Voci dal Sud è la mia rubrica sul sito Melting Pot. Questi gli ultimi editoriali che ho pubblicato

La confisca dei beni dei migranti è legge in Danimarca

Nient’altro che una infamata. Un infamata che, per come stanno andando le cose in una Europa che ha tradito Schengen, rischia di venir fotocopiata da tutti gli altri Paesi della Comunità. Ci riferiamo alla legge approvata martedì 26 gennaio dal parlamento danese e che riforma la normativa sulla protezione internazionale, introducendo la possibilità di confiscare i beni dei richiedenti asilo. Non solo. La riforma altro non à che un giro di vite per tutti gli aspetti dell’accoglienza: allunga da uno a tre anni il tempo di permanenza nel Paese prima di poter avviare le pratiche per il ricongiungimento familiare, riduce i sussidi ai migranti del 10 per cento e accorcia il permesso di soggiorno da cinque a due anni.

Ma l’aspetto più pesante, immediatamente rimbalzato tra gli ambienti politici nostrani più xenofobi che hanno subito proposto di replicarlo anche in Italia, è la confisca dei beni dei migranti che bussano alla frontiera.
La nuova legge autorizza la polizia a perquisire i profughi ed a confiscare loro ogni bene o somma di denaro superiore alle 10 mila corone (al cambio attuale 1340 euro e 2 centesimi). Sono esentati oggetti considerati “affettivi” come, ad esempio, le fedi nuziali, ma a dettar legge rimane l’insindacabile giudizio del poliziotto. Cosa che non è precisamente una garanzia di giustizia ed imparzialità.

Va sottolineato che l’approvazione di questa legge ha colto di sorpresa tanto i giornali danesi più critici quanto le associazioni per i diritti dei migranti che la consideravano alla stregua dell’ennesima provocazione da parte della destra al governo del Paese e del premier Lars Lokke Rasmussen. Salvo poi ritrovarsi con l’atto legislativo approvato da una larghissima maggioranza del parlamento: 81 favorevoli su 109 votanti. Il che significa che anche l’opposizione socialdemocratica ha votato il provvedimento, vantandosi, per di più, di essere riuscita a far innalzare il tetto delle corone confiscabili dalle 3 mila cui faceva riferimento la proposta iniziale, alle attuali 10 mila. Non c’è che dire. Una bella vittoria politica per un centrosinistra danese che somiglia fin troppo a quello italiano!

D’ora in poi, una famiglia che entra in Danimarca per chiedere asilo, lo potrà fare solo in braghe di tela, abbandonando nella mani dei poliziotti tutto il denaro e i beni che erano riusciti a portar via. Ciò che non ha distrutto la guerra e che non ha rubato lo scafista, finirà nelle tasche del Governo Danese.

La motivazione avanzata da Rasmussen è naturalmente quella di “aiutare lo Stato a coprire le spese dell’accoglienza”. In realtà, lo scopo è soltanto quello di allontanare i migranti dalle loro frontiere. Una delle tante, ovvie conseguenze della totale assenza di una vera politica europea, comune ed autorevole, fondata sulla solidarietà e sui diritti riguardo le migrazioni ed i richiedenti asilo.
Come era lecito aspettarsi, il provvedimento danese ha subito fatto scuola e già il ministro degli Interni di Baviera, Joachim Herrmann, ha dato mandato alla polizia tedesca di confiscare ai rifugiati ogni bene superiore ai 750 euro.

A questo punto, pare quasi banale affermare che il progetto di una Europa dei popoli, se mai era stato concepito, è abortito tra fili spinati, muri, frontiere armate e centri di detenzioni che altro non sono veri che propri lager.
Il marcio non è solo in Danimarca.

Incitano alla violenza. Un avvocato tedesco denuncia tre top manager di Facebook

La notizia viene dalla Germania. Un avvocato tedesco, nonché attivista sul tema dei diritti umani di chiara origine coreana, Chan-jo Jun, ha denunciato tre manager di Facebook per i reati di incitamento alla violenza e diffusione di odio razziale. I tre denunciati sono Shane Crehan, Jaspal Singh Athwal e David William Kling; tutti top manager di Facebook Germany GmbH che gestisce il noto social network in terra tedesca per conto dell’azienda statunitense fondata da Mark Elliot Zuckerberg. La notizia viene dalla pagina on line della rivista Spiegel ed è stata riportata in Italia, sino ad ora ed a quanto ci risulta, solo dal sito www.stranieriinitalia.it.

L’accusa mossa dell’avvocato riguarda una sessantina di post e di pagine contenenti messaggi di odio e di violenza che non sono stati bannati nonostante le segnalazioni. Il procedimento è stato preso in carico dalla procura di Amburgo, dove ha sede la Facebook Germany GmbH, e apre finalmente la strada dell’azione legale contro i seminatori di odio e di bugie in rete in quell’oceano senza etica che è Facebook, dove ti obbligano a cambiare nome se usi quel soprannome con il quale tutti ti conoscono, ma puoi scrivere impunemente che bisognerebbe “sparare ai clandestini”. Petizioni e richieste anche formali di dotarsi di un regolamento etico, non sono sortite a nulla perché - e questo Zuckerberg lo sa bene - il successo di Facebook si nutre di impunità. Qualsiasi cretino può aprire la sua pagina come se aprisse un giornale tutto suo e vomitarci su tutti i parti del suo cervello malato. Fascisti, leghisti, complottisti e xenofobi con le loro “notizie” tendenziose quando non espressamente inventate di buzzo buono, sono la clientela privilegiata di Facebook. La benzina da bruciare in rete, al pari degli ultimi gossip dei personaggi televisivi.
Zuckerberg lo sa bene, abbiamo scritto, ma non lo confesserebbe neppure a sua madre ed a domande specifiche risponde candidamente: “Non possiamo bloccare contenuti per il semplice fatto che sono falsi: questo violerebbe quella stessa libertà d’espressione che promuoviamo”. Vale appena la pena di ribattere che una cosa sono le opinioni che tutti noi possiamo avere su una determinata questione, un’altra è raccontare la fiaba che “ai clandestini regalano 38 euro al giorno sottratti agli italiani poveri, e li fanno vivere negli hotel a cinque stelle”. Stesso discorso per gli incitamenti alla violenza. Gli sfoghi dei frustrati che invitano a prendere a cannonate le barche dei profughi non possono avere cittadinanza né su Facebook né sugli altri social. E neppure nel mondo dove voglio vivere io, se vogliamo dirla tutta!

Un appello in tale senso viene da una frequentata community di giornalisti italiani, che dal suo sito www.giornalistisocial.it ha lanciato un appello all'Ordine, al Parlamento ed a Facebook “perché si attivino il prima possibile, ciascuno per quanto di sua competenza, per fermare questo fenomeno”.
“Da tempo - scrivono - i social media sono invasi da notizie false pubblicate da siti di dubbia natura, il cui unico scopo appare quello di inventare titoli più eclatanti possibile (spesso addirittura inventando gravi fatti di cronaca legati a immigrati, sesso, droga o personaggi pubblici) per acquisire clic sfruttando la credulità popolare. Queste ‘notizie’, in pochi minuti, fanno il giro d'Italia e della rete, saltellando da una bacheca all'altra di Facebook. E mettono in serio pericolo la verità dei fatti e la credibilità dei media”.

Il problema vero, tanto in questo appello come nella denuncia pendente ad Amburgo, sta nell’individuare le responsabilità (Zuckerberg… vai a pigliarlo!) La genialità dell’avvocato Chan-jo Jun sta nell’aver individuato non tanto tre tecnici informatici, pure di alto livello, ma i tre maggiori responsabili nel campo della raccolta pubblicitaria di Facebook in Germania! La legislazione tedesca infatti prevede serie aggravanti per chi dall’incitamento all’odio, ricava un interesse economico.
Se questa strada porterà a qualche risultato lo vedremo nei prossimi giorni.

Intanto ecco tre proposte concrete segnalate su GiornalistiSocial sulle quali possiamo impegnarci sin da adesso: 1) Chiedere all’Ordine dei Giornalisti di pubblicare sulle sue pagine ufficiali l’elenco dei siti internet che pubblicano sistematicamente "notizie" tendenziose e false; 2) fare pressione sui nostri parlamentari perché si attivino per arrivare alla stesura di un regolamento etico per Facebook e gli altri social (a questo punto, personalmente, ci credo poco considerando che sono proprio tanti nostri parlamentari a diffondere balle e xenofobia sui social…); 3) segnalare sempre le bufale xenofobe e presentare esposti alla magistratura contro le testate che diffondono regolarmente false notizie per esercizio abusivo della professione giornalistica.
Magari, già che ci siamo, ricordiamoci che in Italia esiste ancora di incitamento all’odio razziale e che anche quello di apologia di fascismo, a quanto mi risulta, non è ancora stato depennato!

#nohatespeech: giornalisti e lettori contro la diffusione del razzismo nel media

Il razzismo non è una opinione come tutte le altre e la xenofobia non è una “notizia giornalistica”. Chi lavora nella comunicazione ha il dovere di non fare da amplificatore a discorsi che fomentano l’odio e, già che ci siamo, dovrebbe anche smetterla di far girare notizie false al solo scopo di aumentare la tiratura del proprio giornale, l’audience della propria trasmissione tv e i “click” del proprio sito web. Scopo che, tra l’altro, non si raggiunge con questi sistemi tra il furbetto ed il vigliacco. Perché se si manda a puttane la deontologia va a puttane la stessa credibilità dei giornalisti e il motivo per cui i lettori ci leggono.
Questo è il motivo per il quale l’associazione Carta di Roma e la Federazione Europea dei Giornalisti ha lanciato l'appello #nohatespeech (non incitiamo l’odio) volto a contrastare il proliferare di notizie false e xenofobe, con contorno di commenti o dichiarazioni palesemente razzisti e violenti, nei media tutti, dalla carta stampata alle televisioni, dai blog ai social media.

L’appello parte dai giornalisti ma si rivolge anche agli editori, agli amministratori dei social network ed ai lettori (finalmente visti non solo come fruitori del prodotto editoriale ma anche come parte integrante del sistema comunicativo).
Ai giornalisti #nohatespeech chiede di recuperare un ruolo di “filtro” delle notizie. Il che non vuol dire “censura”. Mi spiego con un esempio. Se il sindaco leghista di Bondeno, quattro case in croce in provincia della civilissima Ferrara, convoca una conferenza stampa in cui sostiene che aumenterà l’Imu a chi accoglie i profughi, l’operatore dell’informazione che gli sta davanti deve avere chiaro in testa che questa non è una notizia ma una cagata. E’ una cagata, non perché il sindaco di Bondeno sia un imbecille e la sua opinione non vada rispettata, ma perché, semplicemente, non rientra nei poteri di un primo cittadino aumentare l’Imu secondo criteri del cavolo, come le persone che io, libero cittadino, mi tiro in casa. La “verità putativa dei fatti”, come ti spiegano nei corsi, è che questo signore ci ha convocato soltanto per avere un suo spazio - e gratis - nei giornali in cui amplificare e far rimbalzare il suo poco riverito nome in quel fognaio di urla razziste che ammorbano l’informazione e le menti dei lettori più… deboli. Onde per cui, non c’è nessuna notizia da scrivere, se non che il sindaco di Bondeno è quel mentecatto che tutti conoscevamo. Il giornalista a questo punto, deve fare una sola cosa. Chiudere il taccuino, salutare il signor sindaco (ma questo è facoltativo) e andarsi a cercare qualcosa di più interessante da scrivere.
Adesso, sono il primo a riconoscere che non sempre è così facile. Come comportarsi quando è un eurodeputato a vomitare razzismo? Non sempre è possibile chiudergli il microfono in faccia. Interrogazioni, proposte di legge chiaramente xenofobe sono notizie che non si possono non dare. In questo caso, è importante non amplificarle (ce lo ha detto il dottore di invitare Salvini in ogni trasmissione?), ricollocarle nel giusto contesto, e segnalarle alla magistratura se violano leggi come l’istigazione all’odio razziale o l’apologia del fascismo.

Tutte cose queste, che non possono fare solo i giornalisti. Categoria sempre più ai margini del sistema comunicativo. #nohatespeech si rivolge anche ai lettori, perché segnalino alle redazioni articoli e commenti razzisti o fomentatori d’odio. L’appello chiede a tutti coloro che usufruiscono del mezzo comunicativo di “isolare chi esprime discorsi di odio, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate, e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto”.
E questo è un punto molto, molto importante. Se cade il muro che ci impedisce di legittimare il razzismo come una opinione tra le tante, cadono i presupposti della nostra democrazia. E stiamo bene attenti, perché questo muro può cadere anche nelle nostre stesse teste. Ricordiamoci sempre, quando ci viene la baldracca idea di provare a far ragionare un nazista, che il razzismo non è una opinione ma un reato. Come il diritto di stupro.

L’appello dell’associazione Carta di Roma si rivolge anche alle testate giornalistiche, chiedendo loro di bannare quei feroci commenti che si trovano sotto gli articoli di cronaca e scritti per di più da persone malate ma non per questo meno pericolose. Qualche giornale lo ha fatto. Un bel po’ di cortesi ma determinate segnalazioni alle testate on line che non lo hanno ancora fatto potrebbe risultare vincente.
Più difficile sarà convincere i proprietari o gli amministratori dei social network a fare altrettanto ed a bannare pagine razziste o fasciste. I vari signori Zuckerberg sembrano più interessati a contare soldi che ad intervenire con dei provvedimenti che, alla fin fine, gli fanno solo perdere clienti. Preferiscono trincerarsi dietro ad una ipocrita difesa di una democrazia e di una libertà di pensiero che è proprio lo scudo di chi sparge violenza per sopprimere democrazia e libertà di pensiero.
Qui potete leggere, a magari anche sottoscrivere, l’appello #nohatespeech. Se lo facciamo in tanti, forse riusciremo a convincere anche i vari signori Zuckerberg.

Il razzismo e i suoi anticorpi. Al Lido nasce l’appello Lisa

Se la calunnia è un venticello, la disinformazione è un tornado. Tra quelle tre o quattro decine di persone che mercoledì scorso si sono mobilitate contro l'arrivo dei profughi al Lido non ne trovavi una che fosse informata su quanto stava realmente accadendo, su quali e quanti profughi sarebbero stati ospitati negli spazi della colonia Morosini, e per quanto tempo. "Diverse centinaia di persone" qualcuno diceva. "E altre ne arriveranno se non facciamo qualcosa" aggiungeva qualcun altro. "Tutti terroristi dell'Isis" paventavano altri. Tanto è vero che dal fondo del gruppo si levavano voci nascoste che urlavano "Assassini, assassini".
Adesso, confondere chi fugge dagli assassini con gli assassini stessi, può significare solo due cose: disinformazione, come abbiamo già detto, o malafede. Due ingredienti che entrano a badilate in questa brutta storia.
La disinformazione intanto. Colpa nostra, che non sempre ci diamo la briga di esaminare nella sua completezza e sotto tutti i punti di vista, salvo poi parlare come se fossimo professori. Colpa anche dei giornalisti che si lasciano andare a sensazionalismi e sempre meno spesso vanno alla fonte della notizia per verificarla (il terrorista "veneziano" anzi no, tunisino, ucciso dalla combattente curda, è solo un esempio). Ma colpa anche di un Governo che continua a gestire una questione, come quella degli arrivi che oramai è endemica, con la consueta ottica dell'emergenza, lasciando campo ad improvvisazioni, demandando la coordinazione a personale non competente, aprendo spazi gestionali a dei veri e propri delinquenti, pronti a trasformare l'accoglienza in un business alquanto redditizio.
Poi c'è la malafede. Come quella di qualcuno in testa al gruppo dei protestatari, incazzato solo perché nel business sopra citato, questa volta non ci è entrato. Oppure come quella di politici senza scrupoli che leggono in situazioni come queste uno strumento utile per incrementare il loro bacino di consensi. Qui, tra tanti, facciamo solo il nome del segretario della Lega, Matteo Salvini, che non ha perso l'occasione di twittare una infamata dopo l'altra sulla pelle di un pugno di disgraziati.

Eppure, proprio la manifestazione contro i 37 profughi e la marea nera di cazzate che hanno sollevato nei social ha avuto perlomeno due effetti positivi. Uno, poco noto perché queste cose non girano nei giornali, è la forte presa di posizione del presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Veneto, Gianluca Amadori, che ha scritto una lettera a tutti i colleghi invitandoli a seguire "
un’informazione rigorosa e corretta". Partendo dalla considerazione che mai come in questi anni la credibilità dei massa media ha raggiunto livelli così infimi. Riferendosi anche alle troppe "bufale" pubblicate come notizie vere, il presidente ha invitato chi scrive ad "evitare sentimenti di ostilità generalizzata nei confronti di interi popoli o categorie o gruppi". Ed ha concluso: "Ciascuno di noi può fare molto, nello svolgimento del lavoro quotidiano, per fermare l'attuale deriva". Augurandoci che l'invito del presidente non rimanga inascoltato, ci permettiamo di ricordare che esiste anche un collegio di disciplina deontologica al quale chiunque può segnalare gli abusi compiuti dalla stampa.

Secondo e più importante effetto collaterale della manifestazione del Lido, è stata l'immediata e decisa presa di posizione contraria di tanti, tanti cittadini. Se il razzismo è una brutta malattia, come una brutta malattia produce anche i suoi anticorpi. L'anticorpo in questione è Lisa, acronimo per Lido Isola Solidale e Accogliente. Un appello lanciato dalle ragazze e dai ragazzi dei centri sociali di Venezia, dagli attivisti del nutrito arcipelago associazionista e ambientalista della Laguna, da tante cittadine e cittadini residenti al Lido. Persone che, come dicono in chiusura del loro comunicato, vogliono semplicemente "
restare umani nel momento in cui qualcuno, giunto disperato da un'altra parte del mondo, ci chiede di fare spazio in quella che consideriamo casa nostra".
"A
i nostri concittadini - si legge nell'appello - chiediamo di non aver paura. Un tempo molti nostri nonni furono profughi, emigrati, esiliati. Un giorno potremmo esserlo noi, o i nostri figli. Invitiamo tutti a considerare cosa può significare un'accoglienza degna e dignitosa".
Degna e dignitosa, appunto. Due parole che non sono state inserite a casa. L'accoglienza va bene ma che sia una accoglienza degna di questo nome, capace di dare una risposta ai bisogni dei profughi e che rispetti i bisogni di chi al Lido ci abita da una vita.

Un'accoglienza, per dirla tutta, come l'Italia non è mai stata capace di offrire. In questo senso, l'arrivo dei 37 rifugiati è una opportunità per cambiare strada e dimostrare al mondo e soprattutto a noi stessi che non solo l'isola del Lido, ma tutta la nostra penisola è Solidale e Accogliente.

La polizia regala le auto ai nomadi. L'ultima bufala dei razzisti del web

Per la premiata serie "la fanno da padroni a casa nostra, sono sporchi, rubano e il Comune gli dà pure le case e lo stipendio invece di aiutare gli italiani": l'ultima novità è che agli "zingari" la polizia presta pure le auto di servizio perché se ne vadano in giro per il campo nomadi a far suonare la sirena. Tutto vero. E se non ci credete guardate su Fb, Twitter e compagnia bella dove gira come una trottola un video YouTube che lo dimostra.
Un video vero? Per essere vero, il video è vero. Solo che è stato girato durante la realizzazione di un film. Tutto falso, insomma. Pure la questura di Roma, chiamata direttamente in causa da queste accuse, ha diffuso un comunicato in cui spiega che la notizia è una balla bella e buona. "In merito al video, pubblicato sul social network Facebook, dove viene ripresa una macchina della Polizia di Stato, guidata da un cittadino con accento straniero che 'scorrazza' su un piazzale, si comunica che si tratta di macchine sceniche per riprese cinematografiche non in carico alla Polizia di Stato".
Un film! Solo un film! Eppure qualcuno, in perfetta malafede e per biechi fini lurido-politici, ha fatto, e continua a far girare le immagini come fossero vere. E non parliamo solo delle solite pagine merde-fascistoidi ma anche di un quotidiano "serio" come il romano Messaggero che ci è cascato dentro come un allocco. Ma la verifica delle fonti (tema su cui, giustamente, ci hanno fatto un culo così all'esame da professionisti) è diventata un optional come l'aria condizionata nelle macchine? Il Messaggero ha comunque avuto il buon gusto di levare subito il link dal suo sito dopo la segnalazione della polizia, e adesso fa finta che non sia successo niente. Gli è andata di lusso che non hanno fatto in tempo a stampare la "notizia" su carta, altrimenti non se la caverebbe così a buon mercato. Toccherebbe far la smentita, e sappiamo quanto scocci ai giornali scrivere "abbiamo sbagliato".
Certo che per credere che un poliziotto presti la sua "Pantera" ad un rom perché ci faccia un giro a sirene spiegate bisogna proprio avere il cervello taroccato di brutto, essere sostanzialmente beoti e pure esaurientemente in malafede! O no?
E questo è esattamente il motivo per il quale il leghista Matteo Salvini ci ha creduto subito subito. "Roba da matti, ecco gli amici della Boldrini..." ha twittato commentando il link YouTube che riporta il fattaccio. E giù, a suo sostegno, una merda-marea di schifo-commenti porco-razzisti che non ho avuto neanche lo stomaco di leggere sino in fondo!
Qualche ora dopo, qualcuno deve aver fatto notare al prode segretario carrocciato che il video era state girato sul set di un film e che lui rischiava di farci un'altra delle sue mitiche figure da idiota. Così ha ritwittato "
P.s.: sarà anche un'auto finta, di scena... ma chi la custodisce?"
Già. Perché la polizia non sta più attenta a dove parcheggia le sua auto che poi gli attori - e di razza non puro italiota per di più - ci salgono sopra per farci un film?
La Questura si è pure presa la briga di rispondergli per bocca dell'Agente Lisa (che è il profilo ufficiale con cui la polizia dà notizie e consigli ai cittadini su Fb): "Non è una macchina delle nostre ma una usata per fiction o film. Chi è del mestiere come noi riconosce la mancanza di peculiarità che ci sono solo sulle nostre auto, cioè su quelle 'vere'. Lampeggiante di un’altra serie di vetture, mancanza del separatore in plexiglas interno all’abitacolo, computer lato passeggero e per finire marmitta e cerchi di altri veicoli. Evidentemente quindi una macchina assemblata per esigenze sceniche".
Eh sì! Adesso ci tocca spiegare a quella sagoma di Salvini cosa significano tutte queste parole difficili come "assemblata", "plexiglas" (sarà mica una blasfema invocazione islamica?), e concetti come "esigenze sceniche". E poi bisognerà fargli capire che quando vede sulla tv una macchina della polizia che insegue i banditi, tra salti su burroni, esplosioni e sparatorie non si tratta una "vera" auto di servizio e che neppure le esplosioni sono autentiche. E magari che neanche gli zombi dei film di Romero sono davvero degli schifosi morti viventi ma semplici comparse truccate. A differenza dei compagni di partito che gli gravitano attorno.

Basta, Khalas

Una lettera aperta di giornalisti, blogger e fotografi per denunciare la cattiva informazione che i media italiani stanno veicolando su tutto ciò che riguarda il mondo arabo e l’Islam. A partire dalla campagna di fango lanciata contro le volontarie Vanessa e Greta, sino a coinvolgere tutti coloro che sono attive nell’accoglienza ai migranti e nella cooperazione.

Dopo settimane nelle quali abbiamo assistito alla messa in onda di trasmissioni televisive e alla pubblicazione di articoli che veicolano cattiva informazione e che rappresentano palesi violazioni della deontologia professionale, ieri, 20 gennaio 2015, ci siamo fermati di fronte alla pubblicazione da parte della testata “Il Fatto Quotidiano”, nella sua edizione cartacea e online, di un articolo titolato
Greta e Vanessa, la cooperante ai migranti siriani: “Ecco come aggirare i controlli” a firma di Angela Camuso.

Riteniamo questa solo l’ultima di una lunga serie di esempi di pessimo giornalismo ai quali, nelle ultime settimane - pur in una più vasta e generale crisi di contenuti in atto ormai da tempo - si assiste in modo sistematico e impotente.

Si potrebbe parlare di una - seppur grave - banale improvvisazione priva di professionalità, se solo non ci andasse di mezzo la vita delle persone, sulla quale viene impunemente gettata un’ombra di sospetto che rischia di avere ripercussioni personali e professionali.

Ci chiediamo quale senso possa avere oggi un giornalismo che al servizio al cittadino ha sostituito un voyeurismo sensazionalista per il quale non ci si ferma neanche davanti al rispetto umano, in costante e grave violazione di tutte le norme di deontologia professionale. Quelle cioè che differenziano il mestiere del giornalista dal commentatore sui social network e dall’opinionista occasionale.

La verifica delle fonti, un linguaggio appropriato, il rispetto della privacy delle persone,
sono le basi della professione giornalistica, alle quali andrebbero sempre aggiunte conoscenza e competenze specifiche dei temi dei quali si vuole trattare, nonché il valore aggiunto delle esperienze personali sul campo, ma sempre e comunque privilegiando il rispetto del lettore e delle persone coinvolte.

Non abbiamo la pretesa che il giornalismo possa essere al giorno d’oggi completamente libero da logiche politiche e di mercato, ma sentiamo forte l’esigenza di ribadire i valori fondanti della professione che abbiamo scelto, per la quale abbiamo studiato e che difendiamo ogni giorno con il nostro lavoro.

Continuando su questa strada, non possiamo certo aspettarci da parte dei lettori una comprensione dei fenomeni attuali scevra da pregiudizi, sovrastrutture e stereotipi discriminanti.

Ne’ possiamo aspettarci il rispetto verso la nostra categoria, sempre più priva di credibilità. Per scelte editoriali di questo tipo pagano tutti i professionisti, compresi quelli che, lontani dalle luci del mainstream e spesso a proprie spese, continuano ogni giorno a lavorare nel rispetto delle regole. La pubblicazione di articoli di questo genere, oltre a non fornire un buon servizio di informazione ai lettori, getta discredito sull’intera categoria.

Per questo motivo molti di noi hanno sentito il bisogno di sottoscrivere questo documento, che sarà la base di un esposto all’Ordine dei Giornalisti in merito all’articolo pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” e da altri apparsi su “Il Giornale” e “Libero”, che hanno fomentato in queste settimane odio, pregiudizio, islamofobia.

Ma vorrebbe anche rappresentare la prima fase di un progetto condiviso di informazione approfondita e dal basso, basata sulla competenza dei temi che riguardano il mondo arabo, l’Islam e le migrazioni,che ormai da tempo vediamo raccontati in modo superficiale e approssimativo da una serie di voci che nulla hanno mai avuto a che fare con un mondo che ci riguarda tutti.

Questo appello è rivolto anche a coloro che non sono giornalisti, ma che rivendicano il proprio diritto ad un'informazione corretta e responsabile, approfondita e al servizio del cittadino.

Per firmare l’appello mandare la propria adesione all’indirizzo email
perunacorrettainformazione@gmail.com

Emra, nato e cresciuto in Italia, residente a San Donà, finito dietro le sbarre di un Cie

Si chiama Emra ha ventidue anni ed è italiano a tutti gli effetti tranne che per la legge. La sua famiglia è in Italia dall'89, tre anni prima che lui nascesse. I suoi genitori erano profughi di guerra, in fuga dai massacri balcanici. Dapprincipio si sono stabiliti a Napoli ma dal 2000, per ragioni di lavoro, si sono trasferiti a San Donà dove Emra e suo fratello hanno frequentato le scuole e dove, di fatto, ha sempre vissuto.

Qualche giorno fa durante un semplice controllo di polizia, uno zelante funzionario si è accorto che Emra aveva la carta di identità ma non il permesso di soggiorno. Va sottolineato che Emra aveva tutte le carte in regola per essere naturalizzato italiano. Semplicemente, al compimento dei 18 anni, nessuno lo ha avvisato che era necessario espletare questo iter burocratico. Il padre non c'è più, la madre è analfabeta. Lo stesso Emra è affetto da un leggero ritardo psichico che lo rende un po' "lento" nel capire le cose. E c'è da dire che la pratica di naturalizzazione non è facile da seguire neppure per un Einstein. Fatto sta che Emra ha scoperto, improvvisamente, di essere un irregolare. Un "clandestino" potremmo scrivere se fossimo stronzi. E così è stato convocato dalla Questura di Marghera dove Emra si è recato senza sospettare che quella sera non sarebbe più rientrato a casa sua perché un altro zelante funzionario lo ha ammanettato di punto in bianco e spedito nel Cie di Bari. Lui che non si era mai allontanato dalla Provincia di Venezia! Adesso è ingabbiato nella galera del Cie con una pratica di espulsione in corso verso un Paese, la Serbia, dove non solo non ha mai vissuto e non ha nessun parente vivo, ma di cui parla malamente anche la lingua.
L'avvocato Ulyana Gazidede che lo assiste spera di ottenere una sospensione del provvedimento in quando, se per la legge non è "italiano", Emra non è neppure serbo ma, più correttamente, un apolide.
Intanto, Emra sta male. "Voglio tornare da mia madre e da mio fratello - grida da dietro le sbarre -. Qui ho paura. Cosa ho fatto di male che mi hanno portato in questo posto?"

E se la storia vi fa incazzare come ha fatto incazzare me, non fate il mio errore di andare a leggere i "commenti" che sono apparsi in calce agli articoli dei quotidiani on line che la raccontano. Un vero merdaio: "Dategli la tessera della Fiom e vedrete che l'Inps gli trova pure la pensione", "w lo ius soli", "e se un italiano nasce in Cina diventa cinese?" "ne pigliamo tanti che se un giudice ne manda via uno, ne facciamo un dramma", "mandiamo via gli handicappati e teniamoci solo i professionisti che sanno lavorare. Basta far entrare i malati" e via discorrendo. Che dire? Il diritto di esprimere la propria opinione evidentemente vale pure per i vigliacchi.

L’Albania di oggi, tra speculazioni bancarie e miraggi europei

“Son tornato in patria dopo 15 anni di lavoro in Italia e non sono riuscito a riconoscere la mia città. Quando ho lasciato Durazzo, dalle finestre di casa mia potevo guardare il mare. Adesso ci sono due file di grattacieli davanti e una terza la stanno costruendo ora. Ripartire per cercare lavoro in Kosovo non mi è costato fatica come la prima volta che l’ho lasciata”.
Pavil ha una trentina d’anni. L’ho conosciuto in un bar di Prizen dove lavora come cameriere. E’ arrivato in Italia sui gommoni che era ancora minorenne. Non aveva la minima idea di dove stava andando e di cosa avrebbe trovato. Dopo lo sbarco è salito a nord solo perché girava la voce che “più si va a nord e più si vive meglio”. Si è fermato a Treviso dove ha trovato lavoro come muratore.
“Mi pagavano 17 euro e 50 centesimi al giorno. Non c’erano orari. Si cominciava la mattina e si finiva la sera, feste comprese. Tutto in nero, come si dice da voi. Ma mi davano anche da mangiare e da dormire, e alla fine del mese mettevo via almeno 500 euro. Il padrone era della Lega Nord. Parlava sempre male di noi albanesi in pubblico ma poi mi trattava abbastanza bene anche perché io lavoravo sodo e non mi sono mai fatto male una volta. Adesso, a fare il cameriere a Prizen, non arrivo a 200 euro. Qui in Kossovo sono questi gli stipendi che offrono”.
Il denaro che ha guadagnato in Italia, mi racconta, gli ha permesso di comperare una casa e Prizen dove vive con la sua compagna, albanese kossovara. Acquistare casa nella nativa Durazzo sarebbe stata una impresa impossibile anche per un “albanese di ritorno” che, da queste parti, significa, “con il portafogli gonfio di soldi”. Tutta la costa dell’Albania è devastata da una speculazione edilizia che grida vendetta al cielo. Dove ancora non è già stato edificato, si elevano alti al cielo scheletri di grattacieli in costruzione. Davanti ai cantieri, grandi cartelloni colorati, appiccicati a mo’ di etichette, riportano il nome della banca che finanzia l’opera. Sono tutte banche italiane.
Grattacieli con appartamenti di lusso, grandi alberghi, lussuosi residence. Tutte case dove gli albanesi non entreranno mai. Neppure quelli “ricchi” come Pavil che sono tornati dall’ovest con qualche dedina di migliaia di euro nello zaino.
Basta farsi una giro per il lungomare di Durazzo o di Valona per vedere che i “ricchi” cui è indirizzara la nascente offerta turistica sono soprattutto i serbi che in terra albanese, nei mesi estivi, spadroneggiano a bordo di auto di grossa cilindrata alla ricerca di mare e di divertimenti. Sono i figli della media borghesia di Belgrado che ancora possono far valere una moneta relativamente forte in un Paese dove se pranzi nel miglior ristorante non spendi più di una ventina di euro. I veri ricchi, quelli che vengono dalla russia con rotoli di euro o di rubli che gli gonfiano le tasche, continuano a preferire la più lussuosa Croazia.
“Le banche italiane si sono comperate l’Albania - mi spiega Pavil -. Costruiscono dove vogliono anche perché da noi, fai presto a far cambiare un piano edilizio, se vuoi. Anche le autorità non hanno capito che la terra è un bene che va difeso dalle speculazioni. Loro vedono solo che questi portano soldi e che danno lavoro alla gente. E gli lasciano campo libero. Pazienza se distruggono città che erano piene di storia e di bellezze. Alla televisione, il Governo ci spiega ogni giorno che se vogliamo entrare in Europa è così che dobbiamo fare”.
Ed è proprio sul cemento delle speculazioni bancarie che corre il treno dell’Unione Europea. Nelle piazze centrali di Tirana e di Scutari, troviamo decine di banchetti informativi sotto l’ombra della bandiera blu stellata. Regalano luccicanti depliant ed eleganti libretti informativi sui vantaggi di diventare membri dell’Unione. L’euro è già di fatto la moneta principale dell’Albania e le procedure perchè il Paese diventi il 29esimo Stato dell’Unione sono già avanzate.
“Io non so dire se per l’Albania questo sarà un bene o sarà un male. Le cose vanno così. Non possiamo farci niente perché non contiamo niente. E non solo noi. Neppure il nostro Governo conta qualcosa! E come potremmo contare qualcosa in un sistema che se vuole si compra l’Albania come io mi compro la verdura al mercato? Piuttosto, chi pagherà di più questa storia sarà il Kossovo. Praticamente questo Paese rimarrà isolato dal mondo considerato che in Serbia la frontiera è chiusa dai tempi della guerra e che attorno avrà solo Stati comunitari! I miei amici di qui sono tutti spaventati. Chi può cerca di scappare. Vanno in Albania e salgono sugli stessi gommoni dove prima salivano gli albanesi. Solo i prezzi sono saliti. Ora l’organizzazione vuole 3 mila euro in contanti e anticipati, ma poi ti porta dall’altra parte del mare in poche ore e senza rischi. Se hai i soldi, dove è il problema?”
Le frontiere sono una tragica presa per il culo.

A Lampedusa non c’è l’ebola ma la bufala continua a girare

La vicenda dei tre casi di Ebola che sarebbero stati riscontrati tra i migranti sbarcati a Lampedusa, è un chiaro esempio di come le bugie non abbiano affatto le gambe corte ma, al contrario, riescono a correre più delle smentite e, anche dopo essere state smascherate, continuano a diffondendersi come una vera peste sull’oceano dei social network. E’ il brutto della rete. Più le spari grosse, anche da un semplice profilo Facebook, e più hai possibilità che le tue bufale arrivino ai blog che contano, alle tv e anche ai giornali nazionali. Se poi ci aggiungi una buona dose di xenofobia e di razzismo, facendo leva sulle paure della gente alla tua bufala spuntano le ali.
E smentirla non è affatto semplice. Non basta dimostrare che sono tutte balle. Trovi quello che grida al complotto e la rilancia, convinto che, se in tanti si danno la pena a scrivere che la storia è tutta inventata, significa che qualcosa di vero ci deve essere per forza. E vai tu a spiegargli che non è per forza così! Che le “notizie” che leggiamo navigando qua e là per la rete non sono sempre per forza false o per forza vere ma che sempre dovrebbero essere verificate. Lavoro questo che, se per un utente medio è consigliato, per un giornalista sarebbe obbligatorio. Ed invece proprio i giornalisti sono stati i primi a cascarci.
Come era prevedibile, dare queste notizie in pasto ad una certa politica è come buttare quarti di manzo in un mare infestato di pescecani. La Lega ha subito chiesto per bocca del suo vice capogruppo della Lega Nord Fabio Rolfi: “Una quarantena preventiva nei centri di accoglienza per i clandestini come misura preventiva per evitare che il virus Ebola si diffonda in Italia”.
Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha dovuto rispondere in un question time sugli interventi di prevenzione messi in campo per fronteggiare il presunto arrivo di questa epidemia. La stessa ministra ha successivamente categoricamente smentito nello specifico la bufala dell’ebola giunta a Lampedusa.
Si trattava infatti di una “notizia” in puro stile “Alessandro Sallusti”, inventata di sana pianta e fatta circolare da un 44enne torinese fascista - che altro dire di un tizio che ha tappezzato il suo profilo Fb di foto del Duce sorridente&fiero? - che si è beccato una sacrosanta denuncia per procurato allarme. Tutte balle quindi. Ma queste balle avevano raggiunto in pochi gorni 27 mila profili di Facebook e, come abbiamo detto, sono state riprese sia pure con l’uso del condizionale da tutti i media nazionali sino a costringere il ministro alla smentita ufficiale.
Ma le smentite, si sa, non hanno mai lo stesso peso delle bufale. Anzi. Basta farsi un giro su Google per vedere che la balla continua a circolare. “Al Qaeda ci manda terroristi, le scimmie e i pipistrelli ci mandano malati di Ebola” mi è toccato leggere su un sito vicino al Carroccio. Per non parlare dei complottari “Perché mai il ministro dovrebbe uscire pubblicamente in pieno agosto e con tale enfasi se la cosa non fosse davvero accaduta? Forse per non diffondere il panico, ci chiediamo?”
Se già un giornale titola “A Lampedusa non si sono registrati malati di ebola” bosogna mettere in conto che questo verrà letto da politici in malafede o semplicemente da gente spaventata ed ignorante “A Lampedusa oggi no, ma da domani potrebbero arrivare gli impestati”.
C’è poco da fare di fronte alla paura se non sbattersi l’anima per cercare di far ragionare la gente, ben sapendo che le argomentazioni, specie quando sono valide e suffragate da informazioni scientifiche, non hanno mai convinto nessuno.

Ma perché l’ebola non è un pericolo per noi?
I sintomi di questa malattia si manifestano prima che diventi contagiosa e quando un paziente è in grado di trasmettere il virus non è certo in condizioni di intarprendere un viaggio duro e difficile come quello del profugo. In altre parole, con buona pace per tutti i nostri ancestrali ricordi di pese bubbonica, l’ebola non “viaggia”. Inoltre, il contagio non si diffonde come una influenza o un raffreddore per vie aeree. E’ necessario un contatto con i fluidi corporei e bastano pochi accorgimenti igienici per evitarlo. In Africa, questi accorgimenti non ci sono ed è per questo che in quei Paesi il virus si manifesta in maniera aggressiva. Sull’altra sponda del Mediterraneo non hanno strutture di isolamento e ben difficilmente vengono adottate misure cautelative come, ad esempio, quella di non venire a contatto con i cadaveri dei morti di ebola. In Europa, tutto ciò sarebbe inconcepibile. Paraddossalmente sono proprio le misure restrittive e segregazioiniste invocate da leghisti e xenofobi i pericoli più evidente per la diffusione di questo virus. Eppure, anche a voler sostenere un discorso egoistico, l’unico pericolo - questo sì!- che l’ebola comporta per noi è la destabilizzazione politica e l’incremento della povertà nei Paesi colpiti dove intere regioni fertili vengono abbandonate. Prima o poi qualcuno ci presenterà un conto salato per tutte queste ingiustizie che, nella migliore delle ipotesi, noi europei facciamo finta di non vedere.

Smettiamocla quindi di dare spazio e credito a quanti vorrebbero far passare i migranti come i nuovi untori di manzoniana memoria.
L’unica peste di cui dobbiamo aver paura sono le bufale che ogni giorno ci beviamo su internet.

I migranti di via del Gaggian: vite nel limbo alla periferia di Mestre

Storia di una accoglienza indegna
Via del Gaggian è uno sterrato che corre a ridosso dell’argine del canal di San Giuliano. Siamo nel quartiere residenziale della Cipressina. Solo 5 minuti d’auto dal centro di Mestre e già si respira aria di campagna. Le case, tutte piuttosto ariose, sono sparse nel verde di giardini sobriamente curati, tra siepi di bosso e spazi destinato ad orto.
Il civico numero 22 si trova proprio in fondo alla strada. Per passarci davanti bisogna proprio andarci apposta e vien da chiedersi se non sia proprio questo uno dei motivi che lo hanno fatto scegliere come casa di accoglienza per i profughi.
La nostra storia comincia quando scoppia la guerra civile in Libia. E’ il febbraio del 2011. Una dopo l’altra, le città lealiste cadono in mano ai ribelli, ma intanto le milizie del Colonnello si abbandonano ad inaudite violenze nei confronti della popolazione civile e di chi rifiuta di indossare la loro divisa. A farne le spese sono anche molti lavoratori provenienti dai Paesi sub sahariani. Questi ultimi, considerati già “inferiori” rispetto ai libici prima del conflitto, durante la guerra civile vengono perseguitati e uccisi sia dalle milizie di Gheddafi che dai ribelli o perché rifiutano di arruolarsi nelle milizie o con la comune accusa di essere dei mercenari al soldo dell’altra fazione. Per chi non gode di amicizie locali comincia una spietata caccia all’uomo. Molti di loro sono quindi costretti a cercare riparo in Europa. Sono vite in perenne fuga. Profughi due volte, potremmo dire. Prima cacciati dal loro Paese natio dalla fame e dalla miseria, poi costretti ancora alla fuga dalla Libia in guerra. Eppure in Italia tiene banco la questione se sia il caso di concedere loro o no lo status di rifugiati, perché come aveva dichiarato un deputato della Lega nord “non sono libici e perciò non centrano niente con quella guerra. Cosa vogliono da noi?” Il dibattito che si scatena nel nostro Paese è semplicemente indecoroso. Ancora si grida all’emergenza, ancora si invocano filtri di ingresso. Ancora il Governo intensifica una inutile presenza dell’esercito e della marina militare alle frontiere sud. I giornali ironizzano sulle scarpe di marca indossate da alcuni profughi, senza considerare che molti di loro, prima dello scoppio del conflitto, avevano impieghi regolarmente retribuiti nelle aziende di estrazione del gas o del petrolio e che di “grandi firme” taroccate a regola d’arte sono pieni tutti i mercati d’Africa.
Tra Italia ed Europa si scatena uno scaricabarile vergognoso su chi debba prendersi cura di questi profughi. La stessa Italia e la stessa Europa che per decenni hanno seguito una politica di cieca collaborazione con il sanguinoso regime del Colonnello Muammar Gheddafi.
Alla fine, siamo nel mese di aprile, il Ministero dell’Interno vara il programma chiamato “Emergenza Nord Africa”. Ma l’accoglienza che il nostro Governo prepara, con Silvio Berlusconi presidente e Roberto Maroni ministro dell’Interno, parte da presupposti sbagliati. In piena ottica emergenziale (come dice lo stesso nome) e securitaria, a coordinare il tutto è la Protezione civile cui spetta il compito di affidare alle prefetture o agli assessorati regionali l’incarico di responsabili del piano di accoglienza.
Nel Veneto come nella Lombardia, il cosiddetto “soggetto attuatore” viene individuato, dopo varie vicissitudini politico-istituzionali, nel Prefetto secondo il principio - sbagliato - che le migrazioni siano fondalmentalmente solo un problema di ordine pubblico, e senza considerare che i prefetti non sono preparati ad affrontare una tale questione sociale. Le rivolte dei sindaci e dei presidenti delle Provincie, in particolare di quelli del Carroccio, che si dichiarano assolutamente indisponibili ad ospitare questi migranti nel loro Comune, vengono subito smorzate dai finanziamenti che il Governo stanzia per l’accoglienza. Appare subito chiaro che i profughi sono un affare. Portano “schei” come si dice nel Veneto. Bisogna anche tener presente che non vengono emanati bandi né stabiliti criteri per selezionare chi può ospitare i profughi. Alla fine inoltre, non vengono nemmeno richieste pezze giustificative, Niente regole, tanta emergenza, tantissimi soldi. Una affare da 46 euro al giorno a migrante. Finché dura...

Accoglienza degna? No grazie!
Business e discriminazioni. L’ “affare profughi” procede a livello nazionale con pratiche di accoglienza - o meglio dire di detenzione - in deroga all’ordinamento giuridico (basti pensare a quanto accaduto in luoghi come Manduria) e tutto questo va a braccetto con campagne politico-mediatiche imperniate sulla retorica della paura e dell’invasione.
In questo panorama desolante, Venezia prova a tracciare una rotta diversa. nel maggio del 2011 la rete “Tutti i diritti umani per tutti” cui partecipa pressoché l’intero arcipelago associativo e movimentista della città, lancia la campagna Welcome e propone un piano di accoglienza degna. Le sigle e i nomi che aderiscono sono tanti. Partecipano comitati, associazioni, spazi sociali e sindacati. Ricordiamo, tra le varie realtà, Emegency che offre una copertura sanitaria gratuita, l’Arci e la Cgil che mettono a disposizione la mensa, la cooperativa Caracol che offre posti letto, la scuola Liberalaparola del Rivolta che propone corsi di italiano... Una accoglienza dal basso, professionale e assolutamente gratuita. “Non rifiutiamo il denaro che il Governo ha stanziato - dichiarano i portavoce in una conferenza stampa - ma non ne terremo un centesimo per noi. Consegneremo tutto ai migranti”.
La Prefettura di Venezia non prende neppure in considerazione la proposta e, nonostante le tante richieste, non degnerà le associazioni neppure di una risposta, sia pure negativa.
Appare subito chiaro che la Prefettura vuole trattare direttamente con la Caritas che a Venezia gestisce quasi tutto il “mercato del bisogno”. Non servono bandi d’asta o altri orpelli democratici o consultivi perché, come abbiamo già detto, tutta la questione è trattata sotto l’utile spinta dell’emergenza. Più o meno come funziona con le Grandi Opere!
Ed è proprio la Caritas presieduta da don Dino Pistolato che si pappa la fetta più grande della torta, anche grazie alle pressioni del Ministero che preme per soluzioni immediate e garantite.
Ma non avendo spazi sufficienti e guardandosi bene dal prendere in considerazione i posti letto che la Caracol avrebbe messo gratuitamente a disposizione, l’ente decide nella fase di “prima accoglienza” - durante l’estate 2011 - di parcheggiare molti dei migranti al porto di Marghera e in particolare all’interno di un capannone isolato dal resto della città costringendoli per settimane e anche mesi a dormire stando ammassati e senza avere dagli operatori Caritas alcun supporto.

Di male in peggio
Dopo questa prima fase di accoglienza assolutamente inadeguata, la Caritas decide di stipulare una serie di contratti d’affitto con appartamenti di privati e case di proprietà di altri enti, per la maggior parte della sfera cattolica. Quasi centocinquanta migranti gestiti dalla Caritas in provincia (più della metà del totale) vengono quindi alloggiati in una mezza dozzina di appartamenti situati in via Martiri della Libertà, via Ca’ Marcello, a Spinea. Alcuni anche a Venezia, nelle struttura chiamata le Muneghete di proprietà dell’Ire, Istituto Ricovero ed Educazione, altri in un albergo a Chioggia e in un ostello a Giare di Mira, sulla Romea.
Il nucleo più grosso, 24 persone, viene alloggiato proprio in questo stabile di via del Gaggian di cui abbiamo detto in apertura e che l’Opera Santa Maria della Carità gli affitta per la cifra non propriamente regalata di 12 mila euro al mese per due anni.
Altri migranti vengono dirottati verso altri enti come la Opere Riunite Buon Pastore i cui dipendenti sono “soci” della cooperativa “Il Lievito” che ha come presidente don Dino Pistolato, oppure la Fondazione Groggia che offre asilo ad alcuni minori e che ha pure lei come presidente don Pistolato, oppure la fondazione Mariport dove don Pistolato è solo nel consiglio di amministrazione. Ma il più, come abbiamo detto, viene assorbito dalla Caritas presieduta da don Dino Pistolato. Per completezza, bisogna segnalare che anche a Jesolo l’accoglienza non è stata un fiore all’occhiello e qui la Caritas non c’entra perché la gestione è andata alla Croce Rossa.
Ma torniamo a Venezia. Per far fronte ai bisogni degli “ospiti”, l’organizzazione cattolica si guarda bene dal rivolgersi a chi ha esperienza nel settore e preferisce assumere, tramite la sopracitata cooperativa sociale Il Lievito quattro operatori.
La convenzione con la Prefettura è quanto di meglio un contraente possa sperare perché non prevede nessuno, o quasi, controllo sulla gestione e sulla spesa. Quattro operatori, per quanto pieni di buona volontà, si rivelano chiaramente insufficienti nella proporzione per affrontare la situazione, anche per un’evidente carenza nella conoscenza delle lingue. Sebbene venga fatto uso di un paio di mediatrici linguistiche per l’arabo, non sempre possono essere presenti nei momenti di bisogno, dovendosi occupare di un centinaio di migranti. Persone reduci da una sanguinosa guerra e non di rado in difficili condizioni psicologiche, sparsi in una mezza dozzina di strutture tra Venezia, Mestre e l’entroterra. Da sottolineare che nessuno degli operatori aveva mai lavorato prima con richiedenti asilo e rifugiati. I controlli della Prefettura presso la struttura sono stati piuttosto tardivi e comunque insufficienti.
La situazione che si crea è a dir poco vergognosa. “Non avevano neppure lo spazzolino da denti - mi raccontava un ragazzo di Razzismo Stop - eravamo noi a dover provvedere ai bisogni più elementari. Inoltre la Caritas non ha mai organizzato neppure un corso di italiano o iniziato un percorso di inserimento lavorativo. Li hanno tenuti per due anni parcheggiati in quelle case e poi, quando il rubinetto dei finanziamenti statali si è chiuso, li hanno buttati per strada senza complimenti”.

"Cosa dovevo fare per non morire anche io?"
Riportiamo ora le impressioni di Diego, un ragazzo che è stato tra i primi ad avvicinare i profughi di via del Gaggian. “La prima volta in cui misi piede nella struttura di via del Gaggian per la compilazione di un modulo c3, ricordo che incontrai un ragazzo molto più giovane di quanto non risultasse dalle rilevazioni operate a Lampedusa da Save the children. Mi stupii fra l’altro di come parlasse un inglese piuttosto fluente considerato che mi era stato descritto come persona “quasi analfabeta” da parte degli operatori. Quando ci sedemmo per iniziare la stesura, di fronte a me si trovava una persona visibilmente sofferente sebbene non sembrasse accusare di un particolare male fisico; semplicemente ansimava, quasi gli risultasse faticoso respirare. Tra qualche singhiozzo ad interrompere le frasi che a stento gli uscivano dalla bocca, lo osservavo andare a ritroso con la mente a ricordare eventi dolorosi. Scene di battaglie, di guerriglia e morte. Il padre. Il fratello. Il pugno appoggiato al gelido tavolo si stringeva mentre l’indice dell’altra mano ripercorreva la cicatrice sulla guancia. Se n’era andato dal suo Paese perché non aveva più nulla a cui tenesse, per cui valesse la pena. Per non morire. Che altro c’era bisogno di sapere sulla sua vita, si chiedeva imprecando disarmato. E poi la Libia. Il razzismo verso chi in faccia porta una gradazione più scura, le difficoltà di vivere nell’utopia di ottenere un permesso di soggiorno, lo sfruttamento da parte di imprese edili europee. Infine ancora una guerra, una guerra che non gli apparteneva, come nessuna del resto; una guerra che però lo travolge. Privato di ogni cosa, spogliato non solo idealmente, a compiere l’ennesimo viaggio che lo spinge verso l’Italia. Accatastato in un Centro come altri migliaia, trasportato come un pacco a gonfiare qualche tasca. Perché rispetto ai finanziamenti si parla sempre di chi li esborsa, la collettività contribuente, di quale dovrebbe essere il loro eticamente alto utilizzo, quasi mai del fatto che chi effettivamente ne usufruisce non coincide con chi ne dovrebbe essere il destinatario. Se non troppo tardi e per creare scalpore, non di certo per sottolineare le conseguenze reali sulla vita delle persone. Ed è in questo quadro che nasce in un giovane ragazzo un pensiero, una volontà che a rigor di logica potrebbe sembrar paradossale, un urlo di sofferenza, tanta è la frustrazione, tanto il senso di impotenza per chi da mesi, da anni, vive in un tale stato di aleatorietà; per chi dopo tutto questo viene lasciato a passare le proprie giornate senza potervi dare un significato, anzi sentendosi incolpato. ‘Meglio tornare al mio Paese. Meglio tornare alla mia guerra, che non è mia e mai lo sarà, ma almeno mi permetterà di morire in piedi lottando per la mia vita. Qui mi è stato tolto anche questo diritto’.”

La partenza e il ritorno
Due anni dopo, quando il fondo del barile è stato raschiato, e oramai alla storia dell’emergenza non ci credono più neppure i giornalisti, per i migranti di via del Gaggian è l’ora di fare le valigie. E’ il febbraio del 2013. Il contratto d’affitto è scaduto. Alcuni partono per il nord Europa in cerca di un impiego. Altri si sistemano in alloggi in affitto a Mestre o nelle immediate vicinanze. Un gruppetto però rimane nella casa. Di loro nessuno si farà carico. Ci sono anche quattro coppie che potrebbero rientrare nella categoria cosidetta “vulnerabile” di “famiglie” ma, non avendo figli, questa protezione non gli può essere applicata.
Oramai questi migranti non fanno più reddito e continuano a vivere nella casa, dimenticati da tutto e da tutti.
Passano i mesi e se li conti anche i minuti. Piano piano, la casa torna a riempirsi. Sono quelli che non ce l’hanno fatta a mantenersi nel nuovo alloggio, quelli che hanno perso il lavoro e quelli che non lo hanno mai trovato. A far ritorno per ultimi sono quelli che erano andati all’estero con un permesso umanitario in tasca. Permesso che ha la validità di un anno e che per tre mesi ti consente di girare per l’Europa. Sono vittime di una assurdità burocratica che neanche Kafka avrebbe mai immaginato. Molti di loro avevano trovato lavoro in un altro Paese europeo ma hanno dovuto rinunciarci e rientrare in Italia per rinnovare il permesso di soggiorno. Salvo scoprire che questo, con la fine dell’emergenza, non può essere rinnovato proprio perché non hai più il lavoro.

Tra preti, denunce e tv rotte
Ora in via del Gaggian vive una cinquantina di persone. Sono per lo più migranti sub sahariani con alle spalle un paio di guerre e storie di fughe per mari e per deserti. Vivono come possono. C’è chi, come Mohammed ha un diploma di saldatore e ripara vecchie tv che gli portano i volontari della Chiesa Valdese, chi prova a sbarcare il lunario lavorando in nero come muratore. Le condizioni sono difficili, pure se tutti si danno da fare per mantenere in piedi la struttura. L’intasamento delle fognature al quale la proprietà non intende porre rimedio, certo non aiuta.
Come inevitabilmente accade, la struttura abbandonata a se stessa si è trasformata in un polo di attrazione anche per spacciatori di sostanze pesanti e di violenti. E’ notizia di qualche giorno fa, l’arresto di due persone che non fanno parte del gruppo di profughi inizialmente ospitato nella casa, per spaccio. “Da soli non abbiamo la forza o la possibilità di controllare chi viene a dormire - mi spiega un altro migrante -. Sono mesi che nessun operatore della Caritas si fa vivo. In queste condizioni, dormire qui rimane un pericolo anche per noi. Abbiamo paura ma non abbiamo altro posto dove andare”. E’ innegabile comunque che la struttura stia diventando un problema sociale, per la gente del quartiere quanto, come ha spiegato il migrante, anche per chi vi abita. Ma è anche evidente che la situazione non si risolve solo con una azione di forza, chiudendo la struttura e buttando per strada chi vi abita.
Lo ha ribadito anche il parroco della vicina chiesa di di San Lorenzo, don Andrea Favaretto. “E’ incredibile come i responsabili dell’epoca, Stato e Prefettura, si siano completamente disinteressati della questione - spiega -. Per quasi due anni i profughi sono stati assistiti ma non impegnati in lavori socialmente utili che li avrebbero edificati. Il Prefetto invita a fare un esposto per chiedere il suo intervento. Ma non poteva pensarci prima, prendendo in mano la situazione già sei mesi fa? I delinquenti devono essere allontanati ma chi ha davvero bisogno, invece, deve essere aiutato”. Don Andrea dimentica di citare anche la Caritas, assieme allo Stato e alla Prefettura, tra i responsabili, ma non gli si può chiedere più di tanto. In fondo, proprio dal volontariato vicino alla chiesa - parlo dell’associazione I Sette Nani che lavora alla Cipressina - sono state organizzate le uniche attività sociali volte ad aiutare i profughi, come corsi di cucina, di lingua, sagre e partite di calcio.
Eppure, tanto la pia Opera Santa Maria della Carità quanto la Caritas oggi premono per lo sgombero, pur se non sono ancora arrivare a chiederlo formalmente alla prefettura. Adducono questioni di decoro (su cui siamo tutti pronti a pontificare quando teniamo il sedere al caldo) e di sicurezza (altro termine che, assieme ad “emergenza”, viene sempre e regolarmente citato a sproposito). Non passa settimana che non ci tocchi leggere nei quotidiani cattolici e locali articoli di denuncia dai toni più o meno coloriti sul degrado in cui versa la strutture e sui rischi sociali che questa comporta all’intero quartiere. Ma la questione vera è che la Caritas vorrebbe riaffittare lo stabile per farne un centro contro la tossicodipendenza, un settore dove i “rubinetti” sono ancora aperti. Il proibizionismo serve anche a questo.
Intanto, in via del Gaggian. Mohammed continua a riparare le sue televisioni rotte. Quello è l’unico tetto che ha sulla testa e non ha nessuna intenzione di andarsene.
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