Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Rwanda, 18 anni dopo il genocidio

La primavera in Rwanda si tinge di viola. E’ il colore del lutto. E’ il colore del genocidio a colpi di machete che 18 anni fa, nell’aprile del ’94, insanguinava il Paese delle Mille Colline. Torrenti di sangue trascinavano a valle i corpi macellati dei tutsi, sino al lago Vittoria dove si impigliavano nelle reti dei pescatori. Oggi le tracce delle fosse comuni scavate sulle sponde ugandesi del lago da cui nasce il Nilo, culla di civiltà, sono state cancellate per non turbare le coscienze dei turisti che non riuscivano a dare un senso ad una tale ecatombe. Non facciamone una colpa. E’ impossibile farsi anche una pallida idea di cosa significa un milione di morti ammazzati in meno di tre mesi. E’ come parlare delle stelle. Come dire che Proxima Centauri dista “solo” quattro milioni di anni luce, mentre Aldebaran è 500 volte più luminosa del sole. Numeri esatti ma senza senso per il nostro limitato sentire comune. Ma mai, mai nel corso della storia dell’uomo, sono state uccise così tante persone in così poco tempo e con mezzi così banali come machete, coltelli da cucina, bastoni e martelli. Non era una scelta di campo. La Banca Mondiale aveva negato il finanziamento per le più pratiche armi da fuoco, sostenendo che il governo dell’Hutu Power non era economicamente solvibile. Per risolvere le sue faccende interne, poteva concedere al Rwanda al massimo un prestito per quegli 80 mila machete di seconda mano che la Cina, generosamente, era disposta a fornire a prezzi scontati. Di necessità virtù. Così è cominciato quello che è stato definito il “genocidio dei poveri”. Ma non c’era nessun’altra ragione che giustificava l’uso dei machete se non che le pallottole costavano un sacco.

IL GRANDE MAUSOLEO
Adesso, un milione di morti dopo, non è più possibile pensare di visitare il Rwanda seguendo un itinerario solo naturalistico, pure se le profonde valli coltivate a tè, a caffè o a cacao si aprono al viandante in spettacolari panorami che non hanno uguali in tutto il continente. Ogni strada ha le sue lapidi di cemento per ricordare i blocchi stradali dei miliziani dell’Interahamwe (letteralmente “Colpiamo insieme”) che filtravano la popolazione in fuga e non lasciavano scampo a chi non poteva dimostrare di essere un hutu fedele al regime. E per provarlo, doveva lui stesso macellare un tutsi. Ogni villaggio, anche di poche capanne, ha il suo monumento funerario a cifre tonde. Cinquemila morti qua, tremila di là. Si va ad occhio. Alla “più o meno”. Ancora oggi, capita che un contadino intento a piantare un banano scopra una fossa comune con qualche decina di teste mozzate e vari pezzi di uomo. Con una recente legge, il governo rwandese ha deciso di smettere di innalzare monumenti funerari sui luoghi degli eccidi e di tumulare gli ultimi ritrovamenti nel grande mausoleo innalzato sopra una collina della capitale, Kigali. Davanti al fabbricato che ospita una terrificante esposizione che prova a raccontare la storia del genocidio, c’è una enorme fossa con una lastra mobile di marmo bianco. Almeno una volta alla settimana, qualche gruppo di sopravvissuti vi si reca per depositare casse di ossa recuperate da qualche parte, sotto le mille colline di quel Paese che negli anni ’70, quando le multinazionali ci investivano camionate di dollari per lo “sviluppo economico del terzo mondo”, veniva chiamato la “Svizzera d’Africa”. Proprio come il Libano per il Medio Oriente. E’ una definizione che porta male, evidentemente. Ti viene da riflettere sul come mai alla Svizzera vera non succeda mai niente.

I FUNERALI DI CHARLES
La cerimonia di tumulazione è semplice. Un impianto stereo suona l’inno nazionale, dei soldati in alta uniforme spostano la lapide e calano la cassa con i resti, i sopravvissuti piangono. Ho buttato l’occhio dentro la fossa. E’ immensa ma c’è ancora un bel po’ di posto. “Ci vengo tutte le volte che posso e che seppelliscono qualcuno – mi racconta un signore di mezza età -. Io ero a Londra a studiare medicina all’epoca. Mia madre, mio padre, i miei due fratelli, le mie tre sorelle, e cugini, zie… li hanno ammazzati tutti. Di alcuni ho identificato e recuperato i corpi ma di altri, come mia madre, ancora no. Adesso vengo qua e spero di capitare, magari per caso, al suo funerale”. E’ vestito elegante, il signor Charles. Preferisce essere chiamato all’inglese che alla francese, mi spiega, anche se parla correttamente tutte e due le lingue oltre, si capisce, al kinyarwanda, la lingua locale. Indossa un bel completo grigio e una cravatta viola con fazzolettino in tinta che gli spunta dal taschino. Porta con sé un grande quadro incorniciato in argento che ritrae una coppia in posa per una foto ricordo, come quelle che si andavano a fare per certe ricorrenze speciali nello studio di un professionista. “My mother, my father”, mi dice. Quando è tornato dall’Inghilterra non ha trovato più niente di quello che aveva lasciato. La casa devastata, la famiglia distrutta. “I vicini che ci erano amici prima del genocidio non avevano il coraggio di guardarmi. E io non avevo il coraggio di guardare loro perché non potevo sapere che parte avevano avuto nel massacro dei miei. Non ce l’ho più fatta a vivere nel paese dove sono nato e mi sono trasferito nella capitale a fare il medico”.

VITTIME O CARNEFICI?
Non si viaggia leggeri in Rwanda. Non si può non chiedersi continuamente come sia stato possibile un tale scoppio di violenza genocida. Non si può non chiedersi che parte avremmo avuto noi se fossimo stati là, nel paese delle Mille Colline, in quell’aprile di 18 anni fa. Vittime o carnefici? Non erano possibili né tollerate, vie di mezzo. Quando l’esercito ha ordinato a due bulldozer di abbattere la chiesa di Nyange, dove si erano rifugiati alcune centinaia di donne tutsi con i loro bambini, il primo conducente si è rifiutato ed è stato immediatamente ucciso con una pallottola in testa. Il secondo ha messo in moto il suo mezzo e ha buttato giù le pareti seppellendo tutti vivi.

“COSE INSEGNATE DALLA COLONIZZAZIONE”
A differenza di altri e più celebrati genocidi come la shoah, perpetrato da carnefici “professionisti” come le Ss dei lager, quello del Rwanda è stato un genocidio di popolo portato a compimento dalla gente comune: i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Anche i parenti, considerato che moltissime famiglie erano miste. Hutu contro tutsi. Ma anche hutu contro quegli hutu che non ci stavano e che si rifiutavano di massacrare col machete o con i martelli le “blatte” tutsi. Oggi le chiese dove i tutsi si rifugiavano sperando inutilmente di essere risparmiati sono sconsacrate e stipate dei loro resti. Le ossa spaccate, i crani sfondati ammucchiati a ridosso delle pareti, i vestiti oramai ammuffiti dove vi hanno scavato la tana grossi ragni, sono appesi al soffitto e raccolti in pile davanti agli altari. L’odore è nauseante ed è dura passarci in mezzo senza dare di stomaco. Se chiediamo ai sorveglianti il perché di tutto questo, che l’esposizione dei morti non fa parte della cultura africana, ti rispondono che neppure il genocidio lo era. “Sono tutte cose che ci sono state insegnate dalla colonizzazione”. Fuori, coperto da stoffe viola, si alza l’immancabile monumento commemorativo. “Never again” ci trovate scritto. “Mai più”. Sempre in lingua inglese. Anche il genocidio rwandese può essere letto in funzione di quella guerra tra il capitalismo anglofono e quello francofono eredi della colonizzazione dell’Africa. Tra un Paul Kagame, leader del Rwandan Patriotic Front (Rpf), sostenuto dagli Usa e il governo dell’Hutu Power spalleggiato dall’allora presidente francese, il socialista Francois Mitterand.

LA RICOSTRUZIONE
Il Rwanda di oggi è un Paese che sta sostituendo il francese con l’inglese anche nella cartellonistica stradale. Anche i capitali stranieri investiti hanno una diversa provenienza rispetto a vent’anni fa. Più dollari e yuan che franchi (o euro), per intenderci. Soldi che comunque sono andati a finanziare anche opere meritorie. Il Paese offre ospedali di buon livello, per gli standard africani, gratuiti e aperti a tutti. Ha scuole per bambini e strade neanche tanto disastrate (se siete arrivati in auto dal Congo, vi sembreranno autostrade). Le Mille Colline sono coltivate sino a dove è possibile coltivare. Tutte le persone che ho conosciuto sanno leggere e scrivere e mi hanno lodato il programma di alfabetizzazione che il presidente Kagame ha realizzato, grazie anche a cospicui aiuti internazionali. Le Banca Mondiale, la stessa che ha fatto il bonifico per l’acquisto dei machete, si è impegnata a sostenere l’esportazione di tè e caffè. Perlomeno fino alla prossima “crisi”. Ma oggi, anche chi non ha niente, può scendere le valli ed immergersi nelle sterminate piantagioni di tè, raccogliere le piccole foglie e ricavarne quantomeno il minimo vitale. In Africa non è poco.

EFFICIENZA AFRICANA
La pubblica amministrazione del Rwanda, se diamo credito alle statistiche condotte da alcune organizzazioni per i diritti civili internazionali, è la meno corrotta dell’Africa: Nell’hit parade internazionale sembra sia anche meno corrotta di quella italiana – piuttosto giù di classifica – e di poche tacche sotto Svezia e Danimarca. Il suo parlamento è il primo nella storia dell’umanità ad avere, come elette, più donne che uomini ed è l’unico Paese centroafricano non solo a non perseguitare penalmente ma neppure a discriminare legalmente gli omosessuali. Inoltre ha da poco varato una legge contro la violenza nei confronti delle donne che è considerata tra le più avanzate del mondo. Le elezioni che per la terza volta consecutiva hanno visto trionfare il presidente Paul Kagame con una di quelle percentuali che una tempo ci divertivamo a definire “bulgare”, si sono svolte, a giudizio degli osservatori Onu, senza neppure troppi brogli. E’ questo il Rwanda nato dal genocidio? Di sicuro, Paul Kagame e il suo Rpf hanno avuto, politicamente parlando, vita facile nel gestire i resti di un Paese terrorizzato e reduce da un macello. Viene anche da riflettere su tutti quei “ritardi” nell’avanzata dell’esercito del Fronte Patriottico, in quella tremenda estate di 18 anni fa, nonostante il comandante di quello sparuto gruppo di Caschi Blu rimasto in Rwanda, Romeo Dallaire, supplicasse Kagame di fare presto, se voleva trovare ancora “qualcuno di vivo”. Freddo calcolo militare o spietato ragionamento politico?

PAUL KAGAME
Naturalmente, anche queste medaglie hanno il loro rovescio. Tra tutti i governi africani, quello di Paul Kagame è l’unico che non si preoccupa solo di controllare le azioni dei suoi cittadini ma anche, e soprattutto, quello che pensano. Il genocidio è materia di studio obbligatoria in tutte le scuole in tutti i livelli. E la risposta giusta alla domanda finale d’esame “Chi ha posto fine al genocidio?” è sempre e solo “Paul Kagame”. Per la lode bisogna aggiungere “amato padre della Patria”. L’iscrizione al partito di governo per gli adulti non è obbligatoria ma fortemente consigliata. I giornali di opposizione nascono liberamente ma sono sempre costretti a chiudere dopo pochi numeri. Giornalisti critici e avversari politici, prima o poi, finiscono in galera. E l’accusa infamante che apre le porte del carcere è sempre la stessa: negazionismo. E’ questa la parola magica. Il genocidio è un nervo scoperto. Chi osa criticare il presidente Kagame che ha posto fine allo sterminio non può che essere uno che nega il genocidio e offende la memoria di quel milione di morti ammazzati. Basta una accusa generica di negazionismo e si finisce dritti sotto processo. Quei pochi che mormorano che oggi in Rwanda vige un “razzismo opposto”, e le cariche più prestigiose, i lavori più pagati sono prerogativa esclusiva dei tutsi, lo fanno dall’estero, dalla Francia. Son cose che qui non si possono neppure bisbigliare.

TUTSI E HUTU
E d’altra parte, per chi ancora vive nel Paese delle Mille Colline, termini come tutsi e hutu sono diventati un tabù. Scomparsi non solo dalle carte di identità, dove ce li avevamo messi i colonizzatori belgi preoccupati di dividere la popolazione per controllarla meglio, ma anche dai libri di storia e dagli stessi musei etnologici. Solo nel mausoleo del genocidio ne ho trovato traccia. Difficile anche capire se davvero tutsi e hutu possono essere definite due etnie diverse, considerato che condividono la stessa lingua e gli stessi miti. Una ricerca etnologica compiuta ai tempi della colonizzazione dai Padri Bianchi belgi, preoccupatissimi di trovare un qualcosa che distinguesse gli uni dagli altri, stabilì solo che gli hutu avevano in media il naso di due millimetri più piccolo dei tutsi. Se si fa un simile “studio scientifico” tre veneti e lombardi si trovano più differenze! Probabilmente, come ha osservato Ryszard Kapuściński, più che di etnie è corretto parlare di caste. Pure se ben diverse da quelle stagne dell’induismo. “I tutsi erano allevatori, gli hutu contadini – mi ha spiegato un ragazzo, studente di legge alla National University di Butare che ho conosciuto al museo dell’Olocausto – ma se il re per premiarti ti regalava una mandria di ankole (le tipiche vacche centroafricane dalle enormi corna.ndr) tu, hutu, diventavi immediatamente tutsi”. Soltanto caste quindi. Soltanto una ingombrante eredità di un tempo che non c’è più ma che sarebbe bastata a scatenare i massacri.

“SONO SOLO UN RWANDESE”
Quando mi azzardo a chiedergli se lui viene da una famiglia tutsi o hutu, il ragazzo mi guarda inorridito e mi balbetta che la mia domanda non ha più senso. Che lui è solo un rwandese tra i rwandesi e che compie un pericoloso errore chi cerca di spiegare quanto è accaduto affidandosi alle categorie tribali di “tutsi e hutu”. Con lui visito l’ultima ala del mausoleo dedicata agli altri genocidi che hanno insanguinato gli ultimi decenni della storia dell’umanità: l’olocausto nazista, gli armeni, il Darfur, la Cambogia… Nel portone d’uscita, in alto, a caratteri cubitali, ancora la scritta “Never again”. Ripenso a Primo Levi. Non cercate ragioni. E’ accaduto. Accadrà ancora.

Cinque sporche parole: il linguaggio della discriminazione

A Lampedusa, all’epoca in cui gli sbarchi facevano notizia, ho conosciuto una collega giornalista della televisione. Si piazzava davanti alla telecamera con una espressione sofferente ed allarmata che cominciava e finiva con la diretta. Quindi cominciava a sciorinare tutto un vocabolario da sbarco pieno zeppo di “invasioni” e di “clandestini”. I suoi servizi erano un completo elenco di tutti i rischi, i pericoli e i costi per il Paese che, secondo lei, arrivavano dal mare. A telecamere spente, c’è da dire, la collega diventava quasi una persona normale. Non dico simpatica ma neppure così insopportabile. Così un bel giorno le ho chiesto perché mai usasse continuamente il termine “clandestino” invece di, che so?, “profugo”, “persona in fuga dalla guerra” o altro. La collega ha tirato un bel sospiro e poi mi ha risposto: “Guarda, io sarei anche d’accordo con te. Ma il caporedattore mi ha ordinato espressamente di chiamarli clandestini e di mandargli servizi da tenere la gente incollata al teleschermo”. Questo è un classico esempio di malafede. C’è poco da aggiungere. In ogni mestiere si trova sempre qualcuno convinto che più farà da servo e più farà carriera.
Ma sappiate, quando leggete che il tale luogo “è malfamato e frequentato da molti extracomunitari” (cito la Nuova Venezia) che il più delle volte la malafede non c’entra. E’ semplicemente cattivo giornalismo. Cattivo giornalismo dettato dalla fretta, dall’ignoranza, dalla passione per i titoloni sanguinolenti, da un po’ di cialtronaggine e da tanto menefreghismo. E’ il giornalismo delle 4 S: sesso, sangue, soldi e sport. Fuori di qua non c’è notizia.
Tutto questo, se non giustifica, perlomeno spiega l’utilizzo di termini che sviliscono l’etica deontologica. A partire dal secondo articolo della legge istitutiva dell’Ordine, quello che sancisce il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati, in quando contengono un giudizio preconcetto su determinate categorie che nulla ha a che vedere con la realtà. Tutto possiamo scrivere dei profughi della guerra libica arrivati a Lampedusa ma non che siano “clandestini” semplicemente perché non possono essere definiti tali in nessuna accezione del termine.
Usando termini discriminanti, oltre che ad alzare barriere e a fomentare xenofobia e razzismo come sa fare molto bene certa politica, il giornalista dimostra di non saper attenersi ai fatti e di non saper usare le parole che meglio e più correttamente descrivono il fatto di cronaca. Mi ci metto pure io tra i peccatori. Quando frequentavo la redazione del Mattino di Padova avevo preso l’abitudine di scrivere “tossico” invece di tossicodipendente. Perché? Perché facevo prima, perché guadagnavo un po’ di righe con una parola più corta, perché usando toni allarmistici mi sembrava di scrivere articoli più importanti e perché credevo di venir letto di più, perché tutti li chiamavano così, i tossici. Per mia fortuna, l’allora capo redattore Aldo Comello mi fece una gentile ma decisa lavata di capo: quelle persone non sono velenose o “tossiche”, non è nostro compito dare giudizi su di loro ma solo di raccontare la notizia nella cronaca. Se ne sono vittime o protagonisti, chiamiamoli per quel che sono: persone dipendenti da sostanze stupefacenti. Chi legge il giornale, mi disse, ha il sacrosanto diritto di farsi una sua opinione senza venir influenzato dai tuoi stupidi preconcetti. Niente da obiettare. Una bella lezione. Ma non saprei dire quanti altri caporedattori si comporterebbero così oggi.
Non nascondiamoci dietro il fatto che “tanto... poche persone oggi leggono i giornali”, come mi ha detto con una scrollata di spalle un collega del Gazzettino. Gli avevo fatto osservare, in occasione di un incontro pubblico, che “Caccia ai covi dei clandestini” non è esattamente un titolo corretto da sparare in prima pagina (soprattutto se poi gli arrestati sono tutti italianissimi). Le parole, e le parole scritte in particolare, condizionano il nostro modo di pensare sino a ridisegnare la stessa realtà, sdoganando razzismi e fomentando xenofobie. Non è neppure vero, tanto per citare una seconda obiezione, che il giornalista deve usare le parole che usa la gente. Sui giornali trovare scritto “prostituta” e mai “puttana”. Ripulire il vocabolario per non rimanere ingabbiati dai pregiudizi, è l’obiettivo dell’appello dall’associazione Giornalisti contro il razzismo. Il testo integrale lo potete leggere e magari pure sottoscrivere sul sito www.giornalismi.info/mediarom/. Il primo firmatario è Lorenzo Guadagnucci, autore del libro “Parole sporche”, edito da Altraeconomia. L’appello comincia col prendere atto di un “diffuso disagio nel mondo dei media” sempre più consapevole che "i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia" proprio attraverso l’uso indiscriminato di parole che contengono in sé i germi dell’intolleranza. I Giornalisti contro il razzismo individuano, come punto di partenza, un “glossario minimo” di termini di uso comune che chiunque faccia informazione, ma non solo, dovrebbe disimparare a scrivere. Le cinque parole sporche sono: clandestino, vu’ cumprà, extracomunitario, nomade, zingaro.

Clandestino
Se volete intraprendere la carriera di clandestino dovete per forza di cose nascere figli primogeniti di una nobile famiglia inglesi. Una congiura dello zio cattivo, che vuole mettere le mani sul vostro patrimonio, vi costringerà ad imbarcarvi segretamente in un veliero ed a salpare per i mari del sud. Nel corso della traversata, dopo essere stati scoperti e spediti a palar patate nella cambusa, vi tocca salvare la nave dalla tempesta per entrare nelle grazie del burbero capitano di cui finirete per salvare e poi sposare la bella figlia che si fa immancabilmente rapire dai pirati. Ecco. Questi sono i veri clandestini. Fuori dai romanzi ottocenteschi e dai fumetti d’avventura, il termine viene usato in maniera scorretta. Certa stampa lo usa per indicare i migranti non in regola col permesso di soggiorno, magari perché esclusi da quote d’ingresso troppo basse o perché ancora in attesa di una risposta alla richiesta di asilo. La parola ha una valenza fortemente negativa ed evoca segretezza, illegalità, contatti con la criminalità, malintenzionati che vivono nascosti e girano solo di notte. Ed invece i “clandestini” vivono come noi alla luce del sole, come noi lavorano o cercano di lavorare e, più di noi, sono vergognosamente sfruttati e meno tutelati proprio per il fatto di non essere in regola con i documenti. A qualcuno fa comodo così.

Extracomunitario
All’origine era un termine burocratico usato per indicare i cittadini di Paesi esterni all’Unione Europea. Siccome il prefisso “extra” indica una esclusione, la parola ha finito per identificare solo i migranti provenienti da Paesi poveri. I banchieri svizzeri non sono mai extracomunitari. Da notare che nel giornalismo sportivo il termine viene usato correttamente. Capita di leggere che “la squadra non può purtroppo schierare il giocatore Tal dei Tali di nazionalità canadese in quanto ha già raggiunto la soglia federale dei tre extracomunitari”. Non così per la cronaca. Se leggete che la Lega vuole cacciare gli extracomunitari, potete mettere la firma che non intende i soldati Usa della caserma Dal Molin. Quelli evidentemente non sono extracomunitari come gli altri. E per altri versi, ci ha pure ragione!

Vu’ Cumprà
Il termine intende marcare la scarsa padronanza della lingua italiana dell’ambulante sottolineandone una presunta ignoranza. In realtà, gli ambulanti che incontriamo negli angoli delle nostre strade non sono affatto ignoranti, molti sono come minimo diplomati e tutti riescono ad esprimersi perlomeno in tre lingue. Lo stesso non si può dire della media degli italiani che in inglese a malapena ti sa spiaccicare “Ve pen is on ve teibol”. Va aggiunto che il termine ha origine nella spiagge marchigiane dove, in dialetto, “Vuole comperare?” si dice proprio “Vu’ cumprà?” L’ambulante altro non faceva che adoperare la parlata del posto. Il razzismo che sta dietro questo termine ce lo mette tutto chi lo usa.

Nomade
Nei nostri quotidiani, il termine da origine a degli ossimori di incomparabile bellezza. “Arrestato nomade residente nel padovano”, cito sempre la Nuova Venezia che non mi delude mai. Oramai la parola viene usata come un sinonimo di delinquente. Nei fatti, molti dei “nomadi” citati non sono affatto nomadi. Lo stesso nomadismo tra i sinti e i rom oggi è nettamente minoritario ed imputabile solo al fatto che non hanno un luogo in cui fermarsi, più che ad una scelta di vita che andrebbe comunque rispettata al pari di tante altre. L’uso fuorviante ed indiscriminato che si è fatto di questo termine ha coperto quella vergognosa politica di segregazione territoriale che ci ha resi famosi in Europa come il “Paese dei campi nomadi”.

Zingaro
O sono rom o sono sinti. Dire “zingaro” è accumulare due culture diverse dentro lo stesso insulto razzista. Bisogna comunque osservare che, come gitano o zigano da cui deriva, questa è una parola che viene da lontano e ha percorso, non necessariamente con connotazioni negative, anche le strade della letteratura, della musica e della cinematografia. Personalmente, sin da quando ascoltavo Claudio Lolli che li cantava “felici in piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”, non ho mai caricato il termine di valenze pregiudiziali. Cosa che, al contrario, stanno facendo con lucido razzismo quelle forze politiche, e non mi riferisco solo alla Lega o alla destra, che cercano di costruirsi fortune elettorali fomentando odi e paure contro gli “zingari” di turno. La storia, purtroppo, non ci ha insegnato niente.

Quei respingimenti di cui nessuno parla

Qualche volta, nei giornali, hanno anche il coraggio di chiamarlo “rimpatrio”. Duemila battute scritte in fretta su una velina della Questura per riempire uno spazio in terza di cronaca sotto un titolo a due colonne “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia”. E questione risolta. Proprio come se fosse la Grecia, la patria di quei “clandestini”. Proprio come se si fossero imbarcati rischiando la pelle, aggrappati sotto il motore di un tir, per fare una goliardata e vedere se riuscivano ad attraversare l’Adriatico senza pagare il biglietto.
E invece no. La questione non è affatto risolta qua. Non stiamo parlando di goliardi ma di uomini, donne e bambini in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea. Guerre sulle ragioni delle quali nessuno in Europa può affermare di avere la coscienza pulita. Stiamo parlando di persone disperate con migliaia di chilometri di fame, sfruttamenti ed ingiustizie sulle spalle, stiamo parlando di ragazzini come Zahergettati dalla stessa famiglia al di là dei confini solo par dar loro qualche speranza di sopravvivere. Sono questi i famosi “clandestini” che l’Italia rispedisce in Grecia come neppure un pacco postale che, perlomeno, può sempre godere di una garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet.
Quale futuro attende questi migranti “rimpatriati” in Grecia? Carcere, botte, ancora violenze, ancora umiliazioni e sofferenza, nuove deportazioni. Li attende quello che non le associazioni umanitarie ma la stessa Corta di Strasburgo nella sentenza del gennaio 2011 con la quale ha condannato la Grecia, ha definito “trattamenti inumane e degradanti” in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. E siamo noi, noi italiani, i primi responsabili di tutto ciò, ricacciandoli in mare dai porti di Brindisi, Ancona, Bari e soprattutto Venezia, invece di dare loro quel minimo di assistenza indicato da tanti testi di legge internazionali e dell’Unione europea. Quante persone rimandiamo ogni anno in Grecia e, da lì, a incontrare il loro destino nei Paesi d’origine da cui hanno inutilmente cercato la salvezza? I numeri dei respingimenti sono stati ufficializzati questa mattina, mercoledì 28 marzo, in una conferenza stampa organizzata dall’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar eil Comune e affidato all’Associazione SOS diritti. I dati, ottenuti grazie all’impegno dell’Osservatorio, provengono dalla stessa Prefettura di Venezia e dal CIR, che ha lavorato al porto fino alla fine del 2011.
“Nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 - ha spiegato Alessandra Sciurba, responsabile dell’osservatorio veneziano – abbiamo finalmente la certezza che perlomeno 419 persone sono state respinte con la prassi dell’affido al comandante della nave senza aver avuto modo prima di esporre la propria situazione al personale competente per inoltrare una formale domanda di asilo. Ricordiamo che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement”.
I dati incrociati di Cir e Prefettura, insomma, dimostrano matematicamente che su più di 600 persone respinte, la stragrande maggioranza non ha incontrato né mediatori né interpreti, ed è stata rimessa a bordo delle navi senza avere avuto alcuna possibilità di essere ascoltata.
Secondo la relazione dell’Osservatorio, che potete scaricare e leggere in allegato, questa pratica di respingimento che non esitiamo a definire non solo illecita ma anche illegale, è continuata anche nel 2011: tra gennaio e ottobre, tra le persone respinte, almeno 155 hanno subito la stessa sorte. “Contro l’Italia è pendente alla Corte Europea per il diritti dell’uomoil ricorso di 35 migrantirespinti da Venezia e dagli altri pori dell’Adriatico, circa metà dei quali minorenni.
"La nostra preoccupazione riguarda la discriminazione nell’accesso ai più fondamentali diritti, come quello alla vita, alla sicurezza personale, oltre che quello a un ricorso effettivo e a non subire espulsioni collettive - conclude Alessandra Sciurba - Attendiamo a breve la sentenza della Corte, e intanto ricordiamoci che il nostro Paese è già stato condannato per i respingimenti in Libia e che queste pratiche non sono nella sostanza diverse”.
Alla conferenza stampa, svoltasi al municipio di Mestre, hanno partecipato anche il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore alla pace Gianfranco Bettin. Simionato ha parlato dell’effettiva difficoltà per l’amministrazione comunale di intervenire in una zona franca come il porto dove i diritti sono a discrezione della polizia portuale e gli stessi operatori messia disposizione dal Comune sono spesso messi nell’impossibilità di svolgere il loro lavoro. Ha sottolineato inoltre come si tratti non della responsabilità del singolo operatore di polizia, ma di un sistema che segue evidentemente direttive nazionali. In questa situazione, anche una città storicamente aperta come Venezia fa molta fatica a tutelare i diritti umani.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Gianfranco Bettin ha commentato: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso denunciato dall’Osservatorio, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. L’Osservatorio ha in questo senso lanciato un appello ai nuovi responsabili politici, cui si sottopongono questi dati nella speranza di un intervento che finalmente possa muoversi in una direzione diversa.
Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Torneranno i nostri porti ad essere quello che sono sempre stati, porte aperte verso altri mondi e altre culture e non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità del momento? Il Comune di Venezia, va detto, fa quello che può. Ma non può essere lui a risolvere il problema delle migrazioni.
E’ indispensabile un lavoro congiunto di tutto il sistema politico e amministrativo, dall’Europa al Governo italiano, passando per una Regione che, parlando per quella del Veneto, non ha mai messo nei primi punti della sua agenda la tutela dei diritti umani. E non scrivo “dei diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti. La speranza in un cambio di rotta volto a ripristinare la legalità, ma soprattutto l’umanità nei nostri porti, sta tutta nel nuovo Governo.
Con quello precedente non c’era speranza. Con questo... stiamo a vedere.

Quando le parole diventano pregiudizi

Partiamo da qualche perla. La prima ce la regala la Nuova Venezia. Un articolo del 16 novembre parla di episodi di violenza all’interno dei supermercati. Leggiamo: “La tensione sale nelle ore pasto, verso le 12, ma soprattutto alle 19.30, quando gli extracomunitari sono tanti e il pericolo è tangibile”. Qualche riga più in basso, il giornalista tira le somme di una retata della polizia in questo covo di pericolosissimi extracomunitari: due individui “sono stati individuati e denunciati per ubriacatura molesta, si tratta di un tedesco e un uomo di Marghera”. Non vale neppure la pena di farci dell’ironia. Ancora dalla Nuova. Il 14 febbraio titola “Rc auto scadute da mesi. Decine di auto sequestrate”. Di primo acchito vien da pensare che in un articolo del genere non dovrebbero starci razzismi o pregiudizi neppure a volerceli ficcare di forza, vero? Sbagliato. La Nuova non ci delude mai in quando a xenofobie gratuite. “Tra gli automobilisti finiti nella rete dei controlli ci sono anche persone del posto, e invece ben pochi extracomunitari, il contrario dunque di quello che viene detto e sussurrato”. Capito che rigor di logica? I controlli dimostrano che la grande maggioranza dei migranti è a posto con l’assicurazione e che ti fa l’articolista (non chiamiamolo giornalista, per carità)? Si stupisce perché quello che “si sussurra” è che un “extracomunitario”, per definizione evidentemente, non può essere in regola con la legge! Di sicuro i controllori non hanno verificato a sufficienza! Due giorni dopo, sempre la Nuova riprende il discorso. Evidentemente che siano solo gli italiani a non pagare l’assicurazione non gli va proprio giù, e scrive “Quello che stupisce è che non sono extracomunitari i trasgressori trovati e sanzionati. Nella stragrande maggioranza, eccetto un paio di casi, uno di Gorizia e un extracomunitario, ma sposato con una del posto, sono italiani, anzi sandonatesi”. Quello che stupisce me invece, è come si possano scrivere certe fesserie e farla franca!
Un alto capolavoro di idiozia che meriterebbe di venir citato nel dizionario delle figure retoriche come perfetto esempio di “ossimoro”, lo troviamo sempre... indovinate dove? Bravi. Ancora nella Nuova. L’articolo è dell‘8 settembre e si legge la notizia di cronaca: “Una quarantacinquenne nomade ma residente nel padovano è stata fermata”. Anche in questo caso l’ironia sarebbe troppo facile. Questa la mettiamo a fare il paio con il bel titolone sparato dal Gazzettino al tempo delle polemiche sui sinti di via Vallenari: “Il Comune ‘regala’ la villette ai nomadi”. Dove “regala” era virgolettato perché, come si leggeva nel testo sotto, non le regalava affatto. I lettori che si soffermavano sul titolo stavano là come dei fessi a domandarsi quale era il senso dell’operazione dell’amministrazione comunale che va a dare case (pardon, villette) a gente che non le abiteranno mai perché sono nomadi!
Sul Gazzettino c’è da dire che offre il meglio sui titoli. Apertura di cronaca del 14 ottobre: “Caccia ai covi dei clandestini”. Ma non glielo hanno mai detto che i loro “clandestini” sono persone come me e come voi che camminano per strada alla luce del sole, abitano in case e non in “covi”, e ogni giorno si arrabattano, proprio come me e come voi, col problema del lavoro con la sola differenza che, essendo per l’appunto privi di documenti validi, sono sfruttati di più e meglio? In quanto ad accostamenti pregiudiziali, la Nuova però, non la batte neppure Libero. Solo qualche esempio. 10 novembre: “Era un rifugio per senzatetto, clandestini e poco di buono”. 5 gennaio: “Lo stabile ... diventato un rifugio per immigrati clandestini e sbandati, era diventata sede di spaccio”. 22 gennaio: “Chiuso il bar Centrale. Una serie di gestioni discutibili lo ha fatto conoscere come ritrovo di malviventi e clandestini”. Anche qui, non sprechiamo una sola parola di commento.
Per la Nuova clandestino = farabutto.
Con questo crediamo di aver reso l’idea di come i media locali di Venezia non perdono certo il sonno nel cercare di usare le parole più adatte per descrivere il fatto di cronaca rispettando i fatti senza pregiudiziali verso alcune categorie di persone e senza scivolare in facili razzismi. Chi ha stomaco, può scaricarsi l’integrale dello studio che i ragazzi dell’osservatorio contro le discriminazioni Unar di Venezia hanno realizzato, monitorando ogni singola parola scritta nell’arco degli ultimi due mesi dal Corriere Veneto, dalla Nuova e dal Gazzettino. Ogni singola parola. Perché, come abbiamo visto, il razzismo si nasconde anche nel fondo di articoli potenzialmente neutri come quello delle Rc auto. Il lavoro è stato presentato nel corso di un incontro pubblico tenutosi il 24 marzo a Mestre, in cui è stato dichiarato che, dopo la fase di semplice monitoraggio, l’osservatorio di Venezia passerà alla fase di segnalazione di tutti quegli articoli che contrabbandano, con la scusa del “sentito dire” e dell’uso del “linguaggio comune”, pregiudizi razzisti e xenofobi. L’osservatorio inoltrerà tre lettere formali, una al giornalista, una al suo direttore e una ai probiviri dell’Ordine indicando l’uso scorretto di termini come clandestino, nomade e zingaro appellandosi, quando è il caso, alla Carta di Roma, il protocollo deontologico dell’Ordine che tutela richiedenti asilo e rifugiati. Questo farà l’osservatorio, ma questo lo possiamo fare tutti. Vi garantisco che qualche telefonata o mail di protesta dal tono “se continuate così non comperiamo più il giornale” sortisce più effetto che tante dichiarazioni di principi e studi statistici.
Una cosa però mi preme sottolineare. In tutto ciò non c’è nessuna pretesa di voler insegnare il proprio mestiere ai giornalisti e tantomeno di colpevolizzare una categoria troppo spesso chiamata a giustificarsi per peccati che non sono (solo) suoi. Scopro l’acqua calda scrivendo che ci sono forze politiche cha hanno costruito fortune elettorali sopra termini come “clandestino”. Le segnalazioni vogliono essere solo uno spunto di riflessione per chi lavora nei media e che tante volte deve scrivere in fretta, sintetizzare pensieri in poche frasi, occuparsi degli argomenti più disparati che spesso non conosce (tanto per farvi un esempio, a me è toccato scrivere di sfilate di moda e di pesca sportiva... chi mi conosce rida pure!). La malafede esiste ma, per mia esperienza, posso assicurare che si tratta di casi sporadici ed isolati. Il più delle volte, una chiacchierata amichevole risolve il problema. Basta solo voler ascoltare, un po’ di impegno e rispetto per la propria professione. Usare le parole che meglio restituiscono la verità sostanziale dei fatti osservati, è quanto chiede il secondo enunciato della legge istitutiva dell’Ordine, la Carta costituzionale dei giornalisti. In fondo, a scrivere “migrante” invece di “extracomunitario” non ci vuole niente. Ma, per chi legge, fa la differenza tra il cattivo e il buon giornalismo.
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