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Altri stracci

Stavolta scrivo proprio a te, che qualche mese fa hai iniziato a portare uno straccetto rosso per la Birmania, e che poi, un giorno, non lo hai messo più.
E non credere che ti biasimerò per questo. Tra me e te non c'è nessun piedistallo su cui io possa salire anche solo un momento, nemmeno un tappetino, niente. Tu eri quello che portava lo straccetto, io quello che scuoteva la testa, e a distanza di mesi probabilmente sembriamo pirla uguale.

Però c'è stato un giorno – ci deve pur essere stato – in cui hai deciso che non l'avresti messo più. Un mattino in cui hai avuto meno tempo per vestirti o preoccuparti. La vita è fatta di singoli momenti, e non ci mancano certo le preoccupazioni per riempirli, eppure almeno due secondi per dire a te stesso “basta” devi averli spesi. Ti ricordi come ti sei sentito, in quel momento? Non è curiosità. Vorrei soltanto che tu sapessi che anch'io io mi sento così, tutti i giorni. Magari un secondo al giorno, ma la frustrazione è esattamente quella. Per cui lo vedi, alla fine lo straccetto a me non serviva davvero. E magari, per lo stesso motivo, tu hai fatto bene a metterlo. E pensi di rifarlo, adesso?

Gli storici avranno poi un'eternità a disposizione per stabilire se la Cina è diventata il futuro del mondo grazie o nonostante Marx e il suo materialismo storico, grazie o nonostante Mao e i suoi catastrofici balzi in avanti. Fatto sta che lo è diventato, principalmente per una questione demografica, e lo resterà ancora per un po'. Nel frattempo le nostre proteste lasciano il tempo che trovano. Se quel che scrive oggi Rampini non ti basta, ti consiglio un'inchiesta dell'Atlantic uscita sullo scorso Internazionale, che conferma più o meno la stima della riserva valutaria cinese, intorno ai 1000-1500 miliardi di dollari. È un dato che da solo squarcia il velo: la qualità della vita degli americani, quel valore che su tutti Bush riteneva sacro, è in ostaggio dei funzionari cinesi. Gli americani potranno continuare a consumare allegramente solo finché Pechino lo vorrà, e Pechino forse lo vorrà, perché se smettesse di sostenere il consumismo americano (e quindi il nostro) si troverebbe davanti a un'enorme crisi di crescita, senza precedenti storici: una prospettiva di fronte alla quale la repressione etnico-religiosa in Tibet impallidisce – e non credere che queste cose io le scriva a cuor leggero.

Perché sto scrivendo precisamente che il mio benessere di marca occidentale (taroccata a Singapore), già di per sé traballante, è fondato tra l'altro anche sulla repressione del Tibet, e che la globalizzazione è riuscita là dove le famigerate Ideologie del secolo scorso avevano fallito: per quanto possa aver corteggiato le dottrine comuniste io non sono mai stato complice di Pol Pot, ma vivendo in una società neoliberista sono complice di Hu Jintao e di Vladimir Putin, e il massimo lusso che posso concedermi è un dibattito sull'opportunità di boicottare le olimpiadi – rendiamoci un attimo conto, quelli sparano alla folla e noi discutiamo di olimpiadi. In verità vale la pena di assistere a testa alta ai giochi di Pechino, proprio perché celebreranno davvero la fine dell'ultimo sogno del Novecento: il sogno della democrazia, dell'autodeterminazione dei popoli, della libertà. Non c'è democrazia, non c'è libertà, e non ci sono popoli: c'è solo il mercato, e sul mercato l'indipendenza del Tibet non vale abbastanza.

Protestare ha senso? Certamente. Io ho protestato sin da bambino per questa o quella repressione e ho una stima sincera per chi lo fa. Un mio meccanismo di difesa interiore mi impedisce di abbracciare le cause che mi sembrino davvero senza speranza: la protesta può dare un senso alla vita, ma se quel senso è la sconfitta e la frustrazione, io mi scuso e mi chiamo fuori. Ho protestato per Tienammen, perché credevo sinceramente che la Cina fosse al bivio e che la democrazia fosse un'opzione praticabile: solo col senno del poi posso darmi torto. Ho protestato per l'Iraq, per i bombardamenti su Belgrado, e di nuovo per l'Afganistan e l'Iraq, perché ritenevo che nel mondo cosiddetto libero un margine di libertà esistesse davvero, e che la protesta civile lo potesse colmare, richiamando i governanti a più miti consigli. Ho protestato e protesto per la politica di occupazione di Israele, perché sono convinto che l'opinione pubblica occidentale giochi un ruolo in quel conflitto. Ma di fronte alla repressione in Tibet o in Birmania, e in Cina in generale, mi fermo. Non metto straccetti perché non li merito; o forse perché ritengo più dignitosa una posizione di consapevole disperazione. Sei libero di pensarla diversamente e di disprezzarmi pure, ma vorrei dirti un'ultima cosa.

Sono una persona, come te, e come te sono limitato in tutto. Anche nella mia disperazione. La Cina è gigante coi piedi d'argilla, che quella crisi di crescita la vivrà, prima o poi: forse tra trent'anni, quando sarà una nazione di figli unici di mezza età. Nessuno può dire come sarà il mondo per allora, ma per favore non pensare a me come a un disperato che si sfoga su un blog. Io credo di poter migliorare il mondo entro certi margini, e ci provo, tutti i santi giorni. Il mio lavoro, i miei studi, persino questo blog, sono fondati su questo. Da quando sono nato so di essere piccolo: ero un quattro-miliardesimi di umanità, in seguito sono diventato un sei-miliardesimo, e continuo a rimpicciolire, ma questo non vuol dire che io mi ritenga inutile. Non ancora. Se può servire a ricordartelo, a ricordarmelo, quello straccetto lo metterò anch'io. Il problema è che penso già al giorno in cui non avrò più voglia di metterlo, e i problemi saranno ancora là.
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