Antonio, l'antifrancesco

Permalink
Tanzio da Varallo
13 giugno: Sant’Antonio di Padova (1195-1231), frate prodigio

Nell’ottava della Pentecoste del 1221, i frati minori dell’ordine di Francesco si ritrovarono alle pendici di Assisi. A quel punto erano circa tremila, una piccola Woodstock intorno alla Porziuncola. Però medievale, quindi senza amplificatori, senza promiscuità, senza rifiuti di plastica, e droghe sintetiche; cosa restava? Il fango, la polvere, le tende, anzi le stuoie. Capitolo delle Stuoie, così lo avrebbero chiamato. Francesco era ancora vivo, ma già in qualche modo santo, una celebrità da esibire con parsimonia mentre una cerchia di confratelli cercava di traghettare il movimento dalla rivoluzione pauperista alla normalità di un ordine mendicante. L’alternativa era finire presto o tardi bruciati o massacrati, come più in là nel secolo sarebbe capitato ai catari della Linguadoca. Francesco tutto sommato si era mosso bene, aveva saputo inginocchiarsi a Papa Innocenzo al momento giusto: ma il pauperismo radicale che predicava e ancora dettava nelle regole era potenzialmente esplosivo. Intorno a lui il movimento aveva raccolto tutto quello che la società duecentesca non riusciva a omologare: figli di papà indisposti a lasciarsi inquadrare nella borghesia comunale, come era stato Francesco stesso; avventurieri senza arte né parte che non mancano mai; mendicanti che, da quando vestivano il saio, avevano raddoppiato le entrate; predicatori dell’Apocalisse che continuavano a ripetere le profezie di Gioachino del Fiore, rischiando la scomunica; fanatici delle crociate, semplici imbroglioni e così via. Il campeggio doveva durare una settimana, ma molti rimasero altri due giorni a consumare le provviste in sovrappiù. Alla fine comunque se ne andarono tutti, i mendicanti a mendicare, i predicatori a predicare, i missionari alle missioni, finché in mezzo alle stuoie consumate e ai rifiuti degli avanzi non rimase che un ragazzo, corpulento e taciturno. E tu chi sei?, gli chiese fra Graziano, responsabile di zona in Romagna. Non ce l’hai un posto dove andare?

Il ragazzo rispose… non ho la minima idea di come rispose, mica c’ero. Ma lo immagino chinare il capo e scuotere appena la testa.

“Beh? Non hai niente da dire? T’han mangiato la lingua, fratello? Come ti chiami?”

"A’m ciam Antòni, fradel".

"Ma sei romagnolo?"

Ovviamente no. Antonio veniva da Lisbona e per arrivare ad Assisi era passato, assurdamente, dall'Africa; ma sappiamo che aveva il dono delle lingue: le imparava subito e le riproduceva a piacere. Gente così esiste, ne ho conosciuta: così come esiste chi riesce a cavare un bel suono da uno strumento che prende in mano la prima volta. È un dono di Dio, se in Dio ci credi; ma anche se non ci credi, quando senti uno come Antonio rivolgerti la parola, il dubbio un po' ti viene. 

***

Nel 1980, su Linus, Altan pubblica Franz, ovvero la vita di Francesco d'Assisi a puntate. Molto prima di diventare il vignettista da prima pagina di Repubblica, Altan è stato un fumettista geniale e idiosincratico, e con Franz ha realizzato qualcosa che, per quel che ne so, nessun autore ha mai osato né prima né dopo: la demistificazione di Francesco d'Assisi. Il Franz di Altan è un ragazzino viziato e mitomane, che si lascia manovrare da poteri molto più grandi di lui, ma assolutamente umani. Verso la fine della storia, quando il lettore è ormai rassegnato a un mondo senza redenzione, dove i santi sono fantocci e i cardinali maneggioni, Altan fa entrare in scena Antonio, come un regista astuto che si tiene la guest star per le ultime sequenze. Il suo Antonio è spiazzante quanto Francesco: Altan ha fatto i compiti e sa che prima che gli artisti rinascimentali lo trasformassero in un ragazzino imberbe, nelle raffigurazioni medievali Antonio era distinguibile da Francesco perché molto meno magro, se non proprio sovrappeso. Altan aggiunge due inquietanti orecchie a punta, e i capelli crespi che avrà trovato in qualche santino brasiliano – Antonio è un santo popolarissimo in Sudamerica, dove assume i tratti somatici dei mulatti. È seduto a fianco a papa Innocenzo ed è astuto come un demonio – forse è il demonio. Con abili manovre convince il papa ad autorizzare l'ordine francescano, e Francesco a promettere di partire per la Terrasanta. Così un ordine nasce, ma Francesco deve subito allontanarsi, e Antonio gli subentra, dimostrandosi da subito molto più adatto al ruolo. Non è che le cose siano davvero andate così. Ma la sintesi di Altan ha un senso: il carisma di Antonio si fa spazio proprio nell'eclissi di Francesco, in quel periodo turbolento in cui il fondatore diventa un personaggio troppo ingombrante. Le centinaia di miracoli che gli sono state attribuite, a Francesco non si potevano attribuire perché la sua vita era un terreno di battaglia tra fazioni che raccontavano storie molto diverse, e a un certo punto fu letteralmente commissariata: le vecchie biografie distrutte e sostituite con l'unica biografia ufficiale, redatta dal capitano dell'Ordine. Per contro, l'esistenza di Antonio era molto meno controversa: dal Capitolo delle Stuoie in poi, era sempre stato dalla parte dei moderati, e i moderati lo ricompensarono alzandolo su un piedistallo che a un certo punto superò quello del fondatore.

In un certo senso Antonio è l'antiFrancesco, oppure può darsi che così come il cristianesimo non fu più lo stesso dopo la predicazione di Paolo, così il francescanesimo che c'è arrivato deve ad Antonio da Padova molto di più di quanto gli stessi francescani possano ammettere. Anche la venerazione per i due santi ha un che di complementare: Francesco è uno dei santi più ammirati e popolari tra i non cristiani, presso i quali Antonio è un illustre sconosciuto; quest'ultimo è uno dei santi più venerati dai cristiani praticanti, almeno in Italia e in Sudamerica. Oggi Francesco continua a ispirare film e fiction, mentre Antonio sembra una figura più opaca; ma per secoli il modello di frate predicatore è stato quello interpretato da Antonio. Da italianista, trovo irresistibile il paragone coi due grandi fondatori della poesia volgare; oggi tutti amiamo Dante, ma per secoli i poeti si sono riferiti soprattutto alla poesia di Petrarca. Il primo ha stupito il mondo con qualcosa di difficile da imitare; il secondo si è preoccupato soprattutto di normalizzare, di offrire a chi veniva dopo di lui un modello più praticabile; per cui di solito ammiriamo il primo e copiamo il secondo. 

Lo stesso Antonio, da ragazzo, era stato uno dei più accaniti ammiratori di Francesco: malgrado ne sentisse parlare a migliaia di chilometri di distanza, nel monastero di Coimbra in cui si era autoconfinato, Antonio aveva perfettamente recepito il messaggio radicale della sua predicazione. Francesco voleva tornare alla povertà evangelica, e convertire gli eretici e perfino i Saraceni con la pura forza della fede. Non servivano più gli studi e Antonio, studioso brillante, li interruppe. Indossò un sacco e partì appena possibile per l'Africa, come avevano fatto i primi quattro martiri francescani che prima di salpare per il Marocco erano passati proprio da Coimbra. Forse Antonio era riuscito a conoscerli; di sicuro era stato informato della loro tragica sorte, perché testimoniando la loro fede alla maniera francescana, senza difendersi con le armi dei crociati ma sostenendo con fermezza che l'Islam era un'eresia nel bel mezzo di Marrakesh, i quattro erano stati rapidamente arrestati e decapitati. Antonio decise che avrebbe seguito il loro esempio e s'imbarcò per il l'Africa. Giunto nelle terre degli infedeli, non sarebbe però riuscito a guadagnarsi il martirio con la predicazione a causa di una malattia contratta in loco. Ripresa la via del mare, arriva in tempo proprio per il Capitolo delle Stuoie, l'unico episodio in cui incontra di persona Francesco – ma da lontano, senza potergli dire niente. 

Antonio assiste al Capitolo: malgrado abbia smesso di studiare, continua a essere una mente brillante e probabilmente si rende conto che la battaglia tra oltranzisti e moderati si è già combattuta, e Francesco l'ha persa; se rimane deluso dalla rassegnazione del fondatore, se lo tiene per sé. Ma capisce che i francescani ormai stanno diventando qualcosa d'altro, e presto o tardi si adegua. Ritrovatosi quasi per caso in una piccola cellula francescana nei pressi di Forlì, Antonio in un primo momento dissimula le sue doti intellettuali, ma quando lo costringono a predicare si rivela un talento naturale. Nel giro di pochi anni diventa la nuova star dell'Ordine, sguinzagliata dai superiori in Italia settentrionale e in Provenza a misurarsi retoricamente contro i Catari che dilagavano nelle città e nelle campagne. È il primo predicatore a rendere necessario un servizio d'ordine, perché intorno ai suoi pulpiti improvvisati la gente si accalcava rischiando di farsi e fargli male. Anche Francesco era stato un trascinatore carismatico, e può darsi che il successo di Antonio abbia in un qualche modo colmato un vuoto; Francesco ormai non andava più in tour, viveva segregato dal mondo alla Verna; chi avrebbe voluto vederlo e ascoltarlo doveva accontentarsi di Antonio, ma se Antonio all'inizio non era altrettanto famoso, sapeva spiegarsi molto meglio e attirava l'attenzione con miracoli veramente ben congegnati. Viene il sospetto che alcuni miracoli poi attribuiti a Francesco (la predicazione agli uccelli) siano la rielaborazione di prodigi compiuti da Antonio (che invece predicò ai pesci); quest'ultimo aveva già un senso teatrale del miracolo, come i predicatori dei secoli successivi; i suoi prodigi avvenivano sempre in pubblico, davanti a un popolo incantato che poi per settimane e mesi non avrebbe parlato d'altro, contribuendo a far circolare la fama del santo. 

Antonio diverrà presto così popolare che alla sua morte  (intervenuta troppo presto a 36 anni), scoppierà una contesa tra il borgo di Capodiponte, dove era morto mentre cercava di rientrare alla sua sede di Padova, e Padova stessa, su chi aveva il diritto a conservare il corpo. Oggi la maggior parte riposa nella basilica a lui dedicata; in particolare la lingua, che sembrava in grado di riprodurre ogni lingua vivente senza sforzo.  
Comments (2)

Dodici milioni di voti, lo chiamano un disastro

Permalink

Lo sconfittismo, suicidio del progressismo. 

C'è una pagina di Fenoglio a cui mi capita ogni tanto di pensare. In questa pagina c'è un partigiano, che come capita spesso in Fenoglio è poco più di un ragazzino; si dà arie di ribelle, sfoggia le armi, ha una grande voglia di usarle anche solo per sentirne il rumore. È chiaro che non è pronto al combattimento, ma anche noi lettori non siamo pronti alla sua reazione quando il nemico si manifesta all'improvviso. Invece di perdere la testa, di sparare all'impazzata – tattica disperata, ma giustificabile – il ragazzo si mette a camminare verso i tedeschi con l'arma nella mano protesa, come a volerla restituire: ha sentito un ordine urlato con una voce stentorea, e deve obbedire. Invece di dar retta all'orgoglio di cui sembrava intriso, al buon senso, persino all'istinto di conservazione, il ragazzo si rivela in balia di un istinto ancora più forte: l'istinto gregario di consegnarsi al più forte, con le proprie armi, il proprio cuore, la propria anima. Questo istinto gregario esiste in molti di noi – forse in ciascuno di noi, che discendiamo da migliaia generazioni di raccoglitori e cacciatori, ma anche di servitori e schiavi. Nella maggior parte di noi questo istinto è talmente sopito che quando affiora, a volte non riconosciamo nemmeno noi stessi; altri ne sono completamente manovrati; altri devono combatterci per tutta la vita. Altri, infine, riescono a puntellarci sopra una carriera di successo: in fondo di servi c'è ancora bisogno, in tutti i settori.

Nel settore della politica continua evidentemente a essere molto richiesta una specifica figura professionale: il soggetto che sostiene (A) di essere di sinistra e (B) che la sinistra stavolta abbia perso, e che sia necessario, indispensabile, inderogabile ammetterlo, come in effetti lo sta ammettendo lui. Ne avete tutti presente qualcuno: i feticisti dell'analisi-della-sconfitta, gli artisti dei Concession Speech. Ne sanno scrivere di bellissimi, al punto che ti domandi se non siano stati selezionati apposta per questo; per interpretare il ruolo del bel perdente che accetta nobilmente la sconfitta, affinché noi teppa possiamo capire dal suo esempio che perdere è utile e necessario, ed è molto meglio ammettere subito di aver perso, ancora prima che escano i numeri ufficiali. In un'epoca in cui la politica è un dibattito, ammettere la sconfitta è un atto performativo che si può realizzare anche quando ancora non è sicuro che stai perdendo o no, come capitò ad Al Gore nelle elezioni del 2000 (ma viene il sospetto che questa vocazione suicida sia la ragion d'essere del partito democratico, perlomeno quello USA).

Se gli sconfittisti sono giornalisti, hanno il loro pezzo già pronto una settimana prima della consultazione: i risultati non essendo in effetti che dettagli. Se vogliamo per esempio parlare di questi ultimi referendum, promossi da sindacati e partitini che lottano per la visibilità, quasi ignorati dai media (che comunque stanno perdendo la loro centralità) i numeri crudi ci direbbero che il 30% degli aventi diritto sono andati a votare, malgrado il quorum fosse un obiettivo praticamente impossibile, insomma sono andati a votare soltanto per contarsi e se li contiamo non sono poi così pochi. In particolare in questo 30% ci sono tra dodici e tredici milioni di persone che hanno votato per abrogare leggi difese non solo da questo governo, ma anche da quei centristi liberali che senza riuscire a mandare in parlamento nessun partito continuano a infestare quelli di centrosinistra e centrodestra. È una "vittoria"? No, non lo è: una vittoria era impossibile. Resta un dato molto interessante che spiega come mai a molti rappresentanti del governo siano saltati i nervi: dodici milioni sono più o meno lo stesso numero di voti che nel settembre del 2022 consentirono aa Meloni di formare un governo di maggioranza. Per i due principali partiti che hanno scelto di appoggiare la consultazione referendaria, PD e M5S, è un risultato incoraggiante in linea con quello delle ultime consultazioni amministrative. I numeri dicono più o meno questo, ma se il padrone ha deciso che invece Shlein e Conte hanno perso, i servi non possono che formulare lo stesso originale e coraggioso pensiero, con variazioni sul tema, ma neanche tante. Ha un senso discuterci? Probabilmente no, nella maggior parte dei casi: c'è chi recita a soggetto, e continuerà a recitare finché ci sarà un copione e uno straccio d'ingaggio. La mission è dare addosso all'unica possibile coalizione che abbia chances elettorali contro la destra; la speranza è che da qualche parte tra le macerie sorga finalmente il soggetto centrista e moderato che un sacco di editori evidentemente non smettono di desiderare, e pazienza se agli elettori continua a non interessare. Poi ci sono quelli in buona fede, i mistici della sconfitta, che vedono dodici milioni di voti, e lo chiamano un disastro. E sono loro, soprattutto, che mi fanno pensare a quella pagina di Fenoglio, a quel ragazzo ipnotizzato dalla voce stentorea del nemico. 

Comments (3)

La Santa Oliva, che forse è a Tunisi

Permalink

10 giugno: Sant'Oliva di Palermo, vergine e martire (V secolo). 

La moschea dell'ulivo, a Tunisi

Che i siciliani venerino una Santa Oliva non è così bizzarro, così come non risulta bizzarro che si tratti di una martire dalla vicenda particolarmente evanescente: non si capisce nemmeno chi l'abbia martirizzata, se i Vandali o, molto dopo, i Saraceni. A questo punto il mio buon lettore sta già sviluppando una congettura: il martirio sarebbe una leggenda posticcia, celante un'origine pagana: altro che martire, i siciliani veneravano l'Oliva in Quanto Tale! La sua preziosità organolettica, la sua centralità economica, la sua duttilità gastronomica: tutte qualità decisamente venerabili. E come l'Oliva per dare olio deve essere spremuta, in modo analogo Sant'Oliva doveva essere stata flagellata, scarnificata sull'eculeo, e immersa in una caldaia di olio bollente: così perlomeno nella Vita più antica, che antica non è affatto (è già del Quattrocento)  Congettura interessante, mio buon lettore (ti parlo al singolare, tanto ormai); e tuttavia fa a pugni col semplice fatto che Sant'Oliva si è sempre festeggiata in giugno, ovvero decisamente fuori dalla stagione della raccolta e della spremitura.

Oliva è una santa che non piace agli agiografi. Non si fidano, è come se fiutassero aria di paganesimo, o anche solo puzza di fritto. Il Martirologio romano la snobba; il nome compare per la prima volta in un breviario gallo-siculo di epoca normanna; la Vita come abbiamo visto è molto più tarda; Agostino Amore, che ne curò la scheda per la Bibliotheca Sanctorum, la definisce senza molta diplomazia un racconto "evanescente e fantasioso", "degno di essere annoverato tra le passiones della peggiore specie". Sembra in effetti scritta col pilota automatico: secoli prima che le Intelligenze Artificiali cominciassero a colonizzare la parola scritta, molti agiografi apparivano già tormentati dal rischio di apparire anche solo vagamente originali, e dovendosi inventare una storia di martirio sembravano decisi di non aggiungere un solo dettaglio che non fosse uguale a decine di altre Vitae: dunque ecco la fanciulla di buona famiglia che a tredici anni subisce la vocazione; ecco il miracolo (restituisce la vista a due ciechi; non sfuggirà la connessione tra occhi e olive, il cui olio veniva usato anche nella cosmesi e nell'oftalmologia popolare), l'esilio nel deserto, l'arresto e la sequela di torture, come al solito culminante nella decapitazione. L'unico dettaglio che non suoni copia di mille riassunti è l'ambientazione: benché siciliana, Oliva sarebbe stata martirizzata a Tunisi. Il che forse serviva a spiegare l'assenza di reliquie importanti per una santa che comunque godeva di una certa popolarità: celebrata tra l'altro ad Alcamo, a Termini Imerese, e invocata a Palermo anche prima che il culto per Rosalia prendesse piede. E per quanto questi e altri comuni se ne disputassero i natali, nessuno reclamava di custodirne i resti. Come mai? Esiste più di una leggenda: forse sono nascoste nella vecchia chiesa che un tempo portava il suo nome (ma adesso è dedicata a Francesco di Paola). Forse sono in fondo a un pozzo. Forse quando verranno trovate scateneranno un'età dell'oro; e forse sono al di là del mare. Quest'ultima idea era così convincente che nel 1402 il re Martino I di Aragona (detto l'Umano) chiese ufficialmente la restituzione dei resti al califfo Abu Faris Abd al-Aziz II; il quale avrebbe ben potuto nell'occasione mettere in un cofanetto qualche osso sbeccato e far contento Martino; non sarebbe nemmeno stato il primo califfo a ingraziarsi un re cristiano con qualche patacca, ma a quanto pare non lo fece. Forse era troppo onesto, o forse non voleva darsi la pena di ingraziarsi il re di Aragona. 

Duomo di Palermo. Foto di
© José Luiz Bernardes Ribeiro,

Sia come sia, in quel periodo nasce la diceria che il corpo di Oliva sia davvero custodito in una piccola moschea a Tunisi, vicino alla Grande Moschea che è chiamata, appunto, "dell'ulivo" (Gami-az-zaytum). Se si chiama così, è probabilmente perché lì accanto sorgeva un vecchio ulivo; ma nulla impedisce ai cristiani di fantasticare che prima della Moschea lì sorgesse una chiesa dedicata a Sant'Oliva; e che il califfo non volesse restituirne il corpo perché ne era geloso. In una scheda di Santiebeati attribuita a un tale Ugo Russo si legge che "ancora oggi i tunisini, presso i quali è ancora oggi venerata, credono che la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva". Questa nozione, che se fosse vera sarebbe sconvolgente (musulmani sunniti che venerano il Corpo di una Vergine che è anche una santa cristiana?) non risulta altrove; il che non impedisce Gemini di ricamarci sopra, da brava AI di Google che non vuole contraddire nessuno.

La frase "la loro religione e la loro dominazione tramonterà quando scomparirà il Corpo della Vergine Oliva" è una credenza popolare in Tunisia, dove è venerata Sant'Oliva di Palermo, e in particolare tra i sunnitiSecondo questa credenza, la scomparsa del corpo di Sant'Oliva segnerà la fine della loro fede e del loro potere. Questa credenza si basa sulla venerazione che i tunisini nutrono per Sant'Oliva, la quale è considerata un'importante figura religiosa e un simbolo di protezione.                                                                                                             
Maccosa Gemini vai a casa sei ubriaco
In sostanza, la frase esprime la convinzione che la presenza del corpo di Sant'Oliva è fondamentale per il mantenimento della loro fede e del loro potere. La scomparsa di questo corpo, quindi, segnerebbe un evento catastrofico, con la fine della loro religione e del loro dominio. 
Ma di che dominio stai parlando, Gemini.
Questa credenza è un esempio di come le tradizioni religiose possono influenzare la visione del mondo e la comprensione della storia. La figura di Sant'Oliva, in particolare, è un simbolo di resistenza e di speranza per i tunisini, e la sua presenza è vista come un fattore cruciale per la loro sopravvivenza come comunità. 

Cioè davvero ora tocca togliere internet agli studenti.   

Grazie a questa diceria, Oliva è diventata anche la patrona della (piccola) comunità cristiana di Tunisi; questo malgrado la storia non abbia molto senso, in qualsiasi periodo si voglia collocare la vicenda; in teoria sarebbe avvenuta nel quinto secolo, durante le scorrerie dei Vandali che si erano stabiliti intorno a Tunisi e per quanto potessero essere ostili, in quanto ariani, ai cristiani ortodossi, non si capisce perché avrebbero dovuto punire Oliva con l'esilio nelle loro terre. L'autore della Vita dà piuttosto la sensazione di immaginare i carnefici di Oliva come Saraceni musulmani; i quali in effetti avevano controllato la Sicilia per un secolo, ma anche loro non risulta che deportassero in Africa i cristiani – o che li venerassero dopo averli ammazzati. 

Confesso che un po' mi dispiace: qualsiasi storia che ci facesse sentire Tunisi un po' più vicina alla Sicilia (e all'Italia), credo che varrebbe la pena continuare a raccontarla. In fondo siamo più o meno gli stessi esseri umani – e raccogliamo più o meno le stesse olive. Oliva meritava agiografi migliori. Ma forse c'è ancora tempo.

Comments

E allora ho detto sì, sì, sì, sì, sì

Permalink
Tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. Tutto qui. In altri momenti, quando scrivere qui sopra significava discutere davanti a un pubblico, forse mi sarei dato un po' più da fare per attirare l'attenzione su una campagna che tra l'altro è promossa dalla Cgil, una delle poche organizzazioni a cui sono iscritto.

Oggi come oggi non credo sia utile, non credo sposti un voto, e se lo spostasse sarebbe comunque un voto buttato via. Non mi faccio molte illusioni sul raggiungimento del quorum: credo in generale che questa campagna referendaria sia stata azzoppata dalla Corte costituzionale che (legittimamente) ha bocciato il quesito sull'autonomia differenziata. Quest'ultimo avrebbe portato molti voti e contribuito più di altri a creare una saldatura tra l'elettorato del Pd e quello più meridionalista del Movimento di Giuseppe Conte. Così alla fine questa è una di quelle situazioni in cui un esercito si mette in marcia anche se il comandante sa che gli alleati non manderanno i rinforzi promessi; la vittoria è molto improbabile, ma la guerra è stata dichiarata e quindi comunque combattere bisogna, sperando di limitare i danni.

Ho un problema coi referendum. In molti casi sono scorciatoie populiste; non ci hanno dato il divorzio o l'aborto (c'erano già), in compenso non possiamo più chiamare un ufficio "Ministero dell'agricoltura" e abbiamo dimezzato i parlamentari, forse il momento più basso nella Storia delle istituzioni di questa repubblica, capolavoro che trovo difficile perdonare a chi l'ha promosso e poi votato. Poche persone ritengo politicamente incompetenti come quelli che, di fronte alla dura evidenza del quorum (al crudo fatto che la tua sacrosanta battaglia abrogativa non interessa alla maggior parte degli aventi diritto), periodicamente propongono di abbassarne l'asticella sotto al 50%: ovvero di abolire il parlamento e sostituirlo con iniziative basate sulla raccolta di firme. La trovo una sciocchezza, ma non sarebbe la prima sciocchezza a cui prima o poi si riesce ad arrivare. D'altro canto. 

D'altro canto posso capire come il referendum resti l'unica arma alla portata di sindacati, e in generale di parti sociali che altri strumenti per farsi sentire non ne hanno. I lavoratori non hanno più un partito di riferimento, non hanno un giornale, un canale televisivo, nulla; e anche se l'avessero, mi domando seriamente se farebbe qualche differenza. Dalla pandemia in poi l'opinione pubblica si è sfarinata completamente: i principali social network, dopo essere diventati i principali organi di smistamento delle notizie, hanno completamente sminchiato i loro algoritmi, e ora se anche cercassi una discussione interessante sui referendum dovrei aggirare balletti di cani, cuochi e batman. I giovani semplicemente non passano più, ma nemmeno riescono a leggere i giornali on line (non ci riesco nemmeno io), e nel caso di questi referendum non faranno nemmeno caso all'interruzione scolastica perché, tu guarda la coincidenza, sono stati indetti nel primo weekend dalla fine delle lezioni. 

In questa situazione è molto difficile che una notizia riesca ad attirare un'attenzione collettiva. È successo alla crisi di Gaza, forse semplicemente per le dimensioni della tragedia. Gaza è qualcosa che mi ha tolto la voglia di scrivere e ha reso ogni altro problema (anche personale) troppo piccolo perché ne valesse la pena. Detto questo, tra l'8 e il 9 giugno sarà possibile votare per abrogare/modificare cinque leggi ingiuste, e io voterò Sì. 
Comments (4)

La pisana volante

Permalink

Questo quadro, dono del pittore
Giovanni Lorenzetti alla diocesi
di Pisa, sta diventando il volto più 
noto di Santa Bona sull'internet,
dove talvolta viene attribuito a
un pittore seicentesco,
Giovanni Battista Lorenzetti
(ecco, se fosse davvero un quadro
seicentesco, sarebbe un quadro
molto più interessante). 
29 maggio: Santa Bona di Pisa (1156-1207), patrona delle assistenti di volo 

A metà del Millecento Pisa ottiene la completa autonomia dall'impero e si appresta a diventare uno dei più importanti porti del Mediterraneo. Non sarà un caso che i due santi più famosi della Repubblica Pisana (Ranieri e Bona) condividano lo stesso secolo, e un'irrequietezza esistenziale che li porta a far tappa nella città che degli irrequieti è capitale: Gerusalemme.  

La vicenda di Bona ha i tipici profumi dei quartieri portuali: sua madre (Berta) viene dalla Corsica, suo padre (Bernardo) è di Pisa ma se ne va subito, quando Bona ha appena tre anni, lasciando i famigliari in ristrettezze. A sette anni Bona comincia a vedere Gesù e alcuni santi e a mortificare la carne: è ammessa in un convento di Oblate, ma verso i 12-13 anni Gesù e San Giacomo, agghindati da pellegrini, appaiono alla madre superiora e la convincono della necessità che Bona si metta in viaggio per la Terrasanta, non tanto per visitare il Santo Sepolcro ma perché lì troverà Bernardo, suo padre. Ora, questo potrebbe anche essere successo: sei secoli prima che De Amicis scrivesse Dagli Appennini alle Ande, non è escluso che qualche ragazzo, cresciuto in una città di mare, riuscisse a imbarcarsi alla ricerca di un genitore. L'indizio più convincente è l'esito amaro di questo primo pellegrinaggio: Bernardo vive davvero a Gerusalemme, Gesù e San Giacomo su questo non mentivano: ma ci viveva perché laggiù aveva messo su una famiglia ancor prima che a Pisa, con figli molto bene inseriti tra cui uno che è molto amico del Patriarca di Gerusalemme (secondo una variante della leggenda è il Patriarca addirittura). A Bona viene fortemente sconsigliato di scendere dalla nave: qualche agiografo lascia intendere che Bernardo la volesse far ammazzare.

È veramente una leggenda amara questa, non ne avete lette spesso di leggende così. Quando un'orfana si mette in giro per il mondo alla ricerca del genitore, di solito non scopre che il genitore non vuole saperne di lei. Invece di ripartire immediatamente, su suggerimento di Gesù, Bona rimane nascosta in una spelonca, ospite di un eremita al di sopra di ogni sospetto, tale Ubaldo, per nove anni, che in un'altra versione vengono ridotti a nove mesi. Come se si trattasse di una gestazione al contrario: quando Bona esce dalla spelonca, non è più figlia di suo padre, non lo rimpiange più, è libera di girare per il mondo. Il mondo però era molto pericoloso anche nel secolo XII, tanto che Bona (come gli aveva prospettato il solito Gesù in una visione) viene subito catturata da pirati saraceni che le procurano una piaga al costato da cui sanguinerà a lungo. Liberata da mercanti pisani che con una colletta le pagano il riscatto, Bona torna a casa e a quindici anni ha già alle spalle più avventure di tanti concittadini maturi; e però forse l'unica eredità che le ha lasciato il padre è l'irrequietezza dei marinai. Le visioni la spingono a nuovi viaggi, non più per mare ma per terra (con occasionali fenomeni di levitazione): in particolare al santuario di San Giacomo Maggiore presso Santiago di Compostela, che nella mappa del pellegrino medievale era agli antipodi di Gerusalemme, nel luogo più lontano in cui si potesse arrivare coi propri piedi. Il viaggio da Pisa a Santiago e ritorno, Bona l'avrebbe intrapreso almeno nove volte, inframezzandolo con tour in altri santuari famosi a Roma e in Gargano. Viaggiare evidentemente le piaceva, forse la distoglieva da pratiche masochistiche troppo estreme e col tempo divenne un mestiere, perché la strada la conosceva meglio di tutti e i pellegrini si fidavano di lei. Ritiratasi a 48 anni, Bona muore poco dopo, come succede ai vecchi marinai che non ce la fanno più a imbarcarsi ma che invecchiano di colpo sulla terraferma. Una leggenda abbastanza tarda suggerisce che nei suoi ultimi giorni San Giacomo l'abbia portata un'ultima volta a vedere Santiago, sospingendola in volo dal letto di morte; dove sarebbe riapparsa con qualche conchiglia in mano, un souvenir del viaggio. L'episodio ha probabilmente ispirato papa Giovanni XXIII, che nel 1962 ha la bella idea di nominarla patrona delle hostess.

Comments

Il fifone di Canterbury

Permalink

Quel che resta a Canterbury
dell'Abbazia originale
27 maggio: Sant'Agostino di Canterbury (534-604), evangelizzatore degli Angli, anche se all'inizio non era molto convinto.

Come abbiamo avuto modo di notare, una leggenda di santi per funzionare davvero ha sempre bisogno di trovare nel suo soggetto qualche difetto. Del monaco Agostino, grande evangelizzatore degli Angli, si ama ad esempio raccontare che in un primo momento non avesse tutta questa voglia di evangelizzarli. Anzi, giunto all'altezza di Aix-en-Provence (cioè nemmeno a metà strada), dopo aver sentito qualche notizia un po' allarmista sui costumi di questi recenti invasori della Gran Bretagna, se ne sarebbe tornato dritto a Roma con tutta la sua delegazione di quaranta monaci, che erano parecchi anche per la fine del sesto secolo. Lì avrebbe ritrovato il suo superiore, papa Gregorio Primo, che nessuno avrebbe soprannominato Magno se non avesse dimostrato, in questo e altri frangenti, una notevole testardaggine: per cui invece di rassegnarsi al fallimento della missione, o almeno nominare a capo di essa un monaco più risoluto, decise che la delegazione andava bene così e che Agostino l'avrebbe guidata fino alla Britannia (che qualcuno cominciava a chiamare Angle-Terra). Anzi nell'occasione decise di nominare Agostino abate, il che può lasciarci perplessi: cioè alla prima vaga difficoltà scappi a casa, e il boss invece di prenderti a pedate ti promuove? Magari Gregorio sperava che il rango superiore lo responsabilizzasse (e lo rendesse più autorevole agli occhi degli Angli che lo avrebbero accolto). 

La situazione in effetti era favorevole: il re anglo-sassone del Kent, Etelberto, aveva sposato Martha, una principessa merovingia: ovvero franca, ma soprattutto cristiana; e sembrava interessato ad approfondire la conoscenza di questa nuova religione che avrebbe accresciuto la sua sfera di influenza sia nell'Isola che nel continente. E per quante chiacchiere Agostino avesse potuto sentire ad Aix, gli Angli non erano affatto quei barbari crudeli e incivili di cui si favoleggiava: perlomeno gli schiavi angli che Gregorio aveva conosciuto a Roma lo avevano colpito per la gentilezza e la bellezza: veri angeli. E insomma non sappiamo che dose di blandizie e minacce Gregorio abbia applicato nell'occasione: fatto sta che funzionò, Agostino ripartì per il Kent, fu sistemato da Etelberto a Canterbury, e nel giro di un anno aveva già battezzato diecimila anglo-sassoni: un successo probabilmente causato dalla tolleranza con cui Agostino accettava gli usi e i costumi del popolo che lo ospitava. Agostino non fu il primo evangelizzatore dell'Isola – i Britanni erano già stati convertiti secoli prima, secondo le leggende addirittura da San Paolo – ma le invasioni anglo-sassone avevano spazzato via la cultura britanna al punto che anche in parte delle zone occidentali come il Galles, dove i britanni di cultura celtica si erano rifugiati, il cristianesimo era stato parzialmente dimenticato. Ecco perché tuttora quella di Canterbury è la prima sede vescovile di Inghilterra: anche dopo lo scisma di Enrico VIII, è al successore di Agostino sulla cattedra di Canterbury che spetta incoronare il re. Agostino avrebbe anche fondato le diocesi di Londra, York e Rochester, prima di morire nel 604. La sua biografia in effetti sarebbe fin troppo lineare – il papa lo incarica di evangelizzare gli Angli, lui ci riesce e poi muore –  non fosse per l'episodio di Aix, quella romanzesca esitazione che ricorda un po' la vicenda di Giona

(È curioso che dovendo scegliere un'ambientazione per l'episodio, una nuova Tarsis, l'agiografo abbia scelto, di tutti i luoghi in Europa, proprio Aix. Ci siete mai stati? È una bella città, ma se ci arrivate in macchina, vi sembra di non essere più da nessuna parte. È al centro della Francia meridionale, ovvero equidistante da qualsiasi cosa. Non si sente più l'Italia – anche se è ancora Provenza – e per quanto sia vicina la Camargue, non si sente ancora nemmeno la Spagna. Dovunque vogliate arrivare, quando passate da Aix sapete che siete ancora troppo lontani. A meno che non vogliate andare a Marsiglia. In quel caso siete praticamente arrivati. Ma se siete diretti a Marsiglia, ad Aix nemmeno vi fermate. Le cose stanno così oggi, quando Aix si trova al centro di un complicato groviglio autostradale. Immaginate come doveva sentirsi il viandante del sesto secolo, che arrivando ad Aix doveva avere la sensazione di essere arrivato agli estremi confini del mondo conosciuto. E invece no, era arrivato appena ad Aix. Neanche a metà strada, di solito). 

Se non si dà eroe senza battaglia, l'anonimo agiografo deve essersi posto il problema: che battaglia avrebbe vinto Agostino? Quella contro sé stesso, contro le sue paure: è perfino possibile la coscienza in letteratura nasca così, un espediente per trovare un conflitto anche in vicende dove non risulta nessun avversario esterno; non resta che dichiarare guerra a sé stessi, inventandosi uno spazio interiore. Sarebbe interessante capire quando gli eroi comincino a trionfare non contro nemici esterni (o Dei che li sviano) ma contro i propri dubbi e le proprie paure; in via provvisoria vale la pena di annotare quanti antieroi si annidino tra le pagine delle agiografie. A partire dallo stesso Gesù Cristo, che almeno in un paio di occasioni sembra a disagio col suo destino di martire; per seguire con gli apostoli, primo tra tutti quel Pietro che quando capisce che è giunta la sua ora prova persino a scappare. Lo stesso Agostino prendeva il nome di un illustre padre della Chiesa, che al suo destino di santità aveva cercato a lungo di sottrarsi.

Comments

I discepoli erodiani

Permalink


24 maggio: San Manahen di Antiochia, Santa Giovanna (primo secolo).

Il 24 maggio il martirologio romano ricorda tra gli altri due comparse dei libri di Luca evangelista, che hanno in comune la vicinanza alla corte di Erode – non Erode il Grande, penultimo re di Giudea a mandante della strage degli innocenti, ma il suo figlio secondogenito, Erode Antipatro, che in eredità aveva ottenuto la Galilea, la Perea (un'altra piccola provincia sulla riva orientale del Giordano) e il più modesto titolo di tetrarca. Il tutto col benestare dei Romani, che controllavano di fatto tutta la Palestina e stavano aspettando che la rivalità tra i tre figli di Erode il Grande degenerasse in conflitto aperto, per esautorarli. Dei tre, Antipatro fu quello che più si prestò al progetto: durante un soggiorno a Roma riuscì sia ad accusare il fratello maggiore Archelao di malagestione, sia a sottrarre al fratello minore Filippo la moglie Erodiade, che risposò malgrado fosse lui stesso già sposato con una principessa nabatea: e quando un profeta, Giovanni Battista, espresse perplessità nei confronti di un sovrano che sposava la cognata, Erode lo fece decapitare. Con tutto questo, riuscì comunque a restare sul suo traballante trono per più di trent'anni: segno che qualche astuzia dal padre doveva averla ereditata.  

Santa Giovanna compare al capitolo 8 del vangelo di Luca tra un ristretto gruppo di donne che, assieme ai Dodici, costituiva il circolo più interno del seguito di Gesù. Queste donne, spiega Luca (8,2-3) "erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità": oltre a Maria Maddalena viene menzionata "Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode". Esse assistevano gli apostoli, ma "con i loro beni", insomma non erano sguattere, bensì protettrici e finanziatrici. Un dettaglio così ce l'aspetteremmo da Matteo, l'apostolo economista, più che da Luca che invece per contrasto sembra sempre quello socialdemocratico, molto più attento a dare risalto alla presenza dei poveri. Proprio per questo la presenza di una signora probabilmente ricca e potente come Giovanna sembra un dettaglio realistico, qualcosa che Luca non aveva nessun interesse a inventarsi: ma anche qualcosa che confligge un po' con la nostra concezione di Gesù come leader di un gruppetto di fricchettoni inoffensivi, ex pescatori squattrinati. Può darsi che invece Gesù avesse anche a corte amici potenti, o almeno amiche. Sappiamo che questo non l'avrebbe salvato dalla crocifissione: eppure Ponzio Pilato ci provò a passare a Erode la spinosa pratica di Gesù di Nazareth, con il pretesto che anche se era stato arrestato a Gerusalemme, era suddito della Galilea, e quindi il palazzo di Erode (che risiedeva a in città, anche se non l'amministrava) era il foro competente.

L'atteggiamento di Erode Antipatro nei confronti di Gesù è ambiguo, esattamente come ci si può aspettare da un tiranno capriccioso e scostante: appena lo vede se ne "rallegra grandemente, perché da lungo tempo desiderava vederlo, avendo sentito parlare di lui, e sperava di vedergli fare qualche miracolo" (Lc 23,6-11). Quando però si accorge che il prigioniero non collabora, non risponde alle sue domande, e miracoli non ne fa, Erode cede alla pressione dei capi sacerdoti e degli scribi, che dalla residenza di Ponzio Pilato si erano spostati a casa sua, e continuano ad accusare Gesù "con veemenza". Anche Erode lo insulta, lo schernisce e lo veste "di un manto splendido", con cui lo rimanda a Pilato. Un gesto che di solito viene interpretato come un segno di scherno, o di semplice ostentazione, ma potrebbe anche tradire il rispetto che Erode provava per il nuovo profeta. O addirittura una sfida ai Romani: quelli gli avevano mandato un sospetto terrorista, e lui glielo rimandava rivestito come un nobile. Quest'ultima ipotesi confligge però con un'ulteriore notazione di Luca (23,12), che ricorda come Pilato ed Erode in quell'occasione divennero amici, mentre in passato erano stati avversari. 

Quanto a Giovanna, la ritroviamo dopo la Passione tra le pie donne che recandosi a trattare con profumi il corpo di Gesù il mattino di Pasqua, trovano il sepolcro vuoto (per questo è anche chiamata mirofora, ovvero portatrice di profumi). Se nei secoli successivi le ricche matrone avrebbero rivestito un'importanza cruciale nel movimento cristiano, possiamo ipotizzare che la prima tra loro sia stata proprio Giovanna, che si reca di persona ad accudire il cadavere del figlio di un falegname, crocefisso come uno schiavo ribelle.   

Di Manahen, Luca ne parla ancora meno: lo cita negli Atti degli Apostoli in una lista di "profeti e dottori" che facevano parte della Chiesa di Antiochia, accanto a Barnaba, Simone "detto il Nero", Lucio di Cirene, e Saulo, che poi diventerà Paolo apostolo. Barnaba e Saulo sono tra i personaggi più importanti degli Atti; Manahen non è più menzionato, ma di lui Luca aggiunge che era "fratello di latte di Erode il Tetrarca". Tecnicamente, i "fratelli di latte" non sono necessariamente parenti: in comune avrebbero soltanto la nutrice che li ha allattati. In ogni caso il dettaglio ci lascia intendere come la nuovissima religione non fosse soltanto un movimento di pastori e pescatori, ma avesse già fatto breccia nella nobiltà locale.

Comments

Il re beato e imbelle d'Inghilterra

Permalink

Anonimo cinquecentesco
21 maggio: beato Enrico VI di Windsor (1421-1471), re imbelle

A pochi anni dalla morte, il culto di Enrico VI fu promosso da suo nipote Enrico VII, che in quanto fondatore della dinastia dei Tudor sentiva l'esigenza di sottolineare il suo legame con gli estinti Lancaster. E allo stesso tempo un re santo non è una cosa che si possa inventare dal nulla – non nel Rinascimanto, con in giro un bel po' di cronisti interessati a sviscerare il momento più critico del regno d'Inghilterra. Fu compilato comunque un intero libro di miracoli, da cui risultava che Enrico VI avesse resuscitato un'appestata e un supposto ladro di bestiame già appeso al cappio, e che il suo tocco fosse molto efficace contro la scrofola, a differenza ad esempio dell'ultimo esponente della casata degli York, Riccardo III. Forse il punto è che dal malvagio Riccardo i sudditi avevano paura di farsi toccare, laddove Enrico era stato tanto buono e inventarsi prodigi su di lui richiedeva meno fantasia. Ed ecco il paradosso: Enrico era venerato dal popolo proprio per i motivi per cui gli storici stavano cominciando a considerarlo un pessimo re. 

Ci fu mai un re che ereditasse un trono
e ne fosse contento men che me?
Non feci in tempo a uscire dalla culla
che venni incoronato, a nove mesi.
Mai un suddito ha agognato di esser re
quanto io ho agognato e aspiro ad esser suddito

(Enrico VI Parte II, Atto IV, scena IX)

Il padre di Enrico gli aveva dato lo stesso nome e un'eredità impossibile da gestire. Era stato un grande re, ovvero un re piuttosto fortunato, ma tant'è: quel tipo di re cui ancora oggi si può dedicare un film e chiamare a interpretarlo Timothée Chamelet; laddove il figlio al massimo si meriterebbe un Paul Dano che fissasse spesso il vuoto dietro gli interlocutori. Il padre si era coperto di gloria durante la storica battaglia di Azincourt – a vederla da vicino, una carneficina nel fango, vinta da un contingente disperato, circondato da nemici soverchianti. Una di quelle situazioni in cui o si vince o si viene completamente annichiliti; nessun valido condottiero dovrebbe ritrovarcisi, ma a Enrico V era successo: in un qualche modo aveva vinto – dopodiché aveva dato l'ordine di sterminare tutti i prigionieri, perché non aveva abbastanza uomini per controllarli. Più tardi il re di Francia, Carlo VI Valois, avrebbe acconsentito a fargli sposare la figlia, accettandolo come legittimo erede. Questo Carlo VI, da come ce lo dipingono i cronisti, ha tutto l'aspetto di uno schizofrenico: alternava periodi di lucidità a deliri allucinati, che almeno in un caso lo avevano portato a roteare le sue armi sui suoi stessi uomini, uccidendone quattro. Enrico VI non avrebbe mai avuto crisi altrettanto violente, e non è nemmeno detto che ne avesse ereditato la patologia: ma l'eredità di un nonno che era un matto conclamato poteva essere ingombrante quanto quella del padre saggio e vittorioso. Un padre che tra l'altro Enrico non conobbe mai – morto di febbre tifoide in Francia, quando Enrico aveva appena nove mesi. La guerra, che si apprestava a compiere Cent'Anni, e ad Azincourt sembrava ormai vinta dagli inglesi, conobbe negli anni successivi una svolta completamente improvista: quando Parigi era saldamente nelle mani degli inglesi e ormai restava da assediare soltanto la roccaforte di Orléans, i francesi ripresero slancio e iniziativa grazie a... una contadinella, tale Giovanna D'Arco

Dopo le prime vittorie il primogenito superstite di Carlo VI si lascia convincere a farsi incoronare a Reims – che è la città dove tradizionalmente si incoronavano i re di Francia. Gli inglesi rispondono al gesto provocatorio organizzando un'incoronazione alternativa a Parigi per Enrico, il quale dunque a nove anni deve compiere una faticosa traversata e sostare per mesi in Normandia, perché anche i dintorni di Parigi non erano sicuri dalle scorrerie armagnacche. Non è impossibile che una simile esperienza sia stata determinante a determinare la futura condotta di un re poco incline a invasioni e combattimenti. Non solo Enrico stesso era francese per metà, ma a 23 anni il rivale/cugino Carlo VI riuscì a strappargli una tregua biennale proponendogli di sposare una sua nipote, Margherita d'Angiò. Pare che Enrico si sia lasciato convincere al matrimonio perché gli emissari ne decantavano la straordinaria bellezza – dopodiché può darsi che il matrimonio non sia stato mai consumato: Enrico stesso confessava di non ricordare quando e come avesse messo sua moglie incinta di un principe di Galles. La diplomazia non cessava di inviluppare le dinastie in contorte genealogie, malgrado l'evidenza ormai dimostrasse che molti difetti dei regnanti erano di carattere ereditario, al punto che il ricorso all'adulterio a volte era un correttivo necessario. 

Non è che Enrico fosse un re pacifista; ma figlio devoto di una Valois, sposo affezionato di un'Angiò, non è così strano che tra i falchi che proponevano di continuare a mandare truppe in Francia, e le colombe che suggerivano un negoziato e un disimpegno, Enrico inclinasse sempre più verso i secondi. Del resto madre e moglie avevano il vantaggio di restare a corte, coi loro uomini di fiducia (che magari a volte erano anche amanti, ma è difficile scrostare il gossip accumulatosi da secoli), mentre i falchi, essendo più propensi a combattere, a corte si vedevano meno spesso e anche i più valorosi strateghi, prima o poi finivano per morire in battaglia. Così, anche dopo che Giovanna fu catturata, processata e bruciata, i francesi continuarono a combattere e la loro avanzata, dapprima molto graduale, verso il 1450 divenne inarrestabile, coinvolgendo anche territori legati alla corona da generazioni, come l'Aquitania. Le truppe inglesi erano vittime di un circolo vizioso: la corona, dubitando di poter concludere vittoriosamente un conflitto così lungo, non vi investiva abbastanza, il che portava gli inglesi a perdere ulteriori battaglie, confermando in questo modo i dubbi della corona. Non possiamo nemmeno escludere che Enrico, animato da un sincero sentimento religioso, non fosse stato turbato dal martirio di Giovanna: per quanto gli inglesi la considerassero una strega, a corte aveva avuto la possibilità di sentire la versione dei francesi. 

Per quanto gli storici la considerino finita nel 1453, la guerra dei Cent'Anni non si concluse con un trattato di pace, ma con il ritiro degli inglesi da tutti i territori oltre la Manica (salvo Calais): il che coincise più o meno con la prima vera crisi depressiva di Enrico e l'inizio di un vero e proprio collasso dell'apparato statale inglese che prende il nome di Guerra delle Due Rose. A parte la questione dinastica, come al solito intricata (semplificando: l'inettitudine di Enrico, ultimo Lancaster, offriva alla casata degli York un argomento in più per reclamare il trono), l'impressione è quella di un regno che crolla sulle sua fondamenta, le quali evidentemente poggiavano sulla guerra infinita: centinaia di possidenti avevano perduto le loro lucrose proprietà, e il monopolio su determinati commerci, come il vino d'Aquitania; generazioni di fanti e cavalieri abituati a vivere di scorrerie nel continente, una volta tornati nell'Isola, non avevano che da trovare una nuova scusa per rimettersi a razziare, e la rivalità tra York e Lancaster era buona come qualsiasi altra. Schiacciato da un meccanismo che non aveva la possibilità di comprendere, a Enrico capitò di essere imprigionato, liberato, riportato sul trono (in stato catatonico, secondo i cronisti), imprigionato di nuovo, finalmente assassinato, rimpianto dal popolo e venerato dai successori. E quando il processo di canonizzazione si interruppe dopo lo scisma anglicano, la figura di Enrico fu ripresa da un giovane drammaturgo evidentemente affascinato dai monarchi deboli, matti o scostanti: William Shakespeare, che a Enrico dedicò una monumentale trilogia. A rileggerla, si traggono conclusioni che Machiavelli sottoscriverebbe: il re più pacifico di tutti aveva trascinato l'Inghilterra in una guerra civile, il più gentile aveva consentito ai malvagi di trionfare. Evidentemente un re non dev'essere un santo, il suo operato deve essere giudicato secondo parametri diversi. Era una tesi che i Tudor stavano già applicando.

Comments

Il primo dei Giovanni

Permalink

18 maggio: San Giovanni I papa e martire (V-VI secolo)

Una cosa che abbiamo scoperto con papa Francesco è che i nomi dei papi non sono necessariamente seguiti da un numero ordinale: anche se qualcuno cominciò subito a chiamarlo "Francesco Primo", in quell'occasione si chiarì che un papa diventa "Primo" nei documenti soltanto quando qualcuno assume lo stesso nome: fino a quel momento "primo" è un'aggiunta inutile e i papi ne fanno a meno. Ciò è vero in generale per i sovrani, ma in particolare per i pontefici, che in quanto vicari di Cristo (ossia facenti funzione, finché non torna) devono sempre contemplare la possibilità di non essere i primi, bensì gli ultimi: "Vegliate, perché non sapete il giorno e l'ora" (Matteo 25,13). Se poi vogliamo essere davvero pignoli, Albino Luciani scelse di chiamarsi Giovanni Paolo Primo: ma forse nei pochi giorni del suo pontificato non fece in tempo ad accorgersi di violare una consuetudine. 

Ecco perché, per dire, Pietro si chiama Pietro e basta: siccome nessuno ancora se l'è sentita di chiamarsi Pietro II, per ora il primo papa non ha bisogno di ordinali. Per contro, il nome di gran lunga preferito dai pontefici è Giovanni e non sorprende, vista la quantità di santi omonimi. Quanti papi Giovanni abbiamo avuto? Non esattamente ventitré, anche se il prossimo sarebbe il ventiquattresimo. Il computo cominciò a ingarbugliarsi nel decimo secolo, quando succedeva non infrequentemente che due o più prelati fossero eletti pontefici da gruppi di potere in guerra tra loro; di solito a chi vince rimane il titolo di papa, mentre quello che perde viene classificato come "antipapa" ed escluso dal conteggio. Ad esempio Giovanni XVI (997-998) fu dichiarato antipapa, ma due secoli dopo: nel frattempo i suoi successori avevano già preso i numerali successivi fino al XIX. I tentativi di correggere l'errore, come talvolta accade in questi casi, portarono a errori ancora più grandi, per cui ad esempio nessun papa si è mai imposto il nome di Giovanni XX: il che ha fornito a qualche contrafrottole il pretesto per lanciare la leggenda della papessa. Col tempo gli errori diventano consuetudini, tradizioni, e infine legge: per cui nel 1958 Angelo Giuseppe Roncalli mise un punto probabilmente definitivo alla questione, scegliendo il numerale XXIII anche se era soltanto il ventunesimo papa ufficiale a chiamarsi Giovanni. Ma il primo a chiamarsi Giovanni (e non Giovanni Primo, almeno in vita), quando visse, e che papa fu?

Fu un papa sfortunato. Visse tra la fine del quinto e l'inizio di quel sesto secolo che tanti disastri avrebbe portato in Italia. (Sì, per quattrocento e più anni nessun papa si chiamò così). Giovanni era il suo nome di battesimo: a quei tempi i pontefici non ne sceglievano uno nuovo. Fu un papa sfortunato, a cui riuscì di morire martire in un periodo in cui la Chiesa non era affatto perseguitata, e non per difendere la propria fede, come ci si aspetta dai martiri. A Giovanni I capitò di dover difendere i fedeli di un'altra confessione religiosa: gli ariani. Non lo fece spontaneamente – diciamo pure che fu costretto da Teodorico, re ostrogoto – ma ci provò. Meglio però fornire un po' di contesto. 

Se abbiamo passato il 500, sappiamo che l'impero d'occidente è formalmente caduto anche se non molti se ne rendono conto: tutto sommato la situazione ora è più stabile che negli anni anteriori alla Caduta. Un imperatore c'è ancora – a Costantinopoli – mentre in Italia Teodorico amministra il suo potere con una certa abilità. Riconosce il superiore prestigio dell'imperatore d'oriente, ma ci tiene a non passare per un semplice vassallo, termine che peraltro ancora non esisteva. Le dispute religiose sono un sintomo di una certa tensione tra due comunità che Teodorico vuol fare collaborare: i latini per lo più aderiscono al credo ortodosso del Concilio di Nicea, che nel 325 aveva rigettato come eretiche le idee del predicatore egiziano Ario; i barbari per contro sono fieramente ariani e hanno un loro clero che Teodorico controlla più direttamente – da cui il sospetto che la vera tensione tra arianesimo e ortodossia sia politica e non dottrinale; il clero ariano è controllato o controllabile dagli ostrogoti; quello ortodosso mantiene una notevole autonomia.

I tentativi di mantenere una pax religiosa in Italia sono ostacolati dalle iniziative dell'imperatore Giustino, che a Costantinopoli sta trattando gli ariani con sempre maggiore intransigenza. Con un editto li ha obbligati a cedere chiese e altri immobili agli ortodossi; ha altresì proibito agli ariani ufficialmente convertiti (spesso con la forza) di tornare alla loro fede originale. È chiaro che a Roma e in Italia in generale i vescovi ortodossi vedono con sempre maggior simpatia questo imperatore che tratta gli eretici col pugno duro, e questo per Teodorico è un problema: la Chiesa nicena rischia di diventare la quinta colonna dei costantinopolitani il giorno che preparassero l'invasione dell'Italia. Non era un ragionamento così paranoide: l'invasione ci sarebbe stata, anche se dovremo attendere il nipote di Giustino, Giustiniano. Per sventare la guerra di religione che si delinea all'orizzonte, l'astuto Teodorico decide di inviare a Costantinopoli una delegazione composta proprio dagli stessi vescovi di credo ortodosso: tra questi Giovanni, che se non è ancora considerato il capo indiscusso della Chiesa, siede comunque sulla cattedra più prestigiosa di tutto l'Occidente. 

Giovanni deve chiedere all'imperatore tolleranza per gli eretici. Non sappiamo quanto la cosa gli ripugni, ma non ha scelta: se la missione fallisce, Teodorico minaccia di trattare gli ortodossi d'Italia come Giustino tratta gli ariani: conversioni forzate, requisizione dei beni. A Costantinopoli, Giovanni è accolto con gli onori che si devono al primo tra i patriarchi: gli viene riconosciuto persino il privilegio di celebrare la messa di Pasqua nella cattedrale di Santa Sofia, in latino! per molti fedeli dev'essere stato uno choc. Non è affatto strano che questo dettaglio sia ancora oggi trattenuto nell'edizione più recente del Martirologio Romano ("fu il primo tra i Romani Pontefici a celebrare in quella Chiesa il sacrificio pasquale"): si tratta in effetti di un precedente prezioso per chiunque voglia ricordare almeno un caso in cui il clero ortodosso abbia riconosciuto il primato del vescovo di Roma.  

Chissà se mentre diceva Messa in quella che al tempo era la cattedrale più famosa del mondo (ma sarebbe stata distrutta durante la grande rivolta del 535), Giovanni si rendeva conto di vivere il massimo momento di gloria prima della disgrazia. In effetti, al di là dei pubblici riconoscimenti, la missione diplomatica non ottiene molto. L'anziano Giovanni fa quel che può e qualche vaga promessa da Giustino la ottiene: ma quando torna a Roma scopre che non è abbastanza, Teodorico è scontento e lo fa imprigionare. Già provato dal lungo viaggio, Giovanni si spegne in carcere il 18 maggio del 526; dopo di lui fu eletto papa Felice IV, e dopo Felice, Bonifacio II. Alla morte di quest'ultimo, sulla Cattedra salirà un certo Mercurio di Proietto, che decide contestualmente di cambiare nome, non trovando "Mercurio" appropriato per un papa. Si chiamerà Giovanni anche lui, Giovanni II; e da quel momento papa Giovanni è diventato Giovanni I, che si festeggia oggi. 

Comments (3)

Se rifletti con attenzione su quello che sta succedendo, probabilmente sei un po' antisemita

Permalink

Pssst, sionista...

– Eh? Chi è? C'è un antisemita anche qui?

Sei solo in casa, sionista.

– Chi è? Chi parla? 

Sono la tua coscienza.

– Ancora tu, ma basta.

Hai paura della tua coscienza?

– Ultimamente fai dei discorsi strani.

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Leggi troppo Haaretz, la devi piantare.

Circa due milioni.

– Ah. 

Circa due milioni. 

– Ehi, ma hai sentito? C'è stato un diverbio in un ristorante di Napoli.

La maggior parte vive ancora lì, ma i rifornimenti sono bloccati da quaranta giorni.

– È terribile questa cosa, no?

Quale cosa?

– Che abbiano cacciato dei clienti da un ristorante di Napoli! Solo perché erano sionisti! È forse un crimine il sionismo?

Cosa succede a più di un milione di persone accumulate in un campo profughi sotto i bombardamenti se per un mese non entra più cibo?

– Senti, ho capito cosa vuoi intendere. È terribile, terribile. Netanyahu sta proprio esagerando, lo dice anche la Segre. 

Ah, ecco.

– Ma è tutta colpa di Hamas! Perché non rilascia gli ostaggi! 

Non ci credi davvero.

– E tu che ne sai, in cosa credo. 

Ti ricordi un solo caso in cui un commando terrorista ha preso degli ostaggi e chi li voleva indietro ha reagito bombardandolo?

– Beh...

Intensivamente?

– Dunque...

Per due anni?

– Così su due piedi...

Più megatoni che in tutta la seconda guerra mondiale?

– In circostanze straordinarie...

E stop ai rifornimenti?

– ...misure straordinarie.

Per favore, rispondi direttamente almeno a una domanda. Almeno a una.

– Spara.

Se tu avessi un prigioniero, e non avessi quasi più cibo, sfameresti tuo figlio o il prigioniero?

– Stai cercando di giustificare il comportamento di Hamas?

È il comportamento umano.

– Hamas non è umano! Il sette ottobre! bambini decapitati!

Ti è chiaro che se ci sono ancora ostaggi vivi, e sottolineo se, Netanyahu li sta facendo morire di fame?

– È terribile. È terribile. Netanyahu sta esagerando. Ma...

Ma?

– Non ci sono alternative, capisci? 

– Hamas durante la tregua ha liberato decine di prigionieri.

– Non ci sono alternative!

Non ci sono alternative allo scambio di prigionieri?

– Ma insomma cosa vuoi da me. Ho già detto che Netanyahu ha esagerato, da parte mia è un pronunciamento coraggioso. Quando tutto sarà finito, spero che se ne terrà conto.

Quando "tutto sarà finito?"

– Dio, non vedo l'ora.

Non vedi l'ora "che sia finito"... cosa?

– Questa cosa orribile! Non finisce mai, è estenuante.

Questa cosa orribile, come possiamo chiamarla?

– Questa... questa guerra.

Questo massacro.

– Netanyahu sta esagerando.

Questo genocidio?

– Vergognati a farti venire in mente quella parola!

E come pensi che dovrà finire?

– È una parola sacra per me. Vorrei che tu almeno rispettassi la mia...

Stai aspettando che muoiano tutti? È questo che intendi, quando dici "quando tutto sarà finito"?

Non ci sono alternative! Se almeno gli egiziani se li fossero presi, ma...

Quando "tutto sarà finito", ti sentirai sollevato?

– Certo che mi sentirò sollevato.

E non ti sentirai colpevole.

– Colpevole? Io? Di cosa? È stata Hamas. 

E gli egiziani.

 – E Netanyahu. Ha veramente esagerato. L'ho detto anche prima. L'ho detto in pubblico, esistono le prove. Ho preso le distanze.

Quindi non vedi l'ora che siano tutti morti, dopodiché darai la colpa a chi dava gli ordini. 

Ma si può sapere che cazzo vuoi, oh! Ma chi ti manda?

Ehi, sionista...

– Sì? Sono un sionista, e allora?

Ti ricordi quanti abitanti faceva la Striscia, due anni fa?

– Ma non ti spegni mai tu?

– Circa due milioni.

– Sei un antisemita, sai.

– Sono la tua coscienza, come posso essere antisemita?

– Non lo so. Ancestrali sensi di colpa, non m'interessa. A questo punto devo scegliere. 

– O il sionismo o la coscienza.

– Israele ha diritto di difendersi.

– Dalla propria coscienza.

– Precisamente. Ti ricordi quello che disse Coso.

– Israele sarà uno Stato come gli altri quando avremo ladri come tutti gli altri.

– Ecco.

– Quindi anche assassini come tutti gli altri.

– Anche, sì.

– Stragisti come tutti gli altri.

– Può capitare.

– Così insomma, per sentirsi "uno Stato come gli altri" Israele deve dimostrarsi in grado di poter massacrare un intero popolo...

– La vuoi piantare di saltare alle conclusioni.

– Sono la tua coscienza.

– Sei insopportabile.

– Non posso darti pace.

– Devo difendermi da te.

– Devi difenderti da te stesso.

– Maledetti antisemiti, sono dappertutto, dappertutto.

– Dovresti spegnere tutti gli specchi.

– Hai sentito quel che è successo a Napoli, è una vergogna.

Comments (1)
See Older Posts ...