Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

Camminando nell’occhio del ciclone

Sono loro le prime vittime dei cambiamenti climatici: le bambine e i bambini che questa crisi non l’hanno causata ma ereditata dalle generazioni precedenti. Ed a pagarne il prezzo più duro sono e saranno proprio i minori più vulnerabili, i figli di coloro che meno sono responsabili di questa crisi e che hanno meno risorse da investire per farci fronte: i bambini delle famiglie povere, nati in aree rurali ed in Paesi a basso reddito.

Una crisi, quella climatica, che non è un problema di domani ma dei nostri giorni e che, per come vanno le cose, rischia solo di peggiorare negli anni a venire, investendo strati sempre più larghi di popolazioni costretti ad abbandonare le loro case per le inondazioni, la desertificazione ed il fallimento dei metodi tradizionali di agricoltura che avevano sostenuto le generazioni precedenti. Nel 2017 almeno 300 mila bambini sono stati costretti ad emigrare da soli, senza nessun familiare a loro sostegno. Un numero cinque volte maggiore rispetto al 2012.

La copertina del rapporto

L’umanità intera sta per essere investita da un ciclone di proporzioni non ancora immaginabili di cui oggi stiamo avvertendo le prime avvisaglie. E già ora le prime vittime sono i bambini. Guardare nell’occhio del ciclone per prepararsi ad affrontare questa crisi è quanto ha fatto Save The Children nell’ultimo rapporto “Walking into the Eye of the StormHow the climate crisis is driving child migration and displacement” ("Nell’occhio del ciclone - la crisi climatica e le migrazioni dei minori") [1].

L’obiettivo della ricerca è quello di offrire una nuova prospettiva agli studi sulle conseguenze della crisi climatica, dando voce proprio a chi voce non ha mai avuto. Steve Morgan, direttore del programma sulle migrazioni di Save The Children e curatore del rapporto, e la sua squadra hanno intervistato 239 bambine e bambini, provenienti da diversi continenti e da 5 Paesi che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze dei vari tipi di devastazioni climatiche. “Volevamo imparare da loro - ha scritto Morgan nella prefazione - e sentire come la crisi climatica sta influenzando i loro sogni e le loro vite”. 
Non esiste un approccio unico per affrontare le svariate conseguenze dei cambiamenti climatici - conclude -, e proprio per questo è fondamentale ascoltare le voci delle persone più colpite da questi cambiamenti: i minori”.

Adolescente di età compresa tra 8 e 12 anni, Iraq
Stiamo assistendo a enormi cambiamenti nella quantità di acqua che riceviamo ogni giorno. Non c’è abbastanza acqua bere o lavarsi. Di giorno in giorno peggiora.

Il rapporto mette subito in chiaro che non è facile stabilire cosa si intenda per “migrate climatico”. Molti conflitti militari che provocano milioni di sfollati non sono legati a siccità o inondazioni ma sono comunque causati da guerre alimentate da fattori legati al clima. Solo per rimanere nell’ambito stretto di un contesto climatico ad alto rischio come, ad esempio, i luoghi soggetti a potenziali inondazioni, si stima che siano a forte rischio circa un miliardo e 200 milioni di minori.

Walking into the Eye of the Storm” ribalta il concetto secondo cui Il cambiamento climatico sia una sorta di “moltiplicatore" delle migrazioni, leggendolo invece come la causa principale: “La nostra ricerca mostra che il cambiamento climatico sta guidando direttamente la migrazione e lo spostamento, attraverso eventi meteorologici estremi più intensi come inondazioni, cicloni e incendi. (…) Solo nel 2020, ha causato lo sfollamento di 30 milioni di persone, di cui circa 10 milioni sono minori, all’interno del loro Paese: tre volte più del numero di persone sfollate quello stesso anno a causa di conflitti e violenze".

E stiamo parlando di fenomeni meteorologici estremi. Vanno considerate anche le cosiddette crisi ad “insorgenza lenta” che innescano processi irreversibili coma le siccità sempre più frequenti, le temperature estreme, l’innalzamento del livello del mare e la salinizzazione dei terreni agricoli.

Questo fattore “lento”, si deduce dal rapporto, sta già svolgendo un ruolo significativo in alcuni contesti e minaccia di rivelarsi una causa determinate nelle prossime migrazioni. Purtroppo, non esistono quadri normativi capaci di affrontare il problema nelle sue giuste dimensioni. Capita che intere comunità vangano trasferite all’interno delle stesso Paese a seguito di fenomeni come l’erosione costiera o le frane, solo per essere destinate in aree ugualmente ad alto rischio.

E se gli adulti hanno sempre la possibilità di scegliere se accettare il trasferimento o no, e molti di loro preferiscono rimanere in luoghi ad alto rischio pur di conservare il legame ancestrali e culturale verso la loro terra, ai bambini questo legame viene reciso e, con l’illusione di salvare loro la vita, vengono indirizzati dalle loro stesse famiglie verso luoghi lontani, senza la protezione di un adulto, privati di identità culturale, con pochissimo o nessun aiuto da parte dei Governi ad affrontare da soli gli impatti negativi dello sfollamento sulle comunità ospitanti, come le scuole sovraffollate, la diminuzione dei servizi e l’aumento degli insediamenti informali.

Photo credit: Kristiana Marton / Save the Children


In contesto migratorio, i bambini hanno molte più probabilità di essere fisicamente colpiti, perché anatomicamente, immunologicamente, fisiologicamente e metabolicamente, sono più vulnerabili degli adulti.
I minori sono più sensibili alla malnutrizione derivante dall’insicurezza alimentare indotta dal clima, alle infezioni ed alle malattie trasmesse dall’acqua che possono aumentare a causa degli impatti idrici legati al clima come la scarsità - si legge nel rapporto -; sono meno capaci degli adulti di regolare la temperatura corporea, quindi più vulnerabili al caldo estremo; e più probabilità di soffrire di asma e malattie respiratorie, che stanno aumentando a causa di più tempeste di polvere e aumento delle temperature”.

Danni fisici ma anche psicologici. “Essere in movimento può danneggiare in modo significativo la salute mentale di un bambino, in particolare se ha vissuto un evento estremo o si è separato dalla propria famiglia. Sono anche maggiormente a rischio di violenza, nonché di matrimoni precoci, lavoro minorile, tratta, accattonaggio, prostituzione o adesione a milizie armate”.

Sesso, età, disabilità, razza, orientamento sessuale, reddito, età e altri fattori socioeconomici determinano la vulnerabilità di un bambino migrante. Se lo studio mostra come il cambiamento climatico guida la migrazione e lo sfollamento più o meno allo stesso modo per ragazzi e ragazze, i bambini colpiti dalla disuguaglianza sociale e dalla discriminazione di genere hanno maggiori probabilità di subire gli impatti del cambiamento climatico in modo più acuto.

Questo preoccupante contesto purtroppo, non attira né i finanziamenti né l’attenzione che meriterebbe. “Sebbene vi sia un’attenzione emergente sul legame tra cambiamento climatico e sfollamento, la comunità internazionale rimane in gran parte ‘cieca’ sui bambini - conclude Steve Morgan - Attualmente non esistono quadri politici globali che affrontino in modo completo i bisogni e i diritti delle persone sfollate a causa del cambiamento climatico, figuriamoci sui bisogni specifici dei minori”.

Phot credit: Sacha Myers / Save the Children


Di seguito, alcune stralci tratti delle interviste raccolte nel rapporto

Ragazzo 15 anni, Mali
Sono preoccupato come tutti perché spesso la pioggia porta venti molto forti. Le conseguenze sono numerose: le case cadono, i teli di lamiera vengono spazzati via dal vento. Sono anche preoccupato per gli animali perché prima si poteva facilmente trovare erba intorno al villaggio ora andiamo molto lontano a cercare l’erba. Vediamo che gli animali stanno morendo di fame e anche molti di noi stanno morendo di fame.

Adolescente di età compresa tra i 14 ed i 17 anni, Perù
Ci mancano i nostri genitori. Qualche volta ci mandano da persone che dicono che si prenderanno cura di noi ma dobbiamo lavorare per loro e non ci mandano a scuola.

Ragazza 16 anni, Fiji
I cambiamenti climatici mi colpiscono molto. L’accesso al cibo è un problema. La piantagione è rovinata a causa delle inondazioni e della siccità. Usciamo tutti a lavorare poi per ripiantare i nostri raccolti. L’inondazione dell’acqua dal mare ha rovinato le nostre fonti di acqua potabile. Il ciclone fa chiudere la nostra scuola.

Mariam 12 anni, Mali 

Una mattina dello scorso agosto, la gente stava per partire per i campi quando abbiamo visto il cielo diventare improvvisamente molto nuvoloso. Non ho mai visto una pioggia così forte. Ha distrutto tutto sul suo cammino. Le case crollarono, gli animali furono spazzati via e l’acqua nei pozzi divenne inadatta per bere. Per grazia di Dio, nessuno è morto o ferito. Dobbiamo molto ai nostri vicini che ci hanno esortato a lasciare la casa in tempo. Senza di loro probabilmente saremmo morti perché non appena siamo usciti, tutto è crollato. Abbiamo perso i pochi mobili che avevamo.

Adolescente di età compresa tra 14 e 17 anni, Perù
Le nostre vite cambiano, le gelate e le piogge eccessive fanno perdere animali e raccolti... i bambini più grandi vanno a cercare lavoro per mantenere la famiglia.

Ragazzo adolescente di età compresa tra i 13 e i 16 anni, Mozambico
Sono i bambini con disabilità a soffrire di più. Quando arriva il disastro, non sono in grado di muoversi velocemente o da soli.

Adolescente di età compresa tra i 14 e i 17 anni, Perù
Andiamo in città per lavorare. Anche se l’alloggio è costoso, ci mettiamo al lavoro, anche se non molto. Ci manca la nostra comunità, ma ora la terra non dà molto. Se c’è il gelo o la siccità, i raccolti vengono persi e, peggio ancora, gli animali muoiono.

Elenoa 13 anni, Fiji
Dopo il ciclone, siamo tornati a casa. Ogni cosa è stata gravemente distrutta. Abbiamo dovuto vivere in una tenda. Abbiamo avuto poco da mangiare per alcuni mesi. È stato difficile per me vedere cosa fosse successo al mio villaggio.

Ragazzo 13 anni, Mozambico

Mi sono trasferito da solo e tornerò quando avrò abbastanza soldi per tornare indietro e aiutare la mia famiglia.

Ragazza adolescente di età compresa tra i 13 ed i 17 anni, Iraq

Alle ragazze viene impedito di completare la scuola [mentre sono sfollate] perché non è sicuro o a causa dei costi elevati. Le ragazze che vanno a scuola lottano perché a scuola non ci sono latrine per loro. Devono andare nelle case vicine e vengono molestati per le strade. Abbiamo sentito i nostri parenti e abbiamo visto che molte ragazze giovani sono costrette a sposarsi.

Ragazza 17 anni, Figi

C’è solo una fontana, non sempre l’acqua esce e non c’è scuola né elettricità.

Ragazza adolescente tra i 12 ed i 15, Mozambico

Fa molto male vedere i miei fratelli in lacrime a causa della mia decisione di trasferirmi. Dopo essermi trasferito, ho continuato a pensare a loro. Nessuno sa quanto significhino davvero per me.

Adolescente tra gli 8 ed i 12 anni, Iraq

I padri che migrano ci comprano tutto il materiale di cui abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno [di fare affidamento] sull’aiuto dello zio, dei parenti o della moschea. Non dobbiamo più lavorare.

Perché non è vero che “tutti vogliono venire in Europa” ed è scorretto parlare di “invasione” di migranti?

Una Comunità sotto assedio. Una Europa, culla della democrazia e dello sviluppo, circondata da fameliche ed incivili orde di migranti che premono insistentemente ai suoi confini. Intere popolazioni provenienti da continenti devastati da guerra e fame che si accalcano ai nostri confini. Eserciti di disperati - se non di terroristi - pronti ad invaderci e a sostituirci “etnicamente”, imponendoci la loro religione e la loro cultura. Soltanto chilometri di impenetrabili muri, alte barriere di filo spinato ed una incessante sorveglianza armata di soldati ben addestrati e dotati delle più sofisticate tecnologie, possono tenere questa minaccia lontana dalle nostre tiepide case.

Ecco come vengono dipinte le migrazioni, nel sentito comune. Ecco quale narrazione porta altri 12 Paesi dell’Ue a costruire nuovi muri. Ma è davvero così? Oppure siamo di fronte ad una narrazione tossica, paragonabile solo a quella dei Protocolli dei Savi di Sion e del complotto giudaico di hitleriana memoria?

Basta solo leggere qualche dato per capire che è tutta fuffa, funzionale solo ad una certa politica che altri mezzi non ha che cavalcare paure e vigliaccherie.

In realtà, non c’è mai stata nessuna invasione. Tanto meno possiamo parlare di pericoli di “sostituzione etnica”, sempre ammesso che questo termine fantasioso e forviante possa costituire davvero un pericolo per qualche cosa. Nell’anno in cui si è registrato il maggior numero di ingressi irregolari - il 2015 - è arrivato in Europa lungo le varie rotte, da quella balcanica a quella Mediterranea, meno di un milione di persone. Considerato che i cittadini europei sono oggi circa 450 milioni (e senza tener conto dei circa 70 milioni di abitanti della Gran Bretagna che pure nel 2015 non era ancora uscita) per pareggiare il conto tra europei doc e nuovi arrivati, ci vorrebbero altri 449 anni!

Non è neppure vero che “tutti i migranti vogliono venire da noi”. Il continente che più sopporta il peso delle migrazioni è proprio l’Africa. Secondo una stima del World Migration Report nel solo 2020 guerre e carestie hanno trasformato 21 milioni di africani in profughi forzati. Ma la maggior parte di loro sono profughi interni, persone cioè che hanno cercato riparo in regioni meno fragili del loro stesso Paese. Magari con la speranza di poter ritornare, prima o poi, nelle loro case. E questo non vale solo per l’Africa ma per tutti i Paesi devastati dalle guerre come, ad esempio, la Siria. La maggior parte dei profughi di questo Paese, allo scoppiare del conflitto, ha cercato rifugio appena oltre confine. Ne abbiamoincontrato a migliaia nei campi della valle della Bekaa, nel nord est del Libano, che altro non desideravano che far ritorno nella loro terra. Pochissimi, sono quelli che decidono di giocarsi la carta Europa. Non fosse altro perché sono pochissimi coloro che possono permettersi di affrontare le spese, oltre che i disagi, di un viaggio che può costare anche 15 mila euro.

Ad ospitare il maggior numero di profughi sono, paradossalmente, i Paesi che ne producono di più. Un esempio è il Congo dove l’enorme ricchezza mineraria del suo sottosuolo ha come contraltare un reddito pro capite tra i più bassi del mondo, per non parlare di guerre, precarietà politica, diffusione della povertà e di malattie come l’ebola o la malaria. Ebbene, il Congo che negli ultimi anni ha prodotto una media di 6 mila sfollati al giorno, per un totale di 2,8 milioni di profughi interni, secondo stime Unhcr, è una meta di migrazione di profughi provenienti dal Sudan, dal Ruanda e dal Burundi, e dalla Repubblica Centrafricana stimato di circa 2,2 milioni di persone.

Concludendo, degli 80 milioni di profughi che, secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr si aggirano per questa nostra terra cercando rifugio e salvezza - come dire l’uno per cento dell’intera popolazione mondiale - coloro che cercano di superare i muri della Fortezza Europa sono appena il 2 per cento. Adesso è chiaro perché parlare di “invasione” è una enorme fesseria?

Lasciateci entrare! Dalla Camera dei Deputati l’appello per l’accesso dei giornalisti nei Cpr

Semplicemente, fare informazione. Un dovere e, nello stesso tempo, un diritto sancito dalla nostra stessa Costituzione, all’articolo 21. Ma un dovere e un diritto che, quando si parla di CPR, vengono costantemente negati a tutti i giornalisti il cui accesso in queste che altro non sono che strutture di detenzione sotto altro nome, viene costantemente ostacolato con i pretesti più vari e… pretestuosi.

“Vien da chiedersi: cosa hanno da nascondere? - commenta il giornalista Stefano Gallieni -. Dopo più di dieci anni dalla famosa circolare emessa dall’allora ministro degli Interni, il leghista Roberto Maroni, che vietava l’ingresso a tutti i giornalisti, i Cpr rimangono ancora luoghi in cui i diritti sono sospesi ed il cui accesso viene impedito a chi fa informazione e ostacolato a chi, come i deputati o i senatori, esercitano il loro dovere ispettivo”. Con queste parole Galieni ha aperto questa mattina la conferenza stampa alla Camera dei Deputati [1], grazie alla disponibilità delle deputate Doriana Sarli e Yana Chiara Ehm (Gruppo misto), organizzata per lanciare l’appello a lasciar entrare i giornalisti nei Cpr il prossimo mercoledì 15 settembre.

Una iniziativa sposata da molti colleghi dell’informazione, oltre che da attiviste e attivisti per i diritti umani, che si sono detti disponibili a coprire con richieste di accesso tutti i vari Cpr d’Italia per una giornata dedicata alla trasparenza di queste strutture che, non di rado, finiscono sotto inchiesta da parte della magistratura per reati connessi alla gestione dei servizi. Una maggior trasparenza su come funzionano, o come non funzionano, questi centri, sarebbe senza dubbio un passo avanti per tutta la società e aiuterebbe a strutturare una politica di accoglienza molto meno costosa e, soprattutto, più giusta e utile al Paese.

Per vincere la resistenza delle varie Prefetture d’Italia ad aprire i cancelli dei centri di permanenza all’informazione, hanno promesso il loro sostegno alcune deputate come le sopracitate Sarli e Ehm, un senatore Gregorio de Falco (centro democratico) ed anche una eurodeputata come l’ambientalista Eleonora Evi di Europa Verde. Tutte disposte ad accompagnare dentro i giornalisti qualificandoli come “collaboratori”.

“Invito tutte le colleghe ed i colleghi ad aderire alla nostra iniziativa - ha commentato Stefano Galieni -. La circolare di Maroni all’inizio aveva destato molta indignazione. Anche l’ordine dei Giornalisti aveva protestato ed è nata da qui la Campagna LasciateCIEntrare. Un po’ alla volta però, l’interesse è scemato. Un silenzio che ha coperto anche i morti, più di una trentina, i tantissimi atti di autolesionismo ed anche tanti tentativi di suicidio. Adesso è il momento di sollevare la pietra tombale su questi carceri in cui vengono rinchiuse persone che, ricordiamolo, non hanno commesso nessun reato”.

Tra le tante richieste di accesso, regolarmente inviate con tanto di pec e fotocopia del tesserino dell’OdG, agli organi competenti per chiedere la possibilità di accedere il giorno 15 ai centri, l’unica ad avere avuto un riscontro è stata - che onore! - la mia, che avevo inviato alla Prefettura di Gorizia relativa al Cpr di Gradisca di Isonzo. La risposta è stata, come al solito, negativa [2]. “Il predetto dicastero (cioè il dipartimento per le libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno, ndr) - mi hanno ribadito - ha comunicato che in considerazione delle esigenze di tutela degli ospiti presenti nell’attuale contesto emergenziale sanitario non si ritiene opportuno consentire l’accesso”. Stando così le cose, ho inviato il mio Green Pass ma la risposta ancora tarda a venire. Quando riuscirò ad entrare, grazie all’eurodeputata Eleonora Evi, voglio togliermi la soddisfazione di verificare se le norme anti Covid sono rispettate all’interno del Cpr, con tante persone costrette a vivere assieme in spazi chiusi e affollati, e con che misure il ministero si prodiga per la “tutela degli ospiti presenti”.

Note

[2La risposta della Prefettura di Gorizia: https://bit.ly/38LwTds

Appello ai giornalisti: entriamo tutti nei CPR

 “La verità è che, senza motivazioni di alcun genere, si impedisce ai giornalisti di fare il loro mestiere, che è quello di raccontare tutti gli aspetti della vita sociale. E dunque anche quell’aspetto chiamato ‘immigrazione’, che genera così tanti conflitti e così tanti morti, oltre a violazioni palesi dei diritti umani, sofferenza, illegalità e ingiustizia”. Così si legge nell’appello lanciato dall’agenzia di stampa Pressenzache, in seguito al rifiuto di accesso in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio ad un loro redattore, hanno invitato tutti i giornalisti, oltre che avvocati ed attivisti, ad inoltrare una specifica richiesta alle prefetture di competenza per entrare nei CPR di tutta Italia. “L’obiettivo - ha spiegato il collega Stefano Gallieni che ha aderito al progetto - è quello di coprire tutti i centri presenti nel nostro Paese e di costruire assieme per il 15 settembre una grande giornata di mobilitazione”. 

Una mobilitazione che non sarà soltanto di categoria per riaffermare un principio attualmente negato ma sancito a chiare lettere dalla nostra stessa Costituzione: quello per cui “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” (art. 21). I giornalisti hanno il diritto e il dovere di poter accedere nei centri di permanenza dei migranti, esattamente come hanno il diritto di accedere nelle carceri, per documentare le condizioni di vita dei reclusi e dare voce a chi non ne ha.

I centri di detenzione amministrativa per migranti rimangono oggi inseriti in una sorta di limbo in cui i diritti sono quantomeno sospesi. Sospesi per loro, ma sospesi anche per i giornalisti ai quali è negato, senza neppure la briga di una giustificazione, di poter svolgere il loro lavoro. Un diritto che, alla fine, viene leso anche ai cittadini che non possono informarsi correttamente su quanto avviene all’interno di queste strutture. Strutture che salgono agli onori della cronaca solo nel caso che scoppino delle rivolte, o ci siano delle morti oppure quando la magistratura indaga sui bilanci milionari degli enti gestori. Ed anche queste sono questioni imputabili alla totale mancanza trasparenza con la quali i Governi hanno sempre gestito queste specie di carceri non dichiarate in cui i reclusi - tutte persone che non hanno commesso alcun reato penale! - vengono ipocritamente chiamati “ospiti”.

All’appello hanno aderito sino ad oggi alcune decine di giornalisti di altrettante testate come Il Manifesto, oltre ad attivisti come Yasmine Accardo, portavoce della campagna LasciateCIEntrare nata proprio per entrare in quelli che allora si chiamavano CIE. Tra i firmatari anche noti avvocati come Alessandra Ballerini, la legale della famiglia Regeni. Naturalmente, all’iniziativa abbiamo aderito anche noi del Progetto Melting Pot Europa. Ho personalmente inviato una pec alla Prefettura di Gorizia per chiedere l’accesso il 15 settembre al CPR di Gradisca di Isonzo. Ma fino ad ora, nessuna risposta. Né da Gorizia, né dalle altre Prefetture d’Italia.

Ma stavolta, la scelta di “far finta di niente” non funzionerà. La questione del diritto di accesso ai Cpr è arrivata anche alle Camere. Alcuni parlamentari in forza al Gruppo Misto si sono dichiarati disponibili a fungere da “teste di ariete” ed a chiedere l’accesso ai Cpr nella giornata del 15 settembre come accompagnatori dei giornalisti. Sarà negato l’accesso anche a deputati e senatori? Ne discuteremo martedì 7 settembre in un incontro tra giornalisti ed onorevoli in programma nella sala stampa della Camera dei deputati, a Roma. Causa pandemia, la presenza sarà contingentata ma sarà comunque possibile collegarsi on line. Ma, Covid o no, nei Cpr i giornalisti vogliono entrare davvero ed “in presenza”. Perché, ricordiamocelo sempre, la democrazia di un Paese si misura dalla libertà di movimento concessa ai suoi giornalisti. Lo sapevano bene anche i padri costituenti quando scrissero che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

Italiani veri. Parte la campagna per mettere in nero su bianco la cittadinanza

Un milioni di giovani italiani che non sono ancora italiani. Un milione di ragazze e ragazzi nate e cresciute nel nostro Paese, che hanno studiato nelle nostre scuole, che sono cresciute nelle nostre strade, che parlano la nostra lingua, che si sentono italiane ma che non hanno gli stessi diritti degli altri italiani. Non hanno gli stessi diritti perché non gli è ancora stata ancora riconosciuto un diritto fondamentale: quello alla cittadinanza. 


La campagna “Cittadinanza nero su bianco” vuole per l’appunto riportare all’attenzione dei media e della società civile il tema dello ius soli, chiedendo al Parlamento di “leggere la realtà e scrivere una nuova legge sulla cittadinanza per tutti gli #ItalianiVeri” che “promuova uguali diritti per tutti i cittadini Italiani”, come possiamo leggere nella pagina della piattaforma dove possiamo sottoscrivere la petizione.


Letta così, diciamocelo subito, la campagna sembra una minestra riscaldata. Giustissima, per carità, la battaglia per lo ius soli. La proposta di legge è ancora ferma tra la Camera e il Senato, e dal 2015 non dà più segni di vita. Periodicamente, le varie  associazioni per i diritti dei migranti si mobilitano per far procedere l’iter parlamentare ma  senza riuscire a superare l’ostracismo della destra e la poca volontà di certa sinistra. Ben vengano quindi anche le minestre riscaldate ma, attenzione!, “Cittadinanza nero su bianco” non lo è affatto. 

Perché, rispetto alle precedenti campagne, “Cittadinanza nero su bianco” presenta tre sostanziali novità: i proponenti, i referenti e il linguaggio. 


Cominciamo con i proponenti. “Cittadinanza nero su bianco” è stata lanciata da una azienda di cosmetici: la Lush, noto brand che fabbrica e commercia prodotti naturali per la cura del corpo. In quasi tutte  le città italiane potete trovare i suoi negozi e, in ognuno di essi, recuperare tutto il materiale di supporto alla campagna. La Lush ha lanciato l’iniziativa in stretta collaborazione con l’associazione per la tutela dei diritti dei migranti BlackPost. Che c’entrano le saponette con la cittadinanza ce lo spiega Bruna Kola Mece di BlackPost: “La Lush è una azienda che punta molto sulla sostenibilità e sull’ambiente. Oggi, questi temi non possono più essere distinti dai diritti civili. Così come il tema della  cittadinanza non può più essere affrontato sotto la lente delle ideologie. Per questo, ci ha fatto molto piacere che a scendere in campo non sia stato il ‘solito’ associazionismo di sinistra ma una azienda commerciale che chiede a chi ci governa semplicemente di leggere la realtà e di fare quello che non può più essere rinviato per il bene di tutti: dare la cittadinanza agli italiani". 


Bruna è una migrante di nuova generazione. I suoi genitori sono arrivati in Italia dall’Albania nel ’92 con lei che non  aveva neppure un anno di vita. “Ho fatto tutte le scuole in Italia e mi sento italiana. Ma per avere la cittadinanza ho dovuto aspettare 24 anni. In tutto questo tempo, mi sono sentita limitata in tante cose. Ho fatto scienze politiche ma non ho potuto tentare la carriera diplomatica perché non avevo la cittadinanza. Ho fatto l’attivista in tante consultazioni elettorali ma non potevo votare per lo stesso motivo. Oggi poi, con le leggi sulla sicurezza, i’iter è diventato ancore più lungo e complesso. E’ ora di finirla con queste assurdità che non aiutano nessuno e di concedere la cittadinanza italiana a tutte le italiane vere”. 


Il secondo punto è focalizzato sulle persone alle quali la campagna si rivolge. “Questa per la cittadinanza non può più essere vista come una lotta della destra contro la sinistra - spiega Bruna-. La questione è universale. Noi ci vogliamo rivolgere anche a coloro che hanno scelto di votare a destra ma che hanno avuto un vissuto di nuova generazione come il mio. Anche loro hanno sofferto, perché sentirsi italiani ma non essere riconosciuti come tali, crea disagio e malessere psicologico, oltre che precluderti tante strade. C’è un milione di ragazze e ragazzi italiani che non sono tutelati come gli altri coetanei e che sono vittime di un senso di isolamento perché si sentono cittadini di nessun posto. La cittadinanza non è solo concessione di diritti ma anche un riconoscimento identitario”. 


E qui veniamo alla terza questione: il linguaggio. “Cittadinanza nero su bianco” usa termini come “veri italiani”, “riconoscimento identitario” che sono cavalcati dalla destra sovranista. “Ti ripeti che la nostra campagna non è né di destra né di sinistra - conclude Bruna -. Noi chiediamo solo il riconoscimento di un diritto a dei giovani italiani. Se uno è di destra, non è razzista, ma crede in valori, sia pure a mio personale avviso discutibili, come il nazionalismo, tanto di più dovrebbe lottare perché venga riconosciuto il diritto ad un italiano di essere italiano”. 


Innovativi sono anche gli strumenti su cui gioca la comunicazione della campagna lanciata da BlackPost e Lush. Tanto per fare un esempio, i testi dei depliant informativi strizzano in più occasioni l’occhio alla celeberrima canzone di Toto Cotugno, quella dell’italiano vero. Ma va bene così. La cittadinanza è un diritto per tutte e tutti. E i diritti non  sono, o non dovrebbero essere, messi in discussione né da destra né da sinistra. E poi, a pensarci bene, quella canzone parlava anche di “un partigiano come presidente”. Neanche questa è una cosa che va messa in discussione. 

Saman Abbas, la casta, l’onore e la piaga dei matrimoni combinati

Ha pianto disperatamente, il padre di Saman, quando i familiari carnefici gli hanno annunciato che sua figlia era stata macellata. Quegli stessi carnefici ai quali lui l’aveva consegnata. Ha pianto anche la madre di Saman, ripetendo che “purtroppo non c’era altro da fare”. La rispettabilità della famiglia, i doveri della casta sono stati rispettati. Il “cosa dirà la gente” andava fatto tacere. Non era concepibile agire altrimenti.

Non è la prima ragazza pakistana che si era rifiutata di sottostare ad un matrimonio combinato, Saman, ad essere uccisa per l’onore e per la tradizione. Solo un paio d’anni fa, un’altra ragazza ribelle aveva anticipato la sorte di Saman. Sono in pochi oggi a ricordarsi della vicenda di Sana Cheema, di Brescia. Anche in quel caso, la madre piangeva e spiegava, disperata, che suo marito non era cattivo. Che lo aveva dovuto fare. A differenza di Saman, questa giovane era stata portata di forza in Pakistan, e là uccisa. E la giustizia di questo Paese ha assolto i suoi carnefici. Anche per i giudici pakistani si è trattato di un atto spiacevole ma che doveva essere compiuto.

Wajahat, regista ribelle
Sulla storia di Sana intervistai Wajahat Abbas Kazmi, regista ribelle di origini pakistane che mi spiegò come funzionano le caste, l’elemento centrale su cui ruota il sistema patriarcale pakistano, e quanto pesa, soprattutto per le comunità che si costituiscono all’estero, in piccoli paesi della provincia, la rispettabilità delle famiglie: “Per la comunità pakistana questi sono considerati delitti d’onore che rientrano semplicemente nei doveri di un genitore. Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima. Quelle che vengono mandate a frequentare le scuole superiori sanno già che dovranno sposarsi con un parente indicato dalla famiglia. Alcune vengono forzate a sposarsi già prima. Il padre dice loro che se vogliono andare a scuola prima si devono sposare. Così non scappano più. Tarpano loro le ali prima di farle uscire dal nido. Sono comportamenti difficili da spiegare agli italiani”.

Per le famiglie, il matrimonio combinato è anche una questione economica. Un modo per tenere insieme i beni della famiglia, intesa in senso allargato, e aiutare coloro che sono rimasti in Pakistan che magari hanno contribuito alle spese del viaggio che non sono mai indifferenti. Non è una caso che le coppie forzate vengano quasi sempre formate tra cugini di secondo e anche di primo grado. La religione, diciamolo subito, non c’entra niente. Anzi, a volerla dire tutta, per l’islamismo il sistema della casta è una bestemmia, considerato che Maometto stesso le ha proibite.

“In Pakistan non sanno una minchia di cosa sia il Corano! - mi ha spiegato ridendo Wajahat - È scritto in arabo e in arabo siamo obbligati a leggerlo ma nessuno di noi parla l’arabo! Quando studiamo il Corano ripetiamo a memoria delle frasi senza capirle! Dell’Islam sappiamo quello che ci viene raccontato e quello che ci viene raccontato è solo l’aspetto maschilista e patriarcale”.

Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema ma loro viene concessa sempre una scappatoia. “I maschi possono frequentare gli italiani - mi ha spiegato Wajahat -. Se hanno una storia, nessuno li accusa di nulla. Basta che la tengano fuori dalla comunità. Anzi, viene ammirato come uno che si da da fare con le donne italiane che, si sa, non nutrono una buona reputazione. Alle ragazze tutto questo non viene concesso. E poi mi incazzo quando sento ripetere da certi personaggi italiani che si definiscono di sinistra che bisogna rispettare le culture di tutti, che bisogna evitare di dare giudizi su pratiche come i matrimoni combinato o il burka! Che idiozia! Come si fa a dire che questa è liberà? Come si fa a dire che le donne pakistane o bengalesi sono sottomesse perché amano essere sottomesse per tradizione? Su questo tema, certa sinistra non capisce un tubo proprio come la destra. Accoppare la figlia perché non si vuole sposare con chi decidi, non è cosa che si possa giustificare con la cultura! Ma donne che si ribellano, in Italia come in Pakistan ce ne sono, e sono sempre di più. Aiutiamole!”

Fidanzata con un pakistano
Laura B, studentessa di legge di Bologna, è stata per due anni fidanzata con un ragazzo di origine pakistane. “Lui viveva due vite diverse. Aveva anche due profili completamente distinti nei social. Era nato in Italia e aveva la cittadinanza, così come i suoi genitori che venivano dal nord del Pakistan e vivono in un piccolo comune emiliano. Con me e con il mio gruppo di amici faceva l’italiano e manifestava idee politiche avanzate. Quando tornava in famiglia, cambiava completamente. Non mi ha mai voluta presentare ai suoi e se, fuori da Bologna, incrociavamo pakistani faceva finta di non conoscermi. Parlavamo di sposarci, non appena fossi laureata. Poi un giorno lo hanno portato in Pakistan con la scusa di far visita alla nonna che viveva ancora là. Era tutto pronto a sua insaputa e lo hanno fatto sposare con una sua lontana cugina che neppure conosceva. Quando è tornato a Bologna mi ha cercata per dirmi che ora lui era più libero. Che con sua moglie doveva farci solo dei figli. Che noi potevamo ricominciare come prima. Ovviamente io l’ho mandato a…”

Storia di Nazia
Le caste e i matrimoni combinati, se penalizzano anche i ragazzi, rimangono comunque funzionali al mantenimento di un sistema patriarcale. La storia di Nazia, che abbiamo già raccontato su Melting Pot, è esemplare di quanto accade a tante donne pakistane. Fatta sposare “rispettando la casta e la famiglia”, Nazia è stata spedita in Italia come un pacco postale. Il marito, con cittadinanza italiana, l’ha tenuta segregata in casa come si usa, per dieci anni. Manco la spesa da sola poteva fare e io ricordo ancora la sua felicità e sorpresa quando, per la prima volta, è entrata in una supermercato. Con quell’uomo, Nazia ha avuto due figli, cittadini italiani. Poi, quando si è stufato di lei e si è trovata una nuova compagna (questo agli uomini è concesso), le ha sequestrato tutti i documenti, compresi quelli dei bambini, l’ha riportata dal fratello con la solita scusa della visita alla famiglia e l’ha abbandonata là. Il suo destino sarebbe stato quello venir sposata una seconda volta. Ma una donna che ha già contratto matrimonio è merce scaduta. Sarebbe finita in una casa con un marito anziano con almeno due o tre mogli già a carico, a far da serva. Per i suoi figli, non riconosciuti dal nuovo marito, sarebbe andata ancora peggio perché la nuova famiglia li avrebbe sbolognati il prima possibile e senza dote. E’ questo il fenomeno che sta alla base delle spose bambine.

A Nazia è andata bene. Ha trovato il coraggio di ribellarsi e di scappare. Delle attiviste dell’associazione PortoAmico, l’hanno aiutata a recuperare i figli ed a tornare in Italia, grazie all’escamotage che i bimbi, pur senza documenti, erano cittadini italiani. Altrimenti non ci sarebbe stato nulla da fare. Così come è per le tante Nazie che non hanno avuto questa fortuna, donne sposate a forza e poi rispedite in Pakistan con un destino di umiliazioni e vendette trasversali. 
E c’è da sottolineare che leggi come quelle sulla sicurezza che hanno allungato e complicato l’ottenimento della cittadinanza non hanno fatto altro che il gioco di questo sistema patriarcale, penalizzando le vittime e aiutando i carnefici. Ma questo, chi le ha scritte lo sapeva bene, giusto?

Pakistano e gay
Ho conosciuto T. H. - giovanotto di origini pakistane e nato in Italia - qualche tempo fa ad un concorso di poesia dove si era classificato tra i primi cinque autori premiati. Due anni dopo l’ho ritrovato per puro caso in una città di cui non farò il nome. Era in fuga. “Sono riuscito a scappare da casa solo perché sono un uomo e di casta alta. Mi volevano obbligare a sposare una cugina. Ma io sono gay e ho già un ragazzo. Mi dicevano che non importava, che una volta sposato potevo fare quello che volevo ma che la famiglia mi imponeva di sposare questa mia cugina che era ancora in Pakistan. Io l’ho sentita via Skype - di nascosto perché parlare con la futura moglie è vietatissimo -. Neanche lei voleva sposarmi. Così ho deciso di scappare quando ho visto che mi avevano comperato il biglietto per Islamabad. Siccome sono un uomo, ero io gestire i miei documenti. Per le ragazze invece spetta al padre conservarli e loro non ne possono entrare in possesso. Sono un’arma di ricatto. Poi, essere di casta alta - non che la cosa a me importi, eh? - mi ha aiutato nella fuga perché quelli più in basso non possono permettersi di agire contro di me, perlomeno non immediatamente. Così sono scappato. Adesso vivo qui. La città è grande e, grazie a dio, non c’è una comunità pakistana strutturata. Ho trovato un lavoro e il mio ragazzo mi ha raggiunto. Ma ho ancora paura della vendetta della famiglia, continuo a nascondermi e se posso non uso il mio nome. Ho terrore di sapere cosa possano aver fatto a quella povera ragazza rimasta ad Islamabad. Le vendette in Pakistan sono sempre trasversali”.

Il dramma della seconda generazione
Le ragazze ed i ragazzi di seconda generazione vivono una doppia vita che causa loro grandi sofferenze: italiani in classe e pakistani in famiglia. Sono tante le ragazze che cercano di ribellarsi, che vorrebbero continuare gli studi, lavorare, essere indipendenti e scegliere da loro la loro vita. Drammi ai quali la società è indifferente. “La cosa peggiore è l’indifferenza degli italiani. Il loro non voler capire - mi ha spiegato un giovanotto pakistano di nome Hamed -. Gli basta che lavoriamo e che non nutriamo pretese, comprese quelle sindacali, e va tutto bene”.

Il padre non manda più la figlia a scuola? Ho sentito presidi rispondere che spetta al genitore decidere sulla figlia, dopo gli anni dell’obbligo. Il padre ed i fratelli non permettono alla ragazza di frequentare educazione fisica perché il futuro marito potrebbe avere da ridire? Ci sono prof che si considerano progressisti che ti spiegano che bisogna rispettare le loro culture! Poi ci sono i cosiddetti mediatori culturali pakistani. Fanno comodo alle amministrazioni perché tengono sotto controllo le comunità ma a che prezzo avvenga questo controllo non gliene importa niente a nessuno.

Come Saman
Storie come quelle di Saman, sono frequenti in chi lavora all’interno della comunità pakistana. Racconta Grazia Satta, attivista di PortAmico, che ha lavorato tanti come professoressa in una superiore di Portomaggiore, in classi con alta densità di studenti di origine pakistana: “Capita che anche le mediatrici di cui ti fidi e che ritieni in gamba facciano il doppio gioco. Si è rivolta a me una ragazza che, come Saman, non voleva accettare il matrimonio combinato perché era innamorata di una ragazzo pakistano che aveva conosciuto a scuola. Il padre l’aveva chiusa in casa ed io ho chiesto aiuto alla mediatrice pakistana. Ma le cose non si muovevano. Quando sono riuscita a rimettermi in contatto con Sarah, chiamiamola così, questa mi ha detto, impaurita, che la mediatrice faceva il gioco della famiglia! Sarah, si è salvata perché ha rinunciato ai suoi progetti. Quando ho interpellato la mediatrice, questa mi spiega che la ragazzina è viziata e che il padre è un buon padre e che sa lui cosa è meglio per la figlia. O forse pretendevo di conoscere meglio io, che non sono pakistana, la situazione? La notte prima dell’inizio dell’esame di maturità Sarah mi manda un messaggio: ‘se non sarò a scuola mandate i carabinieri a casa, mio padre non vuole che io mi diplomi e mi ha chiuso in casa’. Il padre ha intercettato il messaggio, ma ha avuto paura dei carabinieri e le ha permesso di venire a scuola. Ma poi Sarah ha dovuto cedere e accettare il matrimonio”. 
“Sarah dopo il matrimonio è tornata in Italia e ci siamo incontrate ad una festa - continua Grazia -. Mi ha abbracciato, mi ha detto che stava bene, che ora la famiglia l’amava e che era contenta. Poi improvvisamente si è tolta la maschera e ha cominciato a piangere a dirotto. Mi ha confessato che era disperata e mi ha confessato che, prima di sposarsi, aveva proposto al suo ragazzo di fuggire assieme. ‘Ma lui non ha avuto il coraggio. Diceva che ci troveranno e ci ammazzeranno entrambi’. Poi Sarah ha smesso di parlare e ha continuato solo a piangere”.

Società infettate dal patriarcato
All’interno della comunità e all’ombra del patriarcato si sviluppano relazioni sociali malate. E’ una costante di tutte le comunità patriarcali. Il maschio che non sa imporre la sua autorità diventa l’oggetto di chiacchiere, risate malevole, fino ad arrivare ad un vero e proprio mobbing. E anche la moglie e i figli ne subiscono le conseguenze perché sono moglie e figli di un uomo che non sa fare l’uomo. La ribellione di una giovane figlia è la cosa peggiore che possa capitare in questi contesti. tutta la famiglia sarà esclusa dalle relazioni sociali e additata con disprezzo e malevolenza. Tutto questo avrà conseguenze anche per i parenti che vivono in Pakistan. In ambienti piccoli dove le comunità ricostruiscono un Little Pakistan, l’effetto è devastante. Lo è molto meno, per fortuna, nelle città dove le relazioni interculturali hanno maggiori occasioni per svilupparsi. Ma non è una uso che gli omicidi capitino in paesi piccoli dove si registra una grande percentuale di migranti.

Dalla parte di chi si ribella
“Su queste situazioni - conclude Grazia Satta - i servizi sociali sono impreparati, il più delle volte non sanno neppure che esistono le caste e i matrimoni combinati, non capiscono queste relazioni mai codificate e sotterranee, non hanno mezzi per intervenire e hanno anche paura di essere attaccati da destra e pure da sinistra, perché, per tanti, questi discorsi non sono politicamente corretti. Una seria riflessione sulle migrazioni nel nostro Paese è difficile da fare perché il dibattito è drogato da paure immotivate e fake news cavalcate dalla destra. Se affermi che in una democrazia come la nostra una ragazza deve poter decidere chi sposare e che il sistema della caste è semplicemente incompatibile con i valori in cui crediamo, rischi di venir accusata di essere anti islamica e di fare il gioco dei sovranisti. Ma l’Islam non c’entra niente qui. E neppure il Pakistan. Un italianissimo come Pillon plaudirebbe questo sistema. Il vero nemico è il patriarcato. Ragazze che si ribellano ce ne sono e tante. I veri colpevoli siamo noi che non sappiamo, non vogliamo dar loro un appiglio, una leva per spezzare le loro catene”.


Verona: cronache di ordinaria ingiustizia

L’amministrazione chiude i dormitori invernali e lascia per strada 80 ospiti. Poi la riapertura, ma entra solo chi ha il "permesso"
Un bel regalo, quello che il Comune di Verona, ha fatto ai lavoratori migranti, per il primo maggio, festa del lavoro! “Siamo tornati al dormitorio come ogni sera, dopo aver passato la giornata a raccogliere fragole nei campi della Bassa, e ci siamo sentiti dire che dovevamo raccogliere le nostre cose e di andarcene, perché il Comune aveva deciso di chiudere la struttura”, raccontano. E così, una settantina di migranti si è trovata di punto in bianco, sbattuta per strada. Si tratta di manodopera considerata indispensabile dai produttori agricoli locali. Lavoratori insindacalizzati, sfruttati (se va bene) con contratti capestro o addirittura senza nessun tipo di tutela. Lavorano dal sorgere del sole al tramonto per pochi euro, per rifornire i nostri supermercati di frutta e di verdura. Il trattamento economico al quale devono soggiacere, non permette loro neppure di pensare ad affrontare le spese di un affitto.

E così erano costretti a vivere nel dormitorio che il Comune aveva predisposto per affrontare l’emergenza freddo. Con l’approssimarsi della primavera, le associazioni per i diritti dei migranti avevano chiesto all’amministrazione di prolungare l’apertura del dormitorio o, come sarebbe preferibile, adoperarsi per trovare una soluzione alternativa e meno precaria a questa sistemazione d’emergenza.

“Ci avevano anche assicurato di sì - spiega Giorgio Brasola, portavoce del laboratorio Paratodos - ed invece poi si sono rimangiati la parola, hanno cambiato idea e, senza nessun preavviso, hanno chiuso la struttura lasciando la gente in strada!” 


Per i lavoratori migranti, non c’è solo l’innegabile disagio di dormire per strada, senza un tetto sulla testa. Si tratta persone con un permesso di soggiorno regolare ma in via di rinnovo. Un certificato di residenza è indispensabile per ottenere questo rinnovo. Il nostro sistema di (mala) accoglienza sembra strutturato per “clandestinizzare” i lavoratori migranti. “Tutto è pensato perché non possano mai uscire dal precariato - commenta Giorgio Brasola - e il loro lavoro possa continuare ad essere sfruttato senza nessuna garanzia sindacale. Devono rimanere invisibili, senza diritti”. 



La risposta che l’amministrazione comunale di Verona non ha saputo o, più probabilmente, voluto dare, l’hanno data centinaia di cittadini che hanno aperto le porte dei loro spazi comuni, che hanno portato brande, coperte, materassi, ma anche saponi, detergenti, carta igienica, cibo. Soprattutto, hanno portato solidarietà, sostegno e, non meno importante, qualche sorriso. Infermieri e medici volontari del Cesaim, l’ambulatorio di medicina che accoglie immigrati sprovvisti di assistenza sanitaria, hanno fornito assistenza medica e praticato i tamponi che sono fondamentali in tempi di pandemia come questo che stiamo attraversando. Fondamentali non solo per chi vi si sottopone, ma per tutta la comunità per un possibile tracciamento del contagio.

Persone senza nessun ruolo istituzionale che hanno saputo inventarsi quelle risposte che le istituzioni, con tutti i mezzi a loro disposizione, non hanno voluto dare.

Diciassette di questi migranti hanno trovato casa negli spazi del Laboratorio Paratodos. “Ci stiamo chiedendo però dove sono finiti gli altri - conclude Giorgio Brasola -. Non eravamo preparati ad affrontare una emergenza di queste proporzioni. Ci sentiamo piccoli ma non accettiamo di cedere ad un sentimento di impotenza. Grazie a tutte le persone che ci hanno aiutato ad accogliere questi migranti. Non solo per i generi di prima necessità che ci hanno donato ma soprattutto per averci dato forza e coraggio”.

Proprio la grande risposta venuta dalla gente comune, ha spinto l’amministrazione a riaprire la struttura, sia pure con criteri di ammissione diversi. In altre parole, il dormitorio è stato riaperto ma… non per tutti!

Il freddo non è più una emergenza e solo alle persone "in regola" è stato permesso il ritorno nel dormitorio. Chi non ha fatto distinzione tra possessori o meno di un regolare documento, sono le attiviste e gli attivisti del Paratodos che continua ad ospitare chi ha bisogno di un tetto. Tre dei ragazzi sono ancora ospiti del laboratorio autogestito.

Per loro, ma anche per tutti gli altri lavoratori migranti che non possono e non devono accontentarsi di un posto letto precario in un camerata, la lotta continua, spiegano al Paratodos. “Al Comune di Verona chiediamo di investire più risorse nei servizi sociali e di mettere a punto una seria politica che risolva strutturalmente il problema dell’accoglienza e del diritto alla casa per i tanti, che siano migranti, disoccupati, precari sottopagati, che non riescono ad averla, nella consapevolezza anche che allo scadere del blocco degli sfratti la situazione diventerà esplosiva. Alla Prefettura ed alla Questura di snellire le procedure per l’ottenimento del permesso di soggiorno per chi ha fatto domanda di sanatoria, nonché di agevolare le pratiche per il rinnovo, in quanto la mancanza di questo documento condanna le persone alla precarietà, alla ricattabilità e all’invisibilità".

Paratodos in fondo, significa ”Per tutti” e riprende un noto slogan zapatista: “Para todos todos, nada para nosotros”. Tutto per tutti, niente per noi. Perché, proprio in questi tempi di pandemia, se c’è una cosa che il Covid dovrebbe averci insegnato è che i diritti, come quello alla salute, o sono di tutti o non sono di nessuno.

Le intercettazioni ai giornalisti non sono solo uno scandalo. A Trapani è stata intercettata la democrazia

La losca vicenda delle intercettazioni ai giornalisti che si occupano della Libia non può essere circoscritta ai colleghi spiati che pure sono stati profondamente lesi nei lori diritti di cittadini, oltre che nell’aperta violazione della loro carta deontologica che gli impone la tutela delle fonti.

Questa storia non può neppure riguardare, più in generale, la sola categoria professionale degli iscritti all’Ordine, ma investe la stessa tenuta democratica del nostro Paese perché nasconde un preciso piano di insabbiamento della verità, colpendo chi questa verità ha il dovere di scoprire e diffondere. Un modus operandi che non è nuovo a chi segue le vicende della politica italiana e che ci ricorda tanti altri insabbiamenti il cui fine è sempre stato quello di ingabbiare la democrazia del nostro Paese. Mi riferisco, per fare un esempio, alle stragi fasciste, ma anche a casi celebri come l’abbattimento di Ustica o all’assassinio di Ilaria Alpi. Tutte vicende che hanno visto interi apparati militari e polizieschi operare per coprire sanguinosi segreti di Stato.

Le centinaia e centinaia di pagine di intercettazioni finite nei brogliacci che gli inquirenti hanno depositato alla procura di Trapani nell’ambito dell’inchiesta su presunti traffici di migranti compiuti dalle navi delle ong, non possono essere giustificate come errori o verifiche eccessive attuate al solo scopo di completare le indagini in corso. I giornalisti intercettati non erano e non sono indagati per questa vicenda, e nessuno aveva motivo di ritenere che potessero essere implicati nei reati contestati alle ong. Reati che, tra l’altro, non ci sono.

Perché, diciamolo come va detto, siamo davanti soltanto all’ennesima montatura politica per criminalizzare il lavoro di chi salva i migranti in mare.

Ma proprio per questo, proprio perché siamo di fronte ad una persecuzione giudiziaria usata come arma per far politica, l’inchiesta pubblicata su Domani del giornalista Andrea Palladino, fa ancora più paura. Fa paura perché siamo di fronte ad un potere che sa benissimo da che parte sta la ragione. Lo sappiamo noi e lo sa anche chi governa che non sono le ong che violano i trattati internazionali sul soccorso in mare. Non sono le ong che finanziano politiche assassine di esternalizzazione delle frontiere [1]. Non sono le ong che finanziano bande di delinquenti come la guardia costiera libica [2] o che sostengono regimi corrotti, fascisti e massacratori in cambio degli ultimi barili di petrolio rimasti su questo pianeta agli sgoccioli.

Non sono le ong, ma le politiche migratorie dell’Unione Europea che dovrebbero finire nel banco degli imputati per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalle convenzioni i internazionali. Intercettare i giornalisti che, inseguendo quella che il codice deontologico chiama la “verità sostanziale dei fatti”, non possono fare altro che raccontare quanto accade in Libia e nel Mediterraneo, non può nascondere altro che un tentativo del potere di nascondere o tacitare questa verità. E nascondere e alterare la verità, lo sappiamo bene, è la prima regola di uno Stato fascista. Perché la libera informazione è uno degli scudi più potenti a difesa della democrazia.

Ma c’è anche un secondo aspetto, ancora più pericoloso che va messo in luce. L’inchiesta della procura di Trapani è cominciata nel 2017 su pressione del Servizio Centrale Operativo (Sco) alle dipendenze dell’allora ministro Marco Minniti. Un nome che non ci tranquillizza affatto, considerando che la “stretta” sulle politiche migratorie, perseguita poi da Matteo Salvini, è avvenuta proprio con questo egregio rappresentante del Pd.

Vien da chiedersi allora come lo Sco intende o intendeva usare queste intercettazioni. Scoprire le fonti che fornivano informazioni ai giornalisti? Per lo più si tratta di persone che vivono situazioni già pericolose che hanno un rapporto fiduciario col giornalista professionista che ha l’obbligo deontologico di tutelarli. Far trapelare questi nomi significa mettere loro, e spesso anche le loro famiglie, a rischio della vita.

Nello Scavo di Avvenire, è stato intercettato mentre chiedeva ad un migrante detenuto in un lager libico se fosse possibili avere dei video che denunciavano le brutalità commesse dagli aguzzini. Altri giornalisti sono stati intercettati mentre pianificavano con contatti locali un viaggio in Libia.

L’aspetto più inquietante della faccenda è che i giornalisti non sono stati soltanto intercettati ma ne sono stati rilevati anche gli spostamenti. Davvero queste sono informazioni “basilari” nell’ambito di una indagine farlocca sulle ong? No. Questa giustificazione non è assolutamente sostenibile. Sottolinea Beppe Giulietti in un suo tweet “Non abbiamo risposta alla domanda essenziale: perché venivano registrati i colloqui tra una cronista come Nancy Porsia e la sua legale Alessandra Ballerini (l’avvocata della famiglia Regeni. ndr) e perché sono state trascritte le parti relative ad un prossimo viaggio in Egitto “senza scorta” dell’avvocata?”. La risposta fa paura.

Normali abusi di frontiera. Ma stavolta tocca a degli italiani subirli

Diritti e frontiere non stanno mai dalla stessa parte della barricata. Lo imparano a proprie spese le migliaia di persone migranti che cercano rifugio in Europa e sono costretti a sottostare ad ogni genere di abusi. Ma, proprio come i diritti che o sono di tutti o non sono di nessuno, anche gli abusi quando sono tollerati finiscono per colpire anche te, che hai la pelle bianca e sei europeo, che non vieni da un Paese in guerra, che non hai mai sofferto la fame e che non sei stato costretto a scappare per disperazione. Tu, che hai avuto la fortuna di nascere dalla parte “giusta” di questa terra e che hai in tasca un passaporto valido per l’espatrio.

Andrea Garuccio, studente di Erice all’ultimo anno del corso di laurea magistrale in Cooperazione Sviluppo e Migrazioni dell’Università di Palermo, è uno di questi “fortunati”. Lo sa bene e, un pochino, se ne vergogna pure. “Se penso ai miei amici del Gambia, del Senegal, della Palestina, persone che sono passati per la Libia o da altre rotte e che hanno dovuto sopportare di tutto per arrivare in Europa, mi sento quasi in imbarazzo a riferire quanto è accaduto a me. Eppure questi comportamenti vanno comunque denunciati. Anche perché quello che hanno fatto passare a me, lo fanno passare anche ai mie amici migranti. E mentre se io vengo respinto alla frontiera torno a casa mia, in Italia, loro vengono rispediti in Paesi dove non vengono riconosciuti né diritti, né assistenza, né lavoro. O peggio ancora sono costretti a far ritorno nei luoghi in cui sono dovuti scappare per la guerra o per la fame”.

Andrea si era imbarcato verso Tunisi sabato 27 marzo. Non era una vacanza, la sua. Andrea ha vinto una borsa di studio nell’ambito del progetto Erasmus+ e stava per raggiungere l’Università El Manar della capitale tunisina e completare il secondo semestre per ottenere il Doppio Titolo di Laurea in Relazioni Internazionali. “Pensavo ingenuamente che sarei stato accolto a braccia aperte - racconta - ed invece, arrivato alla dogana tunisina, non faccio in tempo a infilare il mio bagaglio nel metal detector che la polizia mi ferma e mi porta in altro ufficio per ulteriori controlli”.

Qui, gli viene sequestrato il passaporto - che gli sarà consegnato soltanto poco prima che la nave riparta alla volta dell’Italia - e viene subissato di domande. Dove vai? Dove risiederai? Hai il biglietto di ritorno? Quanti soldi in contanti hai con te? “Io ho mostrato tutti i documenti che avevo e che mi aveva mandato l’Ufficio Internazionalizzazione in collaborazione con l’Agenzia Nazionale Indire che gestisce il canale Erasmus+, ma per loro era solo carta straccia. Avrei dovuto fermarmi Tunisi sino a fine luglio. Che senso aveva fare il biglietto di ritorno adesso? E va bene, mi sono detto. Ho fatto il biglietto col cellulare davanti ai loro occhi. Ma ancora non andava bene. Ho chiamato il mio docente dell’Università El Manar che ha garantito per me… ma niente da fare. Mi hanno tenuto per 12 ore in dogana e poi mi hanno rispedito a casa”.

A condividere la brutta avventura con Andrea c’erano altre sette persone, tutti sbarcati dalla stessa nave: quattro italiani, due olandesi e un argentino. “Tra gli italiani c’era una donna incinta in condizioni precarie di salute. Era di origine tunisina e sposata con un italiano. Piangeva disperata ed è stata trattata ugualmente in modo disumano. Se molti progetti umanitari prevedono e garantiscono il ricongiungimento familiare, davanti ai miei occhi si stava consumando una separazione arbitraria, senza nessun motivo. Ci sono volute quattro ore prima che le permettessero di sedersi”.

Ti è sembrato che cercassero di spillarvi qualche banconota? “Io avevo 600 euro con me. L’ho dichiarato quando me lo hanno chiesto ma, sinceramente, non mi è sembrato che volessero derubarmi. Al signore argentino invece, che ha dichiarato un migliaio di euro, ne hanno espressamente chiesti 500. Lui però non ha pagato”.

Alla fine, il nostro Andrea è stato l’unico ad essere respinto. “Gli olandesi avevano un appuntamento col ministro del turismo ed è dovuto intervenire lui in persona per farli sbarcare. Gli altri sono riusciti a passare dopo quell’assurdo fermo di 12 ore. C’è chi ha dovuto fare una prenotazione di 600 euro in Hotel anche se ad attenderlo aveva la famiglia ed una casa dove avrebbe risieduto. Perché io sia stato costretto a tornare in nave, non lo so e non me lo hanno voluto dire”.

Anche il ritorno non è stato dei più felici. La nave Catania della Grimaldi ha fatto scalo a Salerno e lo studente ha dovuto rimanere a bordo 4 giorni, prima di rincasare a Palermo.

“Per fortuna, il personale della Grimaldi è stato gentilissimo con me e mi ha aiutato in tutti i modi, ed anche di più di quanto avrebbero dovuto ad esempio fornendomi supporto nella traduzione con la dogana e provando a convincerli in tutti i modi che fossi uno studente, stampa degli ulteriori documenti richiesti, internet, ma fondamentale è stato il calore e la solidarietà umana che ci uniscono in questi casi di sofferenza che potrebbero essere benissimo evitati. Sono stato ospite per i restanti giorni del commissario Claudio Ferrara che con la sua crew mi hanno fornito anche una cabina vista mare. Non ho dovuto sborsare altri soldi per tutto ciò. Ma per me stata comunque una perdita e non solo di tempo. Non potendo partecipare alle lezioni universitarie a Tunisi, la mia borsa di studio ne risentirà”.

Cosa farai adesso? “Credo che ritenterò di raggiungere la Tunisia per concludere i miei studi. Una volta passata la rabbia per l’ingiustizia che ho subito, sono convinto che questa brutta avventura, alla fin fine, mi abbia insegnato molte cose. Che le frontiere siano luoghi dove i diritti sono sospesi, ad esempio. Non è bello né semplice rimanere alle disposizioni di istituzioni straniere che non sai mai di preciso cosa vogliono. Capisco che queste misure sono altresì inasprite dalla confusione delle attuazioni delle restrizioni dovute alla pandemia in corso. Comunque è chiaro che tra il Governo tunisino e chi si trova ad implementare le sue leggi c’è un gap evidente. In questo spazio comunque ci sono individui che potrebbero non perdere l’entusiasmo con i quali si spostano in questi momenti difficili. O che i soprusi non capitano solo ai più disperati e che vanno sempre e comunque denunciati e combattuti”.

Proprio per questo Andrea Garuccio e gli altri colleghi di sventura hanno deciso di fare rete ed attivare una email - italiani.respinti@gmail.com - dedicata a chi è convinto di aver subito ingiustizie ed abbia voglia di raccontare la sua esperienza nelle zone di frontiera.

Le navi prigione della quarantena coatta

Quando anche la pandemia serve a trar profitto dai migranti mentre avanzano le politiche di selezione


Immaginatevi una nave da crociera di gran lusso: Una di quelle con la piscina riscaldata, i ristoranti stellati ed i night club dove tirar tardi la notte. Immaginatevela e poi… gettate nel cestino tutto quello che avete immaginato! Le navi quarantena dove i migranti vengono isolati col pretesto di contenere la pandemia sono tutta un’altra cosa. Attualmente, ce ne sono in attività sei, tutte appartenenti alla Gnv, la società marittima Grandi Navi Veloci: la Splendid, l’Excellent, la Rapsody, l’Allegra, l’Adriatica e la Suprema. Sino a qualche mese fa era in attività anche l’Azzurra che attualmente si trova in un cantiere turco per impellenti opere di ristrutturazione. Il che dà una idea delle condizioni in cui sono questi catorci del mare. Ma il punto non è tanto questo. In fondo, le condizioni in cui i migranti vengono confinati in queste navi non sono poi molto diverse da quelle che devono affrontare negli hotspot di terra. Il punto è che il nostro sistema di accoglienza non funziona proprio. Non funzione perché si fa di tutto per non farlo funzionare. Le navi quarantena sono solo l’ultima assurda ingiustizia di un sistema giù assurdo ed ingiusto. E costoso, naturalmente. Già. Soltanto l’utilizzo di una sola nave costa 50 mila euro al giorno. Capita, come è successo per Azzurra che nello scorso a dicembre aveva a bordo soltanto un migrante di origine ivoriana, che vengano utilizzate per pochissime persone. 


“Mi domando quante cose si potrebbero fare con tutti questi soldi nel campo dell’accoglienza. Ed invece preferiscono regalarli agli armatori. E mi domando anche cosa ne sia stato di tutte le promesse fatta dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, che diceva di voler rimediare ai disastri causati dai decreti sicurezza e di voler impostare un modello basato sull’accoglienza diffusa. Ed invece… siamo ancora al modello ghetto”. 


Commenta così Yasmine Accardo, referente della campagna LascieteCIEntrare, da sempre impegnata nella difesa dei diritti dei migranti e dei rifugiati. 


“Le navi quarantena sono solo uno spreco immane di denaro pubblico. Non costruiscono nulla sul territorio, non favoriscono l’inclusione ma, al contrario, causano nuove ingiustizie e tensioni. Nessuno contesta la quarantena come mezzo utile per contrastare la pandemia, per carità, ma bisogna proprio noleggiare una nave? Non ci son o altri luoghi isolati dove far attendere la gente?” 


Tu sei in contatto con i migranti nelle navi? 


“Forse una delle sole cose positive dello stare in una nave, è che lasciano tenere il cellulare alla gente. Molti migranti ci possono contattare direttamente. Altri casi ci vengono segnalati dai nostri amici tunisini di ‘Terre pour tous’. Così abbiamo mondi di far intervenire i nostri avvocati Alessandra Ballerini, Gianluca Vitale e Gaetano Maria Pasqualino. Siamo riusciti ad ottenere dei congiungimenti e ad anellare dei respingimenti. Ma, esattamente come per gli hotspot, le navi rimangono luoghi dove i diritti sono negati. Le persone non ricevono assistenza legale o informazioni sulle procedure per inoltrare richiesta di protezione. Solo al momento dello sbarco sanno quale sarà il loro destino: il rimpatrio immediato, come accade per quasi tutti i tunisini, il respingimento o il cpr. Gli mettono un foglio in mano, scritto in italiano che magari non sanno neanche leggere, e li costringono a firmare. Molti di loro si trovano sbattuti per strada, magari perché erano inserito in un sistema di accoglienza e ora hanno perso il posto. Ci sono stati casi di minori non accompagnati o di persone con gravi vulnerabilità”. 


La nave quarantena offre un servizio sanitario?


“E come potrebbe? Mica è un ospedale! Anche il personale è limitato. Nella Splendid attualmente ci sono solo 18 operatori per 800 migranti che non soltanto non vedono un legale, ma neppure un medico o uno psicologo. Le condizioni igieniche, stando ai video che ci mandano i migranti, sono disastrose. Ci sono famiglie con bambini. Chi è ammalato deve arrangiarsi. Sono molti i casi che registriamo di autolesionismo o di cure negate. Ricordiamo quella signora, anche lei con problemi psichici, che da Lampedusa è finita in una nave, sempre senza assistenza, e che dopo aver saputo che sarebbe stata rimpatriata si è gettata dal terzo piano. Oppure quel ragazzo che aveva la tubercolosi, che è stato ricoverato d’urgenza appena sbarcato ma che morto poco dopo in ospedale. Chi lo doveva assistere o diagnosticare la malattia mentre era a bordo? Senza contare dei tanti casi che abbiamo segnalato di minori non accompagnati tenuti illegalmente a bordo, privati delle protezioni di legge. Si capisce che in queste condizioni, scoprono rivolte e che la gente si butti dalla nave per tentare di raggiungere la terra pur di fuggire da quel limbo senza risposte e senza futuro”.  


La pandemia è solo una giustificazione? 


“Ripeto. Tenere in quarantena una persona che è  stata esposta al virus è sacrosanto, ma queste navi non servono a questo. Sono soltanto un sistema per infliggere a delle persone che non hanno commesso alcun reato, e per di più in condizioni di bisogno e vulnerabilità, una sorta di  pena detentiva prolungabile sino a quando fa comodo. O, se preferite, un escamotage per tenere la gente fuori dalle scatole il tempo necessario per organizzare il rimpatrio forzato. Ci sono persone per le quali questa cosiddetta ‘quarantena’ è durata 50 o anche 60 giorni. Che senso ha da un punto di vista epidemiologico? Senza contare che, se a bordo i positivi ed i negativi sono sistemati in zone separate della nave, quando sbarcano sono tutti mescolati! Come al Cara di Caltanissetta dove, appena sbarcati, hanno fatto dormire tutti insieme, e pure per terra, positivi e negativi!”


Non servono a contenere la pandemia, non servono all’accoglienza. A cosa servono queste navi, oltre che a far guadagnare gli armatori?


“Potrei risponderti che servono egregiamente a ledere i diritti, ma la verità è che tutto il sistema di accoglienza è mal impostato e le navi sono una parte di questo sistema ma con una valenza in più. L’idea stessa di ‘nave’ restituisce l’immagine di qualcosa che è lontano, che è fuori dai nostri confini, che non ci appartiene. Sono un perfetto esempio di quella disumana esternalizzazione della frontiere che abbiamo visto anche in Libia, in Turchia o nel deserto del Niger, che è il cardine dell’agenda politica dell’Unione Europea sui migranti”. 

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