Cinque sporche parole: il linguaggio della discriminazione
6/04/2012A Lampedusa, all’epoca in cui gli sbarchi facevano notizia, ho conosciuto una collega giornalista della televisione. Si piazzava davanti alla telecamera con una espressione sofferente ed allarmata che cominciava e finiva con la diretta. Quindi cominciava a sciorinare tutto un vocabolario da sbarco pieno zeppo di “invasioni” e di “clandestini”. I suoi servizi erano un completo elenco di tutti i rischi, i pericoli e i costi per il Paese che, secondo lei, arrivavano dal mare. A telecamere spente, c’è da dire, la collega diventava quasi una persona normale. Non dico simpatica ma neppure così insopportabile. Così un bel giorno le ho chiesto perché mai usasse continuamente il termine “clandestino” invece di, che so?, “profugo”, “persona in fuga dalla guerra” o altro. La collega ha tirato un bel sospiro e poi mi ha risposto: “Guarda, io sarei anche d’accordo con te. Ma il caporedattore mi ha ordinato espressamente di chiamarli clandestini e di mandargli servizi da tenere la gente incollata al teleschermo”. Questo è un classico esempio di malafede. C’è poco da aggiungere. In ogni mestiere si trova sempre qualcuno convinto che più farà da servo e più farà carriera.
Ma sappiate, quando leggete che il tale luogo “è malfamato e frequentato da molti extracomunitari” (cito la Nuova Venezia) che il più delle volte la malafede non c’entra. E’ semplicemente cattivo giornalismo. Cattivo giornalismo dettato dalla fretta, dall’ignoranza, dalla passione per i titoloni sanguinolenti, da un po’ di cialtronaggine e da tanto menefreghismo. E’ il giornalismo delle 4 S: sesso, sangue, soldi e sport. Fuori di qua non c’è notizia.
Tutto questo, se non giustifica, perlomeno spiega l’utilizzo di termini che sviliscono l’etica deontologica. A partire dal secondo articolo della legge istitutiva dell’Ordine, quello che sancisce il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati, in quando contengono un giudizio preconcetto su determinate categorie che nulla ha a che vedere con la realtà. Tutto possiamo scrivere dei profughi della guerra libica arrivati a Lampedusa ma non che siano “clandestini” semplicemente perché non possono essere definiti tali in nessuna accezione del termine.
Usando termini discriminanti, oltre che ad alzare barriere e a fomentare xenofobia e razzismo come sa fare molto bene certa politica, il giornalista dimostra di non saper attenersi ai fatti e di non saper usare le parole che meglio e più correttamente descrivono il fatto di cronaca. Mi ci metto pure io tra i peccatori. Quando frequentavo la redazione del Mattino di Padova avevo preso l’abitudine di scrivere “tossico” invece di tossicodipendente. Perché? Perché facevo prima, perché guadagnavo un po’ di righe con una parola più corta, perché usando toni allarmistici mi sembrava di scrivere articoli più importanti e perché credevo di venir letto di più, perché tutti li chiamavano così, i tossici. Per mia fortuna, l’allora capo redattore Aldo Comello mi fece una gentile ma decisa lavata di capo: quelle persone non sono velenose o “tossiche”, non è nostro compito dare giudizi su di loro ma solo di raccontare la notizia nella cronaca. Se ne sono vittime o protagonisti, chiamiamoli per quel che sono: persone dipendenti da sostanze stupefacenti. Chi legge il giornale, mi disse, ha il sacrosanto diritto di farsi una sua opinione senza venir influenzato dai tuoi stupidi preconcetti. Niente da obiettare. Una bella lezione. Ma non saprei dire quanti altri caporedattori si comporterebbero così oggi.
Non nascondiamoci dietro il fatto che “tanto... poche persone oggi leggono i giornali”, come mi ha detto con una scrollata di spalle un collega del Gazzettino. Gli avevo fatto osservare, in occasione di un incontro pubblico, che “Caccia ai covi dei clandestini” non è esattamente un titolo corretto da sparare in prima pagina (soprattutto se poi gli arrestati sono tutti italianissimi). Le parole, e le parole scritte in particolare, condizionano il nostro modo di pensare sino a ridisegnare la stessa realtà, sdoganando razzismi e fomentando xenofobie. Non è neppure vero, tanto per citare una seconda obiezione, che il giornalista deve usare le parole che usa la gente. Sui giornali trovare scritto “prostituta” e mai “puttana”. Ripulire il vocabolario per non rimanere ingabbiati dai pregiudizi, è l’obiettivo dell’appello dall’associazione Giornalisti contro il razzismo. Il testo integrale lo potete leggere e magari pure sottoscrivere sul sito www.giornalismi.info/mediarom/. Il primo firmatario è Lorenzo Guadagnucci, autore del libro “Parole sporche”, edito da Altraeconomia. L’appello comincia col prendere atto di un “diffuso disagio nel mondo dei media” sempre più consapevole che "i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia" proprio attraverso l’uso indiscriminato di parole che contengono in sé i germi dell’intolleranza. I Giornalisti contro il razzismo individuano, come punto di partenza, un “glossario minimo” di termini di uso comune che chiunque faccia informazione, ma non solo, dovrebbe disimparare a scrivere. Le cinque parole sporche sono: clandestino, vu’ cumprà, extracomunitario, nomade, zingaro.
Clandestino
Se volete intraprendere la carriera di clandestino dovete per forza di cose nascere figli primogeniti di una nobile famiglia inglesi. Una congiura dello zio cattivo, che vuole mettere le mani sul vostro patrimonio, vi costringerà ad imbarcarvi segretamente in un veliero ed a salpare per i mari del sud. Nel corso della traversata, dopo essere stati scoperti e spediti a palar patate nella cambusa, vi tocca salvare la nave dalla tempesta per entrare nelle grazie del burbero capitano di cui finirete per salvare e poi sposare la bella figlia che si fa immancabilmente rapire dai pirati. Ecco. Questi sono i veri clandestini. Fuori dai romanzi ottocenteschi e dai fumetti d’avventura, il termine viene usato in maniera scorretta. Certa stampa lo usa per indicare i migranti non in regola col permesso di soggiorno, magari perché esclusi da quote d’ingresso troppo basse o perché ancora in attesa di una risposta alla richiesta di asilo. La parola ha una valenza fortemente negativa ed evoca segretezza, illegalità, contatti con la criminalità, malintenzionati che vivono nascosti e girano solo di notte. Ed invece i “clandestini” vivono come noi alla luce del sole, come noi lavorano o cercano di lavorare e, più di noi, sono vergognosamente sfruttati e meno tutelati proprio per il fatto di non essere in regola con i documenti. A qualcuno fa comodo così.
Extracomunitario
All’origine era un termine burocratico usato per indicare i cittadini di Paesi esterni all’Unione Europea. Siccome il prefisso “extra” indica una esclusione, la parola ha finito per identificare solo i migranti provenienti da Paesi poveri. I banchieri svizzeri non sono mai extracomunitari. Da notare che nel giornalismo sportivo il termine viene usato correttamente. Capita di leggere che “la squadra non può purtroppo schierare il giocatore Tal dei Tali di nazionalità canadese in quanto ha già raggiunto la soglia federale dei tre extracomunitari”. Non così per la cronaca. Se leggete che la Lega vuole cacciare gli extracomunitari, potete mettere la firma che non intende i soldati Usa della caserma Dal Molin. Quelli evidentemente non sono extracomunitari come gli altri. E per altri versi, ci ha pure ragione!
Vu’ Cumprà
Il termine intende marcare la scarsa padronanza della lingua italiana dell’ambulante sottolineandone una presunta ignoranza. In realtà, gli ambulanti che incontriamo negli angoli delle nostre strade non sono affatto ignoranti, molti sono come minimo diplomati e tutti riescono ad esprimersi perlomeno in tre lingue. Lo stesso non si può dire della media degli italiani che in inglese a malapena ti sa spiaccicare “Ve pen is on ve teibol”. Va aggiunto che il termine ha origine nella spiagge marchigiane dove, in dialetto, “Vuole comperare?” si dice proprio “Vu’ cumprà?” L’ambulante altro non faceva che adoperare la parlata del posto. Il razzismo che sta dietro questo termine ce lo mette tutto chi lo usa.
Nomade
Nei nostri quotidiani, il termine da origine a degli ossimori di incomparabile bellezza. “Arrestato nomade residente nel padovano”, cito sempre la Nuova Venezia che non mi delude mai. Oramai la parola viene usata come un sinonimo di delinquente. Nei fatti, molti dei “nomadi” citati non sono affatto nomadi. Lo stesso nomadismo tra i sinti e i rom oggi è nettamente minoritario ed imputabile solo al fatto che non hanno un luogo in cui fermarsi, più che ad una scelta di vita che andrebbe comunque rispettata al pari di tante altre. L’uso fuorviante ed indiscriminato che si è fatto di questo termine ha coperto quella vergognosa politica di segregazione territoriale che ci ha resi famosi in Europa come il “Paese dei campi nomadi”.
Zingaro
O sono rom o sono sinti. Dire “zingaro” è accumulare due culture diverse dentro lo stesso insulto razzista. Bisogna comunque osservare che, come gitano o zigano da cui deriva, questa è una parola che viene da lontano e ha percorso, non necessariamente con connotazioni negative, anche le strade della letteratura, della musica e della cinematografia. Personalmente, sin da quando ascoltavo Claudio Lolli che li cantava “felici in piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”, non ho mai caricato il termine di valenze pregiudiziali. Cosa che, al contrario, stanno facendo con lucido razzismo quelle forze politiche, e non mi riferisco solo alla Lega o alla destra, che cercano di costruirsi fortune elettorali fomentando odi e paure contro gli “zingari” di turno. La storia, purtroppo, non ci ha insegnato niente.
Ma sappiate, quando leggete che il tale luogo “è malfamato e frequentato da molti extracomunitari” (cito la Nuova Venezia) che il più delle volte la malafede non c’entra. E’ semplicemente cattivo giornalismo. Cattivo giornalismo dettato dalla fretta, dall’ignoranza, dalla passione per i titoloni sanguinolenti, da un po’ di cialtronaggine e da tanto menefreghismo. E’ il giornalismo delle 4 S: sesso, sangue, soldi e sport. Fuori di qua non c’è notizia.
Tutto questo, se non giustifica, perlomeno spiega l’utilizzo di termini che sviliscono l’etica deontologica. A partire dal secondo articolo della legge istitutiva dell’Ordine, quello che sancisce il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati, in quando contengono un giudizio preconcetto su determinate categorie che nulla ha a che vedere con la realtà. Tutto possiamo scrivere dei profughi della guerra libica arrivati a Lampedusa ma non che siano “clandestini” semplicemente perché non possono essere definiti tali in nessuna accezione del termine.
Usando termini discriminanti, oltre che ad alzare barriere e a fomentare xenofobia e razzismo come sa fare molto bene certa politica, il giornalista dimostra di non saper attenersi ai fatti e di non saper usare le parole che meglio e più correttamente descrivono il fatto di cronaca. Mi ci metto pure io tra i peccatori. Quando frequentavo la redazione del Mattino di Padova avevo preso l’abitudine di scrivere “tossico” invece di tossicodipendente. Perché? Perché facevo prima, perché guadagnavo un po’ di righe con una parola più corta, perché usando toni allarmistici mi sembrava di scrivere articoli più importanti e perché credevo di venir letto di più, perché tutti li chiamavano così, i tossici. Per mia fortuna, l’allora capo redattore Aldo Comello mi fece una gentile ma decisa lavata di capo: quelle persone non sono velenose o “tossiche”, non è nostro compito dare giudizi su di loro ma solo di raccontare la notizia nella cronaca. Se ne sono vittime o protagonisti, chiamiamoli per quel che sono: persone dipendenti da sostanze stupefacenti. Chi legge il giornale, mi disse, ha il sacrosanto diritto di farsi una sua opinione senza venir influenzato dai tuoi stupidi preconcetti. Niente da obiettare. Una bella lezione. Ma non saprei dire quanti altri caporedattori si comporterebbero così oggi.
Non nascondiamoci dietro il fatto che “tanto... poche persone oggi leggono i giornali”, come mi ha detto con una scrollata di spalle un collega del Gazzettino. Gli avevo fatto osservare, in occasione di un incontro pubblico, che “Caccia ai covi dei clandestini” non è esattamente un titolo corretto da sparare in prima pagina (soprattutto se poi gli arrestati sono tutti italianissimi). Le parole, e le parole scritte in particolare, condizionano il nostro modo di pensare sino a ridisegnare la stessa realtà, sdoganando razzismi e fomentando xenofobie. Non è neppure vero, tanto per citare una seconda obiezione, che il giornalista deve usare le parole che usa la gente. Sui giornali trovare scritto “prostituta” e mai “puttana”. Ripulire il vocabolario per non rimanere ingabbiati dai pregiudizi, è l’obiettivo dell’appello dall’associazione Giornalisti contro il razzismo. Il testo integrale lo potete leggere e magari pure sottoscrivere sul sito www.giornalismi.info/mediarom/. Il primo firmatario è Lorenzo Guadagnucci, autore del libro “Parole sporche”, edito da Altraeconomia. L’appello comincia col prendere atto di un “diffuso disagio nel mondo dei media” sempre più consapevole che "i mezzi di informazione rischiano di svolgere un ruolo attivo nel fomentare diffidenza e xenofobia" proprio attraverso l’uso indiscriminato di parole che contengono in sé i germi dell’intolleranza. I Giornalisti contro il razzismo individuano, come punto di partenza, un “glossario minimo” di termini di uso comune che chiunque faccia informazione, ma non solo, dovrebbe disimparare a scrivere. Le cinque parole sporche sono: clandestino, vu’ cumprà, extracomunitario, nomade, zingaro.
Clandestino
Se volete intraprendere la carriera di clandestino dovete per forza di cose nascere figli primogeniti di una nobile famiglia inglesi. Una congiura dello zio cattivo, che vuole mettere le mani sul vostro patrimonio, vi costringerà ad imbarcarvi segretamente in un veliero ed a salpare per i mari del sud. Nel corso della traversata, dopo essere stati scoperti e spediti a palar patate nella cambusa, vi tocca salvare la nave dalla tempesta per entrare nelle grazie del burbero capitano di cui finirete per salvare e poi sposare la bella figlia che si fa immancabilmente rapire dai pirati. Ecco. Questi sono i veri clandestini. Fuori dai romanzi ottocenteschi e dai fumetti d’avventura, il termine viene usato in maniera scorretta. Certa stampa lo usa per indicare i migranti non in regola col permesso di soggiorno, magari perché esclusi da quote d’ingresso troppo basse o perché ancora in attesa di una risposta alla richiesta di asilo. La parola ha una valenza fortemente negativa ed evoca segretezza, illegalità, contatti con la criminalità, malintenzionati che vivono nascosti e girano solo di notte. Ed invece i “clandestini” vivono come noi alla luce del sole, come noi lavorano o cercano di lavorare e, più di noi, sono vergognosamente sfruttati e meno tutelati proprio per il fatto di non essere in regola con i documenti. A qualcuno fa comodo così.
Extracomunitario
All’origine era un termine burocratico usato per indicare i cittadini di Paesi esterni all’Unione Europea. Siccome il prefisso “extra” indica una esclusione, la parola ha finito per identificare solo i migranti provenienti da Paesi poveri. I banchieri svizzeri non sono mai extracomunitari. Da notare che nel giornalismo sportivo il termine viene usato correttamente. Capita di leggere che “la squadra non può purtroppo schierare il giocatore Tal dei Tali di nazionalità canadese in quanto ha già raggiunto la soglia federale dei tre extracomunitari”. Non così per la cronaca. Se leggete che la Lega vuole cacciare gli extracomunitari, potete mettere la firma che non intende i soldati Usa della caserma Dal Molin. Quelli evidentemente non sono extracomunitari come gli altri. E per altri versi, ci ha pure ragione!
Vu’ Cumprà
Il termine intende marcare la scarsa padronanza della lingua italiana dell’ambulante sottolineandone una presunta ignoranza. In realtà, gli ambulanti che incontriamo negli angoli delle nostre strade non sono affatto ignoranti, molti sono come minimo diplomati e tutti riescono ad esprimersi perlomeno in tre lingue. Lo stesso non si può dire della media degli italiani che in inglese a malapena ti sa spiaccicare “Ve pen is on ve teibol”. Va aggiunto che il termine ha origine nella spiagge marchigiane dove, in dialetto, “Vuole comperare?” si dice proprio “Vu’ cumprà?” L’ambulante altro non faceva che adoperare la parlata del posto. Il razzismo che sta dietro questo termine ce lo mette tutto chi lo usa.
Nomade
Nei nostri quotidiani, il termine da origine a degli ossimori di incomparabile bellezza. “Arrestato nomade residente nel padovano”, cito sempre la Nuova Venezia che non mi delude mai. Oramai la parola viene usata come un sinonimo di delinquente. Nei fatti, molti dei “nomadi” citati non sono affatto nomadi. Lo stesso nomadismo tra i sinti e i rom oggi è nettamente minoritario ed imputabile solo al fatto che non hanno un luogo in cui fermarsi, più che ad una scelta di vita che andrebbe comunque rispettata al pari di tante altre. L’uso fuorviante ed indiscriminato che si è fatto di questo termine ha coperto quella vergognosa politica di segregazione territoriale che ci ha resi famosi in Europa come il “Paese dei campi nomadi”.
Zingaro
O sono rom o sono sinti. Dire “zingaro” è accumulare due culture diverse dentro lo stesso insulto razzista. Bisogna comunque osservare che, come gitano o zigano da cui deriva, questa è una parola che viene da lontano e ha percorso, non necessariamente con connotazioni negative, anche le strade della letteratura, della musica e della cinematografia. Personalmente, sin da quando ascoltavo Claudio Lolli che li cantava “felici in piazza Maggiore ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra”, non ho mai caricato il termine di valenze pregiudiziali. Cosa che, al contrario, stanno facendo con lucido razzismo quelle forze politiche, e non mi riferisco solo alla Lega o alla destra, che cercano di costruirsi fortune elettorali fomentando odi e paure contro gli “zingari” di turno. La storia, purtroppo, non ci ha insegnato niente.
Quei respingimenti di cui nessuno parla
29/03/2012Qualche volta, nei giornali, hanno anche il coraggio di chiamarlo “rimpatrio”. Duemila battute scritte in fretta su una velina della Questura per riempire uno spazio in terza di cronaca sotto un titolo a due colonne “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia”. E questione risolta. Proprio come se fosse la Grecia, la patria di quei “clandestini”. Proprio come se si fossero imbarcati rischiando la pelle, aggrappati sotto il motore di un tir, per fare una goliardata e vedere se riuscivano ad attraversare l’Adriatico senza pagare il biglietto.
E invece no. La questione non è affatto risolta qua. Non stiamo parlando di goliardi ma di uomini, donne e bambini in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea. Guerre sulle ragioni delle quali nessuno in Europa può affermare di avere la coscienza pulita. Stiamo parlando di persone disperate con migliaia di chilometri di fame, sfruttamenti ed ingiustizie sulle spalle, stiamo parlando di ragazzini come Zahergettati dalla stessa famiglia al di là dei confini solo par dar loro qualche speranza di sopravvivere. Sono questi i famosi “clandestini” che l’Italia rispedisce in Grecia come neppure un pacco postale che, perlomeno, può sempre godere di una garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet.
Quale futuro attende questi migranti “rimpatriati” in Grecia? Carcere, botte, ancora violenze, ancora umiliazioni e sofferenza, nuove deportazioni. Li attende quello che non le associazioni umanitarie ma la stessa Corta di Strasburgo nella sentenza del gennaio 2011 con la quale ha condannato la Grecia, ha definito “trattamenti inumane e degradanti” in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. E siamo noi, noi italiani, i primi responsabili di tutto ciò, ricacciandoli in mare dai porti di Brindisi, Ancona, Bari e soprattutto Venezia, invece di dare loro quel minimo di assistenza indicato da tanti testi di legge internazionali e dell’Unione europea. Quante persone rimandiamo ogni anno in Grecia e, da lì, a incontrare il loro destino nei Paesi d’origine da cui hanno inutilmente cercato la salvezza? I numeri dei respingimenti sono stati ufficializzati questa mattina, mercoledì 28 marzo, in una conferenza stampa organizzata dall’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar eil Comune e affidato all’Associazione SOS diritti. I dati, ottenuti grazie all’impegno dell’Osservatorio, provengono dalla stessa Prefettura di Venezia e dal CIR, che ha lavorato al porto fino alla fine del 2011.
“Nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 - ha spiegato Alessandra Sciurba, responsabile dell’osservatorio veneziano – abbiamo finalmente la certezza che perlomeno 419 persone sono state respinte con la prassi dell’affido al comandante della nave senza aver avuto modo prima di esporre la propria situazione al personale competente per inoltrare una formale domanda di asilo. Ricordiamo che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement”.
I dati incrociati di Cir e Prefettura, insomma, dimostrano matematicamente che su più di 600 persone respinte, la stragrande maggioranza non ha incontrato né mediatori né interpreti, ed è stata rimessa a bordo delle navi senza avere avuto alcuna possibilità di essere ascoltata.
Secondo la relazione dell’Osservatorio, che potete scaricare e leggere in allegato, questa pratica di respingimento che non esitiamo a definire non solo illecita ma anche illegale, è continuata anche nel 2011: tra gennaio e ottobre, tra le persone respinte, almeno 155 hanno subito la stessa sorte. “Contro l’Italia è pendente alla Corte Europea per il diritti dell’uomoil ricorso di 35 migrantirespinti da Venezia e dagli altri pori dell’Adriatico, circa metà dei quali minorenni.
"La nostra preoccupazione riguarda la discriminazione nell’accesso ai più fondamentali diritti, come quello alla vita, alla sicurezza personale, oltre che quello a un ricorso effettivo e a non subire espulsioni collettive - conclude Alessandra Sciurba - Attendiamo a breve la sentenza della Corte, e intanto ricordiamoci che il nostro Paese è già stato condannato per i respingimenti in Libia e che queste pratiche non sono nella sostanza diverse”.
Alla conferenza stampa, svoltasi al municipio di Mestre, hanno partecipato anche il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore alla pace Gianfranco Bettin. Simionato ha parlato dell’effettiva difficoltà per l’amministrazione comunale di intervenire in una zona franca come il porto dove i diritti sono a discrezione della polizia portuale e gli stessi operatori messia disposizione dal Comune sono spesso messi nell’impossibilità di svolgere il loro lavoro. Ha sottolineato inoltre come si tratti non della responsabilità del singolo operatore di polizia, ma di un sistema che segue evidentemente direttive nazionali. In questa situazione, anche una città storicamente aperta come Venezia fa molta fatica a tutelare i diritti umani.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Gianfranco Bettin ha commentato: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso denunciato dall’Osservatorio, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. L’Osservatorio ha in questo senso lanciato un appello ai nuovi responsabili politici, cui si sottopongono questi dati nella speranza di un intervento che finalmente possa muoversi in una direzione diversa.
Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Torneranno i nostri porti ad essere quello che sono sempre stati, porte aperte verso altri mondi e altre culture e non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità del momento? Il Comune di Venezia, va detto, fa quello che può. Ma non può essere lui a risolvere il problema delle migrazioni.
E’ indispensabile un lavoro congiunto di tutto il sistema politico e amministrativo, dall’Europa al Governo italiano, passando per una Regione che, parlando per quella del Veneto, non ha mai messo nei primi punti della sua agenda la tutela dei diritti umani. E non scrivo “dei diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti. La speranza in un cambio di rotta volto a ripristinare la legalità, ma soprattutto l’umanità nei nostri porti, sta tutta nel nuovo Governo.
Con quello precedente non c’era speranza. Con questo... stiamo a vedere.
E invece no. La questione non è affatto risolta qua. Non stiamo parlando di goliardi ma di uomini, donne e bambini in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea. Guerre sulle ragioni delle quali nessuno in Europa può affermare di avere la coscienza pulita. Stiamo parlando di persone disperate con migliaia di chilometri di fame, sfruttamenti ed ingiustizie sulle spalle, stiamo parlando di ragazzini come Zahergettati dalla stessa famiglia al di là dei confini solo par dar loro qualche speranza di sopravvivere. Sono questi i famosi “clandestini” che l’Italia rispedisce in Grecia come neppure un pacco postale che, perlomeno, può sempre godere di una garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet.
Quale futuro attende questi migranti “rimpatriati” in Grecia? Carcere, botte, ancora violenze, ancora umiliazioni e sofferenza, nuove deportazioni. Li attende quello che non le associazioni umanitarie ma la stessa Corta di Strasburgo nella sentenza del gennaio 2011 con la quale ha condannato la Grecia, ha definito “trattamenti inumane e degradanti” in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. E siamo noi, noi italiani, i primi responsabili di tutto ciò, ricacciandoli in mare dai porti di Brindisi, Ancona, Bari e soprattutto Venezia, invece di dare loro quel minimo di assistenza indicato da tanti testi di legge internazionali e dell’Unione europea. Quante persone rimandiamo ogni anno in Grecia e, da lì, a incontrare il loro destino nei Paesi d’origine da cui hanno inutilmente cercato la salvezza? I numeri dei respingimenti sono stati ufficializzati questa mattina, mercoledì 28 marzo, in una conferenza stampa organizzata dall’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar eil Comune e affidato all’Associazione SOS diritti. I dati, ottenuti grazie all’impegno dell’Osservatorio, provengono dalla stessa Prefettura di Venezia e dal CIR, che ha lavorato al porto fino alla fine del 2011.
“Nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 - ha spiegato Alessandra Sciurba, responsabile dell’osservatorio veneziano – abbiamo finalmente la certezza che perlomeno 419 persone sono state respinte con la prassi dell’affido al comandante della nave senza aver avuto modo prima di esporre la propria situazione al personale competente per inoltrare una formale domanda di asilo. Ricordiamo che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement”.
I dati incrociati di Cir e Prefettura, insomma, dimostrano matematicamente che su più di 600 persone respinte, la stragrande maggioranza non ha incontrato né mediatori né interpreti, ed è stata rimessa a bordo delle navi senza avere avuto alcuna possibilità di essere ascoltata.
Secondo la relazione dell’Osservatorio, che potete scaricare e leggere in allegato, questa pratica di respingimento che non esitiamo a definire non solo illecita ma anche illegale, è continuata anche nel 2011: tra gennaio e ottobre, tra le persone respinte, almeno 155 hanno subito la stessa sorte. “Contro l’Italia è pendente alla Corte Europea per il diritti dell’uomoil ricorso di 35 migrantirespinti da Venezia e dagli altri pori dell’Adriatico, circa metà dei quali minorenni.
"La nostra preoccupazione riguarda la discriminazione nell’accesso ai più fondamentali diritti, come quello alla vita, alla sicurezza personale, oltre che quello a un ricorso effettivo e a non subire espulsioni collettive - conclude Alessandra Sciurba - Attendiamo a breve la sentenza della Corte, e intanto ricordiamoci che il nostro Paese è già stato condannato per i respingimenti in Libia e che queste pratiche non sono nella sostanza diverse”.
Alla conferenza stampa, svoltasi al municipio di Mestre, hanno partecipato anche il vicesindaco Sandro Simionato e l’assessore alla pace Gianfranco Bettin. Simionato ha parlato dell’effettiva difficoltà per l’amministrazione comunale di intervenire in una zona franca come il porto dove i diritti sono a discrezione della polizia portuale e gli stessi operatori messia disposizione dal Comune sono spesso messi nell’impossibilità di svolgere il loro lavoro. Ha sottolineato inoltre come si tratti non della responsabilità del singolo operatore di polizia, ma di un sistema che segue evidentemente direttive nazionali. In questa situazione, anche una città storicamente aperta come Venezia fa molta fatica a tutelare i diritti umani.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Gianfranco Bettin ha commentato: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso denunciato dall’Osservatorio, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. L’Osservatorio ha in questo senso lanciato un appello ai nuovi responsabili politici, cui si sottopongono questi dati nella speranza di un intervento che finalmente possa muoversi in una direzione diversa.
Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Torneranno i nostri porti ad essere quello che sono sempre stati, porte aperte verso altri mondi e altre culture e non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità del momento? Il Comune di Venezia, va detto, fa quello che può. Ma non può essere lui a risolvere il problema delle migrazioni.
E’ indispensabile un lavoro congiunto di tutto il sistema politico e amministrativo, dall’Europa al Governo italiano, passando per una Regione che, parlando per quella del Veneto, non ha mai messo nei primi punti della sua agenda la tutela dei diritti umani. E non scrivo “dei diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti. La speranza in un cambio di rotta volto a ripristinare la legalità, ma soprattutto l’umanità nei nostri porti, sta tutta nel nuovo Governo.
Con quello precedente non c’era speranza. Con questo... stiamo a vedere.
Quando le parole diventano pregiudizi
26/03/2012Partiamo da qualche perla. La prima ce la regala la Nuova Venezia. Un articolo del 16 novembre parla di episodi di violenza all’interno dei supermercati. Leggiamo: “La tensione sale nelle ore pasto, verso le 12, ma soprattutto alle 19.30, quando gli extracomunitari sono tanti e il pericolo è tangibile”. Qualche riga più in basso, il giornalista tira le somme di una retata della polizia in questo covo di pericolosissimi extracomunitari: due individui “sono stati individuati e denunciati per ubriacatura molesta, si tratta di un tedesco e un uomo di Marghera”. Non vale neppure la pena di farci dell’ironia. Ancora dalla Nuova. Il 14 febbraio titola “Rc auto scadute da mesi. Decine di auto sequestrate”. Di primo acchito vien da pensare che in un articolo del genere non dovrebbero starci razzismi o pregiudizi neppure a volerceli ficcare di forza, vero? Sbagliato. La Nuova non ci delude mai in quando a xenofobie gratuite. “Tra gli automobilisti finiti nella rete dei controlli ci sono anche persone del posto, e invece ben pochi extracomunitari, il contrario dunque di quello che viene detto e sussurrato”. Capito che rigor di logica? I controlli dimostrano che la grande maggioranza dei migranti è a posto con l’assicurazione e che ti fa l’articolista (non chiamiamolo giornalista, per carità)? Si stupisce perché quello che “si sussurra” è che un “extracomunitario”, per definizione evidentemente, non può essere in regola con la legge! Di sicuro i controllori non hanno verificato a sufficienza! Due giorni dopo, sempre la Nuova riprende il discorso. Evidentemente che siano solo gli italiani a non pagare l’assicurazione non gli va proprio giù, e scrive “Quello che stupisce è che non sono extracomunitari i trasgressori trovati e sanzionati. Nella stragrande maggioranza, eccetto un paio di casi, uno di Gorizia e un extracomunitario, ma sposato con una del posto, sono italiani, anzi sandonatesi”. Quello che stupisce me invece, è come si possano scrivere certe fesserie e farla franca!
Un alto capolavoro di idiozia che meriterebbe di venir citato nel dizionario delle figure retoriche come perfetto esempio di “ossimoro”, lo troviamo sempre... indovinate dove? Bravi. Ancora nella Nuova. L’articolo è dell‘8 settembre e si legge la notizia di cronaca: “Una quarantacinquenne nomade ma residente nel padovano è stata fermata”. Anche in questo caso l’ironia sarebbe troppo facile. Questa la mettiamo a fare il paio con il bel titolone sparato dal Gazzettino al tempo delle polemiche sui sinti di via Vallenari: “Il Comune ‘regala’ la villette ai nomadi”. Dove “regala” era virgolettato perché, come si leggeva nel testo sotto, non le regalava affatto. I lettori che si soffermavano sul titolo stavano là come dei fessi a domandarsi quale era il senso dell’operazione dell’amministrazione comunale che va a dare case (pardon, villette) a gente che non le abiteranno mai perché sono nomadi!
Sul Gazzettino c’è da dire che offre il meglio sui titoli. Apertura di cronaca del 14 ottobre: “Caccia ai covi dei clandestini”. Ma non glielo hanno mai detto che i loro “clandestini” sono persone come me e come voi che camminano per strada alla luce del sole, abitano in case e non in “covi”, e ogni giorno si arrabattano, proprio come me e come voi, col problema del lavoro con la sola differenza che, essendo per l’appunto privi di documenti validi, sono sfruttati di più e meglio? In quanto ad accostamenti pregiudiziali, la Nuova però, non la batte neppure Libero. Solo qualche esempio. 10 novembre: “Era un rifugio per senzatetto, clandestini e poco di buono”. 5 gennaio: “Lo stabile ... diventato un rifugio per immigrati clandestini e sbandati, era diventata sede di spaccio”. 22 gennaio: “Chiuso il bar Centrale. Una serie di gestioni discutibili lo ha fatto conoscere come ritrovo di malviventi e clandestini”. Anche qui, non sprechiamo una sola parola di commento.
Per la Nuova clandestino = farabutto.
Con questo crediamo di aver reso l’idea di come i media locali di Venezia non perdono certo il sonno nel cercare di usare le parole più adatte per descrivere il fatto di cronaca rispettando i fatti senza pregiudiziali verso alcune categorie di persone e senza scivolare in facili razzismi. Chi ha stomaco, può scaricarsi l’integrale dello studio che i ragazzi dell’osservatorio contro le discriminazioni Unar di Venezia hanno realizzato, monitorando ogni singola parola scritta nell’arco degli ultimi due mesi dal Corriere Veneto, dalla Nuova e dal Gazzettino. Ogni singola parola. Perché, come abbiamo visto, il razzismo si nasconde anche nel fondo di articoli potenzialmente neutri come quello delle Rc auto. Il lavoro è stato presentato nel corso di un incontro pubblico tenutosi il 24 marzo a Mestre, in cui è stato dichiarato che, dopo la fase di semplice monitoraggio, l’osservatorio di Venezia passerà alla fase di segnalazione di tutti quegli articoli che contrabbandano, con la scusa del “sentito dire” e dell’uso del “linguaggio comune”, pregiudizi razzisti e xenofobi. L’osservatorio inoltrerà tre lettere formali, una al giornalista, una al suo direttore e una ai probiviri dell’Ordine indicando l’uso scorretto di termini come clandestino, nomade e zingaro appellandosi, quando è il caso, alla Carta di Roma, il protocollo deontologico dell’Ordine che tutela richiedenti asilo e rifugiati. Questo farà l’osservatorio, ma questo lo possiamo fare tutti. Vi garantisco che qualche telefonata o mail di protesta dal tono “se continuate così non comperiamo più il giornale” sortisce più effetto che tante dichiarazioni di principi e studi statistici.
Una cosa però mi preme sottolineare. In tutto ciò non c’è nessuna pretesa di voler insegnare il proprio mestiere ai giornalisti e tantomeno di colpevolizzare una categoria troppo spesso chiamata a giustificarsi per peccati che non sono (solo) suoi. Scopro l’acqua calda scrivendo che ci sono forze politiche cha hanno costruito fortune elettorali sopra termini come “clandestino”. Le segnalazioni vogliono essere solo uno spunto di riflessione per chi lavora nei media e che tante volte deve scrivere in fretta, sintetizzare pensieri in poche frasi, occuparsi degli argomenti più disparati che spesso non conosce (tanto per farvi un esempio, a me è toccato scrivere di sfilate di moda e di pesca sportiva... chi mi conosce rida pure!). La malafede esiste ma, per mia esperienza, posso assicurare che si tratta di casi sporadici ed isolati. Il più delle volte, una chiacchierata amichevole risolve il problema. Basta solo voler ascoltare, un po’ di impegno e rispetto per la propria professione. Usare le parole che meglio restituiscono la verità sostanziale dei fatti osservati, è quanto chiede il secondo enunciato della legge istitutiva dell’Ordine, la Carta costituzionale dei giornalisti. In fondo, a scrivere “migrante” invece di “extracomunitario” non ci vuole niente. Ma, per chi legge, fa la differenza tra il cattivo e il buon giornalismo.
Un alto capolavoro di idiozia che meriterebbe di venir citato nel dizionario delle figure retoriche come perfetto esempio di “ossimoro”, lo troviamo sempre... indovinate dove? Bravi. Ancora nella Nuova. L’articolo è dell‘8 settembre e si legge la notizia di cronaca: “Una quarantacinquenne nomade ma residente nel padovano è stata fermata”. Anche in questo caso l’ironia sarebbe troppo facile. Questa la mettiamo a fare il paio con il bel titolone sparato dal Gazzettino al tempo delle polemiche sui sinti di via Vallenari: “Il Comune ‘regala’ la villette ai nomadi”. Dove “regala” era virgolettato perché, come si leggeva nel testo sotto, non le regalava affatto. I lettori che si soffermavano sul titolo stavano là come dei fessi a domandarsi quale era il senso dell’operazione dell’amministrazione comunale che va a dare case (pardon, villette) a gente che non le abiteranno mai perché sono nomadi!
Sul Gazzettino c’è da dire che offre il meglio sui titoli. Apertura di cronaca del 14 ottobre: “Caccia ai covi dei clandestini”. Ma non glielo hanno mai detto che i loro “clandestini” sono persone come me e come voi che camminano per strada alla luce del sole, abitano in case e non in “covi”, e ogni giorno si arrabattano, proprio come me e come voi, col problema del lavoro con la sola differenza che, essendo per l’appunto privi di documenti validi, sono sfruttati di più e meglio? In quanto ad accostamenti pregiudiziali, la Nuova però, non la batte neppure Libero. Solo qualche esempio. 10 novembre: “Era un rifugio per senzatetto, clandestini e poco di buono”. 5 gennaio: “Lo stabile ... diventato un rifugio per immigrati clandestini e sbandati, era diventata sede di spaccio”. 22 gennaio: “Chiuso il bar Centrale. Una serie di gestioni discutibili lo ha fatto conoscere come ritrovo di malviventi e clandestini”. Anche qui, non sprechiamo una sola parola di commento.
Per la Nuova clandestino = farabutto.
Con questo crediamo di aver reso l’idea di come i media locali di Venezia non perdono certo il sonno nel cercare di usare le parole più adatte per descrivere il fatto di cronaca rispettando i fatti senza pregiudiziali verso alcune categorie di persone e senza scivolare in facili razzismi. Chi ha stomaco, può scaricarsi l’integrale dello studio che i ragazzi dell’osservatorio contro le discriminazioni Unar di Venezia hanno realizzato, monitorando ogni singola parola scritta nell’arco degli ultimi due mesi dal Corriere Veneto, dalla Nuova e dal Gazzettino. Ogni singola parola. Perché, come abbiamo visto, il razzismo si nasconde anche nel fondo di articoli potenzialmente neutri come quello delle Rc auto. Il lavoro è stato presentato nel corso di un incontro pubblico tenutosi il 24 marzo a Mestre, in cui è stato dichiarato che, dopo la fase di semplice monitoraggio, l’osservatorio di Venezia passerà alla fase di segnalazione di tutti quegli articoli che contrabbandano, con la scusa del “sentito dire” e dell’uso del “linguaggio comune”, pregiudizi razzisti e xenofobi. L’osservatorio inoltrerà tre lettere formali, una al giornalista, una al suo direttore e una ai probiviri dell’Ordine indicando l’uso scorretto di termini come clandestino, nomade e zingaro appellandosi, quando è il caso, alla Carta di Roma, il protocollo deontologico dell’Ordine che tutela richiedenti asilo e rifugiati. Questo farà l’osservatorio, ma questo lo possiamo fare tutti. Vi garantisco che qualche telefonata o mail di protesta dal tono “se continuate così non comperiamo più il giornale” sortisce più effetto che tante dichiarazioni di principi e studi statistici.
Una cosa però mi preme sottolineare. In tutto ciò non c’è nessuna pretesa di voler insegnare il proprio mestiere ai giornalisti e tantomeno di colpevolizzare una categoria troppo spesso chiamata a giustificarsi per peccati che non sono (solo) suoi. Scopro l’acqua calda scrivendo che ci sono forze politiche cha hanno costruito fortune elettorali sopra termini come “clandestino”. Le segnalazioni vogliono essere solo uno spunto di riflessione per chi lavora nei media e che tante volte deve scrivere in fretta, sintetizzare pensieri in poche frasi, occuparsi degli argomenti più disparati che spesso non conosce (tanto per farvi un esempio, a me è toccato scrivere di sfilate di moda e di pesca sportiva... chi mi conosce rida pure!). La malafede esiste ma, per mia esperienza, posso assicurare che si tratta di casi sporadici ed isolati. Il più delle volte, una chiacchierata amichevole risolve il problema. Basta solo voler ascoltare, un po’ di impegno e rispetto per la propria professione. Usare le parole che meglio restituiscono la verità sostanziale dei fatti osservati, è quanto chiede il secondo enunciato della legge istitutiva dell’Ordine, la Carta costituzionale dei giornalisti. In fondo, a scrivere “migrante” invece di “extracomunitario” non ci vuole niente. Ma, per chi legge, fa la differenza tra il cattivo e il buon giornalismo.