Neanche una Jihad sappiamo fare

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Il Terrore Fai-Da-Te

Sono passati otto anni dall'undici settembre 2001; sette dall'arrivo di nostre truppe in Afganistan; cinque dalle bombe di Madrid; quattro da quelle di Londra: e in Italia non c'è ancora un commando jihadista decente. Più che stupirci del fatto che un ingegnere libico senza un posto fisso provi a farsi saltare in aria davanti a una caserma milanese, dovremmo riflettere su questo.

L'attentato di lunedì non è riuscito nemmeno a uccidere l'aspirante martire, e a conquistare i titoli più grandi dei giornali che hanno di meglio da fare (litigarsi a colpi di Manzoni). Il gesto di Mohammed Game si inserisce insomma in quel solco di terrorismo amatoriale, terrorismo wannabe, che pare sia l'unico che si possano permettere i fondamentalisti di casa nostra. Una riedizione del botto del 2004 davanti a un McDonald di Brescia, a opera di un autotrasportatore marocchino col vizio dell'alcol; e dell'altro che infranse le vetrate della Sinagoga di Modena nel dicembre del 2003, a opera di un altro suicida islamico e alcolista (un mix già fortemente sconsigliato dal Profeta). Ed è quasi tutta qui, l'ombra di Al Qaeda in Italia. Possibile? No. Pensate soltanto a cosa è successo nel frattempo in Spagna – una nazione che nelle imprese afgane e irachene si è impegnata un po' meno di noi. In realtà dopo il contraccolpo di Madrid, con l'imprevista vittoria di Zapatero e il ritiro immediato dall'Iraq, un attentato 'in grande stile' sembrava inevitabile: si diceva che non fosse più il caso di chiedersi “se”, ma “quando”. Qualcosa in effetti ci fu: le bombe a Sharm el Sheikh, la cosa più simile a una colonia italiana d'oltremare. Ma un attentato in una grande città italiana avrebbe senz'altro avuto una risonanza diversa. Ci si potevano costruire intorno serie previsioni: se fosse accaduto durante l'interregno del centrosinistra ne avrebbe senz'altro accelerato la fine; all'inizio di un governo di centrodestra avrebbe polarizzato ancora di più l'opinione pubblica intorno ad argomenti (sicurezza, identità “cristiana”, reato d'immigrazione, ecc.) che comunque erano in agenda. In effetti si è visto comunque che non era necessario un attentato in grande stile per trasformarci in una nazione xenofoba. Resta comunque, per chi vuole porselo, un interrogativo: come mai in Italia Al Qaeda non colpisce? Non riesce o non vuole? Che il nostro antiterrorismo sia migliore di quello degli altri Paesi? È un po' difficile crederlo, ma può darsi che i nostri servizi sappiano praticare meglio di altri l'arte del compromesso, dello scambio di favori... forse siamo una comoda retrovia, una terra franca dove non conviene attirare l'attenzione?

Sia come sia, finora l'abbiamo fatta franca: e il peggio sembra passato. Ce ne siamo andati dall'Iraq, dove il nostro era uno dei contingenti più importanti; nel frattempo la cosiddetta 'rete di Al Qaeda' sembra essersi smagliata alquanto, almeno in Europa. Quasi una rivincita postuma della dottrina di G.W. Bush, e della sua concezione, per così dire, idraulica del terrorismo: qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un'ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt'altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d'altri, a casa nostra sarebbero insostenibili. Anche adesso che comanda il premio Nobel per la Pace, l'argomento “combattiamoli a casa loro” continua a funzionare: notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c'è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po' in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte.

La concezione idraulica di Bush non è del tutto insensata. È vero, c'è un tipo di terrorismo liquido, che tende verso il basso: in Afganistan e in Iraq sono arrivate teste calde da tutto l'Islam, per combattere il Grande Satana e conquistarsi il loro paradiso. Persino dall'Islam europeo, dai musulmani poco o nulla integrati tra noi: tutta gente che invece di radicarsi nel loro territorio, di organizzare cellule in sonno, pronte a colpire a un cenno del Califfo... sono precipitate laggiù, nella buca più profonda. Laggiù non c'è pace e forse non ci sarà mai, ma è il prezzo da pagare per avere aeroplani più sicuri in tutto il mondo. Certi bushiani 'realisti' (non i neocon) se la raccontano così.

E' una verità molto parziale. Il terrorismo allo stato liquido è solo una parte del terrorismo circolante. Tutto il resto è gas, libero di circolare da un confine all'altro e – bisogna dirlo? – altamente infiammabile. Mohammed Game non aveva bisogno di un ordine scritto per costruire una bomba col fertilizzante e andare a farsi esplodere. Le istruzioni le ha trovate su internet, e se non ci fosse internet ci sarebbero fotocopie di manuali clandestini. L'obiettivo lo ha scelto da solo, o di concerto coi suoi presunti sodali. Gli è andata male – bene per noi – ma non può andarci bene sempre, prima o poi un debuttante in grado di farsi esplodere sul serio lo troveremo.

E allora cosa faremo.
Sarà interessante: cosa faremo che non abbiamo fatto già? Quando ho sentito dell'uomo bomba, l'altro giorno, ho subito pensato male, da buon dietrologo medio: ecco che quando il Capo sembra screditato in Italia e all'estero, puntuale arriva la minaccia islamica... mi sbagliavo, finora la stampa berlusconiana non mostra di voler strumentalizzare particolarmente la vicenda. Si continua a insistere che il kamikaze era solo, che la rete mondiale del terrorismo non c'entra... quasi un incidente di percorso. Cosa sta succedendo agli avvoltoi, mi sono detto, dev'essere la prima volta che gli servono un attentato caldo e non gli viene voglia di papparselo. Anche solo come digestivo tra una figura di merda e l'altra del Capo da mandar giù...
Forse non siamo più in campagna elettorale, o forse non ci siamo ancora; insomma siamo in una fase in cui agitare troppo lo spettro della jihad non conviene. Perché poi l'elettore potrebbe chiedersi cosa sta facendo il governo per proteggerlo. Ecco, cosa dovrebbe fare? Chiudere le frontiere – ma le abbiamo già chiuse e comunque si dà il caso che finora tutti i terroristi siano immigrati regolari. Maledetti ingrati. Chiudere le moschee – ma quali moschee, se non le stiamo nemmeno costruendo? È molto probabile che il terreno fertile di questi personaggi siano moschee clandestine che nascono come funghi dove l'amministrazione proibisce l'attività di moschee alla luce del sole. Battersi per togliere il velo alle donne: un'encomiabile battaglia di laicità che probabilmente renderà qualche moglie islamica ancora più reclusa di prima (prima almeno poteva uscire in strada e poi, eventualmente, guardarsi intorno e decidere di toglierselo)... ma poi avete fatto caso che tutti questi bombaroli finora erano uomini a volto scoperto?

Tutte queste misure somigliano a dighe: ci sentiamo circondati da un Islam che monta come l'acqua alta e ci difendiamo alzando dighe su dighe. Ma l'Islam è un'idea, e le idee sono nell'aria.

Anche il terrorismo è un'idea, e noi dovremmo saperlo. Noi il terrorismo di matrice ideologica lo conosciamo, è roba nostra. Prendi le Brigate Rosse: su di loro abbiamo letto di tutto. Abbiamo letto che erano eterodirette dall'Unione Sovietica o che il loro capo in realtà era un agente della CIA. Può essere tutto vero e può non essere vero niente. Ma su una cosa credo che siamo tutti d'accordo: chi entrava nelle BR non si sentiva uomo della CIA o del KGB. Chi entrava nelle BR, almeno in un primo momento, lo faceva perché ci credeva. Compiva un atto di fede. E continuava a militare finché questa fede lo sorreggeva. Una volta finita la fiducia nella rivoluzione, nell'educazione del proletariato mediante la P38, il brigatista molto spesso si trasformava in collaboratore di giustizia. Gran parte dei brigatisti, ancorché convinti della vittoria finale del proletariato, non erano di estrazione proletaria. C'erano studenti; c'erano cattolici. Uniti da una nuova fede, finché la fede ha tenuto.

Nei prossimi anni è probabile che ci saranno altri attentati di matrice jihadista in Italia. Non ha molta importanza se Al Qaeda o qualche altra rete mondiale li rivendicherà o no: in sostanza saranno attentati italiani, compiuti da persone che in Italia vivono e lavorano da anni. Il movente potrà essere o non essere l'Afganistan – anche questo non ha molta importanza. Quando ce ne andremo dall'Afganistan ne troveranno un altro. Il vero problema è che in Italia c'è una cospicua minoranza islamica che vive male. Non ha la cittadinanza, non ha luoghi di culto decenti, non ha la dignità. Ma attenzione: non si ribelleranno i poveracci. Non le donne costrette nei veli. Saranno ingegneri, studenti, sacerdoti. Gente che ha un lavoro e un permesso, lo spazio vitale necessario per rendersi conto che non è abbastanza. Queste persone si ribelleranno, nelle forme violente che hanno visto praticate in altri Paesi, e non sarà molto importante se alle pareti delle loro stanze si troverà un poster di Bin Laden o di Al Zarqawi. Esattamente come non aveva molta importanza se i brigatisti adorassero Lenin o Mao. I motivi che li spingevano a sparare al sistema erano molto più contingenti delle loro mitologie: gli italiani non li hanno sconfitti bruciando le immagini di Lenin o di Mao. Quello che ha dato la mazzata al terrorismo di matrice ideologica è stata la speranza condivisa nel benessere e nella prosperità che negli anni Ottanta sembravano alla portata di tutti. Una speranza simile in un futuro di benessere e integrazione taglierebbe subito le gambe al terrorismo prossimo venturo, islamico o no. Ma le speranze non è che ce le possiamo fabbricare a comando.
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