Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

La storia di Atai

Ha una storia da raccontare, Atai. Una storia che comincia nel sud dall'Afghanistan e che finisce in Italia. Una storia come tante altre, verrebbe da scrivere. Ma non è così. Ogni storia è diversa. Tutte le storie lo sono. Anche quelle che nessuno più ci potrà raccontare. Quelle dei migranti annegati in mare, maciullati sotto le ruote di un tir, asfissiati dentro un container.
Anche per loro, Atai vuole raccontare la sua storia. "Troppa gente ancora non sa chi siamo, cosa succede nelle nostre terre, perché non abbiamo avuto altra scelta se non quella di scappare".
Ecco la sua storia. La storia di Atai.

Sono Atai Walimohammad, ho 20 anni e vengo dall'Afghanistan meridionale. Vivo in Italia dal 2013, ho ottenuto la protezione come rifugiato e lavoro come interprete e mediatore linguistico-culturale. Sono figlio di un medico specializzato in psicologia. Si chiamava Atta Mohammad. Non l'ho mai conosciuto. Ero ancora piccolo quando i mujaheddin lo hanno ucciso.
Quando sono cresciuto, chiedevo sempre di lui a mia mamma. Lei mi faceva vedere le sue foto e i suoi libri. Mi raccontava che fu un imam a decretare la sua morte perché lui si ostinava ad insegnare alla gente del villaggio che non aveva senso farsi ammazzare a vantaggio dei Paesi stranieri. Diceva a tutti che i bambini e le bambine dovevano andare a scuola, a studiare le scienze, e non nelle madrasse dove gli insegnavano che per andare in "paradiso" bisogna farsi saltare in aria.
Così sono cresciuto e il mio sogno era quello di diventare uno psicologo come papà e di continuare la sua opera. La mattina frequentavo la scuola ed il pomeriggio seguivo corsi di matematica, biologia, fisica e chimica. Perché, anche se nessuno se lo ricorda più, un tempo l'Afghanistan era una terra di grandi scienziati e matematici.
I fanatici religiosi mi ostacolavano. Parlavano male di me. Dicevano che ero proprio come mio padre. Ma io continuavo ad andare a scuola ed a studiare la scienza e non la religione.
Poi, era il 2011, i talebani hanno aperto in una zona rurale un centro di addestramento per i kamikaze, in cui veniva insegnato come farsi esplodere per Allah e tutti i ragazzini dovevano andare là a "studiare". Io ero ancora un ragazzino, ma con l'aiuto del Governo sono riuscito ad aprire nel mio villaggio un centro per l'apprendimento dell’inglese e dell’informatica aperto tanto ai bambini quando agli adulti. All'inizio erano proprio in pochi a venirci! Ma, piano piano, il loro numero è aumentato anche se la mia scuola aveva davvero pochi mezzi.
Una volta a settimana venivano gli americani a fare la pattuglia nel villaggio ed io che sapevo l'inglese, andavo sempre a parlare con loro. Un giorno gli americani mi portarono libri, quaderni, tappeti, sedie, matite, lavagne e tavoli. Io ero felice. Potevo avere una scuola vera! Lo ricordo come uno dei momenti più belli della mia vita, il giorno in cui distribuii tutto il materiale ai ragazzi e alle ragazze del villaggio. Anche la gente cominciava a cambiare idea, a capire che un libro è un'arma migliore del fucile. Io continuavo a studiare scienza, ma mi dilettavo anche di arte. Un giorno di febbraio ho fatto una scultura e l'ho portata a scuola per farla vedere agli studenti. All'inizio erano contenti di vederla ma poi qualcuno ha cominciato a dire che rassomigliava a Buddha e alcuni si sono arrabbiati. E' arrivato un insegnante di teologia che ha rotto la mia statua e ha incitato i ragazzi a picchiarmi. Sono tornato a casa insanguinato. Da quel giorno si è sparsa la voce che mi fossi convertito al buddhismo e la gente ha cominciato a trattarmi da infedele. Nessuno è più venuto nella mia scuola.
Un mese dopo, quegli stessi americani che mi avevano regalato sedie e libri, hanno attaccato il mio villaggio, uccidendo 4 persone. Allora mi hanno accusato di essere una spia e di essermi convertito al cristianesimo. I talebani hanno dato alle fiamme la mia povera scuola e mi hanno cercato a casa, devastando e bruciando tutto quello che era mio. Per fortuna, ero lontano, altrimenti mi avrebbero ucciso. Ma non sono più tornato a casa. Sono scappato verso la provincia di Herat e ho deciso che avrei lasciato per sempre la mia patria.

Non voglio parlare tanto del mio viaggio, durato un anno e due mesi. Non è stato un viaggio facile, a piedi, lungo le strade del Pakistan, dell'Iran, della Turchia, della Grecia. Tante volte mi sono nascosto sotto i cassoni dei tir e così nascosto ho attraversato il mare che da Patrasso porta in Italia.
Qui la vita è così diversa. Le donne senza velo mi facevano sorridere ma pensai subito che questo era il posto dove volevo vivere.

A Foggia, fui ospite di un centro di accoglienza. Per meglio integrarmi, ho studiato la lingua italiana e ho cominciato a lavorare in Puglia con gli avvocati che seguono i migranti. Le lingue per me, non sono mai state un problema. Oltre all'inglese e al persiano pashtun, parlo italiano, francese, arabo, urdu. Sto studiando russo e tedesco e seguo il corso di laurea triennale in Scienze della Mediazione linguistica. Lavoro come interprete e mediatore nel Centro di Prima Accoglienza di Zavattarello di Pavia, ed ho trovato una nuova famiglia composta dai miei colleghi e dai ragazzi che ospitiamo.
Vi farà sorridere forse, ma oggi io mi sento anche italiano. Mi sento libero di esprimere le mie idee e i miei interessi. E posso anche sognare di diventare, un giorno, un medico psicologo come lo era mio padre.

Al mio fratello maggiore, Atai Liaqat Ali, le cose non sono andate così bene. Lui era un medico e lavorava in un ospedale. Stava facendo la specializzazione e fu avvicinato dai talebani che gli chiesero di lavorare per loro e che non doveva più curare i governativi. Lui rifiutò. Così lo rapirono mentre lavorava in corsia. A lungo, lo torturarono con l’elettroschock. Alla fine lo abbandonarono mezzo morto sul ciglio di una strada. Da quel momento, non è più stato quello di prima. Il suo cervello ha subito gravi danni e la sua menomazione è presumibilmente irreversibile. Solo le cure antipsicotiche riescono a dargli un po' di sollievo. Quello che rimane della mia famiglia, riuscì a farlo ricoverare in un ospedale pakistano, mentre i talebani davano alle fiamme il suo ospedale e la sua casa. Così anche mio fratello fu costretto a raggiungere l'Italia. Il suo viaggio fu ancora più difficile a causa delle sue condizioni di salute. Adesso è a Crotone, in un centro per richiedenti asilo, ma ancora urla per la paura di essere catturato dai talebani anche se sa che è in Italia.

Perché ho voluto raccontarvi questa storia?
Perché voglio spiegarvi che la guerra in Afghanistan non è tra noi afghani. Sono le potenze straniere che fanno il bello e il cattivo tempo nel mio Paese. Sono loro che ci impediscono di studiare perché studiare significa essere liberi e loro non ci vogliono liberi.
Vi siete mai chiesti come mai i talebani non vengono sconfitti? Oppure da chi siano armati? Siete davvero sicuri che la comunità internazionale voglia aiutare il popolo afghano e non mantenerlo in una situazione di instabilità? La coalizione è in Afghanistan da circa 15 anni. Eppure tutti sanno che i talebani hanno le loro basi in Pakistan. Ma questo è un Paese alleato degli Usa e quindi non attaccabile.
Se davvero la coalizione volesse aiutarci lo avrebbero già fatto. La verità è che a dominare sono gli interessi economici e i miei connazionali non sanno neppure per chi o per cosa combattono. Di sicuro, gli unici a rimetterci sono la gente comune e quelli come me, accusati di esserci "convertiti" a chissà quale religione. Noi che non vogliamo fare la guerra, noi che vorremmo solo poter studiare e vivere in pace per esprimerci liberamente come si poteva fare negli anni ’70, quando le donne non indossavano neanche il velo e il diritto all’istruzione era garantito per tutti e per tutte, pur essendo l'Afghanistan un Paese musulmano. Tanto per ribadire che il problema non è certo l’Islam ma gli interessi economici e politici che girano intorno all’Islam.

La violenza del web per fermare le donne favorevoli all’accoglienza

Una montagna. Di merda, ma pur sempre una montagna.
Io, ci ho pure provato, a spalarla. Volevo vedere se sotto c'era qualcosa che non fosse odio, ignoranza, paura, squallore.O più semplicemente, vigliaccheria.
Ci ho provato, io, ad intervistarli.
Di cosa sto parlando? Di tutti coloro che navigano sul web sono per sputare insulti. Degli "haters", per dirla all'inglese. Gli "odiatori" che usano i social solo per dar sfogo alle loro frustazioni, distribuendo ingiurie gratuite, mai motivate, sempre violente. Qualche volta lo fanno anche di mestiere. Più spesso lavorano gratis. Sempre, le ingiurie sono a sfondo sessuale. Sempre, le vittime sono donne.

La denuncia della presidente della Camera, Laura Boldrini, che in occasione della giornata contro la violenza sulle donne ha reso noto i nomi e le frasi con le quali viene quotidianamente ingiuriata sui social, ha portato al centro del dibattito sulle pari opportunità di genere, una questione che non può essere liquidata semplicemente come "i deliri di pochi folli", perché si tratta di un'arma, consapevole o inconsapevole, atta ad estromettere dalla politica o dalla società le donne che ne vengono fatte oggetto. "Molte donne - ha sottolineato la presidente - devono scegliere se rinunciare al dibattito sull'agorà digitale o chinare il capo e subire violenze inaudite".

Non solo Laura Boldrini. Sono tante, tantissime le donne, e in particolare quelle impegnate in politica, che vengono continuamente fatte oggetto di questi feroci assalti verbali. Gaia Righetto, attivista dello spazio sociale Django di Treviso è una di queste. Coraggiosamente, e, ripeto, coraggiosamente, Gaia ha raccolto qualcuno dei commenti che le vengono vomitati addosso da quando, qualche giorno fa, ha condotto una protesta a base di letame (quello vero, quello da cui "nascono i fior". Ben diverso dalla merda che si raccoglie sul web) alla sede della lega di Quinto. Uno sputo di paese della Marca, salito all'onor delle cronache per aver alzato barricate tutt'altro che eroiche contro un pulmino con a bordo una spaventata donna migranti che era attesa al centro di accoglienza gestito dalle suore.

"Subito dopo la nostra iniziativa, sul mio profilo Facebook e su quello del Django sono apparsi pesanti insulti, quesi tutti a sfondo sessuale, nei miei confronti - racconta Gaia -. Molti profili erano chiaramente fake, altri di persone mai conosciute che vivono nel Lazio o in Regioni distanti. Il che mi fa supporre che ci sia stata una regia comune dietro questi attacchi. Poi ovviamente la cosa si è ingigantita con i commenti apparsi sotto gli articoli dei giornali locali e nella pagine Fb ufficiali della lega e di Matteo Salvini. Per non parlare dei messaggi privati che mi sono arrivati tramite i social".

Possono delle semplici parole essere considerate "violenze inaudite", per dirla con la Boldrini? Chi dice di no, o è in malafede o non ha riflettuto abbastanza sul ruolo della parola che è il laccio con il quali stringiamo quell'insieme di relazioni che costituisce la nostra realtà. E' sulle parole che dio ha costruito l'universo. Poi è arrivato Mark
Zuckerberg che le ha infilate tutte dentro il suo social.

Ma più che la filosofia, parlano gli esempi. Eccovene qualcuno.
Come vedrete, non faremo i nomi, ma i nomi e i cognomi, pure.
Se non ce la fate a reggerli, saltate alla fine del corsivo e non perderete la mia stima. Attenzione che è tutta merda tirata su col "copia e incolla". Gli errori e le sgrammaticature sono tutti loro.

Alessandro Nalli Questa ragazza spero che venga stuprata un giorno da qualche immigrato!!!!!
Marco Sara' mica che il troppo sesso anale le abbia spinto la cacca su su fino al cervello?
Marco Cavendon Ha bisogno di una bella penetrazione islamica sta ragazza, di quelle che facevano i pirati barbareschi o gli ottomani alle schiave cristiane.
Mimma D. Maspero non voglio traumattizzarti Giiorgio ma pensa piuttosto cosa si può nascondere tra le cosce di certe filoimmigrazioniste…
Giorgio Manuli Spero di non provare certe esperienze preferirei un abbondante inalazione di gas lacrimogeno
Mimma D. Maspero mah, dipende se è avezza all'ingoio mi sa di no
Giorgio Manuli ingoia ingoia di tutto e di più fidati
Fabio Massimo Mascolo datele un bel negrone … in fondo è quel che queste donzelle cercano
Rossella Ceriali Righetto vai a far da mediatrice a quelle mille bestie che stanno mettendo a ferro e fuoco un intero quartiere di Torino… Vediamo come celebrano con te la giornata della violenza contro le donne.

Letto tutto? Bravi! E sono solo degli esempi, e neppure i più infami. Scusate la brutalità di quanto pubblicato, ma come per i bambini di Aleppo smembrati dalle bombe, certe cosa bisogna proprio farle vedere. Se no, si rischia di non credersi.
Ora torniamo alla parte razionale dell'articolo.

Dicevo in apertura che gli ho mandato una lettera, ad alcuni di questi "odiatori", chiedendo loro una intervista. L'ho fatto perché volevo capire, prima di raccontare.
Così ho scritto:

Buongiorno a lei,
sono un giornalista e sto conducendo una inchiesta sugli insulti verbali a sfondo sessista nei social. Sul genere di quanto denunciato dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, tanto per capirci.
La contatto perché ho trovato alcuni suoi commenti su Fb riguardanti una ragazza, Gaia Righetto, attivista di uno spazio sociale di Treviso.
Non vorrei entrare nei termini della questione sulle tematiche dei migranti (che esulano dalla mia inchiesta) ma focalizzarmi sull'insulto sessuale in sé.
Mi sarebbe utile concordare con lei una breve intervista che le ruberà dieci minuti al massimo. Se fosse disponibile mi contatti al 347 *.

In alternativa, le chiedo la gentilezza di rispondere, anche brevemente, alle seguenti domande.

  1. Cosa ne pensa della differenza di genere? Ritiene la posizione delle donne paritaria nella nostra società?
  2. Come colloca l'insulto sessuale all'interno del suo pensiero sul genere? Mi spiego meglio. Se dovesse insultare me, che sono maschio ed etero, preferirebbe adoperare un normale turpiloquio oppure cavalcherebbe lo stesso "streaming" sessista, accusandomi di essere un prostituto che si concede a troppe donne a fini lucrativi o che considera le tematiche migratorie solo un fine per ottenere i favori espliciti di tante donne nere? Oppure, pur sapendo che sono etero, userebbe ugualmente il consolidato vocabolario bullistico che si adopera nei confronti dei gay?
  3. L'offesa sessista le regale un senso di gratificazione? In altre parole, la fa "sentire meglio" sotto il profilo dell'auto gratificazione? La considera più un palliativo per una supposta impotenza argomentativa, una sorta di terapia psicologica di sfogo oppure è davvero convinto che possa essere confinato nella mera facezia?
  4. La presidente Laura Boldrini ha sottolineato come molte donne siano costrette a rinunciare al dibattito politico per timore della gogna mediatica. I suoi insulti sono consapevolmente una tentativo per tacitare un avversario politico, sia pure tramite una metodologia discutibile, oppure li considera solo uno sfogo? Nel primo caso, non ritiene che questo possa costituire un impedimento al raggiungimento di una società paritetica? Nel secondo, non ritiene che il problema sia più suo che dell'oggetto dei suoi insulti?
  5. Per ultimo, qualche domanda personale per le quali mi scuso e, se preferisce, può omettere nelle sue risposte. Quale è il suo grado di istruzione? Quali libri sta leggendo in questo momento? Che lavoro fa? Si sente frustrato nella suo occupazione o nella sua vita affettiva?Verifica puntualmente le notizie che rilancia? Se sì, come? Alcuni psicologi mettono in relazione gli insulti sessisti a deficienze in un corretto approccio alla sfera sessuale. Che ne pensa?

Grazie mille e mille cordialità
riccardo bottazzo


Più gentile e professionale di così, proprio non saprei! Così, credeteci, son rimasto male nel constatare che nessuno mi abbia risposto. In compenso, mi hanno bannato tutti in meno di 24 ore.

Allora ho capito che non c'è niente da fare. Sotto quella montagna di merda c'è solo altra merda. Paura, livore, ignoranza e odio che generano altra paura, altro livore, altra ignoranza, altro odio. Sfottere questi miserabile per la meschina ignoranza nella quale conducono le loro vite sarebbe più facile che pigliare per il culo Lapo. Ma non voglio farlo.
Il punto piuttosto, è che questa merda non si può spalare e neppure arginare. Semplicemente, non bisogna permetterle di impestare il web. Come quel fascismo di cui si nutre, non ha diritto di cittadinanza in una società che aspira a definirsi civile.

Questi commenti non possono stare sotto le pagine web dei giornali. Non possono perché sono spazi giornalistici e la deontologia professionale obbliga, ripeto, obbliga i colleghi a bannarle. L'Ordine deve vigilare e sanzionare. Già lo fa sui quotidiani cartacei, ma il web, chissà perché, è ancora considerato un giornalismo con regole tutte sue.

Non possono nemmeno comparire sui social. Facebook periodicamente promette più controlli. Puntualmente, non lo fa mai. Neppure la presidente di Camera è riuscita a farsi bannare un post in cui veniva definita "troia pompinara".
Il fatto è che per il social di Zuckerberg noi non siamo clienti. Siamo lavoratori. E della migliore qualità! Quelli che lavorano con passione, senza guardare a festività o ferie, e non pretendono neppure essere retribuiti! Il sessismo, la xenofobia, il bullismo… per chi tira i profitti di Fb è solo ottima merce che fa reddito.

E poi ci sono i siti. Quelli farlocchi, taroccati, bugiardi che si inventano infamate per i tre centesimi di un click e le cui notizie vengono puntualmente rilanciate da quelle miserie umane sopracitate.
A lavorare per smentirli gli si fa un favore, perché è tutta pubblicità. E poi, come sanno tutti i giornalisti, si fa prima ad inventarsi una balla che a scrivere un articolo. Anzi, la bufala è sempre più cliccata, più letta, più creduta. Insomma, più "social".

Ma tutta questa merda non può navigare sul web. Non invochiamo una censura. Censura che, per come stanno andando le cose - scendi in piazza per contestare il Governo e ti ritrovi licenziato e manganellato - alla fin fine colpirebbe soltanto chi lavora, inevitabilmente anche tramite i social, per costruire un movimento di opposizione al liberalismo. Persone assai più pericolose di quei leoni da tastiera che tremano per la paura di accogliere anche una sola profuga.

Ma bisogna capire che in una società non tutto è ammissibile. In questi casi, la censura non c'entra niente. Invocare lo stupro castigatore per chi la pensa diversamente da te, non ha nulla a che fare con la libertà di espressione. Va punito come chi dà un pugno nello stomaco. E, se lo si fa a una donna, ci vuole l'aggravante come per il femminicidio.

Ci vorrebbe la volontà politica di intervenire seriamente. Una volontà determinata, comune e trasversale perché non riguarda l'ideologia politica ma il vivere civile.
Volontà, purtroppo, ben lontana dai nostri orizzonti. Troppe fortune politiche sono state costruite e consolidate proprio attraverso quei disgustosi messaggi di odio che andiamo a combattere.

Centro Oasi di Carpineto di Ascoli: un CAS all’olio di ricino

La prima cosa che viene in mente, quando si cerca di visitare un Cas, è che se fosse solo quel che afferma di essere - cioè un centro di accoglienza straordinaria per aiutare i migranti ad ottenere lo status di rifugiati ed inserirli in un percorso di inserimento sociale - le porte sarebbero spalancate e non ci sarebbe bisogno di nessuna segretezza.
Non è così, invece.
Per metterci anche solo il naso dentro c’è bisogno di mesi di preavviso, autorizzazioni della prefettura e dei responsabili delle cooperative che gestiscono la struttura. E tante volte non basta neppure questo. Puoi essere un operatore sociale specializzato, un giornalista professionista, un deputato o anche un senatore che non ci sono santi. Inutile invocare diritti sanciti dalla Costituzione, come quello di cronaca per il giornalista o quello di controllo per l’onorevole. Più facile, paradossalmente, entrare in un carcere. E non è un caso. Un detenuto infatti, in molti centri d’accoglienza straordinaria, ha più diritti di un richiedente asilo.
I Cas, così come i Cie, sono isole al di là del confine di ogni giurisdizione civile. Fabbriche di paure, di degrado e di esclusione sociale. Chi ci entra, lascia i suoi diritti fuori della porta. Non è un caso neppure leggere periodicamente nei titoli della cronaca giudiziaria notizie di arresti e indagini nei confronti delle società che li gestiscono. Non si vuole certo generalizzare, ci sono esperienze positive di centri che pur nelle difficoltà odierne di fare accoglienza, complice l’assenza di una visione dello Stato a lungo termine, cercano con tutte le loro risorse di garantire qualità ed eticità pari agli enti gestori dello Sprar, il servizio “
ufficiale” dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Ma il Cas “Oasi” non rappresenta di certo quell’area fertile che vorremmo trovare se fossimo nel deserto.
Il tentativo abortito di entrare nel Cas Oasi di Carpineto di Ascoli Piceno per verificare alcune pesanti segnalazioni che avevo ricevuto, assieme ad attivisti di
LasciateCientrare, di Melting Pot e dell’Ambasciata dei Diritti, non ha fatto che confermare queste supposizioni.
Ma andiamo con ordine, e cominciamo a raccontare la triste ma veritiera storia di una struttura nata per ospitare un centro vacanze per bambini e trasformata in una invalicabile prigione.

L’Oasi che non ti aspetti
Siamo ad Ascoli Piceno, a non più di 10 minuti dal centro della città marchigiana. La struttura in questione, se non esattamente elegante, è senz’altro ampia e probabilmente anche funzionale, perlomeno a vederla dall’esterno. Qualche idiota, aggiungerebbe di sicuro che è uno dei tanti hotel a cinque stelle che l’Italia regala ai migranti mentre i poveri italiani terremotati sono costretti alle tendopoli. Il centro vacanze Oasi Carpineto - scritta che ancora campeggia all’entrata del Cas - se non è certo a cinque stelle, rimane comunque un complesso di buon livello, immerso com’è in un bucolico paesaggio collinare. Ma se il luogo è ideale per avviarci un campo estivo pieno di bambini festanti, la prospettiva cambia di botto se lo trasformi in una galera dove è vietatissimo anche scattare una foto dal cancello.
Diventare gestori di un Cas è facile!
Diversi anni fa, infatti, la struttura è stata presa in gestione dalla
Giocamondo. Una cooperativa fondata nel ’96 che si occupa di turismo giovanile, campi estivi per bimbi e ragazzi, servizi all’infanzia e turismo scolastico. Un settore che permette di agganciarsi a vantaggiose convenzioni con Inps, Progetto Leonardo, Telecom e via discorrendo. Non mancate di farvi qualche clic sul coloratissimo sito della cooperativa pieno di buoni propositi e facce sorridenti. Meno sorridenti sono le 104 persone finite all’ospedale per una presunta salmonellosi dopo aver partecipato al cenone di capodanno che la cooperativa ha organizzato proprio all’Oasi Carpineto.
Il referto medico parla di salmonellosi. La procura sta indagando e ha rinviato a giudizio il direttore della Giocamondo,
Stefano De Angelis. Gli intossicati hanno fondato anche una imperdibile pagina Facebook che si chiama “avvelenati al ristorante”. Tutto fa web.
Considerato come andavano le cose sulla ristorazione, la Giocamondo deve aver pensato bene di cambiare mercato e di rivolgere le loro attenzioni ad una clientela meno esigente: i profughi.
Dai bambini ai richiedenti asilo il passo non è breve, ma se c’è la convenienza e la buona volontà, si fa anche questo. Così la cooperativa si è gettata sul business dei migranti. Siccome non aveva nessuna competenza in materia, si è valsa del “tutoraggio” dell’
associazione On The Road [1] e naturalmente del sostegno della Chiesa. Abbiamo scordato di riferire che l’Oasi è di proprietà della curia locale. Quella guidata dal vescovo Giovanni D’Ercole. Sì. Quello finito sotto inchiesta per i fondi per la ricostruzione del terremoto dell’Aquila. [2]
A questo punto, nessuno si stupirà se sottolineiamo che Giocamondo faceva comparsate ufficiali all’interno dello stand del
Comune di Ascoli ai meeting ciellini di Rimini. L’attuale presidente del consiglio comunale, Marco Fioravanti, all’epoca consigliere di Fratelli d’Italia, era anche sales manager di Giocamondo. Non possiamo fare a meno di notare che, salendo le scale gerarchiche delle tante cooperative che gestiscono l’affare migranti, compaiano persone con un piede nelle altre sfere della politica e con un passato - e talvolta anche un presente - nell’estrema destra. Senza scomodare Mafia Capitale, anche l’altra cooperativa picena che si occupa di profughi, l’UNITALSI, annovera nel suo organigramma Anna Saveria Capriotti, moglie del Sindaco di Ascoli Guido Castelli, e Giuseppe Pieristé, ex militante di Ordine Nuovo, condannato negli anni ’70 per un attentato ad un giudice.
Qui non si risponde a nessuna domanda
Ma torniamo a Giocamondo, al “
grand hotel a cinque stelle” di Carpineto ed ai suoi “ospiti” forzati. Bella struttura, dicevamo. Quel che lascia a desiderare è il servizio. Quello per gli "ospiti" e quello per i visitatori.
Le richieste di ingresso, erano state spedite per tempo. E con tanto di carte di identità e di tessere dell’Ordine dei Giornalisti, come previsto per legge. Le risposte mai arrivate. Certo. La legislazione prevede il diritto di ispezione. Ma è anche vero che le scuse per rinviarlo all’infinito - "
motivi di sicurezza" - non mancano mai. Così abbiamo deciso di andare ugualmente a bussare alle porte sempre sbarrate del Cas.
Quello che ne abbiamo ottenuto è stata una sceneggiata avvilente per tutti gli attori. Il cancello rimane chiuso. Neppure in anticamera ci hanno fatto entrare. Tutti fuori al freddo e con la pioggia. "
Motivi di sicurezza", naturalmente. E poi sostengono che non sono galere! Esce un operatore che dice di chiamarsi Andrea.
Dice anche che non può lasciarci neppure mettere il naso nel cortile. Perché? "
E che ne so io che non siete Teste rasate?". La domanda di ingresso? Mai ricevuta. La responsabile del centro? Non c’è. Afferma di essere un "compagno" e lo sottolinea più volte. Dice che si dà un gran daffare per il bene dei loro "ospiti". Non vuole essere fotografato. Eppure, le persone che mi hanno segnalato le brutture che accadono dentro quelle mura mi hanno inviato un selfie che questo bel tipo si è scattato in questura, dopo aver fatto arrestare un "ospite" dell’Oasi. Parlare con lui non solo è tempo perso, ma è anche svilente. Finalmente esce la responsabile, Elisa Farina. Quella che secondo Andrea non c’era. Dice di non avere tempo. Lei è lì "per occuparmi dei miei ragazzi" e non per parlare con i giornalisti. "Eppoi uno dei miei ospiti è in pronto soccorso e io devo seguirlo". Lei è medico? "No". E allora…? "Non sono tenuta a rispondere alle sue domande". Me lo scodella tre o quattro volte e alla fine mi stufo anche di fargliele, le mie domande.
Tanti saluti.
Mi viene da pensare a Primo Levi quando racconta di aver chiesto in un lager a un soldato nazista che lo aveva picchiato "
perché?" e quello gli risponde "qui non ci sono perché".
I Cas non sono nient’altro che lager.
Nomi di fantasia, ovviamente
Per sapere cosa accade davvero dentro le impenetrabili mura dell’Oasi, dobbiamo farcelo raccontare da alcuni operatori che hanno deciso di violare la consegna del silenzio e anche dai suoi "
ospiti". Non è difficile trovarli in giro per Ascoli. E se ne conosci uno, te li presenta tutti. Una sola raccomandazione, avvertono tutti. Non scrivete il mio nome vero, perché le ritorsioni sarebbero assai pesanti. Useremo quindi nomi di fantasia per le nostre interviste.
Ecco cosa avviene dentro quelle mura
Incontriamo Marina che - non proprio entusiasticamente - lavora all’interno del servizio accoglienza come “socia lavoratrice” (termine che potremmo tradurre con “lavoratrice sfruttata”) della cooperativa.
Come si svolge il tuo lavoro?
Il Cas ha una responsabile,
Elisa Farina, che all’interno dell’azienda ha paradossalmente la qualifica di Responsabile sia dei servizi educativi che della parte legale. Sotto di lei, ci sono tutti i dipendenti che assumono la qualifica di operatori sociali pur non avendo nessuna competenza specifica. C’è solo una infermiera che però lavora con gli stessi turni degli altri quindi può capitare che se c’è da fare un’iniezione in sua assenza l’iniezione non venga fatta. Come ho detto, gli operatori lavorano su turni ma, come si evidenzia dall’orario, non esiste un criterio specifico; ci sono infatti molti di loro che erano dipendenti di Giocamondo ben prima dell’avvio del Cas e perciò possono trovarsi nella singolare situazione di avere più mansioni anche totalmente avulse l’una dall’altra. Un caso su tutti: un operatore che la notte accompagna alcuni immigrati in commissione a Bari, durante il giorno guida il trenino che scarrozza i turisti per le vie della città ed a volte fa il piano bar in un albergo. Credo che questo possa dare l’idea della serietà con cui la cooperativa ha avviato questo progetto di accoglienza.
Quanti “ospiti” gestite?
Gli ospiti sono 161, in grande maggioranza maschi maggiorenni, per lo più centroafricani e pakistani. Circa un mese e mezzo fa c’erano 30 persone in più ma sono state trasferite. Abbiamo anche delle ragazze nigeriane di cui una minorenne e un bambino di pochi mesi. Abbiamo già sollevato le nostre preoccupazioni per loro in quanto non sembra la scelta migliore ospitare poche ragazze in mezzo a tanti uomini. Inoltre la minorenne ha partorito due gemelli il 3 settembre nell’ospedale di Ascoli ma poi l’hanno subito riportata nel Cas.
Come operate con i migranti più problematici?
Ti racconto soltanto il caso delle due ragazze nigeriane. La più grande ha il virus dell’Hiv, pur se negativizzato, e c’è il sospetto che si prostituisca fuori dal Cas. È nostra “ospite” assieme ad una persona che afferma di essere suo zio. Parentela che sarebbe tutta da verificare perché hanno tutti cognomi diversi e con loro c’è anche una minorenne che è terrorizzata dallo stare sola con il presunto zio. Il sospetto di violenze è forte ma nessuno fa niente.
Anche quando lo zio ha dato di matto e ha urlato per tutto un pomeriggio, era il 3 di agosto, gli operatori se ne sono strafregati e si sono limitati a chiamare la polizia ed a denunciare l’uomo per violenza privata. Denuncia fatta direttamente dalla responsabile del centro che ha raccontato di essere stata aggredita.
Il giorno dopo i giornali locali hanno scritto addirittura che è stata percossa con un bastone, fatto totalmente falso ma non smentito da Giocamondo. Da segnalare un vergognoso
selfie scattato in caserma e che ritrae la responsabile e alcuni operatori sorridenti e soddisfatti per quello che, secondo loro era un evidente lieto fine. Si sono sbarazzati di un problema senza neppure cercare di risolverlo.
Olio di ricino di antica memoria
Angelo è un altro operatore. Se pensa che all’inizio credeva davvero di poter aiutare i migranti operando all’interno di una simile struttura, gli viene da ridere e di darsi del fesso. A lui chiediamo come sono gestite le cure sanitarie nel centro.
In maniera a dir poco terrificante! Sia dal punto di vista psicologico, lo dimostrano le grandi richieste di farmaci come Cipralex, Depakin e Tavor che abbiamo dagli ospiti, che da quello della profilassi, che è inadeguata o assente. E non solo per i migranti, ma anche per noi. Ti faccio un esempio. Tutti gli ospiti fanno il controllo Mantoux per la TBC ma quando risultano positivi non vengono spostati altrove né noi veniamo avvisati di rischi di contagio.
Nei mesi passati c’è stata una piccola epidemia di varicella che è stata l’occasione per instillare nella mente della responsabile il dubbio che forse ci fosse bisogno di una stanza per la quarantena. È stata approntata in poco tempo alla bell’e meglio in un corridoio in cui ci sono sale funzionali e camere di servizio, separato dal resto della struttura da una porta tagliafuoco sempre chiusa. Il problema è che in quel corridoio ci sono le camere degli operatori e anche la camera della famiglia di un dipendente di Giocamondo che vive lì con la moglie e la figlia di 6 anni!
Del resto, sono stati visti malati di tubercolosi portati in ospedale e poi ricondotti al Cas. Io non so se ci sia rischio di contagio, ma certo l’informazione in merito è totalmente assente.
Pur non essendo infermieri, somministrate molti farmaci?
Sì, anche se la tendenza è di ricorrere sempre a patologizzare qualunque tipo di problema piuttosto che risolverlo in altri modi.
Non abbiamo un dottore fisso e per tutte le necessità dobbiamo ricorrere ai medici di riferimento dell’Asur Marche. Ma la questione più grave è la gestione sanitaria interna. C’è un quaderno sui cui tutti gli operatori annotano le terapie il cui nome è “
Medicina 33”. Da “dica 33” … una cosa che dovrebbe farci ridere. Già a leggerlo si deduce la superficialità con cui vengono affrontati i malesseri degli ospiti e l’estrema disinvoltura con cui si somministrano farmaci da banco. Anche nel caso di malanni leggeri dove non ce ne sarebbe assolutamente bisogno, gli operatori preferiscono levarsi di impaccio imbottendoli di tachipirina, aspirina e antidolorifici vari, piuttosto che cercare una soluzione alternativa o spiegargli il danno che comporta l’abuso di medicinali. Mi è capitata tra le mani la scheda di un ragazzo che a giugno ha assunto questa tipologia di farmaci per quasi tutto il mese, somministrata ovviamente dagli operatori che non mancano di firmarsi ogni qualvolta compiono queste imprese. Accade persino che considerino febbre una temperatura a 35,6 o a 36, misurata in maniera che definire approssimativa è fargli un complimento, e “prescrivono” come fossero laureati in medicina, i farmaci che gli paiono più appropriati. Quando invece qualche ospite presenta un problema più serio il primo approccio è sempre l’incredulità seguita da una certa indolenza nella sua risoluzione. È accaduto che un ospite afflitto da calcoli, trauma renale e incrinatura di una costola abbia dovuto soffrire per mesi a causa dell’incuria degli operatori prima di essere mandato in un ospedale.
Altra cosa sconvolgente: i farmaci vengono custoditi nel retro della reception senza alcun riguardo per le prescrizioni della legislazione farmaceutica. Su una scaffalatura costruita utilizzando pezzi di altri mobili ci sono farmaci da banco, psicofarmaci vari e persino qualche oppiaceo. Non ci sono scomparti, né vetrinette né tantomeno serrature che una qualunque farmacia adotterebbe. Una menzione a parte la meritano le sostanze che vengono usate come placebo. Così… tanto per dare qualcosa. La responsabile ha avuto la bella idea di adottare come placebo l’olio di ricino! E sapete perché? Perché essendo disgustoso fa passare la voglia agli “
ospiti” di chiedere altre medicine! E poi, come avviene in tutti i Cie, si fa un uso smodato di sostanze atte a calmare gli animi.
L’olio di ricino mi riporta alla mente un certo regime che, certamente, avrebbe approvato tutto questo!
Raccontami della cucina. Come è il cibo?
Le foto della cucina che posso fornirvi sono eloquenti. Obbrobriose le condizioni igieniche come la qualità, la conservazione e la tipologia del cibo che viene prodotto. E non mi soffermo su alcuni membri del personale (tra cui il cuoco) che è un condensato di razzismo e di astio.
Come è il clima tra voi operatori e i vostri “ospiti”?
In un posto come questo, chiamarli “
ospiti” è una intollerabile ipocrisia! La verità è che queste sono solo persone forzate a vivere in gabbia. Logico che tra loro e noi si erga una barriera che fa sì che, anche nel caso che qualcuno fosse venuto a lavorare con le migliori intenzioni del mondo, rischierebbe di convertirsi a quell’odio, quel disprezzo e quel menefreghismo che emergono ogni giorno dai messaggi che ci scambiamo e che, a parer mio, non hanno giustificazioni pure se le condizioni in cui dobbiamo operare sono terrificanti.
L’organizzazione oltre ad essere assolutamente carente, sfiora il ridicolo: sono tutti burocrati, tra l’incosciente e l’incapace, tutti a parlare del metodo e mai del merito. La struttura è sporca e maleodorante, l’igiene sconosciuto. Basta pensare che i cestini dell’immondizia traboccano di rifiuti per molti giorni prima che a qualcuno venga in mente di svuotarli. Del resto, sul cortile retrostante la struttura, potete ammirare tutti una magnifica discarica a cielo aperto! I vestiti non vengono distribuiti con regolarità anzi la responsabile ha avuto la faccia tosta di proporre di regalarli ai terremotati visto che “
a noi non servono”.
L’infamia e la bugia sono all’ordine del giorno, qualunque cosa accada viene rivoltata contro gli ospiti e amplificata in maniera iperbolica. E poi, leggo di gente che si scandalizza perché il Governo Italiano regalerebbe 32 euro al giorno ad ogni migrante. E nessuno si chiede mai dove vanno a finire questi, 32 euro. No. Bisogna lavorarci dentro per rendersi davvero conto che strutture come queste servono solo a regalare denaro a certe cooperative che non se lo meritano proprio ed a fomentare astio, odio e razzismo.

Voci dal di dentro
Alemseged - altro nome di fantasia - viene dall’Africa centrale dove è scappato dalla guerra. Come ti trovo al centro?
Come tutti. Male.
Quali sono i problemi?
Come veniamo trattati, soprattutto. Il resto sono conseguenze. Viene da chiederci che ci stiamo a fare qua. A cosa serva questo Cas. Dovrebbero aiutarci a compilare le domande per ottenere lo status di rifugiati ed invece non ci viene passata nessuna informazione. Non c’è preparazione per l’incontro con la commissione, non ci spiegano come compilare i moduli C3 per la richiesta. L’avvocato viene una volta al mese, riunisce tutti in una sala e raccoglie le firme. I ricorsi sono fatti in fotocopia senza rispetto per la mia vita e per quello che ho passato. Impossibile parlargli personalmente.
Woyingi è dell’Africa orientale. Racconta che passa tutto quello che guadagna con dei piccoli lavori al mercato di Ascoli per spedirlo alla famiglia. Solo per questo cerca di resistere al "centro vacanze". Vi lamentate anche del cibo?
Non pretendiamo manicaretti ma neppure roba andata a male. Usano prodotti mal conservati, lo stesso piatto viene tenuto sul tavolo, neppure messo in frigo, anche cinque giorni, fino a che qualcuno non lo mangia spinto dalla fame. Abbiamo anche organizzato uno sciopero della colazione. Ci siamo seduti per terra e loro hanno chiamato la polizia come se stessimo distruggendo il centro! Ma è tutto l’insieme che ci fa pensare di essere trattati da bestie. Neppure il ristorante hanno aperto. Ci tocca mangiare nella sala della reception.
Corsi di inserimento sociale o lavorativo…
Figurati! Un ospite che vive all’Oasi da più tempo di me, racconta che una volta ne avevano organizzato uno, ma da quando ci sono io…
Reesom è maggiorenne da poco. Anche lui è fuggito da uno Stato del centro Africa. Gli chiediamo come funziona l’assistenza sanitaria.
C’è un ragazzo con pochi anni più di me che collassa. Ogni tanto casca per terra. La maggior parte degli operatori insinua che faccia finta, che sia una sceneggiata. Così funziona l’assistenza all’Oasi. Medicine? Te le danno a loro discrezione e secondo me, te le danno a caso perché non sono né medici né infermieri. Prima che ti portino da un vero medico o in ospedale, devono essere sicuri che stai per morire. La verità è che di te non gliene frega niente. Cercano solo di evitarsi le rogne. Se imbottendoti di tranquillanti e di antidolorifici stai più tranquillo, loro ti imbottiscono di tranquillanti e di antidolorifici. Credo anche che abbiano finte medicine da somministrarci per liberarsi di noi il prima possibile e pretendono anche di prenderci per stupidi dicendo che la stessa pasticca fa bene per la testa, la tosse, lo stomaco e chissà cos’altro. Hanno anche una specie di olio scuro, non serve a niente per calmare il dolore, ma fa talmente schifo che lo chiedi una volta e poi non lo chiedi più. E ti tieni il dolore.
La tessera sanitaria, che è un vostro diritto, ve l’hanno data? Lo sapete chi è il vostro medico di base?
Alcuni la tessera ce l’hanno, altri no. Non danno mai informazioni su questo punto, come su tutti gli altri, come ad esempio sull’iscrizione anagrafica. So di persone che gli è stata negata oppure che non sono stati avvisati. Altri invece, come me, sono riusciti a farsela dare. È così che funzionano le cose in un posto come il Cas Oasi: i diritti, anche quelli fondamentali come la salute, sono sospesi e concessi con criteri totalmente arbitrari. Ma allora non chiamiamoli più diritti.
E non chiamiamola neppure "
accoglienza". Perché dove non ci sono diritti, dove le porte sono sbarrate, dove non si può parlare e discutere, dove la gente che più ha bisogno più sta male, questa parola non può essere utilizzata.


Note
[1] In data 9.11.2016 abbiamo ricevuto una richiesta di precisazione dall’ufficio stampa dell’associazione: "Scriviamo in riferimento all’articolo «Centro Oasi di Carpineto di Ascoli: un CAS all’olio di ricino» pubblicato su www.meltingpot.org con la firma di Riccardo Bottazzo in data 8 novembre 2016. Poiché associazione On the Road viene citata all’interno dell’articolo nella seguente dichiarazione: «Siccome non aveva nessuna competenza in materia, si è valsa del “tutoraggio” dell’associazione On The Road» ci sentiamo chiamati a fare una precisazione. La collaborazione tra On the Road e Giocamondo all’interno del Centro Oasi di Carpineto di Ascoli è durata da settembre a dicembre 2015, e si è successivamente interrotta anche a causa di divergenze di vedute rispetto alle modalità di gestione del centro. Da gennaio 2016 On the Road non ha nessun ruolo nella gestione del Centro Oasi di Carpineto. Vi chiediamo pertanto, se possibile, di aggiungere questa informazione in una nota all’interno dell’articolo per esigenze di completezza.
[
2] In data 9.11.2016 abbiamo ricevuto una nota dalla segreteria di Mons. Giovanni D’Ercole:
"
In merito all’articolo apparso sul sito progetto Melting Pot Europa sul centro Oasi di Carpineto di Ascoli Piceno, si sottolineano, esclusivamente a onore della verità, alcune imprecisioni e affermazioni inesatte contenute nel testo e nel titolo introduttivo. In primo luogo si fa presente che la proprietaria dell’immobile Oasi di Carpineto menzionata nell’articolo non è la Curia di Ascoli Piceno bensì l’istituto Seminario Vescovile, ente distinto dalla Curia. In secondo luogo si evidenzia che il Vescovo di Ascoli Piceno Mons. Giovanni D’Ercole non è mai stato inquisito per i fondi di ricostruzione del terremoto dell’Aquila. L’accusa riguardava una presunta rivelazione del segreto istruttorio. A ulteriore precisazione, si fa presente che il reato sarebbe consistito nella circostanza che Mons. D’Ercole, essendo stato informato che un collaboratore avrebbe avuto l’intenzione di compiere una truffa, lo ha ripreso e ammonito severamente di non farlo. Rinviato a giudizio con rito abbreviato, monsignor D’Ercole è stato assolto sia in primo grado perché il fatto non costituisce reato, sia in secondo grado in quanto il fatto non sussiste".

Wael cammina per la pace

Dalla Sicilia alla Spagna, da Pozzallo a Barcellona. Oltre 5 mila chilometri a piedi per lanciare un messaggio di pace.
Saad Alaa ElDin Mohammed Osman, o, più brevemente, Wael, come lo chiamano gli amici, ha 37 anni e non è nuovo ad imprese del genere. Il primo gennaio 2016, accompagnato dal padre, da uno zio e da un amico spagnolo, è partito dalle piramidi di Giza per raggiungere le spiagge di Sharm el Sheik. Dal deserto al mare, 600 chilometri tutti a piedi, in 20 giorni, per dire al mondo che la rivoluzione del 2011 era deragliata in una oppressione senza precedenti, lasciando il suo Paese natale - l'Egitto - in balia di violenze, sopraffazioni e terrorismo.
Oggi, Wael sta per rimettersi in cammino. Sabato 30 ottobre, Partirà da Pozzallo per risalire tutta l'Italia e spingersi poi verso le terre di Francia e di Spagna. Una scelta non casuale, quella di Pozzallo, piccolo Comune sulla costa siciliana e punto d'arrivo di tanti barconi di profughi provenienti dalla Libia. Così come non casuali sono tutte le tappe che Wael ha segnato nel suo lungo cammino. "Voglio dare un messaggio di pace e di fratellanza - spiega -. Per questo non ho scelto il percorso più breve ma voglio toccare tutti i luoghi che sono diventati simboli di una sofferenza che nasce solo dall'ignoranza e dalla paura".

"March for recalling peace", una marcia per chiedere la pace, è il nome che ha scelto di dare alla sua strada. "Ho usato l'inglese perché è la lingua più conosciuta ma il termine 'march' non mi piace - confessa -. Sa di militarismo o di competizione mentre io non voglio vincere nulla perché la mia non è una impresa sportiva. Lo tradurrei in italiano come 'cammino di pace', piuttosto. Ecco, mi piace pensare a me come ad un uomo che cammina".
Wael vive a Venezia da sette anni. Ha lavorato inizialmente come cameriere ma adesso è riuscito a ritagliarsi uno spazio di lavoro nel suo vero mestiere che è quello del regista e dell'attore. Ma per mettersi in cammino verso la Spagna, ha lasciato tutto. "All'inizio pensavo di camminare da Venezia a Gerusalemme ma mi sono imbattuto in un muro di difficoltà burocratiche per ottenere i permessi. In Israele soprattutto, entrare sostenendo che stai marciando per la pace è pressoché impossibile! Poi ho parlato del progetto con una mia amica, Renata, che appartiene all'Asgi (associazione Studi giuridici sull’Immigrazione.ndr) ed assieme abbiamo pianificato questo nuovo percorso. Ci è sembrato importante partire dalla Sicilia che è il punto di arrivo di tanti profughi disperati".
Sarà solo per tutto il viaggio, Wael. Porterà sulle spalle un piccolo zaino con una tenda, un sacco a pelo e qualche capo di vestiario. Ma già nei luoghi dove è previsto il suo passaggio, si cominciano a formare gruppi di sostenitori. "Questa per me è una sorpresa. E' stata Renata a far girare la voce. Per me, camminare è una esperienza spirituale, da fare in solitudine. Lei ha aperto una pagina Facebook che già conta numerosi sostenitori tra singoli cittadini e associazioni. In tanti mi hanno scritto dicendosi pronti ad ospitarmi e addirittura ad accompagnarmi per qualche chilometro. Tra questi, anche il camper di #Overthefortress. Cosa che, ovviamente, mi ha reso felice perché significa che il mio impegno sta cominciando a dare i suoi frutti".
Oltre all'Asgi, a sostenere il cammino di Wael ci sarà anche Melting Pot, assieme a tante altre associazioni come la Chiesa Pastafariana che hanno mandato messaggio di solidarietà alla sua
pagina Facebook. Pagina dove potete mettere un "Mi Piace" anche voi, in modo da seguire in diretta la lunga avventura di Wael. L'hastag di riferimento per Twitter sarà #March4RecallingPeace.

"Io non sono credente - conclude Wael - ma sono ugualmente convinto che la spiritualità sia importante per gli esseri umani. Camminando in solitudine nel Sinai, un luogo dove hanno camminato tutti i più importanti profeti delle tre grandi religioni monoteiste, mi sono reso conto,
durante la mia prima marcia per la pace, che allontanarsi da una vita moderna e da una società basata silo sui consumi, allontana anche la paura e facilita la comprensione degli altri e di quello che davvero siamo. Ho sentito crescere in me dei sentimenti che non avevo mai provato prima e ho capito che si poteva vivere benissimo, anzi, ancor meglio, senza concedere niente all'odio, agli istinti di sopraffazione ed alla paura. Ecco. questo sentimento profondo che non è religioso ma senza dubbio spirituale, è quanto desidero comunicare col mio cammino".

E torniamo a parlare di schiavitù

Non si vedono, non si sentono, non se ne parla. Eppure esistono e sono tanti. E tanti di loro vivono in Italia. Nascosti, senza documenti, senza diritti. Sfruttati, ricattati dai padroni, pagati con quel minimo di sostentamento necessario a cominciare domani un’altra giornata lavorativa. Molti sono minorenni, tantissimi sono bambini. Per il capitalismo predatorio, rappresentano il carburante indispensabile a far “girare” l’economia e portare in attivo le aziende. Stiamo parlando dei moderni schiavi. Schiavi che non hanno nulla da invidiare a quelli che raccoglievano cotone nelle grandi piantagioni del Sud confederato, se non che, se allora la proprietà di un altro essere umano era considerata legale, oggi è l’essere umano che nasce dalla parta sbagliata del “muro” ad essere considerato illegale e, di conseguenza, privato di qualsiasi tutela. Niente di più che una “merce” da vendere e comperare seguendo i flussi del mercato. Una merce, contrariamente agli schiavi dei secoli passati, illegale ma a bassissimo costo e capace di offrire profitti altissimi agli sfruttatori. Schiavi “usa e getta”, qualcuno li ha definiti. Vittime indifese di una ricattabilità cucitagli addosso dalle leggi esclusive dei cosiddetti Paesi civili.

Secondo l’ultimo rapporto stilato dalla Walk Free Foundation, almeno 45 milioni e 800 mila persone vivono nel mondo in condizioni di schiavitù. Una stima per difetto e in continua crescita nel corso degli ultimi anni. 28 per cento in più rispetto all’anno scorso. Per lo più sono bambini. Minorenni costretti a fare i soldati nella Sierra Leone o arruolati a forza nelle milizie di Boko Haram, bambine prostituite in Thailandia al mercato del sesso o tessitrici di tappeti in Pakistan e in India, piccole domestiche spedite a lavorare nelle case del Golfo Persico, bambini assemblatori di prodotti Made in China, di costosi telefonini di gran marca a Singapore o utilizzati come manodopera a costo zero dalla compagnie di disboscamento amazzoniche.
Nella speciale classifica mondiale che vede in testa come numero di schiavi l’India, seguita dalla Cina e dal Pakistan, anche il nostro Bel Paese fa la sua porca figura e si colloca al secondo posto in Europa, dopo la Polonia, con 129 mila e 600 persone ridotte in schiavitù (dieci volte di più della Francia che pure ha, pressapoco, il nostro stesso numero di abitanti), e al 44esimo nel mondo, dopo il Guatemala e prima della Malesia.

Una menzione a parte in tema di schiavitù moderna, la merita la Corea del Nord, dove il lavoro forzato è stato reso legale per accumulo di debiti, povertà o semplicemente per reati contro la società (o meglio, contro il regime) ed è diventato parte integrante del sistema produttivo. Il Paese dove si giustiziano gli oppositori politici con la contraerea, infatti, è al primo posto come percentuale di schiavi in proporzione al numero di abitanti: 4,37 coreani su cento sono schiavi. Seguono l’Uzbekistan dove la raccolta statale del cotone è effettuata con “arruolamento forzato” e il Qatar dove oltre il 99% dei manovali che realizzano quegli incubi architettonici che tanto piacciono agli sceicchi, sono stati “acquistati” in India, in Nepal e in Bangladesh tramite apposite agenzie.

In Italia e in Europa, i nuovi schiavi sono legati alle migrazioni irregolari e sono la dimostrazione vivente della debolezza della Comunità Europea in tema di diritti umani. Che poi è la ragione della stessa debolezza politica e strutturale dell’Ue che non ha saputo ritagliarsi un ruolo, e una dignità, che non sia solo quello di garantire la fluidità dei mercati.
E così, quei migranti che non abbiamo saputo accogliere e che ci siamo rifiutati di regolarizzare, sono diventati linfa vitale per le mafie, che si sono specializzate nella tratta di esseri umani. Capitolato che oggi rappresenta la loro terza voce di introiti dopo il commercio delle armi e della droga. Solo nel campo della prostituzione forzata, le organizzazioni malavitose mettono a bilancio un introito stimato sui 4 mila 831 milioni di euro all’anno (fonte: centro di documentazione universitario Transcrime). La raccolta di pomodori o di altri ortaggi nei campi del sud Italia sotto il giogo del caporalato, il lavoro in nero in cantieri edili, sotto ricatto di essere denunciati dal padrone per immigrazione clandestina, nel nord del Paese, sono le forme di schiavitù più comuni destinate agli uomini.
Ancora più misteriosa la sorte dei tanti bambini che arrivano alle nostre frontiere e che pure dovrebbero essere tutelati dalle leggi sui minori ma che vengono avviato alla schiavitù per vie traverse. In Europa, almeno diecimila tra bambini e bambine sono spariti senza lasciare traccia e la metà di questi in Italia. Venduti a gruppi criminali che li addestrano ad elemosinare o al furto o allo spaccio o allo sfruttamento sessuale o addirittura, secondo alcune fonti, al mercato illegale di organi.

C’è da sottolineare che il sopra citato rapporto dalla Walk Free Foundation (una associazione finanziata da un magnate del settore minerario australiano, Andrew Forrest, convinto che la schiavitù sia “economicamente” sbagliata) stila anche un puntuale resoconto dell’impegno dei Governi nella lotta alla schiavitù. Questo fenomeno infatti, si legge sul rapporto, ha radici smaccatamente politiche, più che economiche, e può essere abbattuto con interventi concreti e leggi atte ad estendere ed a garantire a tutti gli esseri umani i diritti fondamentali. “Sradicare la schiavitù è giusto moralmente, politicamente, da un punto di vista logico ed economico. Attraverso un uso responsabile del potere, della forza di convinzione, della volontà collettiva, possiamo portare il mondo verso la fine della schiavitù” scrive Forrest.
Un plauso nella lotta alla schiavitù moderna, secondo il rapporto, se lo merita tutto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si è personalmente adoperato perché negli Usa sia vietato importare e commercializzare prodotti realizzati con lavoro forzato o minorile. Menzione di merito anche al Regno Unito che lo scorso anno ha introdotto una speciale legge anti-tratta denominata Modern Slavery Act. Ma Usa e Regno Unito sono rispettivamente al secondo e al terzo posto della classifica dei Paesi virtuosi guidata dall’Olanda che rimane lo Strato che investe di più per fronteggiare il problema, investigarlo e portare aiuto alle vittime della tratta. Seguono Svezia e Australia. E l’Italia? Bisogna, ahimè, scendere al 42esimo posto. Le misure adottate dal nostro Paese, secondo la Walk Free, sono poche ed inefficaci. Non esiste un piano di intervento nazionale, né strutture preposte a sostenere le vittime, né tantomeno sufficienti investimenti in materia. Il tavolo nazionale istituito in mera ottemperanza alle direttive comunitarie si è riunito poche volte e non ha preso nessuna decisione di rilievo. Combattere la schiavitù, evidentemente, non è nella lista di priorità del nostro Governo.

Aiutare i migranti è un reato. Tre attiviste di Udine sotto inchiesta per aver fornito assistenza e informazioni ai profughi

Anche questo è un muro. Non bastassero i chilometri di filo spinato alle frontiere, anche la Procura ci mette del suo per far passare un pericoloso principio giuridico per il quale aiutare un profugo, anche solo fornendogli una semplice indicazione, diventa un reato perseguibile penalmente.

E’ accaduto a Udine dove sette volontari dell’associazione Ospiti in Arrivo che stavano distribuendo coperte e generi di prima necessità a dei richiedenti asilo sono stati identificati e poi denunciati per "invasione di terreni o edifici". Tre di loro - la presidente e la vice presidente dell’associazione e un giovane che faceva da interprete - sono stati iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Reato per il quale rischiano 4 anni di carcere.

Gli attivisti, per prestare assistenza, erano entrati in ex caserme e aree abbandonate di proprietà privata. Che sono poi le zone dove si rifugiano i senza tetto di Udine.
E qui vale la pena di ricordare che, pur se il Friuli Venezia Giulia è una terra di passaggio della cosiddetta “rotta balcanica”, la Questura di Udine è tra le più lente in tutta Italia a consegnare la ricevuta della domanda di protezione umanitaria. L’iter burocratico, che altre Questure sbrigano in una mezz’ora, in Friuli dura anche tre settimane e oltre. Senza questo documento, il profugo non può accedere a nessun servizio di assistenza. Neppure potrebbe trovare un letto in un albergo, anche ammesso che gli sia rimasto in tasca il denaro sufficiente, perché sprovvisto di documenti in regola. Cercare riparo in un luogo abbandonato diventa quindi una naturale conseguenza di un sistema che non offre alternative. Gli attivisti di Ospiti in Arrivo si occupano di fornire un po’ di assistenza a questi migranti, incontrandoli nei luoghi in cui sono costretti a vivere per portargli una coperta, fornendo loro le indicazioni burocratiche per la domanda di asilo ed indicandogli le strutture di assistenza.

Comportamento che, solo alcuni anni fa, sarebbe stato considerato encomiabile e meritevole di un qualche Premio Bontà ma che oggi viene interpretato come un pericoloso atto di ribellione.
In Italia, così come in Europa, sta passando la visione neoliberista per la quale “fare politica” - inteso nella sua accezione più nobile, cioè lottare per a tutela dei beni comuni e dei diritti - sia ideologicamente sbagliato e vada pesantemente sanzionato. La decisione della Procura di Udine, per quanto grottesca, non punta tanto a colpire il dissenso politico in tema di migrazione quanto a far passare l’idea che sia “sbagliato” aiutare i profughi ed a sdoganare l’indifferenza come un atteggiamento positivo e conforme alla legge.
Fare la cosa giusta è diventato sbagliato. Hanno cominciando trasformando in siti di interesse nazionale i cantieri della Tav, in modo da convertire qualsiasi protesta in un reato, e continuano colpendo chi non riesce a rimanere insensibile di fronte alla tragedia dei migranti.

L’accusa alla quale le due ragazze e il loro interprete dovranno rispondere, è di “favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a scopo di lucro”. Il “lucro”, spiega la Procura, starebbe nel 5 per mille che l’associazione intascherebbe, “ottenendo così un ingiusto profitto dalle condizioni di illegalità dei migranti extracomunitari”. Il particolare che Ospiti in Arrivo sia una associazione non iscritta nel registro delle associazioni beneficabili col 5 per mille, non gli è neppure passato per la testa!

Le giovani attiviste avrebbero “fornito il proprio numero di cellulare a svariati soggetti al fine di assicurarne la diffusione in capo ai clandestini che arrivavano a Udine o provincia, così venendo da loro contattato al fine di poterne poi organizzare il ricovero presso strutture o altro … Fornendo indicazioni precise su come muoversi in Italia, in particolare per quanto concerne la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico”. Non solo. Secondo la Procura, le due ragazze e il loro interprete avrebbero fatto anche di peggio: “accogliendo e accompagnando circa trenta clandestini afghani presso la Caritas di via Treppo il 29 dicembre”.
Tutto qua il reato da 4 anni di galera.

“In Friuli il filo spinato che divide l’Europa è già entrato nel codice penale” ha sintetizzato sull’Espresso il giornalista Fabrizio Gatti cui va il merito di aver sollevato il caso dinanzi all’opinione pubblica. E nel caso che il procedimento giudiziario procedesse, sottolinea Gatti, si “aprirebbe invece un nuovo, drammatico corso che metterebbe in discussione l'operato di migliaia di volontari, di associazioni laiche, parrocchie, l'Alto commissariato per i rifugiati, le stesse direttive attuali del ministero dell'Interno. Tanto da dover considerare perfino il messaggio del Papa, più volte ribadito, alla stregua di una pericolosa istigazione a delinquere”.

Cosa più unica che rara in un collega giornalista, Fabrizio Gatti, non si è limitato a diffondere la notizia ma si è fatto promotore di un appello a favore delle due attiviste e del loro interprete giungendo persino ad autodenunciarsi, dichiarandosi “mandante morale e complice in concorso dei reati contestati dalla Procura… per aver più volte segnalato a cittadini stranieri, sprovvisti di documenti, strutture di assistenza sanitaria e legale”.
Ma quanti di noi non hanno mai fatto queste cose? Arrestateci tutti, allora!

Non per caso, l’appello in questione, che può essere letto integralmente e sottoscritto a questo
link si chiama proprio “Arrestateci tutti!” Primo firmatario Loris De Filippi, presidente di Medici senza Frontiere.
Non per caso, l’appello si richiama esplicitamente al rispetto di quell’articolo 2 della Costituzione su ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Doveri che, letti oggi, sembrano davvero rivoluzionari e pericolosi, visti sotto la lente del neoliberalismo.

Non per caso, l’appello conclude così: “Se donare soccorso, vestiti, scarpe, coperte e cibo a persone abbandonate per strada dalle istituzioni - che sembrano ricordarsi di loro solo quando viene il momento di sgomberarle dai luoghi in cui hanno trovato rifugio - è un reato, allora noi tutti ci dichiariamo pubblicamente colpevoli”.
Arrestateci tutti, allora!

La vera emergenza non sono i profughi ma i diritti. Il rapporto di LasciateCIEntrare racconta la “malaccoglienza”

“Ci sentiamo come se fossimo spazzatura scaricata su una strada”. “Ci trattano peggio degli animali. Non ci danno i saponi e poi dicono che siamo sporchi!” “Qui non ci lasciano fare niente! Ci sentiamo perseguitati e a casa nostra non possiamo tornare, è tutto distrutto!” “Nessuno ci dice niente. Neppure quando abbiamo la commissione” “Se abbiamo dei problemi fanno finta di niente e ci dicono domani, domani… e se ti ammali nessuno si occupa di te. C’è un ragazzo che ha sempre la febbre. Ma credete che qualcuno lo veda?” “Siamo stanchi di essere trattati come bestie, qui dentro ci viene negato qualsiasi diritto”.

Sono solo alcune delle voci raccolte dagli attivisti della campagna LasciateCIEntrare e pubblicate nel loro ultimo rapporto 2015. Ricordiamo che LasciateCIEntrare, come si evince dal nome stesso, è una campagna nata nel 2011 quando l’allora ministro
Roberto Maroni chiuse militarmente i Cie impedendo non solo agli operatori sociali ma anche a giornalisti e deputati di entrare nelle strutture. Il divieto fu successivamente ritirato anche grazie all’opera di sensibilizzazione portato avanti dagli attivisti della campagna. Da allora, LasciteCIEntrare monitora l’attività di questi centri e redigendo ogni anno un puntuale rapporto.
Nel 2015, gli attivisti sono riusciti ad entrare in una ottantina di questi cosiddetti centri di “accoglienza”: dai Cie ai Cas sino ai centri del sistema Protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), i centri per minori stranieri non accompagnati (Msna), i centri di Primo soccorso e accoglienza (Cpsa) e i cosiddetti centri “informali”.

Tante sigle per un solo risultato: quando un rifugiato varca le mura di uno di questi, chiamiamoli col loro nome, carceri, i suoi diritti restano fuori. Ma considerato che anche i carcerati hanno più diritti riconosciuti dei richiedenti asilo, dovremo scrivere forse “lager” al posto di carcere. Qui il migrante viene trattato come un soggetto totalmente passivo, con il quale l’operatore evita di interloquire e di rapportarsi. Un “sacco di rifiuti” - come hanno detto gli stessi migranti - che non ha neppure il diritto di sapere in quale discarica sarà gettato.
L’incertezza del proprio futuro e la mancanza di trasparenze nelle trafile burocratiche, caratteristiche di un ambiente nel quale i diritti sono merce sconosciuta, è la principale fonte di malessere degli “ospiti”, così infatti vengono ipocritamente chiamati i migranti, di questi centri.

Nei Cie, in particolare, gli attivisti della campagna si sono imbattuti nelle situazioni più drammatiche. Ricordiamo solo le continue vessazioni che periodicamente tengono banco in cronaca, cui sono sottoposti i migranti della struttura di Ponte Galeria a Roma, dove la scorsa estate è esploso il caso delle ragazze nigeriane, alcune delle quali minorenni, vittime della tratta che sono state detenute senza alcun tipo di sostegno e, in alcuni casi, anche rimpatriate.

“I Cie si sono confermati inutili, lesivi di ogni livello della dignità umana, luoghi di deprivazione e di lesione sistematica dei diritti dei trattenuti - si legge nel documento diffuso da LasciateCIEntrare-. In quanto tali confermiamo la convinzione che debbano essere il più rapidamente possibile chiusi e che con essi debba sparire ogni forma di detenzione amministrativa”.

Ma anche se non sono Cie, tutti i centri di “malaccoglienza” testimoniano una totale mancanza di progettazione del problema dei rifugiati e, in generale, delle migrazioni, che continua ad essere gestito sotto la logica militare dell’emergenza e della percezione della cosiddetta “sicurezza”. Ghettizzazione e sovraffollamento sono solo conseguenze dell’affidamento di quello che è un problema sociale alle prefetture che operano senza nessun vincolo di consultazione e, non di rado, in totale disaccordo con le politiche degli enti locali.
Proprio nei Cas, strutture direttamente prefettizie dove si trova il 72 per cento dei richiedenti in attesa di una risposta di asilo, il rapporto di LasciteCIEntrare ha rilevato le criticità più pesanti “ascoltando le storie e la rabbia di chi da mesi vive in condizioni pessime, all’interno di centri che - come sottolinea l’associazione Cronache di Ordinario Razzismo che ha diffuso il documento - non solo sono fonte di business incontrollabili, ma che si rivelano anche socialmente disastrosi, producendo marginalizzazione e abbrutimento”.

E proprio per fare chiarezza su questi “business incontrollabili” che LaciateCIEntrare, CittadinanzAttiva e Libera hanno promosso la campagna InCAStrati per chiedere al Ministero dell’Interno di rendere pubblici e trasparenti i bilanci dei Cas, fornendo inoltre tutte le informazioni sulle gare di appalto e le convenzioni.

Le richieste sono state inviate nel giugno del 2015. Tutt’oggi, le risposte da parte del ministero sono state, secondo il rapporto, scarse, vaghe ed incomplete.

“Segno che il monitoraggio della situazione non viene sempre assicurato, forse proprio a causa delle indegne condizioni spesso rilevate - spiegano -. Le tante disfunzioni sono state segnalate anche alle Prefetture, con lettere che è possibile leggere all’interno del rapporto. Ancora assenti le risposte. Questo silenzio, così come i dinieghi ricevuti alle richieste di accesso, dimostrano come la trasparenza rispetto alle proprie azioni sia un concetto che ancora raramente si affaccia nei nostri Palazzi”.
Tutto questo mentre si allargano le indagini e gli scandali sulle allegre gestioni di tanti, troppi enti gestori di questi centri di “malaccoglienza”: da Roma a Mineo, da Avellino sino a Gradisca di Isonzo.

La confisca dei beni dei migranti è legge in Danimarca

Nient’altro che una infamata. Un infamata che, per come stanno andando le cose in una Europa che ha tradito Schengen, rischia di venir fotocopiata da tutti gli altri Paesi della Comunità. Ci riferiamo alla legge approvata martedì 26 gennaio dal parlamento danese e che riforma la normativa sulla protezione internazionale, introducendo la possibilità di confiscare i beni dei richiedenti asilo. Non solo. La riforma altro non à che un giro di vite per tutti gli aspetti dell’accoglienza: allunga da uno a tre anni il tempo di permanenza nel Paese prima di poter avviare le pratiche per il ricongiungimento familiare, riduce i sussidi ai migranti del 10 per cento e accorcia il permesso di soggiorno da cinque a due anni.

Ma l’aspetto più pesante, immediatamente rimbalzato tra gli ambienti politici nostrani più xenofobi che hanno subito proposto di replicarlo anche in Italia, è la confisca dei beni dei migranti che bussano alla frontiera.
La nuova legge autorizza la polizia a perquisire i profughi ed a confiscare loro ogni bene o somma di denaro superiore alle 10 mila corone (al cambio attuale 1340 euro e 2 centesimi). Sono esentati oggetti considerati “affettivi” come, ad esempio, le fedi nuziali, ma a dettar legge rimane l’insindacabile giudizio del poliziotto. Cosa che non è precisamente una garanzia di giustizia ed imparzialità.

Va sottolineato che l’approvazione di questa legge ha colto di sorpresa tanto i giornali danesi più critici quanto le associazioni per i diritti dei migranti che la consideravano alla stregua dell’ennesima provocazione da parte della destra al governo del Paese e del premier Lars Lokke Rasmussen. Salvo poi ritrovarsi con l’atto legislativo approvato da una larghissima maggioranza del parlamento: 81 favorevoli su 109 votanti. Il che significa che anche l’opposizione socialdemocratica ha votato il provvedimento, vantandosi, per di più, di essere riuscita a far innalzare il tetto delle corone confiscabili dalle 3 mila cui faceva riferimento la proposta iniziale, alle attuali 10 mila. Non c’è che dire. Una bella vittoria politica per un centrosinistra danese che somiglia fin troppo a quello italiano!

D’ora in poi, una famiglia che entra in Danimarca per chiedere asilo, lo potrà fare solo in braghe di tela, abbandonando nella mani dei poliziotti tutto il denaro e i beni che erano riusciti a portar via. Ciò che non ha distrutto la guerra e che non ha rubato lo scafista, finirà nelle tasche del Governo Danese.

La motivazione avanzata da Rasmussen è naturalmente quella di “aiutare lo Stato a coprire le spese dell’accoglienza”. In realtà, lo scopo è soltanto quello di allontanare i migranti dalle loro frontiere. Una delle tante, ovvie conseguenze della totale assenza di una vera politica europea, comune ed autorevole, fondata sulla solidarietà e sui diritti riguardo le migrazioni ed i richiedenti asilo.
Come era lecito aspettarsi, il provvedimento danese ha subito fatto scuola e già il ministro degli Interni di Baviera, Joachim Herrmann, ha dato mandato alla polizia tedesca di confiscare ai rifugiati ogni bene superiore ai 750 euro.

A questo punto, pare quasi banale affermare che il progetto di una Europa dei popoli, se mai era stato concepito, è abortito tra fili spinati, muri, frontiere armate e centri di detenzioni che altro non sono veri che propri lager.
Il marcio non è solo in Danimarca.

Incitano alla violenza. Un avvocato tedesco denuncia tre top manager di Facebook

La notizia viene dalla Germania. Un avvocato tedesco, nonché attivista sul tema dei diritti umani di chiara origine coreana, Chan-jo Jun, ha denunciato tre manager di Facebook per i reati di incitamento alla violenza e diffusione di odio razziale. I tre denunciati sono Shane Crehan, Jaspal Singh Athwal e David William Kling; tutti top manager di Facebook Germany GmbH che gestisce il noto social network in terra tedesca per conto dell’azienda statunitense fondata da Mark Elliot Zuckerberg. La notizia viene dalla pagina on line della rivista Spiegel ed è stata riportata in Italia, sino ad ora ed a quanto ci risulta, solo dal sito www.stranieriinitalia.it.

L’accusa mossa dell’avvocato riguarda una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza che non sono stati bannati nonostante le segnalazioni. Il procedimento è stato preso in carico dalla procura di Amburgo, dove ha sede la Facebook Germany GmbH, e apre finalmente la strada dell’azione legale contro i seminatori di odio e di bugie in rete in quell’oceano senza etica che è Facebook, dove ti obbligano a cambiare nome se usi quel soprannome con il quale tutti ti conoscono, ma puoi scrivere impunemente che bisognerebbe “sparare ai clandestini”. Petizioni e richieste anche formali di dotarsi di un regolamento etico, non sono sortite a nulla perché - e questo Zuckerberg lo sa bene - il successo di Facebook si nutre di impunità. Qualsiasi cretino può aprire la sua pagina come se aprisse un giornale tutto suo e vomitarci su tutti i parti del suo cervello malato. Fascisti, leghisti, complottisti e xenofobi con le loro “notizie” tendenziose quando non espressamente inventate di buzzo buono, sono la clientela privilegiata di Facebook. La benzina da bruciare in rete, al pari degli ultimi gossip dei personaggi televisivi.
Zuckerberg lo sa bene, abbiamo scritto, ma non lo confesserebbe neppure a sua madre ed a domande specifiche risponde candidamente: “Non possiamo bloccare contenuti per il semplice fatto che sono falsi: questo violerebbe quella stessa libertà d’espressione che promuoviamo”. Vale appena la pena di ribattere che una cosa sono le opinioni che tutti noi possiamo avere su una determinata questione, un’altra è raccontare la fiaba che “ai clandestini regalano 38 euro al giorno sottratti agli italiani poveri, e li fanno vivere negli hotel a cinque stelle”. Stesso discorso per gli incitamenti alla violenza. Gli sfoghi dei frustrati che invitano a prendere a cannonate le barche dei profughi non possono avere cittadinanza né su Facebook né sugli altri social. E neppure nel mondo dove voglio vivere io, se vogliamo dirla tutta!

Un appello in tale senso viene da una frequentata community di giornalisti italiani, che dal suo sito www.giornalistisocial.it ha lanciato un appello all'Ordine, al Parlamento ed a Facebook “perché si attivino il prima possibile, ciascuno per quanto di sua competenza, per fermare questo fenomeno”.
“Da tempo - scrivono - i social media sono invasi da notizie false pubblicate da siti di dubbia natura, il cui unico scopo appare quello di inventare titoli più eclatanti possibile (spesso addirittura inventando gravi fatti di cronaca legati a immigrati, sesso, droga o personaggi pubblici) per acquisire clic sfruttando la credulità popolare. Queste ‘notizie’, in pochi minuti, fanno il giro d'Italia e della rete, saltellando da una bacheca all'altra di Facebook. E mettono in serio pericolo la verità dei fatti e la credibilità dei media”.

Il problema vero, tanto in questo appello come nella denuncia pendente ad Amburgo, sta nell’individuare le responsabilità (Zuckerberg… vai a pigliarlo!) La genialità dell’avvocato Chan-jo Jun sta nell’aver individuato non tanto tre tecnici informatici, pure di alto livello, ma i tre maggiori responsabili nel campo della raccolta pubblicitaria di Facebook in Germania! La legislazione tedesca infatti prevede serie aggravanti per chi dall’incitamento all’odio, ricava un interesse economico.
Se questa strada porterà a qualche risultato lo vedremo nei prossimi giorni.

Intanto ecco tre proposte concrete segnalate su GiornalistiSocial sulle quali possiamo impegnarci sin da adesso: 1) Chiedere all’Ordine dei Giornalisti di pubblicare sulle sue pagine ufficiali l’elenco dei siti internet che pubblicano sistematicamente "notizie" tendenziose e false; 2) fare pressione sui nostri parlamentari perché si attivino per arrivare alla stesura di un regolamento etico per Facebook e gli altri social (a questo punto, personalmente, ci credo poco considerando che sono proprio tanti nostri parlamentari a diffondere balle e xenofobia sui social…); 3) segnalare sempre le bufale xenofobe e presentare esposti alla magistratura contro le testate che diffondono regolarmente false notizie per esercizio abusivo della professione giornalistica.
Magari, già che ci siamo, ricordiamoci che in Italia esiste ancora di incitamento all’odio razziale e che anche quello di apologia di fascismo, a quanto mi risulta, non è ancora stato depennato!

#nohatespeech: giornalisti e lettori contro la diffusione del razzismo nel media

Il razzismo non è una opinione come tutte le altre e la xenofobia non è una “notizia giornalistica”. Chi lavora nella comunicazione ha il dovere di non fare da amplificatore a discorsi che fomentano l’odio e, già che ci siamo, dovrebbe anche smetterla di far girare notizie false al solo scopo di aumentare la tiratura del proprio giornale, l’audience della propria trasmissione tv e i “click” del proprio sito web. Scopo che, tra l’altro, non si raggiunge con questi sistemi tra il furbetto ed il vigliacco. Perché se si manda a puttane la deontologia va a puttane la stessa credibilità dei giornalisti e il motivo per cui i lettori ci leggono.
Questo è il motivo per il quale l’associazione Carta di Roma e la Federazione Europea dei Giornalisti ha lanciato l'appello #nohatespeech (non incitiamo l’odio) volto a contrastare il proliferare di notizie false e xenofobe, con contorno di commenti o dichiarazioni palesemente razzisti e violenti, nei media tutti, dalla carta stampata alle televisioni, dai blog ai social media.

L’appello parte dai giornalisti ma si rivolge anche agli editori, agli amministratori dei social network ed ai lettori (finalmente visti non solo come fruitori del prodotto editoriale ma anche come parte integrante del sistema comunicativo).
Ai giornalisti #nohatespeech chiede di recuperare un ruolo di “filtro” delle notizie. Il che non vuol dire “censura”. Mi spiego con un esempio. Se il sindaco leghista di Bondeno, quattro case in croce in provincia della civilissima Ferrara, convoca una conferenza stampa in cui sostiene che aumenterà l’Imu a chi accoglie i profughi, l’operatore dell’informazione che gli sta davanti deve avere chiaro in testa che questa non è una notizia ma una cagata. E’ una cagata, non perché il sindaco di Bondeno sia un imbecille e la sua opinione non vada rispettata, ma perché, semplicemente, non rientra nei poteri di un primo cittadino aumentare l’Imu secondo criteri del cavolo, come le persone che io, libero cittadino, mi tiro in casa. La “verità putativa dei fatti”, come ti spiegano nei corsi, è che questo signore ci ha convocato soltanto per avere un suo spazio - e gratis - nei giornali in cui amplificare e far rimbalzare il suo poco riverito nome in quel fognaio di urla razziste che ammorbano l’informazione e le menti dei lettori più… deboli. Onde per cui, non c’è nessuna notizia da scrivere, se non che il sindaco di Bondeno è quel mentecatto che tutti conoscevamo. Il giornalista a questo punto, deve fare una sola cosa. Chiudere il taccuino, salutare il signor sindaco (ma questo è facoltativo) e andarsi a cercare qualcosa di più interessante da scrivere.
Adesso, sono il primo a riconoscere che non sempre è così facile. Come comportarsi quando è un eurodeputato a vomitare razzismo? Non sempre è possibile chiudergli il microfono in faccia. Interrogazioni, proposte di legge chiaramente xenofobe sono notizie che non si possono non dare. In questo caso, è importante non amplificarle (ce lo ha detto il dottore di invitare Salvini in ogni trasmissione?), ricollocarle nel giusto contesto, e segnalarle alla magistratura se violano leggi come l’istigazione all’odio razziale o l’apologia del fascismo.

Tutte cose queste, che non possono fare solo i giornalisti. Categoria sempre più ai margini del sistema comunicativo. #nohatespeech si rivolge anche ai lettori, perché segnalino alle redazioni articoli e commenti razzisti o fomentatori d’odio. L’appello chiede a tutti coloro che usufruiscono del mezzo comunicativo di “isolare chi esprime discorsi di odio, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto”.
E questo è un punto molto, molto importante. Se cade il muro che ci impedisce di legittimare il razzismo come una opinione tra le tante, cadono i presupposti della nostra democrazia. E stiamo bene attenti, perché questo muro può cadere anche nelle nostre stesse teste. Ricordiamoci sempre, quando ci viene la baldracca idea di provare a far ragionare un nazista, che il razzismo non è una opinione ma un reato. Come il diritto di stupro.

L’appello dell’associazione Carta di Roma si rivolge anche alle testate giornalistiche, chiedendo loro di bannare quei feroci commenti che si trovano sotto gli articoli di cronaca e scritti per di più da persone malate ma non per questo meno pericolose. Qualche giornale lo ha fatto. Un bel po’ di cortesi ma determinate segnalazioni alle testate on line che non lo hanno ancora fatto potrebbe risultare vincente.
Più difficile sarà convincere i proprietari o gli amministratori dei social network a fare altrettanto ed a bannare pagine razziste o fasciste. I vari signori Zuckerberg sembrano più interessati a contare soldi che ad intervenire con dei provvedimenti che, alla fin fine, gli fanno solo perdere clienti. Preferiscono trincerarsi dietro ad una ipocrita difesa di una democrazia e di una libertà di pensiero che è proprio lo scudo di chi sparge violenza per sopprimere democrazia e libertà di pensiero.
Qui potete leggere, a magari anche sottoscrivere, l’appello #nohatespeech. Se lo facciamo in tanti, forse riusciremo a convincere anche i vari signori Zuckerberg.
Vedi gli articoli precedenti
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