i vari signori Zuckerberg.
Il razzismo e i suoi anticorpi. Al Lido nasce l’appello Lisa
24/02/2015Se la calunnia è un venticello, la disinformazione è un tornado. Tra quelle tre o quattro decine di persone che mercoledì scorso si sono mobilitate contro l'arrivo dei profughi al Lido non ne trovavi una che fosse informata su quanto stava realmente accadendo, su quali e quanti profughi sarebbero stati ospitati negli spazi della colonia Morosini, e per quanto tempo. "Diverse centinaia di persone" qualcuno diceva. "E altre ne arriveranno se non facciamo qualcosa" aggiungeva qualcun altro. "Tutti terroristi dell'Isis" paventavano altri. Tanto è vero che dal fondo del gruppo si levavano voci nascoste che urlavano "Assassini, assassini".
Adesso, confondere chi fugge dagli assassini con gli assassini stessi, può significare solo due cose: disinformazione, come abbiamo già detto, o malafede. Due ingredienti che entrano a badilate in questa brutta storia.
La disinformazione intanto. Colpa nostra, che non sempre ci diamo la briga di esaminare nella sua completezza e sotto tutti i punti di vista, salvo poi parlare come se fossimo professori. Colpa anche dei giornalisti che si lasciano andare a sensazionalismi e sempre meno spesso vanno alla fonte della notizia per verificarla (il terrorista "veneziano" anzi no, tunisino, ucciso dalla combattente curda, è solo un esempio). Ma colpa anche di un Governo che continua a gestire una questione, come quella degli arrivi che oramai è endemica, con la consueta ottica dell'emergenza, lasciando campo ad improvvisazioni, demandando la coordinazione a personale non competente, aprendo spazi gestionali a dei veri e propri delinquenti, pronti a trasformare l'accoglienza in un business alquanto redditizio.
Poi c'è la malafede. Come quella di qualcuno in testa al gruppo dei protestatari, incazzato solo perché nel business sopra citato, questa volta non ci è entrato. Oppure come quella di politici senza scrupoli che leggono in situazioni come queste uno strumento utile per incrementare il loro bacino di consensi. Qui, tra tanti, facciamo solo il nome del segretario della Lega, Matteo Salvini, che non ha perso l'occasione di twittare una infamata dopo l'altra sulla pelle di un pugno di disgraziati.
Eppure, proprio la manifestazione contro i 37 profughi e la marea nera di cazzate che hanno sollevato nei social ha avuto perlomeno due effetti positivi. Uno, poco noto perché queste cose non girano nei giornali, è la forte presa di posizione del presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Veneto, Gianluca Amadori, che ha scritto una lettera a tutti i colleghi invitandoli a seguire "un’informazione rigorosa e corretta". Partendo dalla considerazione che mai come in questi anni la credibilità dei massa media ha raggiunto livelli così infimi. Riferendosi anche alle troppe "bufale" pubblicate come notizie vere, il presidente ha invitato chi scrive ad "evitare sentimenti di ostilità generalizzata nei confronti di interi popoli o categorie o gruppi". Ed ha concluso: "Ciascuno di noi può fare molto, nello svolgimento del lavoro quotidiano, per fermare l'attuale deriva". Augurandoci che l'invito del presidente non rimanga inascoltato, ci permettiamo di ricordare che esiste anche un collegio di disciplina deontologica al quale chiunque può segnalare gli abusi compiuti dalla stampa.
Secondo e più importante effetto collaterale della manifestazione del Lido, è stata l'immediata e decisa presa di posizione contraria di tanti, tanti cittadini. Se il razzismo è una brutta malattia, come una brutta malattia produce anche i suoi anticorpi. L'anticorpo in questione è Lisa, acronimo per Lido Isola Solidale e Accogliente. Un appello lanciato dalle ragazze e dai ragazzi dei centri sociali di Venezia, dagli attivisti del nutrito arcipelago associazionista e ambientalista della Laguna, da tante cittadine e cittadini residenti al Lido. Persone che, come dicono in chiusura del loro comunicato, vogliono semplicemente "restare umani nel momento in cui qualcuno, giunto disperato da un'altra parte del mondo, ci chiede di fare spazio in quella che consideriamo casa nostra".
"Ai nostri concittadini - si legge nell'appello - chiediamo di non aver paura. Un tempo molti nostri nonni furono profughi, emigrati, esiliati. Un giorno potremmo esserlo noi, o i nostri figli. Invitiamo tutti a considerare cosa può significare un'accoglienza degna e dignitosa".
Degna e dignitosa, appunto. Due parole che non sono state inserite a casa. L'accoglienza va bene ma che sia una accoglienza degna di questo nome, capace di dare una risposta ai bisogni dei profughi e che rispetti i bisogni di chi al Lido ci abita da una vita.
Un'accoglienza, per dirla tutta, come l'Italia non è mai stata capace di offrire. In questo senso, l'arrivo dei 37 rifugiati è una opportunità per cambiare strada e dimostrare al mondo e soprattutto a noi stessi che non solo l'isola del Lido, ma tutta la nostra penisola è Solidale e Accogliente.
Adesso, confondere chi fugge dagli assassini con gli assassini stessi, può significare solo due cose: disinformazione, come abbiamo già detto, o malafede. Due ingredienti che entrano a badilate in questa brutta storia.
La disinformazione intanto. Colpa nostra, che non sempre ci diamo la briga di esaminare nella sua completezza e sotto tutti i punti di vista, salvo poi parlare come se fossimo professori. Colpa anche dei giornalisti che si lasciano andare a sensazionalismi e sempre meno spesso vanno alla fonte della notizia per verificarla (il terrorista "veneziano" anzi no, tunisino, ucciso dalla combattente curda, è solo un esempio). Ma colpa anche di un Governo che continua a gestire una questione, come quella degli arrivi che oramai è endemica, con la consueta ottica dell'emergenza, lasciando campo ad improvvisazioni, demandando la coordinazione a personale non competente, aprendo spazi gestionali a dei veri e propri delinquenti, pronti a trasformare l'accoglienza in un business alquanto redditizio.
Poi c'è la malafede. Come quella di qualcuno in testa al gruppo dei protestatari, incazzato solo perché nel business sopra citato, questa volta non ci è entrato. Oppure come quella di politici senza scrupoli che leggono in situazioni come queste uno strumento utile per incrementare il loro bacino di consensi. Qui, tra tanti, facciamo solo il nome del segretario della Lega, Matteo Salvini, che non ha perso l'occasione di twittare una infamata dopo l'altra sulla pelle di un pugno di disgraziati.
Eppure, proprio la manifestazione contro i 37 profughi e la marea nera di cazzate che hanno sollevato nei social ha avuto perlomeno due effetti positivi. Uno, poco noto perché queste cose non girano nei giornali, è la forte presa di posizione del presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Veneto, Gianluca Amadori, che ha scritto una lettera a tutti i colleghi invitandoli a seguire "un’informazione rigorosa e corretta". Partendo dalla considerazione che mai come in questi anni la credibilità dei massa media ha raggiunto livelli così infimi. Riferendosi anche alle troppe "bufale" pubblicate come notizie vere, il presidente ha invitato chi scrive ad "evitare sentimenti di ostilità generalizzata nei confronti di interi popoli o categorie o gruppi". Ed ha concluso: "Ciascuno di noi può fare molto, nello svolgimento del lavoro quotidiano, per fermare l'attuale deriva". Augurandoci che l'invito del presidente non rimanga inascoltato, ci permettiamo di ricordare che esiste anche un collegio di disciplina deontologica al quale chiunque può segnalare gli abusi compiuti dalla stampa.
Secondo e più importante effetto collaterale della manifestazione del Lido, è stata l'immediata e decisa presa di posizione contraria di tanti, tanti cittadini. Se il razzismo è una brutta malattia, come una brutta malattia produce anche i suoi anticorpi. L'anticorpo in questione è Lisa, acronimo per Lido Isola Solidale e Accogliente. Un appello lanciato dalle ragazze e dai ragazzi dei centri sociali di Venezia, dagli attivisti del nutrito arcipelago associazionista e ambientalista della Laguna, da tante cittadine e cittadini residenti al Lido. Persone che, come dicono in chiusura del loro comunicato, vogliono semplicemente "restare umani nel momento in cui qualcuno, giunto disperato da un'altra parte del mondo, ci chiede di fare spazio in quella che consideriamo casa nostra".
"Ai nostri concittadini - si legge nell'appello - chiediamo di non aver paura. Un tempo molti nostri nonni furono profughi, emigrati, esiliati. Un giorno potremmo esserlo noi, o i nostri figli. Invitiamo tutti a considerare cosa può significare un'accoglienza degna e dignitosa".
Degna e dignitosa, appunto. Due parole che non sono state inserite a casa. L'accoglienza va bene ma che sia una accoglienza degna di questo nome, capace di dare una risposta ai bisogni dei profughi e che rispetti i bisogni di chi al Lido ci abita da una vita.
Un'accoglienza, per dirla tutta, come l'Italia non è mai stata capace di offrire. In questo senso, l'arrivo dei 37 rifugiati è una opportunità per cambiare strada e dimostrare al mondo e soprattutto a noi stessi che non solo l'isola del Lido, ma tutta la nostra penisola è Solidale e Accogliente.
La polizia regala le auto ai nomadi. L'ultima bufala dei razzisti del web
19/02/2015Per la premiata serie "la fanno da padroni a casa nostra, sono sporchi, rubano e il Comune gli dà pure le case e lo stipendio invece di aiutare gli italiani": l'ultima novità è che agli "zingari" la polizia presta pure le auto di servizio perché se ne vadano in giro per il campo nomadi a far suonare la sirena. Tutto vero. E se non ci credete guardate su Fb, Twitter e compagnia bella dove gira come una trottola un video YouTube che lo dimostra.
Un video vero? Per essere vero, il video è vero. Solo che è stato girato durante la realizzazione di un film. Tutto falso, insomma. Pure la questura di Roma, chiamata direttamente in causa da queste accuse, ha diffuso un comunicato in cui spiega che la notizia è una balla bella e buona. "In merito al video, pubblicato sul social network Facebook, dove viene ripresa una macchina della Polizia di Stato, guidata da un cittadino con accento straniero che 'scorrazza' su un piazzale, si comunica che si tratta di macchine sceniche per riprese cinematografiche non in carico alla Polizia di Stato".
Un film! Solo un film! Eppure qualcuno, in perfetta malafede e per biechi fini lurido-politici, ha fatto, e continua a far girare le immagini come fossero vere. E non parliamo solo delle solite pagine merde-fascistoidi ma anche di un quotidiano "serio" come il romano Messaggero che ci è cascato dentro come un allocco. Ma la verifica delle fonti (tema su cui, giustamente, ci hanno fatto un culo così all'esame da professionisti) è diventata un optional come l'aria condizionata nelle macchine? Il Messaggero ha comunque avuto il buon gusto di levare subito il link dal suo sito dopo la segnalazione della polizia, e adesso fa finta che non sia successo niente. Gli è andata di lusso che non hanno fatto in tempo a stampare la "notizia" su carta, altrimenti non se la caverebbe così a buon mercato. Toccherebbe far la smentita, e sappiamo quanto scocci ai giornali scrivere "abbiamo sbagliato".
Certo che per credere che un poliziotto presti la sua "Pantera" ad un rom perché ci faccia un giro a sirene spiegate bisogna proprio avere il cervello taroccato di brutto, essere sostanzialmente beoti e pure esaurientemente in malafede! O no?
E questo è esattamente il motivo per il quale il leghista Matteo Salvini ci ha creduto subito subito. "Roba da matti, ecco gli amici della Boldrini..." ha twittato commentando il link YouTube che riporta il fattaccio. E giù, a suo sostegno, una merda-marea di schifo-commenti porco-razzisti che non ho avuto neanche lo stomaco di leggere sino in fondo!
Qualche ora dopo, qualcuno deve aver fatto notare al prode segretario carrocciato che il video era state girato sul set di un film e che lui rischiava di farci un'altra delle sue mitiche figure da idiota. Così ha ritwittato "P.s.: sarà anche un'auto finta, di scena... ma chi la custodisce?"
Già. Perché la polizia non sta più attenta a dove parcheggia le sua auto che poi gli attori - e di razza non puro italiota per di più - ci salgono sopra per farci un film?
La Questura si è pure presa la briga di rispondergli per bocca dell'Agente Lisa (che è il profilo ufficiale con cui la polizia dà notizie e consigli ai cittadini su Fb): "Non è una macchina delle nostre ma una usata per fiction o film. Chi è del mestiere come noi riconosce la mancanza di peculiarità che ci sono solo sulle nostre auto, cioè su quelle 'vere'. Lampeggiante di un’altra serie di vetture, mancanza del separatore in plexiglas interno all’abitacolo, computer lato passeggero e per finire marmitta e cerchi di altri veicoli. Evidentemente quindi una macchina assemblata per esigenze sceniche".
Eh sì! Adesso ci tocca spiegare a quella sagoma di Salvini cosa significano tutte queste parole difficili come "assemblata", "plexiglas" (sarà mica una blasfema invocazione islamica?), e concetti come "esigenze sceniche". E poi bisognerà fargli capire che quando vede sulla tv una macchina della polizia che insegue i banditi, tra salti su burroni, esplosioni e sparatorie non si tratta una "vera" auto di servizio e che neppure le esplosioni sono autentiche. E magari che neanche gli zombi dei film di Romero sono davvero degli schifosi morti viventi ma semplici comparse truccate. A differenza dei compagni di partito che gli gravitano attorno.
Un video vero? Per essere vero, il video è vero. Solo che è stato girato durante la realizzazione di un film. Tutto falso, insomma. Pure la questura di Roma, chiamata direttamente in causa da queste accuse, ha diffuso un comunicato in cui spiega che la notizia è una balla bella e buona. "In merito al video, pubblicato sul social network Facebook, dove viene ripresa una macchina della Polizia di Stato, guidata da un cittadino con accento straniero che 'scorrazza' su un piazzale, si comunica che si tratta di macchine sceniche per riprese cinematografiche non in carico alla Polizia di Stato".
Un film! Solo un film! Eppure qualcuno, in perfetta malafede e per biechi fini lurido-politici, ha fatto, e continua a far girare le immagini come fossero vere. E non parliamo solo delle solite pagine merde-fascistoidi ma anche di un quotidiano "serio" come il romano Messaggero che ci è cascato dentro come un allocco. Ma la verifica delle fonti (tema su cui, giustamente, ci hanno fatto un culo così all'esame da professionisti) è diventata un optional come l'aria condizionata nelle macchine? Il Messaggero ha comunque avuto il buon gusto di levare subito il link dal suo sito dopo la segnalazione della polizia, e adesso fa finta che non sia successo niente. Gli è andata di lusso che non hanno fatto in tempo a stampare la "notizia" su carta, altrimenti non se la caverebbe così a buon mercato. Toccherebbe far la smentita, e sappiamo quanto scocci ai giornali scrivere "abbiamo sbagliato".
Certo che per credere che un poliziotto presti la sua "Pantera" ad un rom perché ci faccia un giro a sirene spiegate bisogna proprio avere il cervello taroccato di brutto, essere sostanzialmente beoti e pure esaurientemente in malafede! O no?
E questo è esattamente il motivo per il quale il leghista Matteo Salvini ci ha creduto subito subito. "Roba da matti, ecco gli amici della Boldrini..." ha twittato commentando il link YouTube che riporta il fattaccio. E giù, a suo sostegno, una merda-marea di schifo-commenti porco-razzisti che non ho avuto neanche lo stomaco di leggere sino in fondo!
Qualche ora dopo, qualcuno deve aver fatto notare al prode segretario carrocciato che il video era state girato sul set di un film e che lui rischiava di farci un'altra delle sue mitiche figure da idiota. Così ha ritwittato "P.s.: sarà anche un'auto finta, di scena... ma chi la custodisce?"
Già. Perché la polizia non sta più attenta a dove parcheggia le sua auto che poi gli attori - e di razza non puro italiota per di più - ci salgono sopra per farci un film?
La Questura si è pure presa la briga di rispondergli per bocca dell'Agente Lisa (che è il profilo ufficiale con cui la polizia dà notizie e consigli ai cittadini su Fb): "Non è una macchina delle nostre ma una usata per fiction o film. Chi è del mestiere come noi riconosce la mancanza di peculiarità che ci sono solo sulle nostre auto, cioè su quelle 'vere'. Lampeggiante di un’altra serie di vetture, mancanza del separatore in plexiglas interno all’abitacolo, computer lato passeggero e per finire marmitta e cerchi di altri veicoli. Evidentemente quindi una macchina assemblata per esigenze sceniche".
Eh sì! Adesso ci tocca spiegare a quella sagoma di Salvini cosa significano tutte queste parole difficili come "assemblata", "plexiglas" (sarà mica una blasfema invocazione islamica?), e concetti come "esigenze sceniche". E poi bisognerà fargli capire che quando vede sulla tv una macchina della polizia che insegue i banditi, tra salti su burroni, esplosioni e sparatorie non si tratta una "vera" auto di servizio e che neppure le esplosioni sono autentiche. E magari che neanche gli zombi dei film di Romero sono davvero degli schifosi morti viventi ma semplici comparse truccate. A differenza dei compagni di partito che gli gravitano attorno.
Basta, Khalas
26/01/2015Una lettera aperta di giornalisti, blogger e fotografi per denunciare la cattiva informazione che i media italiani stanno veicolando su tutto ciò che riguarda il mondo arabo e l’Islam. A partire dalla campagna di fango lanciata contro le volontarie Vanessa e Greta, sino a coinvolgere tutti coloro che sono attive nell’accoglienza ai migranti e nella cooperazione.
Dopo settimane nelle quali abbiamo assistito alla messa in onda di trasmissioni televisive e alla pubblicazione di articoli che veicolano cattiva informazione e che rappresentano palesi violazioni della deontologia professionale, ieri, 20 gennaio 2015, ci siamo fermati di fronte alla pubblicazione da parte della testata “Il Fatto Quotidiano”, nella sua edizione cartacea e online, di un articolo titolato Greta e Vanessa, la cooperante ai migranti siriani: “Ecco come aggirare i controlli” a firma di Angela Camuso.
Riteniamo questa solo l’ultima di una lunga serie di esempi di pessimo giornalismo ai quali, nelle ultime settimane - pur in una più vasta e generale crisi di contenuti in atto ormai da tempo - si assiste in modo sistematico e impotente.
Si potrebbe parlare di una - seppur grave - banale improvvisazione priva di professionalità, se solo non ci andasse di mezzo la vita delle persone, sulla quale viene impunemente gettata un’ombra di sospetto che rischia di avere ripercussioni personali e professionali.
Ci chiediamo quale senso possa avere oggi un giornalismo che al servizio al cittadino ha sostituito un voyeurismo sensazionalista per il quale non ci si ferma neanche davanti al rispetto umano, in costante e grave violazione di tutte le norme di deontologia professionale. Quelle cioè che differenziano il mestiere del giornalista dal commentatore sui social network e dall’opinionista occasionale.
La verifica delle fonti, un linguaggio appropriato, il rispetto della privacy delle persone,
sono le basi della professione giornalistica, alle quali andrebbero sempre aggiunte conoscenza e competenze specifiche dei temi dei quali si vuole trattare, nonché il valore aggiunto delle esperienze personali sul campo, ma sempre e comunque privilegiando il rispetto del lettore e delle persone coinvolte.
Non abbiamo la pretesa che il giornalismo possa essere al giorno d’oggi completamente libero da logiche politiche e di mercato, ma sentiamo forte l’esigenza di ribadire i valori fondanti della professione che abbiamo scelto, per la quale abbiamo studiato e che difendiamo ogni giorno con il nostro lavoro.
Continuando su questa strada, non possiamo certo aspettarci da parte dei lettori una comprensione dei fenomeni attuali scevra da pregiudizi, sovrastrutture e stereotipi discriminanti.
Ne’ possiamo aspettarci il rispetto verso la nostra categoria, sempre più priva di credibilità. Per scelte editoriali di questo tipo pagano tutti i professionisti, compresi quelli che, lontani dalle luci del mainstream e spesso a proprie spese, continuano ogni giorno a lavorare nel rispetto delle regole. La pubblicazione di articoli di questo genere, oltre a non fornire un buon servizio di informazione ai lettori, getta discredito sull’intera categoria.
Per questo motivo molti di noi hanno sentito il bisogno di sottoscrivere questo documento, che sarà la base di un esposto all’Ordine dei Giornalisti in merito all’articolo pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” e da altri apparsi su “Il Giornale” e “Libero”, che hanno fomentato in queste settimane odio, pregiudizio, islamofobia.
Ma vorrebbe anche rappresentare la prima fase di un progetto condiviso di informazione approfondita e dal basso, basata sulla competenza dei temi che riguardano il mondo arabo, l’Islam e le migrazioni,che ormai da tempo vediamo raccontati in modo superficiale e approssimativo da una serie di voci che nulla hanno mai avuto a che fare con un mondo che ci riguarda tutti.
Questo appello è rivolto anche a coloro che non sono giornalisti, ma che rivendicano il proprio diritto ad un'informazione corretta e responsabile, approfondita e al servizio del cittadino.
Per firmare l’appello mandare la propria adesione all’indirizzo email perunacorrettainformazione@gmail.com
Dopo settimane nelle quali abbiamo assistito alla messa in onda di trasmissioni televisive e alla pubblicazione di articoli che veicolano cattiva informazione e che rappresentano palesi violazioni della deontologia professionale, ieri, 20 gennaio 2015, ci siamo fermati di fronte alla pubblicazione da parte della testata “Il Fatto Quotidiano”, nella sua edizione cartacea e online, di un articolo titolato Greta e Vanessa, la cooperante ai migranti siriani: “Ecco come aggirare i controlli” a firma di Angela Camuso.
Riteniamo questa solo l’ultima di una lunga serie di esempi di pessimo giornalismo ai quali, nelle ultime settimane - pur in una più vasta e generale crisi di contenuti in atto ormai da tempo - si assiste in modo sistematico e impotente.
Si potrebbe parlare di una - seppur grave - banale improvvisazione priva di professionalità, se solo non ci andasse di mezzo la vita delle persone, sulla quale viene impunemente gettata un’ombra di sospetto che rischia di avere ripercussioni personali e professionali.
Ci chiediamo quale senso possa avere oggi un giornalismo che al servizio al cittadino ha sostituito un voyeurismo sensazionalista per il quale non ci si ferma neanche davanti al rispetto umano, in costante e grave violazione di tutte le norme di deontologia professionale. Quelle cioè che differenziano il mestiere del giornalista dal commentatore sui social network e dall’opinionista occasionale.
La verifica delle fonti, un linguaggio appropriato, il rispetto della privacy delle persone,
sono le basi della professione giornalistica, alle quali andrebbero sempre aggiunte conoscenza e competenze specifiche dei temi dei quali si vuole trattare, nonché il valore aggiunto delle esperienze personali sul campo, ma sempre e comunque privilegiando il rispetto del lettore e delle persone coinvolte.
Non abbiamo la pretesa che il giornalismo possa essere al giorno d’oggi completamente libero da logiche politiche e di mercato, ma sentiamo forte l’esigenza di ribadire i valori fondanti della professione che abbiamo scelto, per la quale abbiamo studiato e che difendiamo ogni giorno con il nostro lavoro.
Continuando su questa strada, non possiamo certo aspettarci da parte dei lettori una comprensione dei fenomeni attuali scevra da pregiudizi, sovrastrutture e stereotipi discriminanti.
Ne’ possiamo aspettarci il rispetto verso la nostra categoria, sempre più priva di credibilità. Per scelte editoriali di questo tipo pagano tutti i professionisti, compresi quelli che, lontani dalle luci del mainstream e spesso a proprie spese, continuano ogni giorno a lavorare nel rispetto delle regole. La pubblicazione di articoli di questo genere, oltre a non fornire un buon servizio di informazione ai lettori, getta discredito sull’intera categoria.
Per questo motivo molti di noi hanno sentito il bisogno di sottoscrivere questo documento, che sarà la base di un esposto all’Ordine dei Giornalisti in merito all’articolo pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” e da altri apparsi su “Il Giornale” e “Libero”, che hanno fomentato in queste settimane odio, pregiudizio, islamofobia.
Ma vorrebbe anche rappresentare la prima fase di un progetto condiviso di informazione approfondita e dal basso, basata sulla competenza dei temi che riguardano il mondo arabo, l’Islam e le migrazioni,che ormai da tempo vediamo raccontati in modo superficiale e approssimativo da una serie di voci che nulla hanno mai avuto a che fare con un mondo che ci riguarda tutti.
Questo appello è rivolto anche a coloro che non sono giornalisti, ma che rivendicano il proprio diritto ad un'informazione corretta e responsabile, approfondita e al servizio del cittadino.
Per firmare l’appello mandare la propria adesione all’indirizzo email perunacorrettainformazione@gmail.com
Emra, nato e cresciuto in Italia, residente a San Donà, finito dietro le sbarre di un Cie
29/11/2014Si chiama Emra ha ventidue anni ed è italiano a tutti gli effetti tranne che per la legge. La sua famiglia è in Italia dall'89, tre anni prima che lui nascesse. I suoi genitori erano profughi di guerra, in fuga dai massacri balcanici. Dapprincipio si sono stabiliti a Napoli ma dal 2000, per ragioni di lavoro, si sono trasferiti a San Donà dove Emra e suo fratello hanno frequentato le scuole e dove, di fatto, ha sempre vissuto.
Qualche giorno fa durante un semplice controllo di polizia, uno zelante funzionario si è accorto che Emra aveva la carta di identità ma non il permesso di soggiorno. Va sottolineato che Emra aveva tutte le carte in regola per essere naturalizzato italiano. Semplicemente, al compimento dei 18 anni, nessuno lo ha avvisato che era necessario espletare questo iter burocratico. Il padre non c'è più, la madre è analfabeta. Lo stesso Emra è affetto da un leggero ritardo psichico che lo rende un po' "lento" nel capire le cose. E c'è da dire che la pratica di naturalizzazione non è facile da seguire neppure per un Einstein. Fatto sta che Emra ha scoperto, improvvisamente, di essere un irregolare. Un "clandestino" potremmo scrivere se fossimo stronzi. E così è stato convocato dalla Questura di Marghera dove Emra si è recato senza sospettare che quella sera non sarebbe più rientrato a casa sua perché un altro zelante funzionario lo ha ammanettato di punto in bianco e spedito nel Cie di Bari. Lui che non si era mai allontanato dalla Provincia di Venezia! Adesso è ingabbiato nella galera del Cie con una pratica di espulsione in corso verso un Paese, la Serbia, dove non solo non ha mai vissuto e non ha nessun parente vivo, ma di cui parla malamente anche la lingua.
L'avvocato Ulyana Gazidede che lo assiste spera di ottenere una sospensione del provvedimento in quando, se per la legge non è "italiano", Emra non è neppure serbo ma, più correttamente, un apolide.
Intanto, Emra sta male. "Voglio tornare da mia madre e da mio fratello - grida da dietro le sbarre -. Qui ho paura. Cosa ho fatto di male che mi hanno portato in questo posto?"
E se la storia vi fa incazzare come ha fatto incazzare me, non fate il mio errore di andare a leggere i "commenti" che sono apparsi in calce agli articoli dei quotidiani on line che la raccontano. Un vero merdaio: "Dategli la tessera della Fiom e vedrete che l'Inps gli trova pure la pensione", "w lo ius soli", "e se un italiano nasce in Cina diventa cinese?" "ne pigliamo tanti che se un giudice ne manda via uno, ne facciamo un dramma", "mandiamo via gli handicappati e teniamoci solo i professionisti che sanno lavorare. Basta far entrare i malati" e via discorrendo. Che dire? Il diritto di esprimere la propria opinione evidentemente vale pure per i vigliacchi.
Qualche giorno fa durante un semplice controllo di polizia, uno zelante funzionario si è accorto che Emra aveva la carta di identità ma non il permesso di soggiorno. Va sottolineato che Emra aveva tutte le carte in regola per essere naturalizzato italiano. Semplicemente, al compimento dei 18 anni, nessuno lo ha avvisato che era necessario espletare questo iter burocratico. Il padre non c'è più, la madre è analfabeta. Lo stesso Emra è affetto da un leggero ritardo psichico che lo rende un po' "lento" nel capire le cose. E c'è da dire che la pratica di naturalizzazione non è facile da seguire neppure per un Einstein. Fatto sta che Emra ha scoperto, improvvisamente, di essere un irregolare. Un "clandestino" potremmo scrivere se fossimo stronzi. E così è stato convocato dalla Questura di Marghera dove Emra si è recato senza sospettare che quella sera non sarebbe più rientrato a casa sua perché un altro zelante funzionario lo ha ammanettato di punto in bianco e spedito nel Cie di Bari. Lui che non si era mai allontanato dalla Provincia di Venezia! Adesso è ingabbiato nella galera del Cie con una pratica di espulsione in corso verso un Paese, la Serbia, dove non solo non ha mai vissuto e non ha nessun parente vivo, ma di cui parla malamente anche la lingua.
L'avvocato Ulyana Gazidede che lo assiste spera di ottenere una sospensione del provvedimento in quando, se per la legge non è "italiano", Emra non è neppure serbo ma, più correttamente, un apolide.
Intanto, Emra sta male. "Voglio tornare da mia madre e da mio fratello - grida da dietro le sbarre -. Qui ho paura. Cosa ho fatto di male che mi hanno portato in questo posto?"
E se la storia vi fa incazzare come ha fatto incazzare me, non fate il mio errore di andare a leggere i "commenti" che sono apparsi in calce agli articoli dei quotidiani on line che la raccontano. Un vero merdaio: "Dategli la tessera della Fiom e vedrete che l'Inps gli trova pure la pensione", "w lo ius soli", "e se un italiano nasce in Cina diventa cinese?" "ne pigliamo tanti che se un giudice ne manda via uno, ne facciamo un dramma", "mandiamo via gli handicappati e teniamoci solo i professionisti che sanno lavorare. Basta far entrare i malati" e via discorrendo. Che dire? Il diritto di esprimere la propria opinione evidentemente vale pure per i vigliacchi.