La faccia che abbiamo perso su facebook

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La violenza politica in Italia è ai minimi storici. Sembra incredibile, in un momento tanto difficile, in cui gli uomini politici godono di universale discredito. Eppure tutti i "muori" o i "crepate" che ci è capitato di leggere in calce agli articoli on line di alcuni quotidiani non ci devono far scordare che oggi i politici non li ammazza più nessuno. Ancora trent'anni fa non era così. Oggi, nel mezzo della crisi economica più grave dalla fine della guerra, qualche centinaia di dimostranti con forconi di cartapesta e qualche cartello trucido ci fanno sudare freddo. Quarant'anni fa in mezzo a cortei di migliaia di persone non era difficile intravedere qualche p38. Silvio Berlusconi, il più amato e detestato degli italiani, in un ventennio di bagni di folla ha rimediato appena un treppiede e un duomo in miniatura. Quindi? Quindi niente, forse tra la violenza verbale che ha trovato sfogo su internet e la violenza vera, quella che rende i politici bersagli di aggressioni o attentati, non c'è correlazione. Se ci fosse, potrebbe persino essere inversa: da quando la gente si sfoga su internet, ai politici non spara più nessuno.

Quella che si scatena su Internet, più che violenza, è maleducazione. È comunque irritante, quando non lascia semplicemente sbigottiti: il buon padre di famiglia che, tra un commento sulla partita e un autoscatto-ricordo della settimana bianca, sente la necessità di infilare qualche augurio di morte a Bersani, non sta offendendo tanto Bersani quanto sé stesso. Non dovrebbe essere difficile da capire. (continua sull'Unità, H1t#213)

 Quando mi capita di spiegarlo a scuola, perlomeno, mi sembra che il messaggio passi con facilità: non fare su Facebook nulla che non faresti davanti a un giornalista o in una caserma di carabinieri – dal momento che sia l’uno che gli altri, se vorranno cercare informazioni su di te, ti troveranno lì. Il tredicenne medio questa cosa la capisce. La mia speranza a questo punto è che la spieghi anche ai genitori: molti di loro evidentemente persuasi che i social network siano bolle di non-realtà dove è sospeso non solo il codice penale, ma anche il più elementare buon senso: quelle per cui non si mette il proprio nome e cognome e il visino sorridente accanto a un augurio di morte.
Quando qualche tempo fa diversi quotidiani on line (compresa l’Unità) decisero di trasferire i commenti dei propri articoli su Facebook, la parola d’ordine era “Metterci la faccia“.  La scelta aveva anche un senso economico, ma fu in molti casi giustificata come un modo di responsabilizzare il commentatore. Facebook è la piattaforma sociale che più di tutte ha scommesso sul desiderio dell’utente di uscire allo scoperto, rivelando nome e cognome e tanti altri dati più o meno sensibili. Quello con Facebook era una specie di patto col diavolo: si sarebbe preso i nostri dati sensibili, ma almeno ci avrebbe reso impossibile scannarci a vicenda in calce a un pezzo su un quotidiano. Chiedere ai commentatori di registrarsi su Facebook significava dare un volto a una pletora di commentatori anonimi che – si pensava – non si sarebbero più attentati a scrivere cose sciocche o volgari. Chi mai vorrebbe associare il proprio nome e il proprio volto a parole sciocche e volgari?
Ora lo sappiamo: anche una volta abolito l’anonimato, le idiozie e la volgarità restano dove sono. Facebook ci ha tolto un po’ di privacy (e magari se l’è rivenduta alla NSA o chissà a chi altri), ma non ci ha resi più gentili. Ci abbiamo messo la faccia, l’abbiamo persa. http://leonardo.blogspot.com
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