Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Ius Soli. Da Venezia un segnale chiaro al nuovo Governo

D’accordo, rimane una concessione solo simbolica. Non spetta al Comune concedere il diritto di cittadinanza ma allo Stato. Ma più di così l’amministrazione comunale di Venezia proprio non poteva fare. E così, d’ora in avanti, tutti i 20 novembre di ogni anno, giorno internazionale dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, si aprirà uno speciale registro dove i genitori migranti potranno iscrivere i loro figli nati in Italia e fargli ottenere un certificato di “cittadinanza speciale”. Di più, abbiamo detto non si poteva fare. Un gesto che, come ha spiegato il consigliere della lista In Comune Beppe Caccia vuole essere soprattutto un incentivo, “un messaggio chiaro che la città spedisce al Governo che sta nascendo e al parlamento di Roma affinché legiferino al più presto l'introduzione di un pieno "ius soli" nel nostro Paese. Per quanto simbolicamente, Venezia riconosce che chi nasce qui deve essere riconosciuto come cittadina e cittadino a pieno titolo, portatore dell'insieme dei diritti e doveri che in questa sfera rientrano".
La delibera è stata approvata nella seduta di lunedì a larga maggioranza. Contrari solo Lega e Pdl. Ma anche cinque consiglieri di opposizione hanno votato a favore. Segno inequivocabile che il principio che lo Ius Soli sia un diritto che spetta a tutti coloro che nascono in Italia, non sia più circoscritto ad una certa area politica. Ed è proprio questo il messaggio di civiltà che Venezia lancia alla politica romana.

La “gente che brucia”. In fuga dall’Algeria alla Sardegna

“Harraga" in arabo significa letteralmente “colui che brucia”. Termine che non va interpretato tanto come “gioventù bruciata” in stile James Dean ma riferito piuttosto ad una persona che arde del bisogno o, se preferiamo, dal desiderio di qualcosa di cui non può fare a meno. In Algeria con questa parola si indicano i ragazzi che decidono di giocarsi la carta dell’immigrazione irregolare e dai porti di Algeri, Sidi Salem, Annaba o El Bettah salpano nottetempo verso capo Teulada e le coste della Sardegna.
Una rotta migratoria lontana dai riflettori dei mass media, al contrario di quella che dalla Libia passa per Lampedusa, ma non per questo meno battuta. Su queste acque, l’agenzia Frontex nel 2007 svolse uno delle sue prime operazione in grande stile con l’impiego di sei navi corvetta supportate da elicotteri ed aerei. Il risultato di questo mese di pattugliamento a tappeto fu l’intercettazione di una trentina di migranti. Il costo: poco meno di un milione e 900 mila euro. Tutti soldi che avrebbero potuto essere spesi meglio.
Come c’era da aspettarsi, il grande dispiegamento di forze militari messo in campo da Frontex non riuscì neppure per sbaglio a far calare sensibilmente il numero di migranti in fuga dal nord africa e diretti in Sardegna.
Secondo fonti dell’Unhcr, tra il 2007 e il 2009, sarebbero perlomeno duemila all’anno le persone che hanno traghettato abusivamente da una parte all’altra delle due sponde. Sponde che, val la pena di ricordarlo, distano in alcuni punti meno di 200 chilometri. Come dire: una breve notte in gommone.

Considerata l’impossibilità economica e l’assurdità militare di mantenere una intera flotta a sorvegliare un confine che non si può sorvegliare, l’Europa optò per la politica del “facciamo finta di niente”. Tutto filò liscio sino al 9 luglio del 2013, quando un motore fuoribordo decise di mettersi a fare le bizze lasciando una barca con 13 persone e 4 bambini alla deriva. Il pronto intervento della Guardia Costiera di Sant’Antioco riuscì ad evitare l’ennesima “tragedia del mare” ma riportò prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica che anche la Sardegna, e non solo Lampedusa, era una porta d’entrata sfondata per la “fortezza Europa” e che le politiche sicurtarie volte a militarizzare il confine avevano come unico sbocco il fallimento.
Lo stesso concetto di “confine” inoltre, impone come minimo una riflessione. Prendiamo ad esempio l’Algeria. In qualsiasi atlante, viene dipinta con un unico colore che sta ad indicare che quel territorio è governato da un solo Stato sovrano. Nessuno confine interno quindi. Beh… io l’ho girata qualche settimana e di “confini” ne ho trovati perlomeno tre. Il sud del Paese è in mano alle tribù berbere. Semplicemente, là comandano loro. Il centro è una terra di nessuno, dove non puoi girare se non scortato dalla polizia e dalla gendarmeria. Sostengono che lo fanno per la tua sicurezza ma nei fatti dimostrano solo di non avere il controllo del territorio. I frequenti rapimenti di viaggiatori che si avventurano nel deserto, quasi sempre ad opera di gruppi berberi, lo testimoniano. Inoltre, le aree desertiche dell’Erg sono attraversate da bande armate provenienti dal Niger o dalla Libia che fanno il bello ed il cattivo tempo. Solo nella zona costiera possiamo parlare di Algeria.

Proprio alle tribù berbere che controllano il meridione, debbono pagare dazio i nuovi “harraga”. Quelli neri. Perché, negli anni, anche “coloro che ardono” hanno cambiato pelle. Le guerre interne che stanno macellando la fascia sub sahariana hanno costruito una nuova figura di migrante “harraga”: il profugo di guerra. Dal Niger, dal Malì, centinaia di disperati marciano verso nord. Li ho trovati nelle periferie di Touggourt, di Guerara, di Ghardaia e El Atteuf. Cittadine berbere dove le donne possono girare solo mostrando un occhio alla volta. Siedono in cappanelli sui marciapiedi, attendendo che il caporale di turno li scelga per una giornata lavorativa che gli sarà pagata meno di 50 centesimi. Scavano pozzi, fanno i muratori o altri mestieri di fatica. Qualche volta, quando vedono un europeo come me, prendono coraggio e ti chiedono una monetina promettendoti che, quando ti ritroveranno in Europa - dove, si sa, tutti guadagnano bene, anche i più poveri - te la restituiranno. La cosa più sorprendente è che ci credono davvero. E quando ti salutano ringraziandoti ti guardano fisso come per imprimersi bene in mente la faccia cui sono debitori di una preziosa moneta che non vale neppure 10 centesimi di euro.
Per arrivare sino ad Algeri o agli altri porti mediterranei ci impiegano dai 3 ai 5 mesi. Quando va bene.
Si nascondono nella casbah che nelle città costiere sono abbarbicate sopra i promontori marini dove le organizzazioni berberi li mettono in contatto con la malavita locale (trovatelo voi un berbero che accetti di fare il marinaio!) e cercano un lavoro, più o meno onesto, sino a racimolare i soldi per pagarsi la traversata notturna verso la costa sarda. L’Europa, finalmente. Il “biglietto” costa un migliaio di euro. Ed è una “crociera” che potremmo definire “low cost” rispetto ai barconi libici che chiedono dieci volte tanto. Il dinaro algerino, lo si sa, non vale un fico secco. Questo è il motivo per il quale molti migranti dalla Libia preferiscono spostarsi verso ovest, per tentare la sorte su quest’altro angolo di Mediterraneo e scrivere, dall’Algeria alla Sardegna, altre storie di inutili, sanguinose frontiere.

“Io non sono razzista ma...” Sì che lo sei invece! E sei pure stronzo!

Chi mi conosce sa che banno dalle mie pagine dei social network con facilità anche discutibile. Ma chi me la fa fare, in fin dei conti, di stare a discutere con xenofobi e razzisti? Eppure mai, come in questi giorni di vergogna e di dolore per le centinaia di omicidi di Lampedusa, il web si è trasformato in una cloaca indecente di commenti che rimbalzavano dappertutto. Anche da dove non te lo saresti mai aspettato. Non parlo tanto di chi, anche prima della tragedia, si dichiara apertamente leghista e razzista. Intendo quei tweet, quei commenti inseriti in basso alle pagine dei giornali on line, che giocavano sulla frase “Io non sono razzista ma...”. Il problema sta tutto su quel “ma”. Così, mi sono fatto coraggio e ho spulciato qua e là. Col copia e incolla - fino a che lo stomaco mi ha retto - ho raccolto un bel po’ di spazzatura che vi propongo qui sotto. Se riuscite a reggere allo schifo e ad arrivare alla fine, siete bravi.
Ecco a voi: “Io non sono razzista ma siete in Italia e non a Baghdad”; “Io non sono razzista ma dio ha messo i bianchi nelle città e i negri nelle foreste. Ci sarà un motivo, no?”; “La maggior parte degli incidenti, stupri e altre cose capitano per colpa degli stranieri. Non sono razzista ma la cosa mi dà fastidio”; “Poi io non sono razzista, eh? però il mio autobus sembra la fottuta ambasciata del Pakistan”; “Uno domanda. Una solo domanda. Perché vengono tutti in Italia? Io non sono razzista ma vorrei che la Kyenge mi rispondesse”; “Io non sono razzista, anzi, ma queste robe mi fanno schifo. O sei regolare. lavori e vivi come gli altri o fuori dalle balle”; Io non sono razzista ma a furia di vedere furti, stupri e rapine di gente di colore va a finire che lo divento”; “A Lampedusa spero che muoiano tutti (io non sono razzista e sono innamorata di un nero e i miei idoli sono asiatici, è solo che hanno rotto il cazzo”; “Non pensate male, non sono razzista, però ho le mie idee riguardo l’immigrazione e tutti gli immigrati vengono qua in Italia perché vogliono farsi mantenere da noi”; “Io non sono razzista ma un bambino deve crescere con un papà e una mamma e non con una coppia di perversi omosessuali”; “Io non sono razzista ma gli zingari proprio al rogo”; “Ho amici di colore e sapete tutti che non sono certo razzista ma quando vedi che le case le danno a loro e non a chi lavora, ti girano le balle”; “Mi sento lontano da fatti come quelli di Lampedusa. Non sono razzista ma vorrei che il Governo si preoccupasse di tutti gli artigiani che si suicidano per colpa delle crisi invece di spendere soldi con i clandestini”; “Sento puzza di marocchini ambulanti al mare. Non sono razzista ma la loro pelle ha un certo odorino”; “Non sono razzista ma in Italia oramai ci sono più moschee che chiese. Vogliamo capire che questa è casa nostra? Adesso direte che sono razzista”; “Non sono razzista ma quelli sul barcone erano tutti clandestini. Cosa venivano a fare in Italia se non a delinquere?”; “Stiamo esagerando! Mi dispiace anche che sono morti a Lampedusa che io non sono di sicuro razzista, ma dove la mettevamo tutta quella gente di colore che non ci sta neanche in cimitero? Se non affondavano li ospitavamo tutti a casa nostra?”; “Mi viene voglia di mandarli tutti via a calci in culo. Non sono razzista e ascolto anche la musica dei cantanti di colore che mi piace anche. Ma quelli che non hanno voglia di lavorare... tutti in mare”; Bisogna selezionare alla frontiera quelli che sono qui per lavorare in regola col permesso di soggiorno e quelli che vogliono fare i clandestini. E questi ultimi si rimandano indietro. Semplice. Perché il governo non lo fa? Sono forse razzista se dico questo? Io dico di no”; “La colpa della criminalità è solo degli extracomunitari. Non sono di sicuro razzista ma basta leggere i giornali per capire che sono sempre loro”; “Poi dicono che siamo noi i razzisti! Vengono tutti in Italia perché sanno che hanno l’assistenza gratis senza lavorare”; “Non sono razzista ma nessuno li obbliga a venire qui se non gli va bene come viviamo”; “Leggete i giornali e vedete che sono solo loro i neri e i mussulmani che violentano, stuprano e rubano negli appartamenti. Non è razzismo il mio se dico che l’Italia può fare a meno di gente così”. Perché non se ne stanno nel loro paese? Cosa credono di trovare qui che siamo più inguaiati di loro? Non sono razzista ma ognuno deve stare a casa propria se no lo divento”; “La religione islamica è violenza allo stato puro. Per andare in paradiso dice il loro Maometto che devono ammazzare un cristiano. E voi volete che vengano tutti quanti qua? Io non sono razzista ma se Dio ha fatto affondare la loro barca...”. Basta così, vero?

Quando l’illegalità è legalizzata. Dal Porto di Venezia ai Cie.

Ancora qua a domandarci come sia possibile che l’illegalità sia legalizzata. Come mai situazioni universalmente riconosciute come la negazione totale dei diritti umani possano essere tollerate. Parliamo del porto di Venezia dove i richiedenti asilo anche minorenni vengono impacchettati e rispediti in Grecia dalla polizia di frontiera senza che, nella maggioranza dei casi, venga riconosciuto loro l’elementare diritto di incontrare un assistente sociale per avviare le pratiche di tutela. Parliamo dei Cie dove i migranti sono rinchiusi come animali senza che abbiano commesso alcun reato (perché un illecito amministrativo come la mancanza di documenti non lo è) e senza neppure sapere quanto lunga sarà la loro condanna.
E potremmo continuare raccontando delle migliaia di situazioni di sfruttamento, Rosarno insegna, in cui i lavoratori irregolari non possono difendersi per non venire a loro volta inquisiti per “clandestinità”. Potremmo raccontare degli accordi bilaterali che l’Italia ha stipulato con la Grecia e con gli ex dittatori di regimi fascisti come la Libia o l’Egitto. Accordi che prevedono il rimpatrio forzato - rimpatrio che spesso equivale ad una condanna a torture e morte - dei profughi in violazione di tutte le norme internazionali, europee, costituzionali.
Situazioni intollerabili che vengono puntualmente tollerate, annegate nel mare dell’ignoranza e dell’indifferenza di chi come noi ha avuto la buona sorte di nascere dalla parte giusta del mondo. Ma i diritti o sono di tutti o sono privilegi di pochi. E l’erosione di tali diritti, quando comincia ad essere tollerata in nome della crisi economica o del santo capitale, non finisce più prima o poi tocca tutti. Un esempio? Il diritto alla salute. Lo ha spiegato bene Nadia Zanotti, coordinatrice del poliambulatorio di Emergency a Marghera che da quando è sorto, tra anni fa, ha offerto più di 17 mila visite per una media giornaliera tra le 20 e le 50 persone. “ Migranti? Sì, anche, ma non solo. Guardiamo un faccia la realtà. Le cure mediche di secondo livello costano. Un pensionato di minima, un disoccupato non se le possono permettere più. In Italia, il diritto alla salute pur sancito dalla Costituzione non è più garantito. E questo non solo ai migranti ma anche agli italiani”. Nadia ha partecipato ieri pomeriggio ad un incontro organizzato dalla Rete Tuttiidirittiumanipertutti al patronato dei Frari di Venezia. Con lei Chiara Garri di Amnesty International e Francesco Mason, avvocato dell’Asgi, associazione per gli Studi giuridici sull'immigrazione. Chiara ha denunciato l’assurda ed ingiustificata “deriva securtaria” in cui si sono avviate le nostre frontiere. Tutto a discapito dei diritti umani. “In campagna elettorale Amnesty ha chiesto a molti parlamentari ora eletti di adoperarsi perché vengano perlomeno rigettati quei vergognosi accordi bilatarali stipulati con gli ex dittatori e con Stati in cui non ci sia garanzia di tutela dei profughi. Stiamo ancora aspettando, augurandoci che qualcosa si muova”. Vien da pensare che se legiferano come con la legge sull’omofobia, è meglio che continuino ad occuparsi di come fare per salvare il Berlusconi!
Interessante anche l’intervento di Francesco Mason che ha spiegato come l’ingiustizia nei confronti dei migranti corra su due binari: uno giuridico che va riformato in toto e uno applicativo di norme di tutela che ci sono ma che nei fatti vengono disattese. Sul primo punto, vi invito a leggere il decalogo che per l’abolizione del reato di clandestinità e per una sostanziale riforma della legge su immigrazione, asilo e cittadinanza a questo
link.
In quanto alle garanzie che non vengono concesse, ne sono un chiaro esempio i Cie. “L’associazione sta preparando una serie di cause pilota per innescare un conflitto strategico volto ad abolire questi terribili centri di detenzione dove persone che non hanno commesso alcun reato impazziscono e si suicidano. Noi reputiamo i Cie, oltre che disumani, costosi e inutili, anche incostituzionali perché la privazione della libertà per la nostra Carta deve venir sancita solo da un magistrato e non da altri. Inoltre, i Cie violano la direttiva Cee sui rimpatri che vincolano la detenzione a ultimo strumento e solo nel caso di pericolosità del soggetto”.

Porto di Venezia. i dati della Prefettura confermano i respingimenti illegali verso la Grecia

Strano luogo, il porto di Venezia. Ci vanno e vengono impunemente le Grandi Navi ma i diritti fondamentali dell’uomo continuano ad essere tenuti fuori della cancellata. I dati forniti dalla Prefettura confermano che anche lo scorso anno perlomeno metà dei profughi che vi sbarcano dalla Grecia, dopo una terrificante traversata stipati sino ad asfissiarsi nei cassoni dei tir, vengono rispediti a Patrasso dalla nostra polizia di frontiera con la pratica del tutto illegale dell’ “affido al comandante”. Un pratica, dicevamo, del tutto illegale in quanto il decreto legislativo 25 del 2008 ha abrogato l’articolo della legge Martelli che consentiva alla polizia di decidere se una richiesta d’asilo fosse manifestamente infondata. In virtù di tale decreto che recepisce una normativa Cee, le autorità di frontiera sono obbligate a trasmettere immediatamente qualsiasi domanda di asilo al competente ente territoriale. Cosa che, nel 50 per cento dei casi, a Venezia non avviene. Il nostro porto continua quindi ad essere una frontiera di illegalità dove i diritti umani vengono concessi o negati a seconda degli umori del momento.
I dati che l’Osservatorio contro le discriminazioni di Venezia - che ricordiamolo, è un ufficio ministeriale che fa capo all’Unar - è riuscito, dopo non breve attesa, a farsi consegnare dalla Prefettura confermano quanto abbiamo scritto.
Nel periodo che spazia tra il gennaio ed il dicembre del 2012, al porto sono stati fermati 283 migranti. Di questi, 238 sono stati respinti verso la Grecia con “affido al comandante” e senza quindi che abbiamo potuto parlare con un interprete e con gli operatori preposti. Come abbiano fatto i poliziotti di frontiera, la cui familiarità col farsi e con le altre lingue orientali è tutta da dimostrare, a capire che la loro richiesta di asilo sia manifestamente infondata, è un mistero tutto da risolvere. Dei restanti 45, si legge nel documento inviato dalla Prefettura, 31 sono stati affidati ai servizi sociali del Comune in quanto minori non accompagnati e 14 sono stati ammessi in quanto richiedenti protezione internazionale.
Se consideriamo che la cooperativa Coges che gestisce l’accoglienza dichiara di aver incontrato 137 persone, se ne deduce che ben 146 richiedenti asilo (il 48 per cento) sono stati reimbarcati per la Grecia dopo aver incontrato soltanto la polizia di frontiera. E quindi, come si legge nella nota diffusa dall’Osservatorio: “senza avere avuto modo di esporre la propria situazione personale a operatori competenti preposti a tutela del diritto d’asilo”.
E’ appena il caso di ricordare che il destino di questi migranti imbarcati di brutto con la pratica dell’ “affido al comandante” è quello di venire rinchiusi in veri e propri lager e sottoposti, come ha dichiarato una sentenza della Corte Europea a torture e umiliazioni, sino al rimpatrio forzato in quel Paese da dove erano stati costretti a fuggire.
Va sottolineato che la percentuale dei respingimenti illegali per l’anno 2012 è pressoché la stessa che si ricava dai dati della Prefettura per i mesi che vanno dal gennaio 2010 all’ottobre 2011 (per i mesi di novembre e dicembre 2011 non sono state fornice cifre, nonostante le ripetute richieste dell’Osservatorio). In questo periodo infatti sono sbarcati mille e 46 migranti e ne sono stati respinti 574, che ci dà la percentuale del 55 per cento.
“Dall’analisi incrociata dei dati forniti - si legge nella nota dell’Osservatorio Antidiscriminazioni veneziano - emerge pertanto in maniera inequivocabile una violazione del diritto a richiedere protezione internazionale avvalendosi di operatori umanitari competenti. Si tratta di uno dei diritti fondamentali della persona umana, sancito da precise normative e riaffermato da recenti sentenze e raccomandazioni rivolte all’Italia”.
Come dire che il porto di Venezia continua a rimanere una “zona franca” dove qualcuno continua a fare quello che gli pare, infischiandosene delle leggi e dei diritti.
Con i migranti, così come con le Grandi Navi.

Sotto il titolone, niente (a parte un bel po’ di razzismo)

Cosa non si fa per un titolo ad effetto! Quando lo spari a quattro colonne te lo godi tutto. Sei convinto di aver scritto un articolo che domani sarà letto più degli altri, una storia che domani farà discutere la gente dietro ai banconi dei bar. Così ti illudi di aver fatto bene il tuo lavoro e magari anche di aver aiutato il tuo giornale a vendere più copie. E se la notizia non c’è... pazienza! Anzi, a pensarci bene, è ancora meglio. Tu il titolone ad effetto ce lo hai trovato lo stesso e questo ti fa sentire un giornalista ancora più bravo perché hai tirato fuori una storia dal niente!
Sì, lo so. Sono anche io del mestiere. So che il giornalismo è anche questo, che il giornale lo compra anche la casalinga di Voghera, che ci tocca scrivere sempre di corsa. Ma per cinque minuti almeno, fermiamoci un attimo. Facciamo finta che oggi non si debba andare in stampa per le 23 e riflettiamo un momento se è davvero questo il giornalismo che sognavamo quando abbiamo cominciato a scrivere. L’occasione per una terapeutica riflessione sui nostri “ferri del mestiere” me l’hanno data i ragazzi di Occhioaimedia di Ferrara, una associazione di studenti delle scuole superiori che ogni giorno si sciroppano i principali quotidiani, sia cartacei che on line, per segnalare abusi, razzismi ma, il più delle volte, anche solo imbecillità.
L’ultima segnalazione riguarda il Mattino di Padova che lunedì 15 aprile ha pubblicato sul suo sito un articolo titolato ”Tunisino si cosparge di feci per evitare l’arresto”. Bel titolone vero? Proprio di quelli che ti fan voglia di leggere la notizia! E allora leggiamola, ‘sta popò di notizia. “Arresto particolarmente difficile per i carabinieri di Padova l’altra notte in via Agordat. Alle 5.19 infatti al 112 è arrivata la chiamata di una residente che denunciava di aver sentito strani rumori provenire dal garage. La pattuglia dei carabinieri, arrivata sul posto dopo pochi minuti, arriva appena in tempo per bloccare un tunisino che stava rubando una bicicletta. Si tratta di Ezzedine Labidi, 44 anni, senza fissa dimora, pluripregiudicato. Una volta arrivato in caserma però l’uomo inizia a dar segni di squilibrio. Per evitare l’arresto infatti il tunisino ha pensato bene di farsi addosso i propri bisogni. Non contento ha iniziato a raccogliere le feci e spalmarsele sulla testa e sul viso. Ai carabinieri non è rimasto altro che armarsi di pazienza, sopportare il cattivo odore e cercare di calmare l’uomo. Il tunisino è stato portato nel carcere Due Palazzi”.
Cosa è successo insomma? Un disgraziato affetto da evidenti disturbi psichici ha cercato di - pensate un po’ che notiziona! - rubare una bicicletta (cosa che evidentemente non succede mai a Padova di notte). Lui però si è fatto beccare subito dai carabinieri e ha dato di matto. In quanto al “farsi addosso“ allo scopo “evitare l’arresto” è una tecnica che, potete scommetterci, non farà scuola. Casomai, la verità è l’opposta: per un tentato furto di bicicletta non si finisce in galera a meno che tu non ti caghi addosso davanti ai carabinieri! E poi che discorso sarebbe? Se rapino una gioielleria coperto di merda, mi concedono l’immunità diplomatica? Che idiozia! Ciò non toglie che l’articolista del Mattino non si sia lasciato scappare l’occasione di sparare nel titolo la parola “feci”, che è una cosa che indubbiamente attira sempre l’attenzione del lettore. La notizia non c’era, il titolo l’ha creata! E viene anche da chiedersi se e come sarebbe stata trattata l’intera faccenda se il malcapitato fuori di senno fosse stato un indigeno. Vi immaginate “Italiano si cosparge di feci per evitare l’arresto”? Eppure, nel mondo del disagio psichico non mancano certo episodi simili con protagonisti nostrani.
Ma la vera merda di tutta questa storia, non è quella che quel disgraziato si è fatta nei pantaloni. La vera merda la trovate nei commenti che i lettori non si sono risparmiati di spalmare sotto l’articolo on line. Nomi, cognomi, faccine sorridenti da Facebook e accanto un campionario di razzismi da brivido.
E qui c’è tutta l’ipocrisia del giornale che da un lato scatena queste becere reazioni con notizie inesistenti e dall’altro offre loro spazio (“Lascia anche tu un commento”) in nome della libertà di espressione. Ma non lasciamoci ingannare! Il giornale ha una precisa responsabilità su tutto quanto compare nella sua pagine, sia su carta che sul sito. Le discussioni e i commenti, anche se provenienti dai lettori, sono parte integrante della politica editoriale del media. Fateci caso: se qualcuno si azzardasse a postare una bestemmia, verrebbe immediatamente bannato. Se invece scrivete “c
erta gente deve stare a casa loro e spalmarsi di merda a casa loro, vendere eroina ai figli di casa propria, stuprare, molestare donne di casa propria”, no. Questo lo giustifichiamo come libertà di espressione? L’istigazione al razzismo è un reato, in Italia, e questi post andrebbero immediatamente oscurati. Anche se, sotto un titolo idiota e fasullo, è difficile aspettarsi commenti competenti ed intelligenti.

Il giro del mondo in ottanta piani

Qualche giorno fa ho fatto un viaggio che mi ha portato ad attraversare oltre una ventina di popoli, altrettante lingue e un numero imprecisato di culture e di fedi religiose. Un viaggio lungo un centinaio di metri. Tutti in altezza.
Sto parlando di un grattacielo. Anzi “del” Grattacielo. E’ così infatti che a Ferrara, senza sforzare troppo la fantasia, chiamano il loro unico edificio che si stacca altissimo verso il cielo del capoluogo emiliano. Il Grattacielo. Ma fate attenzione: il termine va connotato con una forte enfasi negativa. Come se parlassimo di una favela di Rio de Janeiro o di uno slum di Città del Capo. Se - coraggiosamente - vi azzardate a salirne le scale, scordatevi la Ferrara dell’Ariosto e del Tasso. Qui siamo in un altro mondo. Anzi, in tanti altri mondi: quello di Khayyam, poeta e matematico allo stesso tempo, dei grandi “mari che non navigammo” di Hikmet o dell’esilio e dello
spaesamento post coloniale dell’africano Achebe. Se fate lo sforzo di rinunciare all’ascensore, vi sembrerà davvero di viaggiare per terre esotiche respirando i persistenti odori di spezie che invadono i corridoi, ammirando le decorazioni che ornano gli stipiti delle porte. E non dimenticate di buttare un occhio sui campanelli per leggervi i nomi di famiglie le cui origini spaziano della Romania alla Nigeria, dal Marocco al Kazakistan, dalla Cina al Venezuela. Sui pianerottoli incontrerete persone che vi salutano con accenti e lingue diverse, augurandovi una buona giornata e le benedizioni dei tanti dei del vasto Creato.
Eppure, per i ferraresi, il Grattacielo è solo una anticamera dell’inferno dantesco. Luogo di pianti e stridor di denti. Una baraccopoli tutta in altezza di parlate, di riti e di razze strane. Fucine di spaccio, violenza e prostituzione. Inesplorabili territori di degrado sia fisico che morale dove si dice, si racconta e qualche volta anche si scrive che succeda di tutto anche se, alla luce dei fatti... non vi è successo mai niente!
Il Grattacielo di Ferrara è così una perfetta metafora di come in Italia vengono presentate le problematiche legate alla migrazione. Tanta paura da manipolare senza fatti concreti con i quali giustificarla. Ma si sa che il terreno più fertile per far crescere le paure è proprio quello della disinformazione!
Anche il nome della struttura, a ben vedere, è tutt’altro che corrispondete alla realtà. I grattacieli infatti sono due, simmetrici e alti cento metri per una ventina di piani, connessi da un paio di blocchi abitativi di due e tre piani. Ci troviamo a ridosso della stazione ferroviaria di Ferrara che, nell’elegante città emiliana, si infila proprio dentro il centro storico. Quartieri tradizionalmente riservate all’alta e ricca borghesia. Il Grattacielo infatti fu costruito, verso la fine degli anni ’50, sulle ali di una delle prime speculazioni edilizie ai bei (?) tempi del cosiddetto “boom economico”, quando gli economisti facevano credere alla gente che le risorse di questa nostra terra fossero inesauribili. Quei moderni appartamenti che facevano tanto “made in Usa” , costruiti per guardare la nobile città degli Estensi dall’alto in basso, erano destinati ai figli della cosiddetta “Ferrara bene” oppure a mero investimento immobiliare.
Fatto sta che quando il grattacielo fu inaugurato, nei primi anni ’60, quasi tutti gli appartamenti erano già stati venduti ma, per la maggior parte, a persone che non avevano mai avuto l’intenzione di trasferirsi là. Tutto sommato, vivere al ventesimo piano farà anche tanto “Stelle&striscie” ma mal si adatta alle abitudini tutte emiliane dei ferraresi, più propensi ai cappellacci di zucca che al Mac Donald. Il Grattacielo cominciò a vivere solo in seguito alla prima ondata migratoria, alla fine degli anni ’70, quando giunsero nel capoluogo emiliano, e in particolare nella sua provincia, centinaia di migranti in cerca di lavoro e di dignità. In pochi anni, il Grattacielo si riempì di persone provenienti dal Africa settentrionale, dal vicino e dal lontano Oriente, dall’est europea e anche dal sud Italia. Persone che avevano in comune solo il fatto di essere povere e talmente disperate da dover sottostare alle dure regole del mercato nero degli affitti e rassegnarsi a convivere in dieci, quindici, per appartamento. Secondo i dati che mi sono stati forniti dal progetto “Ferrara città solidale e sicura”, di cui parlerò più avanti, il Grattacielo arrivò a dare ospitalità fino a 35 etnie diverse contemporaneamente (adesso se ne trovano “solo” 22).
La diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati contribuì a creare un clima di ostilità e di pregiudizio nei confronti dell’edificio che si avviava lungo un inesorabile degrado. Le cronache di quegli anni registrano varie perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che portarono a qualche arresto per spaccio. Nell’immaginario cittadino, il Grattacielo divenne così il Bronx di Ferrara. Pochi giornalisti ebbero il coraggio e l’onestà intellettuale di sottolineare che, tanto il mercato dei fitti in nero quanto quello della droga che affliggevano il Grattacielo, erano in mano a dei rispettabilissimi italiani.
Le cose non migliorarono con l’arrivo della Bossi Fini, nel 2002, quando anche i giornali di sinistra cominciarono ad utilizzare quotidianamente termini che io non posso che riportare tra virgolette perché essenzialmente scorretti come “clandestini” e altre
parole sporche, per citare il bel libro di Lorenzo Guadagnucci.
Da questo momento in poi, la triste fama che si era creata attorno al Grattacielo cominciò ad incupirsi sempre di più anche se, nei fatti, non si trova un solo episodio di cronaca nera riguardo ai residenti della struttura, se non i sopra menzionati arresti per spaccio e un paio di scazzottate senza pesanti conseguenze avvenute peraltro nelle vicinanze della struttura. Vorrei vedere di quanti caseggiati in Italia, anche meno popolati, si potrebbe scrivere altrettanto nel corso di trent’anni di storia.
La svolta definitiva avvenne nel 2007, quando cominciarono ad arrivare le famiglie per i ricongiungimenti. Il Grattacielo, per così dire, si “normalizzò” arricchendosi di colorati giochi di bimbi sparsi sui pianerottoli e di donne, velate e non, che portavano su per le scale borse di spese.
La povertà arrivata in seguito alla crisi ha colpito duro su queste scale. Non tutti i migranti che oggi ci abitano sono in grado di sostenere le pesanti spese di condominio che prevedono lo stipendio del portiere, la manutenzione dell’ascensore e il riscaldamento centralizzato. L’intervento del Comune e il cambio dell’agenzia che gestiva il condominio hanno temporaneamente permesso ai residenti di affrontare i rigori invernali con i termosifoni accesi ma hanno anche evidenziato uno scoperto di oltre 300 mila euro. “La vita si è fatta dura per tante famiglie del Grattacielo che, sino a poco fa, potevano contare su una rendita sufficiente a vivere, a pagare le spese condominiali e, in qualche caso, anche il mutuo della casa - mi spiega Roberta, una bella ragazza che lavora al sopracitato progetto -. Molti hanno perso il lavoro e oggi sono alla disperazione. Mi auguro che il Comune sappia trovare una soluzione. Adesso, ad esempio, stanno lavorando per separare i contatori del gas e decentralizzare l’impianto termico per abbassare le spese. Ma quello che mi preme sottolineare è che, oggi come nel passato, episodi davvero violenti non ne sono mai capitati. Eppure, se lo fai notare ad un ferrarese, lo vedrai sgranare gli occhi e blaterare che aveva sentito parlare di omicidi in serie e di stupri collettivi... tutte storie truci che altro non sono che mere leggende urbane. Io ci vengo da anni per lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Ci fosse mai stato qualcuno che mi ha fischiato dietro! Ma come si fa a far cambiare idea alla gente quando neanche i fatti bastano?”
Basta battere la parola “Grattacielo” nel motore di ricerca di uno dei giornali
on line di Ferrara per vedere comparire un piccolo museo degli orrori. C’è chi invoca l’intervento dell’esercito, chi propone di abbattere la struttura con tutti quelli che ci sono dentro. Il tutto però è confinato alle solite dichiarazioni xenofobe di esponenti del Carroccio, o nelle lettere al direttore inviate da spaventati quanto ignoranti lettori, per lo più residenti in tutt’altra parte della città.
“Il Comune di Ferrara ha avuto il merito, grazie anche al progetto di cui faccio parte, Città Solidale e Sicura che non a caso ha sede proprio alla base del Grattacielo, di aver governato la situazione impedendo il nascere di una ‘Via Anelli’, come è accaduto a Padova - continua Roberta -. Oggi il Grattacielo è un edificio vivo e ricco di iniziative pubbliche. Negli uffici sistemati al primo piano, accanto a noi, lavorano decine di associazioni. L’unico appunto che vorrei fare agli amministratori è che si continua a dare questi spazi all’associazionismo che opera nel campo dell’emarginazione. In questo modo si alimenta la fama di ‘posto da sfigati’ che ha il Grattacielo. Mi spiego, non ho naturalmente niente contro chi si occupa, che so?, di disagio mentale, ma vorrei vedere alla porta di fianco alla nostra anche la targhetta di qualche associazione che lavora per promuovere la cultura, l’arte o lo sport. Certo, non è facile per nessuno superare certi pregiudizi. E’ capitato che alcune associazioni inizialmente abbiano rifiutato questi spazi, ma poi, quando ci sono entrati, non se ne sono più andate”.
Ma i pregiudizi sono duri a morire ed i fatti non bastano ad ammazzarli. “Qualche tempo fa - mi racconta Loris, un altro operatore del progetto - tutto il quartiere attorno al Grattacielo, stazione compresa, è stata invasa da legioni di scarafaggi. Grossi, neri e schifosetti... li trovavi dappertutto. Il problema è stato facilmente superato con una buona disinfestazione ma non ti dico quello che ci è toccato leggere nei giornali! Tutti accusavano i migranti di aver portato queste blatte dall’Africa. Poi uno studio scientifico spiegò che era una specie endemica della pianura padana! Ma l’immaginazione popolare continua ancora adesso a collegare l’invasione degli scarafaggi ai migranti del Grattacielo. Cosa vuoi che ti dica? Neanche fosse stata una invasione di zebre...”

Delinquenti, tossici ed extracomunitari. Il razzismo nei media

Cominciamo con qualche perla di saggezza. “Arrestato un 34enne nomade residente a Bolzano” (da La Nuova del 24 novembre). Il giornalista mi dovrebbe spiegare come fa un nomade a essere anche residente. Vien da pensare che sia lo stesso articolista che, qualche mesa fa, sempre nelle nuova, ha scritto “l’uomo, di etnia nomade...” Come dire che se ti sfrattano e ti tocca vivere per strada cambi improvvisamente etnia e diventi “nomade”. Ma ci sono perle ancora più lucenti, nei nostri quotidiani. Titolone sul Gazzettino del 16 novembre: “Controllano sei stranieri e trovano sei bici rubate”. A voi che viene da pensare? Che ne hanno rubate una a testa? Invece no. L’articolo mescola due episodi diversi avvenuti in zone diverse della città, pur se in occasione dello stesso giro di controllo da parte delle forze dell’ordine. Per inciso, i sei stranieri sono risultati tutti regolari ed estranei al furto delle bici. Sempre dal Gazzettino, 25 novembre. Titolo: “Pochi soldi per l’assistenza: è allarme immigrati”. Che relazione c’è tra le due cose, chiederete? Nessuna, ovviamente. Nel testo si legge che i tagli alla sanità mettono a rischio tanti servizi e alla fine si puntualizza che questo nuocerà anche ai migranti che usufruiscono del servizio sanitario. Poi ci sono tutta una lunga serie di “si dice”, “pare che”, “secondo alcuni”... tutte affermazione che alla scuola di giornalismo ti spiegano che non vanno mai usate ma che, evidentemente, se riferite a nomadi, extracomunitari e clandestini si può fare una eccezione. Ecco qualche esempio. Dalla Nuova del 25 novembre: “Al servizio mensa di Marcon si sono presentate delle persone, pare zingari...”. Dal Gazzettino del 4 novembre: “la donna ha raccontato di essere stata aggredita da tre individui, forse extracomunitari”. Dal Gazzettino del 22 novembre: “L’uomo aveva i tratti somatici dell’etnia sinti”. Mi spiegate per cortesia quali sono i tratti somatici dei sinti? Prendiamo un esempio: il calciatore Andrea Pirlo che non ha mai nascosto di provenire da questa, chiamiamola, anche noi, etnia, che tratti somatici distintivi dagli “italiani doc” possiede?
Per non parlare, tanto per testimoniare la suprema ignoranza di tanti miei colleghi giornalisti, di tutta la serie di “extracomunitari rumeni” che infestano gli articoli di cronaca nera. Qualcuno glielo dovrebbe spiegare, prima o poi, che la Romania è parte integrante della Comunità Europea! Un canadese può essere definito extracomunitario, ma un rumeno proprio no!
Ultima nota per le lettere al direttore. Certo, queste non le scrivono i giornalisti, ma vi assicuro che sono un indicatore precisissimo della linea politica del giornale perché tra le centinaia che arrivano quotidianamente in una redazione vengono pubblicate solo quelle che, in qualche modo, testimoniano la correttezza dell’approccio politico del quotidiano ai problemi della città. Alle voci discordanti che servono a testimoniare la pluralità, casomai, si lascia spazio nelle colonnina riservata all’opinionista (che non legge mai nessuno). Quella delle lettere invece è, dopo lo sport, la pagina più letta dei nostri giornali. Ebbene, la lettera pubblicata dal Gazzetino il 27 novembre è stupendamente emblematica: “Sovente leggiamo i ben noti e soliti problemi che affliggono Venezia: l’acqua alta e il Mose, il turismo maleducato, il moto ondoso, le grandi navi, Santa margherita, via Piave, i sinti, i cassa integrati di Marghera, i vu cumprà, il tram, la sporcizia dilagante nel centro storico”. Che dire di questo bell’elenco di disgrazie? Qualsiasi commento è superfluo!

Questo che abbiamo sopra riportato è un sunto del lavoro effettuato dal gruppo stampa del l’Osservatorio contro le discriminazioni Unar del Comune di Venezia e presentato in un incontro svoltosi lunedì 10 dicembre al liceo scientifico Giordano Bruno di Mestre. Davide Carnemolla dell’Osservatorio veneziano ha presentato i dati complessivi del monitoraggio sui termini e sui pregiudizi razzisti veicolati dai nostri giornali locali, compreso le “perle” che abbiamo già riportato. Il rapporto è scaricabile dal sito dell’osservatorio all’indirizzo
http://antidiscriminazionivenezia.wordpress.com.
Ospiti d’onore dell’incontro sono stati due giornalisti del calibro di Carlo Berini di Articolo 3 e Giulietto Chiesa presidente di Alternativa. Berini che nella sua città, Mantova, ha organizzato un osservatorio antidiscriminazione che è stato uno dei punti di riferimento per la struttura veneziana, ha messo in guardia gli studenti sul fatto che la discriminazione non riguarda solo categorie come i rom o i migranti ma “è una questione che vi troverete ad affrontare per tutta la vostra vita e che vi colpirà personalmente quando al lavoro sceglieranno un raccomandato al posto vostro o qualcuno vi passerà davanti in una graduatoria senza averne i requisiti. Allora sarà importante imparare a riconoscere l’ingiustizia, affrontarla e superarla così che nessuno che viene dopo di voi ne venga fatto oggetto”. Applauditissimo l’intervento di Giulietto Chiesa che ha parlato dell’informazione nel nostro Paese. Anzi, dell’informazione che non c’è nel nostro Paese. “I telegiornali sono composti per il 5% da notizie false al 95%, per il 45% da pubblicità che come tutta la pubblicità è falsa al 100% e per il restante 50% da intrattenimento che, quando non è inutile, è comunque falso all’80%”. E ha concluso: “L’informazione è controllata da un gruppo ristretto di potenti che possono decidere cosa dire e come. E’ un sistema che non accetta e che non lascia trapelare la realtà dei fatti. Ci mettono davanti agli occhi una realtà virtuale che è totalmente diversa dal mondo reale in cui dobbiamo vivere”.
“Proprio come il film Matrix?” ha osservato uno studente dalla platea.
“Già, proprio come Matrix - ha risposto Chiesa - solo che questo non è un film e non ci sarà nessun Eletto a salvarci. Dobbiamo farlo noi”.

Detenuti curdi in sciopero della fame nell’indifferenza dei media

L’ultima volta che sono passato per Istanbul, all’incirca un anno fa, sono andato a trovare uno dei cosiddetti “avvocati di Öcalan”. Uno di quelli ancora a piede libero, intendo. Si chiama, o si chiamava, Mazlum Dinç. Dico così perché non so più niente di lui. Quando gli ho chiesto di scambiarci le mail per tenerci in contatto mi ha sorriso e mi ha chiesto se davvero pensavo che lui, un “avvocato di Öcalan”, potesse avere una mail senza che il governo turco gliela chiudesse dopo un paio di giorni.
Mazlum aveva appena inoltrato l’ennesima formale richiesta di incontrare il suo cliente, tenuto segregato nell’isola prigione di Imrali. E la sua insistenza, mi spiegò, era già sufficiente per farlo finire in galera con l’accusa di essere un simpatizzante del Pkk. Lo stesso destino degli altri 36 avvocati di Öcalan che, prima di lui, sono finiti dietro le sbarre. Lui - e aveva il coraggio di scherzarci su - era il numero 37. Il suo cliente, Abdullah Öcalan, è stato arrestato il 15 febbraio 1999. Le ultime sue notizie risalgono al luglio del 2011. Quando uno dei suoi avvocati - ora in galera pure lui con l’accusa di aver fatto da tramite tra Öcalan e il Pkk - era riuscito ad incontrarlo per pochi minuti. Il leader curdo stava male. Imbottito di droghe e psicofarmaci, senza possibilità di parlare con nessuno (è l’unico prigioniero dell’isola e gli è vietato scambiare due parole con i carcerieri), senza neppure poter leggere un libro o un giornale, o scrivere non dico una lettera ai figli, ma neppure su un suo quaderno. Eccolo qua, il “terrorista” Öcalan. Già, perché, come mi ha spiegato l’amico Muzlum, scrivere il suo nome senza la definizione di “terrorista” a precederlo, basta e avanza per far finire in galera qualsiasi giornalista.
Altra categoria che, al pari di quella degli avvocati, ci mette niente a farsi trasferire di forza dalla scrivania alla cella, nel Paese di Erdogan. Erdogan. Quello che l’Europa addita come un fulgido esempio di traghettatore di democrazia nell’Islam. Non stupiamoci. Si diceva lo stesso di Mubarak e Ben Alì, e sappiamo che brutta fine hanno fatto. Fatto sta che in tutto questo scoppio di democrazia, avvocati, giornalisti e anche sindaci scomodi diventano presto detenuti. Detenuti altrettanto scomodi, però. Da due mesi, perlomeno 700 prigionieri politici curdi stanno portando avanti uno sciopero della fame sino ad ammazzarsi. Il tutto nel menefreghismo più cosmico dei media nostrani. Raccattando le pochissime notizie che si trovano in rete, non posso non ripensare l mio amico Muzlum e alla gentilezza con cui mi porgeva il tè aromatizzato mentre a voce bassa mi raccontava di come ogni mattina, andando al lavoro, salutasse la moglie e i figli col trasporto dell’ultimo addio. “Attendo di giorno in giorno la chiamata del procuratore. Basta una semplice e apparentemente innocua richiesta di presentarsi di persona per firmare un documento o rilasciare una dichiarazione. Poi ti trattengono con la scusa di accertamenti sino a che montano l’accusa che sei legato al Pkk per il solo fatto di che ti ostini a difendere il signor Öcalan. A questo punto la galera non te la toglie più nessuno”.
Quanti sono i prigionieri curdi in attesa di giudizio o detenuti senza giusto processo nelle carceri turche? Nessuno può dirlo con certezza. Il Governo turco non dà nessuna statistica per il semplice motivo che per lui i curdi non esistono. Si tratta solo di banditi, terroristi, delinquenti comuni. Neanche il Kurdistan esiste. La catena montuosa dalle cime perennemente innevate e i grandi altipiani che si aprono ad est del Paese sono abitati solo da “turchi di montagna” che si ostinano a chiamarsi diversi e a parlare una lingua che non esiste, neppure come dialetto.
Prima di fare tappa ad Istanbul e rientrare in Italia, ero stato a Diyarbakir per seguire qualche udienza del processo ai 155 sindaci accusati di essere... curdi. Il dibattimento è stato brevissimo. Il primo imputato ha preso la parola per rispondere ad una domanda e il giudice gliela ha immediatamente tolta e lo ha rispedito in cella con tutti i suoi compari. Aveva parlato in curdo. Il processo però è continuato lo stesso. L’unica voce era quella dell’accusa. Una voce turca. Poter difendersi nella propria lingua è, assieme alla cessazione dell’isolamento di Öcalan, la richiesta dei prigionieri curdi in sciopero della fame. Una richiesta che il governo di Erdogan non si sogna neppure di prendere in considerazione.
Secondo un lancio di agenzia Ansa del 5 novembre, almeno 144 dei 700 detenuti che hanno aderito allo sciopero sarebbero oramai in condizioni definite “critiche”. Per alcune associazioni umanitarie, i numeri sarebbero ancora più alti e molti prigionieri sarebbero alimentati a forza con vitamine o medicinali. Difficile saperne di più perché i giornali turchi hanno avuto l’espresso divieto di parlare di questa storia e, come ho spiegato, da quelle parti un giornalista finisce agli arresti per molto meno. Sulla nostra sponda di Mediterraneo invece, dove i direttori di giornale costruiscono balle galattiche per lanciare campagne diffamatorie e la chiamano libertà di opinione, non è altrettanto facile per un giornalista finire in galera ma dei curdi che vanno a morire di fame non scrivono niente lo stesso. La censura la può fare lo Stato ma la può fare anche il menefreghismo. In entrambi i casi, l’informazione da diritto è diventata vittima.

Srebrenica al voto, tra nazionalismi emergenti e genocidi negati

C’è anche da esserne contenti. Non tanto per la rielezione di Ćamil Duraković, sindaco uscente di Srebrenica, che alla fin fine era il candidato di un partito notoriamente conservatore e dichiarata ispirazione islamica come lo Sda (Stranka Demokratske Akcije, traducibile come Partito di Azione Democratica). C’è da essere contenti, dicevamo, per la sconfitta dalla sua sfidante serba, quella Vesna Kočević, che in campagna elettorale, nel tentativo di smorzare le proteste dei musulmani, aveva più volte dichiarato che non si considerava una “difensora del negazionismo” e che era “consapevole che a Srebrenica erano stati compiuti numerosi crimini”. Salvo aggiungere subito: “da una parte e dall’altra”.
La parola “genocidio”, evidentemente, non compare nel vocabolario serbo. Quelle 8372 lapidi bianche sotto il cielo di Potočari - numero provvisorio che si aggiorna di mese in mese man mano che vengono riportate alla luce altre fosse comuni -sarebbero solo un “crimine”. Uno dei tanti che sono stati perpetrati durante il conflitto da “entrambe le parti in causa”.
Purtroppo per la candidata serba, quello che è stato compiuto a Srebrenica è proprio un genocidio. Lo testimoniano le fosse comuni preparate ancora prime che l’esercito serbo bosniaco e i gruppi paramilitari al suo seguito, prendessero il controllo della cittadina. Lo testimoniano i resti appartenenti a donne, anziani, bambini e civili trovati nelle cosiddette “fosse secondarie”, così chiamate perché due mesi dopo i massacri, nel tentativo di nascondere l’eccidio, i soldati serbi riaprirono le prime fosse e sparpagliarono i resti degli uccisi in buche più piccole.
Non va neppure dimenticato che la candidatura della Kočević è stata sostenuta da una coalizione composta dall’Sds (Srpska Demokratska Stranka ovvero Partito Democratico Serbo) e dall’Snds (Stranka Nezavisnih Socijaldemokrata, Alleanza dei Socialdemocratici Indipendenti). Il primo era il partito di Radovan Karadzic, attualmente sotto processo alla corte europea dell’Aja per una serie di crimini contro l’umanità tra i quali aver pianificato il “genocidio” - e sottolineo questo termine – dei musulmani di Bosnia, il secondo per quanto riguarda Srebrenica, dichiara candidamente che “là non è mai successo niente. E chi lo afferma è un amico dei musulmani”.
La sfida tra il bosgnacco Duraković e la serba Kočević si è consumata domenica 8 ottobre. Ed è stata una sfida all’ultimo voto. C’è da dire che le autorità della Republika Srpska avevano fatto di tutto per favorire la candidata nazionalista. Le incredibili lungaggini del conteggio per un paese con neppure 8 mila abitanti, sono quantomeno sospette. Otto giorni di attesa senza avere ancora la conferma ufficiale della vittoria di Duraković sono un po’ troppi anche per la Bosnia Erzegovina ed è comprensibile che negli osservatori nasca qualche perplessità. Poi ci sono le denunce di varie decine di sostenitori della Sda che giurano che gli è stato impedito l’accesso alle urne per cavilli burocratici. Ma soprattutto c’è la contestatissima legge, varata poco prima della tornata elettorale, che consente il voto ai soli residenti. In un Paese come l’Italia, questo sarebbe nomale, anzi auspicabile nella prospettiva che venga finalmente concesso questo fondamentale diritto democratico anche ai cittadini migranti. Ma in Bosnia, questo significa escludere dalle urne le migliaia di profughi che sono stati cacciati dalla propria casa dalla pulizia etnica. Per questo Duraković, in campagna elettorale, ha più volte dichiarato che se vincesse la sua sfidante sarebbe come se a Srebrenica “avesse vinto la politica del genocidio” e l’allontanamento, se non l’uccisione, dei musulmani “avrebbe ottenuto lo scopo di portare il paese nella sfera di influenza serba”. Duraković ha tirato la sua campagna con lo slogan “io non abbandono Srebrenica” e ha telefonato personalmente a centinaia di profughi musulmani per invitarli a registrarsi nelle liste elettorali di Srebrenica. Una mossa che gli ha consentito di mantenere il municipio. Le urne avevano assegnato la vittoria alla serba per 3400 voti circa contro 2900 ma le schede che sono affluite per posta - all’incirca 1800 - hanno spostato la bilancia in suo favore e, a conteggio pressoché ultimato, Duraković conduce di 300 circa voti. Srebrenica quindi non avrà per sindaca una nazionalista serba. E di questo, come abbiamo detto in apertura, c’è solo da essere contenti. Non c’è niente di cui essere contenti invece per come sono andate le elezioni amministrative nel resto della Bosnia Erzegovina che hanno visto il trionfo delle destre nazionaliste e di ispirazione religiosa. A Visoko, l’Sda è riuscito ad eleggere la candidata musulmana Amra Babić. Sarà il primo sindaco di una città europea ad andare in consiglio comunale col velo islamico. Le formazioni dichiaratamente inter etniche come l’Sdp (Socijaldemokratska Partija, Partito Socialdemocratico) hanno subito una pesante sconfitta. Come partiti di governo hanno pagato lo scotto di una recessione mondiale di cui non hanno particolari colpe se non quella di volerla affrontare seguendo i dettami della Comunità Europea, di cui aspirano a far parte. Una politica fatto di tagli al welfare e di privatizzazioni spinte. Hanno pagato soprattutto l’incapacità di dare alla gente una vera prospettiva sul futuro di un Paese in cui, se non c’è più la guerra, di certo non è scoppiata la pace. Proprio quello che non manca ai partiti nazionalisti che al contrario sanno parlare efficacemente alla pancia della gente proponendo una ricetta tanto semplice quanto immediata, comprensibile e soddisfacente (peccato che sia anche quella sbagliata). La colpa di questo stato di cose, dicono, è dell’altra etnia. Quella che ci ha fatto guerra, quella che ha compiuto tanti crimini e che ancora non ce li riconosce (ed è per questo che noi, a loro, non riconosciamo i nostri, anche quando sono evidenti come il sole). Il genocidio non è mai esistito. Chi lo afferma sta dall’altra parte ed è un traditore. Tutta qua la piattaforma politica dei tre partiti nazionalisti che, non certo per caso, hanno trionfato ciascuno sui municipi dove la sua etnia è prevalente: l’Hdz (Hrvatska Demokratska Zajednica Bosne i Herzegovine, Unione Democratica Croata della Bosnia Erzegovina) per i croati, l’ Sda per i musulmani e lo Sds per i serbi.
Concludo sottolineando due aspetti. Il primo è che tutti e tre questi partiti promettono un futuro irrealizzabile se non dopo un’altra guerra. E cioè la costituzione di uno Stato solo per i musulmani (per quando riguarda l’Sda), o di staccarsi dalla Bosnia per unirsi alla Serbia (Sds) o alla Croazia (Hdz). Proprio quello che è successo nelle elezioni dei primi anni ’90. Quelle che hanno preceduto la guerra.
La seconda questione da sottolineare è che nessuno dei tre partiti si dichiara esplicitamente una formazione conservatrice. Preferiscono la dizione di “partito nazionalista” e i loro membri si definiscono “patrioti”. Per certi versi sono molto simili alla Lega, soprattutto nel linguaggio. Non è un caso che vari esponenti del Carroccio abbiano in più occasioni manifestato solidarietà e apprezzamento ai loro esponenti, in particolare, dell’Sds. E non di rado a dichiarati criminali di guerra come il boia di Srebrenica Ratko Mladic (“Un vero patriota” a sentire quella sagoma di Borghezio). Ma, come per la Lega nostrana, più che di estrema destra questi partiti non possono non rivelarsi, perché fanno dell’esclusione il loro cavallo di battaglia. Un elemento qualificativo della sinistra invece, è - o dovrebbe essere - l’idea che i diritti sono di tutti o non sono di nessuno. Votando il “patriota etnico” invece del candidato, che so?, socialista, ambientalista o anche liberale, gli elettori finiscono semplicemente per votare un fascista. Serbo, croato o musulmano che sia, ma pur sempre un fascista. Un fascista “invisibile”. Magari un fascista che non sa neppure di essere fascista ma che alla fine porterà avanti una politica fascista perché se si incendia la miccia dello scontro etnico viene meno qualsiasi scenario di convivenza democratica.
Se i serbi votano i serbi perché son serbi, i musulmani i musulmani perché son musulmani e i croati i croati perché son croati, tanto vale non perdere più tempo con le urne e, invece dei voti, contare semplicemente le teste.
Ne ho viste tante, al centro di identificazione della vittime di Tuzla. Tutte staccate dai corpi.
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