Lo stratagemma della vergine

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13 marzo: Sant'Eufrasia di Nicomedia, vergine astuta



Consegnata dai persecutori pagani a un boia che prima di tagliarne la testa intende stuprarla, Eufrasia promette al suo carnefice di preparare un unguento che lo renderà invulnerabile, come la pozione di Asterix; salvo che può essere preparato soltanto da una vergine. I
l boia decide quindi di risparmiarla almeno finché il miracoloso unguento sarà pronto; credendo tuttavia di essere furbo, prima di spalmarselo chiede alla vergine di testarlo su sé stessa. Eufrasia obbediente si strofina l'unguento sul collo e dice al boia: prova a decapitarmi adesso, vedrai che non ci riesci. Il boia picchia più forte che può, ed Eufrasia perde la testa... ma non la propria verginità, che le era più cara. 

L'episodio è un esempio tipico del cosiddetto "stratagemma della vergine", un tropo narrativo relativamente conosciuto: la prima vergine che riesce a farsi ammazzare con un trucco simile sembra comparire nella Presa di Gerusalemme, una cronaca del VII secolo di cui ci rimangono soltanto frammenti. In quel caso i pagani erano i persiani zoroastriani che verso il 616 strapparono Gerusalemme ai bizantini. Lo stratagemma compare in seguito più volte anche in leggende mediorientali (mentre non è del tutto chiaro se abbia origini precristiane, magari nella letteratura alessandrina). La martire della Presa è ancora anonima; successivamente un sinassario bizantino la chiama Anna ma continua ad ambientare la sua avventura a Gerusalemme. Nel XIV secolo Niceforo Callisto Xanthopoulos nella sua Storia Ecclesiastica sposta l'episodio tre secoli indietro e lo colloca a Nicomedia, dove la martire Eufrasia sarebbe stata arrestata e uccisa dai più tipici persecutori romani. Da qui la riprende Francesco Barbaro nel De Re Uxoria, un fortunatissimo trattato sul matrimonio che fu una specie di equivalente rinascimentale di Innamoramento e Amore di Alberoni, qualcosa che andava assolutamente letta o data per letta per stare in società. Tra quelli che lo lessero davvero, l'inquieto poeta Ludovico Ariosto, che riutilizzò lo stratagemma nell'Orlando Furioso.

Le strisce sono prese dal meraviglioso Orlando Furioso di Pino Zac, editoriale Il Corno 1975
(Credo sia fuori commercio). 


A interpretare i ruoli della martire e del carnefice nel suo poema, Ariosto sceglie con cura i due personaggi più consoni: la dama più casta e insidiata (Isabella) e il cavaliere più violento e orgoglioso, Rodomonte re d'Algeri. L'ironia crudele di Ariosto li fa incontrare proprio nel momento in cui entrambi soffrono la fine di un amore: non lo sapranno mai, ma la causa delle pene di entrambi è lo stesso cavaliere, l'impetuoso Mandricardo. Mandricardo ha ucciso in duello Zerbino, il promesso sposo di Isabella; non solo, ma in un altro canto del poema ha sedotto Doralice, già promessa sposa a Rodomonte. Quel che è peggio è che la stessa Doralice ha ammesso pubblicamente davanti a re Agramante di preferire Mandricardo al fidanzato ufficiale. Per Rodomonte è stata un'umiliazione insostenibile, che lo ha costretto a disertare l'accampamento. Ora si aggira per il sud della Francia, incerto se tornarsene ad Algeri o continuare a vagare alla ricerca di una donna fedele, ammesso che ne esista una. Rodomonte è convinto di no; è appena passato in un'osteria dove i suoi lamenti hanno aperto un dibattito. Un oste ne ha approfittato per raccontare una storiaccia di donne infedeli che somiglia tantissimo alla fiaba di Shahzaman e Shahriyār, la cornice narrativa delle Mille e una notte. Rodomonte approva e zittisce un altro avventore che osa obiettare che le donne alla fine non sono più infedeli degli uomini. Ma poi scende la notte e "il suo pensier" non lo lascia dormire: lo trova ovunque Rodomonte cerchi di fuggire, per terra e sul fiume. È un chiodo fisso che non può essere scacciato da un altro chiodo, e questo nuovo chiodo Ariosto glielo ha allestito alla fine del canto XXVIII, sotto forma di Isabella. 

Anche Isabella sta piangendo la fine di un amore, ma nel suo caso la situazione è relativamente più semplice: dopo infinite peripezie in cui è riuscita a salvare la sua verginità nei modi più inverosimili (a un certo punto era ostaggio di una banda di pirati), Isabella si era infine ricongiunta col suo amato Zerbino, soltanto per vederlo soccombere durante un duello proprio contro il turpe Mandricardo. L'uomo che ha ucciso il grande amore di Isabella per futili motivi (impadronirsi delle armi di Orlando) è lo stesso che per capriccio ha portato via a Rodomonte la sua promessa sposa. Isabella e Rodomonte insomma hanno molto in comune, e non lo sanno. Lo sa Ariosto, e non glielo vuole dire. È il lettore che deve essere almeno tentato da un sospetto: e se trovassero la loro consolazione, l'uno nell'altro? Non sarebbe la coppia peggio assortita del poema. Ma non possono, hanno un ruolo da recitare fino alla fine: Isabella dev'essere casta e accorta, Rodomonte violento e sciocco. Quando lui vede lei, tutta la retorica sulle donne infedeli cede di schianto. Non tenta affatto di violentarla, come si dice in giro: ("E si mostrò si costumato allora / che non le fece alcun segno di forza"). Vuole piacerle, ma in questo si mostra assai meno abile del suo rivale Mandricardo, che proprio con qualche discorso accorato aveva vinto il cuore della sua Doralice. Isabella invece davanti a Rodomonte non smette di sentirsi "qual topo in piede al gatto", e decide rapidamente "di darsi con sua man prima la morte". Con parole eloquenti riesce a convincere Rodomonte a lasciarle preparare l'unguento, e il resto lo sapete. Quando Rodomonte vede rotolare la testa di Isabella, capisce di essere stato umiliato anche dall'unica donna casta che è riuscito a trovare, e decide di dedicarle un mausoleo degno di quello di Adriano. 


L'Orlando Furioso è un poema cavalleresco composto nel Cinquecento, molto prima che si sviluppassero gran parte delle convenzioni narrative che diamo per scontate quando apriamo un romanzo contemporaneo. I personaggi sono poco più che marionette, che Ariosto fa giostrare con manovre astute che facilmente confondono il lettore occasionale. Su tutte le scene regna un sovrano senso di ironia, a volte più divertita, a volte più dolente. Mai per un istante il narratore ci autorizza a condividere le tirate misogine di Rodomonte, che vengono sempre segnalate per quello che sono: sfoghi di un uomo frustrato e deluso. E allo stesso tempo in quella frustrazione è molto facile riconoscersi: e se è il caso, condannarsi. È una cosa che i lettori dell'Orlando fanno da secoli: chi oggi accusa l'Ariosto di aver perpetrato una visione del mondo "prettamente maschile", forse dovrebbe aprirlo e provare a leggerlo. Rimarrebbe forse stupitә dalla quantità di maschi delusi, frustrati, imbelli, giocati e rigiocati da dame più astute – ma non sempre più oneste: c'è una discreta quantità di truffatrici, anche tra loro, e perché non dovrebbero essercene? Ariosto non aveva nessun maschilità tossica da esaltare. Leggendolo si capisce che deve essersi innamorato spesso, soffrendone parecchio: fino a perdonarsi e dimenticare. L'Orlando, se proprio parla di qualcosa, parla di questo. Oppure non parla di niente, è solo una corbelleria, come la chiamava uno sponsor di Ariosto. Ma il giorno che smetteremo di leggerlo ci perderemo qualcosa. 
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Dante potrebbe offendervi, attenzione

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Dicevamo qualche giorno fa: sul Post qualcuno ha denunciato "il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie" che sarebbero "una costante" nella letteratura italiana che compare sui manuali scolastici. Questo mi ha fatto arrabbiare, un po' più del necessario, per motivi che sto ancora cercando di spiegarmi. Nel frattempo le autrici hanno ribadito che era una provocazione, avremmo dovuto farci una risata, ecc. Ora non m'interessa ribattere punto per punto che no, i manuali non sono fatti così, la letteratura a scuola non si insegna così. Galatea Vaglio su Valigiablu lo ha fatto, e mi sembra che possa bastare. 

Vorrei riflettere su un piano diverso: cosa porta persone non stupide, non incolte, scrittrici, laureate, a produrre un tipo di testo del genere, una specie di parodia in cui una serie di autori e personaggi di epoche molto lontane dalla nostra vengono fotografati nella situazione che possa apparire più scorretta a un lettore contemporaneo? E cosa porta centinaia di lettori altrettanto colti e sensibili ad apprezzare il testo? Potrebbe essere semplicemente una pagina divertente e scritta bene, ma credo che ci sia di più: è una di quelle pagine che prima o poi su internet qualcuno doveva scrivere, come se troppo forte fosse l'esigenza di certi lettori di leggerla. Che tipo di lettori?

Nel pezzo c'è una "doverosa precisazione" in cui spiegano che non vogliono assolutamente cancellare Dante o Ariosto – ci mancherebbe – ma promuovere "uno sforzo di consapevolezza": il che poi implica che questa consapevolezza sui manuali non ci sia, e che a scuola gli insegnanti non si sforzino in tal senso. Questa è una delle cose che mi ha fatto più arrabbiare (cioè secondo voi esorto i ragazzini a trattare le coetanee come le trattava Nastagio degli Onesti?), ma effettivamente se vado a controllare nei manuali per la scuola media, non è che trabocchino di avvertenze sul fatto che Dante e Ariosto vivessero in epoche diverse con morali molto diverse che potrebbero risultare offensive ai giovani lettori. Quel tipo di disclaimer che la Disney sta mettendo su certi vecchi film, ecco, nei libri di scuola ancora non ci sono, è come se li dessimo per scontati perché insomma, Disney+ è alla portata del telecomando di qualsiasi bambino, mentre Dante deve per forza passare attraverso la mediazione di un insegnante. Insomma tutto dipende dall'insegnante e non posso escludere che ne esistano di quelli che approfittano dell'episodio di Paolo e Francesca per esortare i giovani alla continenza. Voglio sperare che non siano in tanti. Forse alla fine avevo torto ad arrabbiarmi così tanto, perché a loro modo le autrici segnalavano un problema: manuali e insegnanti dovrebbero essere più attenti a fornire, per ogni autore, il contesto storico. E però.

E però non mi pare che le autrici stiano chiedendo questo tipo di contestualizzazione. Anzi il loro "sforzo di consapevolezza" va verso l'esatto opposto: personaggi e autori vengono strappati dai rispettivi contesti storici e trattati da contemporanei (altrimenti come faremmo a scandalizzarcene?): ci viene proposto di riconoscere in Orlando il Vasco Rossi di Colpa d'Alfredo, in Leopardi un incel. 

Il mio fastidio forse nasce da qui: ho un problema con chi ostenta intolleranza per il passato, come se non fosse la terra più straniera di tutte. A Dante credo si debba lo stesso rispetto che dobbiamo all'indigeno dell'Amazzonia: non gli spieghiamo che i suoi usi e i suoi costumi sono sbagliati; anche quando ci ripugnano dobbiamo accettare che sono il risultato di un adattamento al suo ambiente, di una civiltà la cui complessità potrebbe sfuggirci. Se leggiamo Dante, tra le altre cose è per imparare cose su di lui e sul mondo in cui ha vissuto; un mondo interessante anche solo perché era diverso dal nostro. Di sicuro non leggiamo Dante per spiegargli che si sbaglia, e che avrebbe dovuto comportarsi come ci comportiamo noi. Né per sentirci migliori di lui. O lo facciamo?

Mettiamola così. È noto che da quando su internet siamo tutti diventati i promoter di noi stessi, l'esigenza di esibire le nostre virtù è cresciuta in modo geometrico. Dobbiamo tutti dimostrare di essere in grado di sconfiggere le ingiustizie, o almeno di segnalarle; e siccome non sempre la cronaca ci provvede di ingiustizie fresche di giornata (e comunque la gara a chi le segnala per primo è molto serrata) ripiegare sui libri di Storia diventa un'alternativa comoda e a costi irrisori. Praticamente tutto quello che è successo prima del 2018 è discutibile, qualsiasi manuale è già un libro nero dei crimini dell'uomo bianco. Razzismi, prevaricazioni, femminicidi a ogni pagina. Prima o poi qualcuno doveva denunciare il sessismo di Boccaccio o di Petrarca, era inevitabile: e infatti non è stato evitato. Ovviamente non per cancellarli, no. Per far discutere, questo sì. Creare un po' di attenzione – e chi sono io per giudicare, davvero.

Si tratta di una mossa facile, ma forse più pericolosa di quel che sembra, perché... ma lo avete capito chi c'è là fuori? 

Ci sono gli studenti.

Quelli veri, quelli giovani. Voi siete woke per modo di dire: eravate svegli/sveglie anche venti anni fa. Siete andati tutti a scuola, e per quanto possa essere stato mediocre il vostro insegnante, difficilmente vi ha minacciato di andare all'inferno se commettevate adulterio perché l'Inferno dantesco lo prevedeva. Questa cosa che scrittori di epoche diverse risentano di sistemi di valori molto diversi, l'avete sempre saputa. Fingere all'improvviso di accorgersene, di dover denunciare le pagine più tossiche, può far nascere un'accesa discussione, che è il motivo per cui si scrivono le cose. Ma accendere una discussione del genere in un ambiente dove passano gli studenti, è come lanciare fuochi artificiali a un benzinaio. Voi non volete veramente cancellare Dante e Ariosto, ho capito. Magari gli volete ancora un po' di bene, a quei due. Volete solo provocare una conversazione. Ma là fuori non c'è gente che vuole conversare: c'è gente che vuole leggere meno, o leggere altre cose, più attuali, più facili. Loro Dante e Ariosto non li hanno ancora letti, e se c'è in giro una clausola per non leggerli più, perché non dovrebbero attaccarcisi?   

E non perché siano giovinastri deficienti tutti droga play e netflix – o forse sì, ma la loro ansia cancellatoria ha ragioni molto più serie delle vostre. Tutti gli organismi viventi tendono a minimizzare gli sforzi, e gli studenti sono organismi molto viventi. Potrebbe essere uno dei motivi per cui negli ultimi anni la prima domanda che si fa un giovane lettore davanti a un testo non è più "cosa sta cercando di dirmi questo testo", ma "c'è qualcosa in questo testo che potrebbe offendere me? o qualche altra minoranza sensibile?" Perché se c'è qualcosa, anche solo una parola, il problema è finito: il testo si cancella e si passa ad altro. Io capisco ormai che la parola con la N non sia più presentabile, ma immaginate di leggere una pagina dell'Autobiografia di Malcolm X a una classe che sonnecchia, quand'ecco che echeggia la parola con la N e li vedi svegliarsi di botto, scandalizzati: ehi, ma cosa stiamo leggendo? In realtà niente, non hanno letto niente. Hanno sentito solo la parola N risuonare nel silenzio. Hanno antenne per queste cose, che non percepiscono ciò che noi percepiamo con gli altri cinque sensi. L'indignazione è il sesto senso: riescono a indignarsi per quel che c'è scritto su un libro senza neanche averlo aperto, a volte appena dopo averlo intravisto dalla vetrina della libreria, sono incredibili. 

Non ditemi che un po' non li invidiate. Una certa cultura cancellatoria può anche nascere dall'ansia che i giovani provano di fronte allo scibile umano: quanti libri bisognerebbe leggere prima di capirci qualcosa, non possiamo cominciare a buttarne via un po'? (continua) 

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I classici sono tossici?

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(Premessa sul Post è comparsa una Storia tossica della letteratura italiana, che malgrado il titolo intrigante non è scritta da un tossico appassionato di letteratura italiana, e nemmeno è intossicante in sé. Si tratta invece di un atto di accusa contro la letteratura italiana per come la presenterebbero le antologie scolastiche, dove "il sessismo, i pregiudizi di genere, le vittimizzazioni secondarie" sarebbero "una costante". È una lettura molto avvilente per chi quelle antologie le ha lette davvero, alcune le ha amate, molte ne ha usate, insomma per chi a scuola ci lavora. Ma da che pulpito parlo? Ecco, qua sotto spiego da che pulpito; si vedrà che non è un granché).

Forse perché cresciuto in una casa dove libri ce n'erano, non tantissimi e non buonissimi, ma nemmeno così pochi, ho sin dall'inizio concepito la lettura come una sfida: i grandi non credono che io sia in grado di leggere 'sti tomazzi, io invece ci provo e (mica sempre) ci riesco. Con gli anni mi è rimasta questa tensione agonistica, per cui se devo scegliere cosa leggere, mediamente cerco ancora tomazzi che rappresentino una sfida, quelle robe che restano incomplete anche dopo duemila pagine, roba così. (Da giovane mi sono laureato in letteratura su un tizio che non sapeva letteralmente scrivere, per cui si arrangiava con le macchie d'inchiostro). Per contro gli scrittori viventi non mi dicono quasi mai molto: le rare volte in cui ci incoccio mi sale appunto quella tensione agonistica per cui una voce nel mio cervello comincia a dirmi: ah ma questo l'avrei scritto pure io (col terribile corollario: e perché non l'ho scritto?) e mi guasta un po' il piacere della lettura, ragion per cui preferisco continuare a leggere libri freak o non leggere proprio. 

C'è il problema che nel frattempo mi sono trovato un posto nella scuola pubblica, di modo che il mio preciso mestiere sarebbe convincere i ragazzini a leggere: la mia missione, anche. Questo credo sia il mio più grande imbarazzo professionale: non il fatto che sono un disastro a compilare il registro o che ci metto secoli a correggere i compiti e millenni a consegnare i programmi; tutta questa disastrosità scompare di fronte al fatto che dovrei far leggere i miei studenti e mah, probabilmente sono la persona sbagliata per farlo. 

C'è da dire che nulla è così cambiato rispetto a quando ero giovane io come la letteratura per ragazzi; negli anni Settanta/Ottanta c'erano classici consolidati che erano parte del paesaggio, Verne, Stevenson, Dickens, Twain, coi quali mi ero trovato abbastanza bene proprio perché li avevo affrontati presto con quella famosa tensione agonistica che diventava indispensabile quando si cercava di capire storie ambientate ancora nell'Ottocento senza ancora avere tanti strumenti culturali. E per quanto ogni tanto io ci provi, a suggerire libri così, mi rendo conto che tutto è troppo cambiato. 

La letteratura per ragazzi è esplosa, dagli anni Novanta in poi; è il segmento di mercato più interessante e funziona in un modo tutto suo che faccio fatica a capire. Quel che ho capito è che il fatto stesso che la scuola sproni gli studenti a leggere ha prodotto un vero e proprio sottogenere di libri fatti apposta per essere consigliati dagli insegnanti. Ce n'è per tutti i gusti e per tutti i problemi: se vuoi parlare di bullismo c'è uno, dieci, centomila libri sul bullismo (a occhio ne vedo uno nuovo ogni volta che passo in libreria), se vuoi parlare di mafia c'è il libro che spiega ai giovani la mafia, la disabilità, la shoah, il terrorismo, la guerra in Ucraina, persino quell'altra guerra che Zuck preferirebbe non nominassi, ecc. Tutta roba che dovrei consigliare, e a volte lo faccio; purché non mi si chieda di leggerne. Non è il mio genere, ecco, ogni volta che sfoglio trovo tutto un po' troppo semplice, ma è semplice per me e ormai si è assodato che io sono il tipo di lettore sbagliato. In generale mi fido dei colleghi. 

Ciò detto, ho notato che alla fine anche a me capita di discutere in classe di bullismo, di mafia, di disabilità, di terrorismo e di tutto il resto; e mi capita soprattutto nell'ora più strana della settimana, l'ora di letteratura. Un'ora che alle medie non è previsto che ci sia, alcuni colleghi legittimamente ne fanno a meno (altri invece ne fanno due o tre a settimana, sì, facciamo un po' quel che ci pare). È comunque prevista da tutti i manuali scolastici, che ormai la mettono in un volume a parte, e come molte cose previste dai manuali scolastici ha sorpassato quasi indenne tutte le riforme dal '68 in poi; nel primo anno c'è ancora la mitologia, Omero, Virgilio, i cicli carolingi e bretoni; dal secondo ci si cimenta con la storia della letteratura italiana senza risparmiarsi nemmeno Sao ke kelle terre; si legge un po' di Dante, avendo tempo pure Petrarca e un molto ripulito Boccaccio. Nel terzo anno si arriva ai giorni nostri passando dai Promessi Sposi – tutto questo con gran scorno dei colleghi delle superiori che continuano a ripeterci di lasciar perdere, non ne vale la pena, poi arrivano che odiano già Dante e i Promessi Sposi, vogliamo essere noi a far loro odiare Dante e i Promessi Sposi, sennò che ci stiamo a fare. Devo dire che li capisco; ogni tanto penso a mio padre che mollò l'Avviamento perché c'era un maestro che insisteva col latino e a Sozzigalli (MO), nel mentre che cominciava a ragionare col fratello di mettere su un'officina di autoriparazioni, mio padre non vedeva l'esigenza di perfezionare le declinazioni – a volte mi sembra di essere quel maestro, che perde tempo a far recitare Dante ad alunni che stanno riflettendo se valga la pena di mettere su un'analoga autofficina quando tornano in Pakistan. Non credo che l'insegnamento della letteratura sia indispensabile nella scuola secondaria di primo grado; anch'io ricordo di averne fatta pochissima e forse è il motivo per cui in seguito la letteratura italiana mi sembrò un terreno vergine e appassionante; l'unico motivo per cui insisto a farla è che sennò qualche genitore si lamenterebbe – no, aspetta, allora ci sono due motivi; il secondo motivo per cui insisto a farla è che è meglio insegnare una cosa che conosci che ti piace che altre cose che non conosci molto o che t'annoiano – no, aspetta, allora di motivi ce ne sono tre; il terzo motivo è che l'ora di letteratura è quella in cui alla fine riusciamo a parlare di qualsiasi cosa, compreso il problema del giorno. 


Ovvero: c'è stato quel momento in cui si parlava dappertutto di violenza di genere, e non è che si potesse far finta di niente – anche perché dal ministero ci chiedevano il Minuto di Silenzio – e a quel punto probabilmente avrei dovuto cercare un brano nell'antologia che parlasse di violenza di genere, in quel modo semplice e piano in cui ne parlano tutti i testi di quell'antologia che mi fa morire di noia; e se non c'era (in effetti non ne ho trovato) avrei potuto cercare qualche brano in uno dei libri per ragazzi di adesso, e fotocopiarlo, senonché ci hanno chiuso la fotocopiatrice del plesso (giuro), per cui meglio di no. Mentre ci riflettevo, è arrivata l'ora di letteratura in cui di legge di Paolo e Francesca (cioè del femminicidio più famoso della letteratura italiana, e di un fatto di cronaca che aveva intrigato tutte le corti del Duecento) e così abbiamo avuto l'occasione di ragionare su quel verso tremendo, Amor che a nullo amato amar perdona, e sull'idea terribile che sottende: la pretesa che l'Amore del cuore eletto debba essere necessariamente contraccambiato; abbiamo riflettuto sul fatto che questa idea, che rifletteva il modo di sentire della sua generazione, Dante la mette in bocca a un'anima dannata che sta cercando inutilmente di alleviare la sua colpa, o di spostarla su qualcun altro, proprio come tu che appena ti faccio notare che non si lanciano le palline di gomma mi punti il dito sul compagno che te l'ha appena lanciata e fossi io Dante vi manderei anche voi due all'inferno assieme, abbracciati per l'eternità a lanciarvi quella pallina, e vediamo se la troviamo divertente. 

Abbiamo parlato di possessività, abbiamo notato quanto Dante sia imbarazzato e sgomento durante l'episodio, perché l'altro colpevole su cui punta il dito Francesca è proprio la Letteratura, e Dante da giovane leggeva e scriveva precisamente le cose che hanno portato Francesca a conoscere i dubbiosi disiri; insomma come oggi si dà la colpa alla trap, nel Duecento si dava la colpa al Dolce Stilnovo e il primo ad ammettere che qualche colpa l'arte potrebbe avercela è proprio Dante Alighieri, Francesca è un rimorso che morsica al punto che non gli resta che svenire. E poi ovviamente abbiamo parlato di quanto ancora oggi sia forte questa idea della possessività – se io ti amo devi riamarmi, prima o poi lo farai – e di quanto alligni in noi stessi. Ma anche del fatto che oggi nessuno ti manderebbe all'inferno per un bacio o poco più, e che alla fine chi uccide 'per amore' Dante lo manda in un luogo assai più freddo e terribile dell'inferno (Caina attende chi a vita ci spense): ovvero, nel Trecento questo poeta aveva sulla questione idee più avanzate di quelle che avevamo fino a una generazione fa, quando a un marito che uccide per corna ancora si riconoscevano le attenuanti 'd'onore'. 

Abbiamo parlato di tutto questo leggendo una ventina di versi di un poeta di sette secoli fa, la letteratura italiana ci consente questo. Dante, Boccaccio, Manzoni, Leopardi, sono autori che non mi stanco di rileggere in classe e ogni volta mi sembra di trovarci qualcosa di nuovo, mi sembra di trovare un parola interessante sul problema di cui stanno parlando tutti. Probabilmente è un'illusione scaturita dalla mia attitudine di lettore intensivo: leggo pochi testi, ma li leggo tanto e alla fine mi sembra di trovarci di tutto, una pareidolia culturale. Probabilmente qualsiasi testo abbastanza complesso è in grado di illuderci della stessa cosa; già con le Avventure di Pinocchio le possibilità sembrano infinite. E però ci sono anche altri libri che queste possibilità non ce le danno; ne ho visti in giro, non saprei definirli, ma ho la sensazione che molti di questi libri sia possibile trovarli negli scaffali della letteratura per ragazzi; libri che ti parlano in modo molto semplice di mafia, ma di mafia e basta; di guerra, ma solo di una guerra; di bullismo, ma come se fosse l'unico problema al mondo; di terrorismo, ma appena cambia il terrorismo non ti dicono più niente di utile, sono già da buttare via. Magari mi sbaglio, magari la mia diffidenza è basata soltanto sulla stanchezza... (continua)

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Le martiri della Drina, o come la Chiesa racconta la violenza sessuale

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15 dicembre: beate martiri della Drina, assassinate il 15/12/1941


Da qui a qualche generazione di distanza, forse la Seconda Guerra Mondiale ci apparirà ancora più incredibile di quanto non sia adesso (è quel che dovremmo augurarci, perlomeno). In un secolo drammatico ma tutto sommato razionalmente descrivibile, ecco un intervallo di assurdo orrore i cui resoconti, anche quando dettagliati con minuzia, tradiscono comunque particolari che appaiono mitici o fiabeschi; proprio quando la storiografia sembrava aver abolito categorie assolute come il Bene o il Male, il nazismo e le persecuzioni a carattere etnico rimettono in discussione l'imparzialità degli studiosi. Una prova indiretta di questo fenomeno è la diffusione, nel secondo dopoguerra, di vere e proprie leggende dei santi come non se ne tramandavano da secoli: agiografie costruite a partire da fatti di cronaca e crimini di guerra che solo nel contesto della Guerra possono apparire plausibili. 

Uno dei casi più esemplari è quello delle cinque martiri della Drina, beatificate da Benedetto XVI. Si tratta di cinque suore cattoliche, di età tra i 29 e i 76 anni, che gestivano un piccolo convento a Pale, nei pressi di Sarajevo. Si chiamavano tutte di primo nome "Marija", e quindi si distinguono dal secondo nome e dal cognome: Jula Ivanišević, Berchmana Leidenix, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Bernadeta Banja. Ad alcune viene associata la nazionalità austriaca, ad altre slovena, croata o ungherese, ma sono attribuzioni da prendere con le pinze (la nazionalità bosniaca negli anni Quaranta ancora non era definita). Di loro non si sa molto di più di questo; tutte le informazioni che mi è stato possibile trovare in italiano, su internet, provengono da siti cattolici e sono state redatte verosimilmente in occasione della cerimonia di beatificazione, intorno al 2011, nel settantesimo anniversario della strage. Con un po' d'impegno (e di serbo-croato) potremmo trovare anche notizie di fonte diversa, e non ci troveremmo in una situazione così simile a quella dei compilatori medievali. 

Quel che ci viene insomma tramandato è che le suore furono rapite e trucidate da un commando di cetnici, la milizia lealista serba che stava combattendo una guerra ambigua, contro gli occupanti tedeschi (e italiani) ma anche e soprattutto contro i partigiani jugoslavi di Tito. L'episodio è tragicamente verosimile: è la dinamica a ricordare più le miniature medievali che i film di guerra che danno forma al nostro immaginario. Sequestrate a Pale l'11 dicembre, rinchiuse in una caserma a Goražde il 15, quattro delle cinque suore avrebbero resistito a un tentativo di stupro gettandosi dalle finestre. Le leggende, che omettono sempre di indicare gli eventuali testimoni oculari della vicenda, specificano sempre invece con molta chiarezza che nessuna delle quattro morì a causa della caduta: ma furono tutte invece finite "a colpi di baionetta" dai cetnici.  La quinta sorella, la più anziana (76 anni), era sotto la custodia di un altro drappello: fu uccisa anche lei dai cetnici il 23 dicembre. Di fronte a fatti tanto cruenti, anche l'osservatore laico sente l'impulso a fare un passo indietro: è davvero così importante che siano riuscite tutte a lanciarsi dalla finestra, tutte e quattro, in così breve tempo ed esiguo spazio? È davvero importante che nessuna delle quattro sia morta a causa della caduta? Insomma, se i cristiani hanno deciso di raccontarla così, perché sollevare obiezioni? Perché, appunto, questo è il modo in cui si raccontavano le storie di martiri già nel mondo tardoantico. In particolare il salto nel vuoto delle suore richiama quello di Santa Pelagia di Antiochia, minacciata da legionari altrettanto minacciosi, cui Giovanni Crisostomo dedicò un elogio che forse le suore conoscevano. 

Se però il Crisostomo suggeriva che una buona cristiana dovesse preferire la morte alla perdita della verginità, in seguito la questione è diventata più spinosa, almeno in Occidente. A un certo punto l'entusiasmo con cui alcuni santi andavano verso il martirio è sembrato eccessivo; nel frattempo era stato messo nero su bianco che i suicidi non potevano ottenere il perdono di Dio, e quindi era opportuno ritoccare i passi in cui un santo nell'arena correva incontro alle bestie feroci, o forzava la mano armata di un titubante carnefice, o si lanciava, perlappunto, dalla cima di una torre o da una finestra. Il discrimine può essere stato, così come per tante altre cose, il Concilio di Trento; qualche decennio dopo, i samurai cristiani si fanno un punto d'onore di rifiutare la pratica del seppuku; quando Paolo Uchibori viene condotto presso i fanghi vulcanici di Unzen, domanda ai compagni di non gettarsi da soli ma di aspettare che siano i boia pagani a dare una spinta. Cosa cambia? Per i cronisti, poco o nulla. Per un cristiano, tutto. La distanza tra un martirio per la fede e un suicidio, nei fatti, è minima: ma per un cristiano il martirio è la strada maestra per il paradiso, laddove il suicidio schiude le porte dell'inferno. E se è possibile che Gesù Cristo Giudice applichi queste categorie con un minimo di buon senso e misericordia, da un punto di vista educativo non si può assolutamente correre il rischio di confondere le due cose. Quattro secoli dopo, chi tramanda la storia delle beate Marije sente ancora la necessità di stabilire con certezza che sì, si gettarono dalle finestre ma no, non morirono a causa della caduta, bensì delle baionette dei cetnici. 

Non solo gli agiografi devono allontanare ogni sospetto di suicidio, ma anche negare la possibilità che almeno una violenza sessuale su quattro sia stata commessa. Anche questo è un topos delle leggende di santi tardoantiche e medievali: ormai ne ho lette un po' e a memoria non mi sembra di aver mai trovato un caso in cui la violenza viene effettivamente consumata. Nei casi più realistici (come appunto quello di Pelagia) la vittima si salva con un sotterfugio e un gesto estremo; nella leggenda tipica è Dio stesso a intervenire, mediante miracoli più o meno spettacolari. Agnese e Lucia possono anche essere condannate al bordello; ne escono più pure che mai. Chi osa toccarle o anche solo guardarle finisce malissimo. Noi ovviamente siamo liberi di trovare tutto questo molto ingenuo; purché ogni tanto ci poniamo il problema: chi siamo, esattamente, noi?

Siamo esponenti di una civiltà che si vanta di curarsi della Verità più che dell'Ideologia; per cui, se qualche donna effettivamente è stata stuprata da un soldato, durante le persecuzioni di Diocleziano o anche millequattrocento anni dopo in un conflitto mondiale, ci piacerebbe esserne informati. Siccome è successo, riteniamo doveroso segnarcelo da qualche parte; magari dopo aver raccolto un po' di resoconti di questo genere riusciremmo anche a realizzare delle statistiche, scoprire chi violentava di più, eccetera eccetera. E mentre riflettiamo su queste cose, ecco che scoppia di nuovo una guerra, e intorno a noi un sacco di devoti della Verità comincia appunto a contare le violenze e gli stupri inflitti da una parte e dell'altra, senza lesinare i particolari. Alcuni di questi particolari dopo un po' risultano essere stati inventati ma è troppo tardi, c'è chi ormai li ha memorizzati e non smetterà più veramente di crederci. Insomma a guardarlo più da vicino, e in tempi di guerra, questo culto della Verità appare meno granitico di quanto sembrava; se gratti bene sotto le statistiche ci trovi di nuovo l'Ideologia. Niente di nuovo sotto il sole; chi combatte ha sempre messo in guardia i civili dal nemico bieco e stupratore; lo stesso nemico del resto molto spesso si rivela bieco e stupratore, la propaganda è una distorsione inevitabile in tempi di guerra,  e una guerra c'è sempre. 

Accettiamo la cosa; però mettiamo a verbale che gli agiografi non lavoravano così. Partendo da un presupposto che tutto sommato ancora condividiamo – la violenza sessuale è un crimine insopportabile – decidevano di cancellarlo. In una civiltà in cui la vittima di violenza sessuale sarebbe stata considerata meno pura, irrimediabilmente macchiata, se non addirittura connivente con il suo carnefice, gli agiografi preferivano scrivere che la vittima non era stata toccata; nemmeno in un bordello. Facevano un torto alla verosimiglianza e probabilmente alla stessa verità; nonché forse alla fantasia morbosa di qualche studioso; ma forse rispettavano le vittime molto più di quanto le stiamo rispettando noi, coi nostri referti, le nostre statistiche, i nostri video che dimostrano inoppugnabilmente che il nemico stupra più di noi. Forse le Marije non si sono salvate dalla violenza sessuale; magari non tutte e quattro. Ma avrebbero voluto risparmiarsi, e l'agiografo le ha risparmiate. Forse chi è davvero riuscita a saltare dalla finestra è morta sul colpo; ma non avrebbe voluto, e l'agiografo l'ha fatta morire in un altro modo. Cambia qualcosa? Per noi che non crediamo no, non cambia quasi nulla. Ma qualcuno ci crede: e per lui cambia tutto. 

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Femminicidi ne avremo sempre

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Istat.it

– Dopo anni che parliamo di populismo, rinfacciandocelo a vicenda, proviamo a essere più precisi: usare i fatti di cronaca per imporre determinate priorità è populismo attivo (ad es.: vuoi imporre un inasprimento dei controlli e ti inventi un'emergenza rave). Lasciare viceversa che i fatti di cronaca dettino le priorità è populismo passivo. Il primo lo puoi fare se controlli i media, o se sei controllato dalla stessa proprietà che controlla gran parte dei media. Il secondo lo fai se ormai stai nell'angolino e l'unico modo per farti sentire fuori dal ghetto è combattere le battaglie che gli altri vogliano che tu combatta; ovviamente le perdi, o se le vinci, altri se ne prenderanno il merito (la Schlein chiede l'ora di educazione affettiva; aa Meloni ce la darà, ringrazieranno aa Meloni).

– I fatti di cronaca sono emergenze percepite. Un cane morsica un bambino e improvvisamente è emergenza cani mordaci. Non significa che non possa veramente esserci una recrudescenza di morsicamenti, ma è un'evenienza irrelata; i media semplicemente registrano che i bambini morsicati funzionano, e si mettono a cercare altre notizie simili. C'è un'emergenza femminicidio in Italia? Statisticamente si fa una certa fatica a dirlo. Quel che è sicuro è che a ogni femminicidio esplode un boato di reazioni che ci coinvolge tutti per diversi giorni, e questo ai media indubbiamente interessa. Si stringe ogni volta un'alleanza sempre meno precaria tra femminismo e cronaca nera; per un po' sembra che parlino degli stessi contenuti e con la stessa retorica. 

– Capisco che nessun professionista della politica oggi possa ignorare i fatti di cronaca nera, e rifiutarsi di cavalcarne l'ondata quando arriva – anche perché l'alternativa sarebbe lasciarsi travolgerne. Credo ugualmente che la differenza tra populismo e politica sia la capacità di distinguere tra singoli fatti di cronaca ed emergenze sociali. Lo strumento che ci consente di percepire le emergenze è la statistica, e la statistica parte ovviamente dal conteggio dei singoli episodi. Ma per essere una buona statistica, deve raccoglierne tanti, il più possibile; mentre se lavora su campioni ridotti, rischia più facilmente di essere una statistica tendenziosa e cattiva. Se per assurdo riduciamo il campione a un singolo fatto, la statistica non ci dice più niente. Ovvero: il singolo fatto di cronaca ha un significato politico tendente allo zero. Di fronte al singolo fatto di cronaca, i politici dovrebbero alzare le mani come i fisici quantistici al cospetto di una singola particella.

Istat.it

– I fatti di cronaca, quando sono tragici, possono ispirare arte e letteratura e colpirci con la stessa forza anche ad anni di distanza. Ma restano fatti di cronaca, episodi isolati in cui il caso gioca un ruolo importante. Se una farfalla non avesse battuto le ali quella sera Giulia Cecchettin forse non sarebbe uscita con l'ex, oggi sarebbe viva, noi non la conosceremmo, e la questione della violenza di genere sarebbe ugualmente grave. Possiamo non darci pace al pensiero, possiamo continuare a domandarci perché è successo quello che è successo, ma non lo sapremo mai, perché nessuno strumento può darci la risposta a un singolo perché. Possiamo senz'altro piangere, chi vuole può pregare. Ma dovremmo resistere all'impulso di fare politica in quel momento: formare un involucro di rispetto, di raccoglimento, che sospenda il dibattito, anche solo per quel paio di giorni necessario a evitare che il lutto dei famigliari diventi un video virale, che sui social si scateni la gara tra prefiche professioniste e aspiranti tali; che ideologi laici scoprano senza neanche accorgersene le proprietà purificatrici dell'esame di coscienza e propongano a tutti i maschi di confessare i peccati di pensiero o di omissione, che i professionisti della politica sentano la necessità di proporre soluzioni rapide e risolutive. Anche perché...

– Nel 90% dei casi queste soluzioni rapide e risolutive prevedono un intervento della scuola, l'unica entità del resto che si possa prestare a qualsiasi intervento a costo zero. Insomma cosa insegni tu oggi, geografia? matematica, storia dell'arte? Nessun problema, facciamo un consiglio di classe straordinario, scriviamo un "progetto" e tra una settimana comincerai con tutta la tua competenza e professionalità a spiegare ai ragazzi come non femminicidiare quando sei grande. Funzionerà senz'altro, perché "farà media", mica come le prove Invalsi. Ora, mi dispiace contraddire tra l'altro una delle artiste viventi che più ammiro al mondo, ma è una cazzata. L'educazione all'affettività la facciamo già, gli interventi con gli psicologi li facciamo già, possiamo farne di più, ma dare i voti su queste cose significa invitare i ragazzini a perfezionare eventuali atteggiamenti manipolatori. È davvero così difficile capire che i ragazzi, a scuola, tendono a restituire agli insegnanti quello che gli insegnanti si aspettano da loro? Se propongo loro di scrivere, ad esempio un racconto dell'orrore (dopo avergli mostrato una serie di strumenti per scriverli), essi cercheranno di scrivere il racconto dell'orrore che spaventi il loro insegnante. Se gli chiedo di farmi un tema su quanto è sbagliato picchiare le donne, loro ne scriveranno di bellissimi che mi commuoveranno. Questo significa che abbiano acquisito una maggiore maturità emotiva? No, significa semplicemente che hanno capito come si commuove un prof di mezza età con un po' di retorica, in questo caso femminista, poi magari scoppia una guerra e tutti a scrivere temi su quanto è bella la pace. Alcuni di loro magari ci prendono gusto e poi da grandi useranno le competenze acquisite per manipolare famigliari e amanti. L'educazione affettiva si fa in altri modi; non pretendo di conoscerli, ma credo che un passaggio fondamentale la scuola italiana lo abbia capito già tanti anni fa, ed è quello di mettere coetanei e coetanee di fianco, sugli stessi banchi. Questa coabitazione funziona meglio di centinaia di lezioni teoriche su quanto è sbagliato picchiare le ragazze; non a caso è uno degli aspetti della scuola pubblica che ogni tanto qualche riformatore vorrebbe superare perché in effetti, sì, le classi monosex da un punto di vista meramente formativo sono più efficienti. 

– Ma se a scuola facciamo già tante cose, perché il numero dei femminicidi non cala? Beh, un po' cala. Sì, ma non abbastanza: ovvero, meno di quanto calano gli altri omicidi. L'emergenza sarebbe questa. Allora, io non so il perché. Ho qualche esperienza, ma non abbastanza da montare in cattedra. So quanto fosse facile, in passato, assumere atteggiamenti che oggi riteniamo abusanti e che quando ero giovane io (non tantissimo tempo fa) erano normalissime scenate di gelosia. Ricordo che a vent'anni la rottura di una relazione comportava una sofferenza che nessuno mi aveva educato a gestire, e che portava anche individui sostanzialmente inoffensivi come me a gesti di idiozia inconcepibile, cose per le quali proverò vergogna finché campo – ormai posso dirlo, visto che a trent'anni di distanza la vergogna non si è nemmeno dimezzata. Ma che a muovere i miei passi in quei momenti fosse il Patriarcato, ebbene no, non riesco a dirlo. Quel che mi schiantava era piuttosto che il Patriarcato non funzionasse più, che le ragazze si sentissero già in diritto di sganciarmi senza che io potessi far valere nessun argomento. Può darsi che il numero di femminicidi non si stia abbassando proprio perché c'è una lotta in corso. Sarà ancora molto lunga e non ho grandi idee su come combatterla; esami di coscienza collettivi non mi sembrano così efficaci; bei voti a chi scrive No Alla Violenza credo siano ancora meno efficaci. Dipende anche da cosa ci aspettiamo dalla vittoria: la riduzione a zero dei femminicidi? Non succederà mai, i fatti di cronaca ci saranno sempre e ci faranno piangere sempre. Di nessuno sospettate come di chi propone di eliminarli all'improvviso.  

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Sleep upon my shoulder as we creep

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Magari mi sbaglio, non perché io non conosca le donne. Cioè. È chiaro che le conosco poco, ma se per questo anche gli uomini. Comunque.

Non ho mai avuto forti opinioni su come si debbano far nascere i bambini. Buffo, no? Sembra che io ci tenga ad avere opinioni su tutto e invece sul parto (che a causa di un fatto molto triste è il tema del giorno) io un parere non ce l'ho, me ne sono sempre disinteressato. No, non è disinteresse, è proprio fastidio, insomma secondo me è orribile il modo in cui nascono i bambini. È come se la natura si opponesse alla cosa – cranio troppo grosso, uscita troppo piccola, è una violenza inaudita. Quando ne mostrano uno in un film mi chiudo gli occhi, per me un parto naturale è già Cronenberg e io non riesco proprio a guardarlo, Cronenberg. 

Però magari mi sbaglio e in generale preferisco non condividere questa cosa, che più che un'opinione è una fobia. La mia compagna invece aveva opinioni molto precise e nessuna reticenza a esprimerle: voleva l'epidurale e l'avrebbe avuta a ogni costo. In effetti ci costò un po', il che nella mia regione è abbastanza strano. È stata in parte pura sfortuna – se ricordo bene, un anno prima l'epidurale era mutuabile da qualche parte e qualche mese dopo lo divenne da qualche altra parte ancora, ma insomma io la pagai: e siccome me la fecero pagare poche ore dopo che avevo assistito al travaglio, la pagai senza battere ciglio, anzi spiaciuto di non aver potuto pagare di più ed evitato maggiore sofferenza. Eravamo nell'ospedale di una città che non conosco tanto: eravamo lì perché dopo esserci guardati un po' in giro, a lei era sembrata la situazione migliore. Ma il corso prenatale lo avevamo fatto al mio paese, e una lezione prevedeva proprio la visita all'ospedale locale. A noi non passava nemmeno per l'anticamera del cervello di far nascere qualcuno lì – era un periodo in cui la percentuale di nati morti in quel reparto era sinistramente alta – però a dare un'occhiata ci andammo lo stesso, per buona educazione.   

Adesso probabilmente è tutto cambiato (in meglio). Del resto è passato tantissimo tempo, non avete idea di quanto tempo è passato. È così tanto tempo che non riesco più a sollevarlo da terra – se penso a quanto l'ho tenuto in braccio, e sulle spalle, ma adesso è diventato troppo, è un mezzo quintale di tempo, è pazzesco. Non posso ricordarmi tutto, e purtroppo tendo a ricordarmi i dettagli più strambi, ad esempio in una sala, in mezzo a tutti i ferri del mestiere, forcipi, pinze, tenaglie, (no, sto esagerando) c'era uno stereo e questo cd di Antonella Ruggiero. 

(C'erano anche maniglie per appendersi al soffitto).

(Oppure alle pareti, non voglio esagerare, non lo so. Le maniglie me le ricordo).

C'era anche, se ricordo bene, una vasca per partorire nell'acqua – ma non c'era l'acqua calda perché in quel periodo avevano un problema al bollitore, ma tanto si poteva fare benissimo senza. E se ci pensate la visita poteva terminare lì, voglio dire, persino io che chiudo gli occhi nei film ogni volta che si rompono le acque, persino io l'ho sentito dire che bisogna portare l'acqua calda: non ho mai capito a cosa serva ma nei film c'è sempre e invece in quell'ospedale no, dicevano che non ce n'era così bisogno. Insomma, prima di entrare in quel reparto sapevo soltanto che negli ultimi mesi c'erano stati alcuni incidenti. Forse niente di statisticamente rilevante, ma insomma il reparto natalità andava un po' troppo spesso sul giornale. Dopo averlo visitato sapevo che non avevano l'acqua calda (e non la rimpiangevano), ed erano favorevoli a sistemi 'naturali' che prevedevano ad esempio l'appendersi alle pareti. E ascoltavano un cd di Antonella Ruggiero.

Ora si dà il caso che io quel cd di Antonella Ruggiero lo conoscessi.

È un bel disco – niente di incredibile, ma se vi piace la Ruggiero è necessario. Si chiama Big Band! perché lei canta standard da big band con una big band. Siccome è la Ruggiero, li canta benissimo, persino troppo bene. In particolare c'è una Caravan trascinantissima in cui lei non ci prova nemmeno a trattarla come una canzone, alla Ella Fitzgerald per intenderci: no, lei semplicemente urla per tutto il tempo. Gorgheggi, scat, tutto il repertorio, col volume a undici. È un brano fantastico.

È esattamente quello che metterei su uno stereo mentre sto torturando una persona. Lei urla, Antonella Ruggiero urla di più.

Lei piange, Antonella Ruggiero ride.

Lei dice basta, Antonella Ruggiero ricomincia.

Allora capite che non potevamo partorire lì, non era proprio cosa. 

Ma il punto è: perché era successa questa cosa? Perché un reparto che fino a qualche anno prima era un punto di riferimento in tutta la provincia era diventato un posto dove torturavano le persone, no anzi: un posto dove mostravano orgogliosi gli strumenti con cui le torturavano? Un posto dove non solo non ti davano l'epidurale, ma ti facevano capire che era sbagliato prenderla? Un posto dove si reagiva al dolore alzando il volume dello stereo? Cosa era successo ai dottori, agli ostetrici?

Magari mi sbaglio, e voi mi scriverete che sbaglio, ma questa ossessione per i parti dolorosi, questa idea che la maternità debba battezzarsi col sangue... non riesco a ricondurla al patriarcato. Perché non ci riesco? Non lo so, ma non ho mai sentito degli uomini parlare dei dolori del parto. Questo potrebbe anche non voler dire nulla, io coi maschi ci discuto sempre meno. Magari esistono cenacoli di tizi barbuti che si vantano dei dolori sofferti dalle reciproche partner. Può darsi: ma non ci credo. Forse proietto, ma secondo me alla maggior parte di noi il parto fa schifo e paura, e se ci fosse un modo per accelerare la cosa e renderla brevissima e indolore, non avremmo nessuna difficoltà ad accettarla. Magari mi sbaglio: ma la religione del Parto Doloroso è una tradizione tutta femminile. Forse è postmoderna e nasce come reazione a novità introdotte troppo velocemente; forse è l'affiorare di una corrente sotterranea antica quanto l'umanità: cose che le donne si ripetono tra loro da anziana nutrice a giovane levatrice, mentre gli uomini fanno altro e soprattutto pensano ad altro, a qualsiasi altra cosa tranne che a quella.

Certo, la violenza è parte della natura. Una parte molto rilevante. E così come per decine di migliaia di anni i giovani maschi hanno dovuto dimostrare di saperla infliggere, può darsi che per le giovani donne fosse un vantaggio evolutivo, saperla sopportare. Può anche darsi che i primi rimedi proposti dalla scienza medica avessero effetti collaterali che suscitavano sospetto e causavano un rifiuto. Ma oggi no. Oggi nessuno dovrebbe soffrire così tanto. Non c'è un vero motivo per soffrire così tanto. O se c'è, è il solito vecchio motivo economico, mascherato sotto l'ennesimo mito posticcio di un'età dell'oro in cui le donne urlavano e poi erano contente di avere urlato. 

Chi spaccia questo mito – negli ospedali, negli ambulatori, nei comprensori – sta dando una mano a torturare donne colpevoli di nulla, se non di aver voluto essere madri. È una cosa orribile, uno scandalo. Io la penso così. Magari mi sbaglio. Ma non riesco più ad ascoltare Caravan (la versione della Ruggiero).

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Il primo presidente donna (anzi ragazza immagine)

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Si sarà capito a questo punto che non nutro molta simpatia per il presidente del consiglio in carica (in carico?), per la storia che è convinto di rappresentare che per me è una storiella, per i valori che crede di difendere che per me sono paroloni vuoti, per le brutte facce e che cerca di nascondere dietro il suo musetto simpatico. Non la stimavo prima e, non scrivendo io per testate prestigiose e intelligenti, non sento quell'impulso irresistibile a cominciare ad ammirarla adesso. Certo, credo sia importante giudicarla per quello che fa e non solo per i discorsi, gli articoli determinativi, i sostantivi – a un certo punto ha scritto "merito" nella dicitura di un ministero e per tre giorni non abbiamo parlato d'altro, come se nel frattempo qualche meritevole avesse ottenuto qualcosa (no: qualche lobbista sì, ma non è proprio la stessa cosa); questo mi pare fare il suo gioco. 

L'immagine non rappresenta il Presidente, nemmeno metaforicamente

Vorrei solo registrare un appunto su questa cosa storicamente rilevante, il fatto che sia la prima donna a ricoprire il suo incarico, e che questo venga da alcuni considerato la dimostrazione della debolezza della sinistra, che si riempie di parole di uguaglianza ma poi non riesce a praticarla nel concreto, mentre a destra una tizia così senza approfittare di quote rosa si fa un mazzo tanto e grazie ai suoi soli meriti sfonda finalmente un soffitto di cristallo, il glass ceiling, vedo che in questi giorni è tornato di moda questo anglismo, mentre pinkwashing ormai non se lo ricorda più nessuno, così transita la gloria dei modi di dire. Vabbe'.

Premessa: le pari opportunità sono comunque un obiettivo progressista, indipendentemente da chi riesca a realizzarle e a goderne i frutti (il principio è appunto che tutti devono goderne i frutti). Su un ideale asse ideologico, all'estrema destra ci sta la famiglia patriarcale, a sinistra la completa parità e uguaglianza, in mezzo ci siamo tutti noi con tutte le nostre contraddizioni, ma insomma se nel 2022 in Italia persino a destra festeggiano perché c'è una donna al comando, questo è un buon segno per chiunque sia sinceramente progressista; è il segno che almeno su questo fronte l'egemonia è stata conquistata e preservata. Facciamo i nostri complimenti ai nostri connazionali di destra che hanno raggiunto questo obiettivo per primi, ma ricordiamo che l'hanno raggiunto anche (e soprattutto) grazie al lavoro e alla lotta di gente che per lo più era di sinistra. Dopodiché. 


Dopodiché non c'è dubbio che la sinistra italiana non abbia espresso in questi anni tutte le leader che avrebbe dovuto. I motivi sono molteplici: il primo che mi viene in mente è che a sinistra il cursus honorum è oggettivamente più complesso; chi fa politica deve farla per anni, magari a livello amministrativo, ed è faticoso: e quando una carriera è faticosa, per le donne purtroppo lo è di più. Laddove a destra in parlamento per molto tempo alla fine si trattava per lo più di piacere a Berlusconi. (Le donne a sinistra poi dovevano difendersi dal fuoco dei comunicatori berlusconiani: pensate a come hanno trattato a turno Rosy Bindi, Cecile Kyenge, Laura Boldrini). 

Dopodiché, il caso daa Meloni è abbastanza peculiare: non solo non proviene dall'entourage di Berlusconi, ma è anche il primo presidente del consiglio di una maggioranza di centrodestra che comprenda Forza Italia ma che non sia lo stesso Berlusconi. Questo è un dettaglio notevolissimo, se pensiamo a tutti gli aspiranti eredi che negli anni Berlu si è divorato, dai più papabili (Casini, Fini) ai più improbabili (Alfano, Toti, Fitto). Tutti maschi. 

Da cui un sospetto: forse per aa Meloni l'essere donna potrebbe essere stato un inaspettato vantaggio evolutivo, quell'apparente deficit che però ti rende indigesto ai predatori che ti risparmiano. Non solo Berlusconi non vedeva 'naa Meloni una preda interessante, ma non riusciva nemmeno a immaginarla come una minaccia. La lunga strada che l'ha portata a Palazzo Chigi in realtà poi non è che sia stata così lunga – non solo perché la Garbatella non è così periferica come i giornalisti romanocentrici credono, ma perché aa Meloni per molto tempo non ha fatto che restare immobile come il guzzantiano semaforo, mimetizzata nel paesaggio, titolare di un partitino che non doveva fare altro che rappresentare un determinato settore dell'opinione pubblica, senza farsi notare troppo non tanto dagli avversari, quanto dagli alleati che alla fine erano i diretti concorrenti nella lotta fratricida a chi polarizzava la maggior parte dei voti a destra: finché a Berlusconi bollito, Salvini lessato, per esclusione non poteva che toccare a lei. In questo è stata brava? Boh, forse. Qualcun altro avrebbe fatto peggio di lei? Senz'altro. 

Mi spingo più in là: secondo me il fatto che il settore politico più retrivo e patriarcale abbia espresso la prima vera leader di partito e di governo di sesso femminile è tutt'altro che accidentale. Avevano un'immagine tremenda: l'unica speranza era svecchiarla con un personaggio giovane e simpatico e non hanno faticato neanche molto a trovarlo (i vantaggi di avere avuto, ai tempi del MSI, un partito non 'leggero', ma radicato almeno in alcuni territori e provvisto di strutture giovanili, campeggi, qualcosa che richiamasse un minimo di gioventù, qualcosa in cui il PCI era imbattibile finché non l'ha sacrificato sull'altare della leggerezza veltroniana). 


Insomma secondo me alla fine aa Meloni è una che se ha fatto un lavoro nella vita è stato fare la mascotte di una ganga di postfasci; ammettiamo pure che l'abbia fatto con costanza e dedizione, ma secondo me è ancora il mestiere che fa, una che in mezzo a un gruppo di gente bruttissima ci mette il faccino simpatico. Per cui no, non mi pare che l'essere donna l'abbia penalizzata più di tanto, c'è un motivo per cui a fare le ragazze immagine in discoteca chiamano tendenzialmente le ragazze. Non ha tanto a che vedere con le pari opportunità e nemmeno in senso stretto col patriarcato, e non vuole nemmeno essere una critica del personaggio. Di presidenti del consiglio ne abbiamo avuti di tanti tipi, una ex ragazza immagine non è necessariamente la meno adatta al ruolo, è persino possibile che faccia meglio, tiro a caso, di certi ex sindaci di Firenze. 

Così quando tutti si sdilinquiscono per questa cosa del primo presidente donna, a me viene in mente una battuta infelice di Barack Obama – sì, di quel presidente che tutti ricordano per i bellissimi discorsi così motivazionali, a me è rimasta impigliata nella memoria una battuta infelice ai tempi in cui Sarah Palin sembrava la Nuova Grande Promessa Bianca del partito repubblicano, e Obama si lasciò sfuggire che se metti un rossetto a un maiale resta pur sempre un maiale. Ne seguì qualche giorno di polemica, Obama sessista! tra gente che non capiva (e più raramente fingeva di non capire) che Obama non aveva definito la Palin un maiale: l'aveva definita un rossetto. Magari Aa Meloni riuscirà a governare questo paese in un modo decente, visti i tempi quasi me lo auguro. Ma continuo a vedere dietro di lei facce bruttissime, interessi luridi, progetti reazionari: e continuo a vedere in lei un rossetto, la mascotte che cerca di fare la simpatica, e almeno per quanto mi riguarda non ci riesce, non c'è mai riuscita, certo non rientro nel suo target. Ma insomma ditemi come fate a non vedere il maiale. 

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Anche #MeToo ha i suoi parassiti (ed è un buon segno)

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Immaginiamo che un ambientalista sia giudicato, da qualche corte in giro per il mondo, colpevole di un atto di ecoterrorismo. A torto o a ragione. Qualcuno scriverebbe che è un trionfo per i nemici dell'ambiente? Secondo me no. Qualcuno magari segnalerebbe il rischio di strumentalizzazione giornalistica – rischiano di far passare tutti gli ambientalisti per ecoterroristi! – ecco, questo avrebbe un senso. Ma i problemi ambientali resterebbero lì, e chiunque li denuncia continuerebbe a farlo. Suppongo. Fin qui è poco più di un esperimento mentale. Ci riprovo con qualcosa che è successo più spesso e più vicino a me. Quando, durante uno dei momenti di massima conflittualità tra governo e sindacati, un commando delle Brigate Rosse uccise Marco Biagi, non fu la fine di nessun movimento dei lavoratori. Avrebbe potuto esserlo? Il rischio che una parte della stampa strumentalizzasse l'accaduto c'era. Ma in linea di massima sapevamo tutti distinguere tra terrorismo e lotta sindacale, tra un movimento pacifico e i violenti che lo parassitavano, e le cose non finirono così. 

Con #MeToo non dovrebbe andare diversamente. Certo, ogni movimento ha una storia a sé. Certo, dipende dalla consapevolezza e dalla saggezza di chi lo manda avanti – il che non rende semplice la vita dei movimenti collettivi e non organizzati. Può darsi che dipenda dal buon senso di chiunque abbia a cuore la questione, e quindi persino dal mio: così dalla mia posizione privilegiata ma in ultima fila alzo il dito per dire che chiunque in questi giorni sta difendendo Amber Heard per partito preso non sta rendendo un buon servizio a #MeeToo. Tutto il contrario. Certo, si può mettere in dubbio la decisione della giuria e insistere sui dettagli dissonanti – è un mondo libero, si può difendere qualsiasi causa anche quando sembra veramente molto persa. Ma sostenere che "la vittoria di Johnny Depp" sia un "trionfo della misoginia" è la classica profezia che si autoavvera, uno slogan che molti misogini sottoscriveranno. 

Negli ultimi anni abbiamo scoperto che per le donne denunciare gli abusi – in particolare quelli domestici – è molto difficile. Ma questo non ha mai significato che le donne non siano capaci di mentire (questa sì sarebbe una conclusione sessista) e che talune donne non lo facciano, per svariati motivi, alcuni dei quali non sono affatto diversi da quelli per cui mentono gli uomini: avidità, sete di vendetta, manie di protagonismo. Il processo ha stabilito che Amber Heard ha mentito per rendere più difficile la vita all'ex marito, e fin qui non c'è veramente nulla che non succeda tutti i giorni a ex coniugi di tutti i sessi. Più interessante è un corollario: Amber Heard ha anche cercato di sfruttare l'ondata di #MeToo: si è presentata come vittima di abusi nel momento in cui questo giovava alla sua carriera. Il movimento non è una vittima del processo: è una parte lesa. E anche in questo non c'è veramente nulla di strano: ogni buona causa attira parassiti, è sempre stato così. I parassiti sono persino un buon segno, significano che il corpo è sano, il momento in cui i topi ci terrorizzano davvero è quando li vediamo abbandonare la nave. 

Io al limite potrei capire un discorso del tipo: ora i misogini si nasconderanno dietro al caso Heard per mettere in dubbio la credibilità delle donne che denunciano i mariti. Da un punto di vista mediatico, la possibilità di una strumentalizzazione è fortissima e necessiterà di un'attenzione quotidiana, ovvero di energie che sarà meglio non sprecare nel tentativo di difendere Amber Heard. Ma da un punto di vista invece giuridico, davvero, come ve la immaginate la scena? Secondo voi una donna che è indecisa se denunciare o no un marito, tra le varie ragioni da soppesare, includerà anche solo per pochi secondi qualche considerazione su com'è andato a finire il caso Heard? Un magistrato, un giudice, una giuria che esamina un singolo caso di violenza domestica, tra le prove e le testimonianze vaglierà anche il precedente Heard? Da qui a sostenere che la giuria avrebbe dovuto lasciar andare la Heard per non danneggiare il movimento il passo è brevissimo. Mi sembra un esempio magnifico di quanto sia importante separare il giudiziario da ogni altro potere. Davanti a un giudice non c'è, non ci dovrebbe essere nessun movimento, ma un singolo caso in cui anche la persona più nobile, per il motivo più nobile, potrebbe avere commesso un reato, e quello deve essere appurato: quel singolo reato. Non so quanto questo sia compatibile col diritto consuetudinario anglosassone, ma insomma io la penso così, grazie per l'attenzione. 

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Continuerò a nominare le donne con l'articolo determinativo, anche se oggi è sbagliato

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Buongiorno a tutte e tutti. Non è che abbia nulla di importante da aggiungere sull'argomento, ma siccome vedo si continua a parlare di schwa, e se ne parla soprattutto grazie ai detrattori dello schwa (perché è così che funziona, sempre, ma tanto non mi ascoltate), ora mi metterò sulla scia. Ne approfitto per dare una spiegazione a chiunque si ostini a venire a leggere qualcosa qui. Nessuno me l'ha chiesta, nessuno forse la leggerà fino in fondo, ma insomma prima o poi sento di dover spiegare perché mi ostino a scrivere certe parole in un certo modo. La fondamentale questione che affronterò qui sotto è l'articolo determinativo davanti al cognome femminile, che per una questione di linguaggio inclusivo molti tendono a eliminare. Io no. 

A meno che qualcuno non riesca a farmi cambiare idea – ma lo sapete quant'è difficile – io continuerò a usare l'articolo determinativo davanti al cognome femminile. Questo in pratica significa che laddove mi capitasse di scrivere un pezzo in cui compare, per fare un esempio, l'attrice Isabella Rossellini, io cercherei per quanto possibile di scrivere sempre nome e cognome per esteso; ma se per brevità dovessi eliminare il nome, la chiamerei "la Rossellini", mentre se scrivessi soltanto "Rossellini" probabilmente starei alludendo al padre regista. Ora, non c'è dubbio che questa abitudine – che quando ho imparato a scrivere era considerata una buona abitudine – possa essere intesa in senso discriminatorio: io però ci ho ragionato molto e ho deciso che non la sto usando in questo senso e che quindi continuerò a usarla. Perché?

Non lo faccio perché io creda, come si credeva fino a qualche decennio fa, che le donne siano in qualche modo meno 'proprietarie' del loro cognome: per me la Rossellini ha gli stessi diritti di suo padre di chiamarsi così. Si tratta di una questione pratica, perché è la pratica che mi orienta sempre in queste situazioni: così come lo schwa mi sembra poco pratico, allo stesso modo abolire l'articolo mi toglie un sistema molto semplice per distinguere, in un testo scritto, una persona di sesso maschile da una persona di sesso femminile. E veniamo al nucleo del discorso: distinguere non è (necessariamente) discriminare. A chi mi chiedesse: perché ci tieni tanto a far capire sempre e comunque che la persona di cui tu parli ha un determinato sesso?, risponderei: non è che ci tengo tanto, ma se la lingua che sto usando mi dà la possibilità di veicolare con lo stesso numero di parole un'informazione in più, perché me ne devo privare? non vedete quanto sono già lunghi i pipponi che scrivo? Se ho la possibilità di mostrare a tutti i lettori, con due lettere, che una persona di cui sto parlando è una donna (o un uomo), perché devo rinunciarvi, col rischio di dover poi precisare nel paragrafo successivo che appunto, si tratta di una donna (o di un uomo)? Per me è una questione di praticità e basta.

Non lo faccio perché io voglia discriminare le donne, né in modo negativo né in modo positivo: voglio solo un modo pratico per riconoscerle (e per riconoscere gli uomini). Se da domani si decidesse di togliere l'articolo alle donne e metterlo agli uomini per me andrebbe ugualmente bene (salvo che no, non funziona così: la scrittura è un'abitudine, e rompere le abitudini è complicato per me che scrivo e per voi che leggete). Purtroppo in italiano non si è omologato come in altre lingue l'uso di anteporre sempre l'appellativo al cognome: se scrivessi, per dire, in francese, "Mme" e "M" mi toglierebbero d'impiccio. Così in inglese Mr e Ms. In italiano "signore" e "signora" non sono altrettanto elastici: una situazione più equa sarebbe introdurre l'articolo anche davanti ai cognomi maschili, alla milanese; se qualcun altro lo propone posso anche provarci, ma alla fine la soluzione che abbiamo è più economica. 

Non lo faccio per litigare – sul serio, in realtà a me piace litigare, ma spero di trovare sempre argomenti più interessanti, e a tal proposito devo dire che in questi giorni, tra una pandemia e una probabile guerra in Ucraina, questa idea che qualcuno possa preoccuparsi tanto per l'uso di uno schwa in un documento, che qualcuno stia veramente in ambasce per via del linguaggio inclusivo mi suona quasi divertente: qui siamo oltre all'orchestrina del Titanic, siamo a quelli che ascoltavano l'orchestrina e avevano da ridire sull'acconciatura del batterista. Allo stesso modo, mi è già capitato di notare che qualcuno si risentisse perché scrivevo un cognome femminile con "la" davanti, ma in tutti i casi era gente già arrabbiata con me per motivi più seri. 

Non lo faccio per oppormi a un movimento che lotti per la maggiore inclusività e pariteticità nella lingua italiana, non avendo io nessun reale motivo per oppormi. La lingua cambia ed è molto probabile che questa mia abitudine (che ripeto, quando cominciai a scrivere era una regola) molto presto venga interpretata come un vezzo, e magari un vezzo che riveli il sessismo inconsapevole della mia generazione. Posso capirlo e mi sta bene: sono cose che succedono continuamente, ci basta aprire qualsiasi libro o giornale di trent'anni fa per trovare già espressioni che oggi suonano strane e a volte fastidiose. E allo stesso tempo quelle espressioni sono vere, sono il motivo per cui studiare testi del passato è straniante e affascinante, e modificarle equivarrebbe ad alterare subdolamente il passato.

Siccome nel mio passato ho scritto molte cose imbarazzanti ma (grazie al cielo) nulla di davvero incriminante, non modificherò nulla: e non modificherò nemmeno il modo in cui scrivo adesso, ormai è una questione di coerenza. Lo so, è la coerenza dei testoni, del resto quando cominci a fare una cazzata, più passano gli anni più costa fatica ammettere che hai fatto una cazzata. Verso i 45 anni si arriva a un punto di rottura, molta gente si converte in quel momento perché dopo è praticamente impossibile, l'energia necessaria ad ammettere la cazzata diventa così grande che ti distrugge. Quel punto di rottura, credo proprio di averlo sorpassato: l'idea di aggiornarmi per far piacere agli inclusivisti di oggi mi ripugna un poco, temo che sia persino fatica sprecata in un momento storico in cui ti basta dare un calcio a un sasso e ci trovi sotto un tizio che ti spiega come scrivere correttamente per non offendere qualcunə. Mi conviene restare dall'altra parte, un museo vivente degli usi e costumi linguistici del secolo scorso. Magari con questa scusa qualcuno mi verrà a trovare più spesso. 

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Non è più tempo per i Rashomon

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The Last Duel, (Ridley Scott, 2021).

Normandia, 1386: si disputa l'ultimo duello giudiziario della storia francese. Il cavaliere Jean de Carrouges accusa l'ex compagno d'armi, Jacques Le Gris, di aver violentato sua moglie, Marguerite. Le Gris sostiene di avere avuto con la moglie di Carrouges un rapporto consensuale. La moglie invece sostiene... no, la moglie non 'sostiene': la moglie dice il vero. Fine. Non è che possiamo metterci lì a mettere in dubbio quel che dice una donna. Non siamo mica nel Medioevo... 

Ma che ci vedono le donne in Adam Driver, bisognerebbe fare una ricerca seria su questa cosa

Caro Babbo Natale, quest'anno vorrei la pace del mondo, la salute per tutti e un film sul Medioevo decente da proiettare in seconda media – prima di sbuffare, prova a dirmene uno. Visto? No, i draghi non valgono, no, nemmeno i cicli arturiani. Un film per mostrare ai ragazzi un mondo vero, che è esistito e che sicuramente era molto diverso dal nostro, ma in un qualche modo funzionava, coerente, verosimile: castelli, armature, servi della gleba, vorrei solo conservare in un angolo del loro immaginario un po' di arnesi medievali perché – non lo so neanche io il perché, ma in un qualche modo non mi sembra onesto lasciare che crescano senza. Non chiedo un capolavoro; anche solo un film a colori che abbia più senso delle Crociate di Ridley Scott, perché davvero lo so anch'io che fa acqua da tutte le parti: ma trovami qualcosa di meglio nella filmografia degli ultimi trent'anni. E lo so bene che Scott si intende poco di Medioevo  – come d'altronde di qualsiasi evo: alla fine per lui è quasi sempre tutto un grande western con la Frontiera e i pistoleri che si vede che patiscono di non poter estrarre il revolver, di doversi vestire di ferro e sguainare ancora scomode spade – ma almeno sa mettere insieme uno spettacolo. Come dici?

Sì Babbo, lo so che ci ha riprovato anche quest'anno, l'ho visto l'Ultimo duello e mi dispiace che sia andato così male, in un qualche modo il Medioevo a Sir Scott porta sfiga ed è strano: di tanti posti dove ambientare un western sembra uno dei più congeniali al suo gusto per la meraviglia. L'abbiamo sempre saputo che per Hollywood la Storia è un fondale per mettere in scena in modo pittoresco i problemi di oggi: non è esattamente l'approccio storico che mi servirebbe, ma ha il pregio di tenere svegli anche gli spettatori che non siano patiti di cavalli e armature. Scott non dà l'aria di interessarsi di politica, eppure più i suoi film sono in costume, più le sceneggiature si ingombrano di ideologie. Il Gladiatore era il film perfetto per l'America imperiale post 11 settembre (è stupefacente che sia uscito l'anno prima); le Crociate per reazione s'intestardivano a immaginare un Regno dei Cieli multietnico e multiconfessionale. The Last Duel, vent'anni dopo, è un film su #meetoo e la rape culture così concentrato sul suo essere un film su #metoo e la rape culture che in certi punti lo spettatore esigente è portato a domandarsi: ma sul serio? Cioè mi stai davvero raccontando questo, in senso non ironico? Ecco: è un film senza ironia, una qualità che a Hollywood sta diventando merce sempre più rara e pericolosa.

The Last Duel vuole dire qualcosa di molto vero e attuale e vuole dirlo senza il minimo rischio di essere frainteso. Lo fa scomodando vicende di un secolo diverso, vissute da persone i cui valori erano molto diversi dai nostri – e pazienza: Hollywood si è sempre comportata così e forse è l'unico modo per portare nel Medioevo un po' di spettatori che non si farebbero attirare da un caso di cronaca medievale. Alla fine chiunque avrà imparato qualcosa: anche solo il fatto che a un certo punto del Medioevo i medici ritenessero l'orgasmo femminile necessario al concepimento ("It's science!": e tutto questo diversi secoli prima che altri medici, tra Sette e Ottocento, negassero la stessa esistenza dell'orgasmo femminile).

Dopodiché, caro Babbo, capisci anche tu che un film sullo stupro con un dibattito processuale sull'orgasmo, in seconda media, non lo posso mostrare. Ma sarei comunque contento di averlo visto. Il problema è un altro e te lo dico, caro Babbo, sir Scott stavolta non c'entra niente. Sì è più cupo del solito, certi tagli sono evidenti, il ritmo non è il massimo, ma gli perdonerei questo e altro. I colpevoli che non riesco a perdonare sono Ben Affleck e Matt Damon, che non paghi di aver voluto tirar fuori da un saggio di Eric Jager un blockbuster militante, hanno anche deciso di scomodare Rashomon. Proprio così, hanno voluto consegnarci il loro Rashomon, e magari sono persino convinti di esserci riusciti: il loro film problematico con tre versioni inconciliabili della stessa storia secondo i punti di vista di tre personaggi in conflitto. E i critici non si sono fatti sfuggire la cosa – anche perché ci sono persino le didascalie prima di ogni versione, insomma basta saper leggere le scritte grosse e alcuni sembra ne siano ancora in grado, sicché abbiamo veramente delle recensioni in cui The Last Duel è paragonato a Rashomon.

Lui però si ritaglia sempre la parte giusta

Ora Babbo capiscimi, non si tratta di snobismo. Non ne faccio una questione tecnica, ma insomma Rashomon è un film che ci vuole dire che la realtà oggettiva non esiste, che ognuno ha la sua e che lo spettatore non necessariamente riuscirà a ricomporne una. È l'esatto contrario di quel che succede nell'Ultimo Duello, dove dopo aver sentito la campana del cavaliere Carrouges e quello di Jacques Le Gris, la didascalia ci avverte che tocca alla signora, e che la sua verità è "La Verità". Non lo dico io, Babbo, c'è proprio scritto così sullo schermo, affinché nessuno possa confondersi sulla morale del film: e la morale è che gli uomini si raccontano tante palle, per orgoglio o per invidia o persino per amore (ma più spesso per orgoglio e per invidia); le donne invece no, le donne dicono sempre la verità, tranne ovviamente quando non mentono per non finire sul rogo arrostite a fuoco lento. Dopodiché Scott può filmare castelli e armature con tutta la maestria che gli compete, ma l'impianto non funziona, e qui suggerisco a chi vuol vedere il film di non leggere oltre, perché... non so prendiamo Le Gris.

Il film ci spiega, con la sua manina leggera, che Le Gris è cresciuto in un sistema di valori che non gli consente di riconoscere uno stupro, nemmeno quando lo commette. Quando nella sua versione Marguerite fa resistenza, Le Gris è convinto che stia recitando un rituale di corteggiamento. E siccome in quel momento stiamo guardando la scena con gli occhi di Le Gris, dovremmo appunto vedere una Marguerite che vuole e non vuole, che civetta un po', una Marguerite cedevole che infine si concede all'amplesso. Se questo film fosse un vero Rashomon, dovremmo appunto assistere a questo: ma la vera notizia che porta al mondo il nuovo film di Ridley Scott è che i Rashomon in America non si possono più fare – e dire che fino a qualche anno fa erano quasi un tropo, molti telefilm avevano la loro puntata-Rashomon, House MD sicuramente ne ha una e persino Saranno Famosi – ma adesso no, adesso se vedessimo Marguerite concedersi e gioire potremmo equivocare. Qualche spettatore/trice sicuramente equivocherebbe, voglio dire, è statistica, e poi i Rashomon implicano appunto questo, che ognuno possa scegliere la versione che preferisce: ma ciò oggi è intollerabile, qualcuno twitterebbe che Ridley Scott ha girato un film che esalta la cultura dello stupro; che Affleck e Damon l'hanno scritto, che Driver l'ha recitato: insomma no, non si può fare, non è più tempo per i Rashomon, e così ci tocca guardare questa scena molto imbarazzante dove Le Gris vive il vertice della sua storia d'amore mentre ansima sulla schiena di una poveretta che nemmeno è riuscito a svestire. Non c'è nulla di veramente problematico qui, non c'è spazio per il dubbio che anzi va scacciato e al massimo individuato nei personaggi come una debolezza da debellare: le vittime sono serie, integerrime e sofferenti, i rei sono patetici. Alla fine il vero colpevole è il Medioevo: e la sua colpa è di non voler credere alle donne. E Babbo io non è che voglia difendere il Medioevo a ogni costo, lo so che era un periodo terribile per le donne, ma i film che condannano il passato in quanto passato ho sempre paura che servano a distogliere dalle responsabilità del presente.

Rashomon ci chiedeva di accettare che ogni Verità è parziale; l'Ultimo Duello ci nomina giudici onniscienti, davanti a due uomini che hanno deciso di scannarsi per contendersela. Alla fine, caro Babbo, quel che mi lascia è un po' di freddo amaro in bocca, per aver voluto controllare se davvero il cattivo viene punito come nel mio cuore avevo già desiderato. Ci sono anch'io sugli spalti, col sadico re di Francia. Mi dispiace Babbo, perché non è nemmeno un brutto film. Ma non è quello che mi serve.

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L'annosa questione del dentisto

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Io poi lo so che il patriarcato è esistito e tuttora resiste, e negarlo, oltre che ipocrita, sarebbe anche di pessimo gusto; e tuttavia a volte mi sembra un bersaglio troppo facile – ma non è neanche questo il problema, non c'è niente di male a indicare bersagli facili – ma se in alcuni casi fosse il bersaglio sbagliato?

La Repubblica. Che poi spaccare i social mi sembra sempre una cosa ottima.

So anche che molti maschi su questi argomenti non ragionano. Cominciano a veder rosso, a indignarsi a caso, a fabbricarsi competenze linguistiche raccattate sonnecchiando al liceo. I peggiori fanno le battute, e sono sempre le stesse battute da quando ero piccolo. Ero piccolo nel secolo scorso e già "dentisto" non faceva ridere, cogliono, "dentista" è già maschile. Lo so. 

Quante cose che so. 

Lavoro da tanti anni e ho avuto tanti capi. Alcuni uomini, altri erano donne. Con gli uomini è semplicissimo, si chiamano dirigenti. Se volevo sottoporre qualcosa alla loro cortese attenzione, era sempre la cortese attenzione del dirigente. Facile, naturale, svelto. 

Con le donne c'è sempre il piccolo problema. Che per carità, è un'inezia davvero. Ma proprio perché è un'inezia, non si risolve mai, come quel piccolo bottone scucito. 

Il dirigente o la dirigente? E fin qui, basta chiedere. (E infatti glielo chiedi, ma siccome è un'inezia dopo un po' ti scordi come ti ha risposto. Ma non osi richiedere, e vivi nell'angoscia. Cioè non è vero, magari fossero questi i motivi per angosciarsi al suo cospetto. Ma c'è sempre questo disagio, questo bottone che non è al suo posto e lo sai, e preghi che non ci facciano caso).

(Dirigenta non fa ridere, cogliono).

Ma senti questa: fino a qualche anno fa, d'estate al/alla dirigente subentrava il presidente della commissione d'esame, che spesso era una donna, e quindi: egregio presidente, egregia presidente, o egregia presidentessa? Lo so che è una sciocchezza, ma insomma, quale usare per non dare una cattiva impressione?

A questo punto lo so cosa mi state per rispondere: basta chiedere. Ma certo, ma infatti, che male c'è. Ho forse paura in quanto maschio di chiedere a una superiore donna (superiora?) come vuole essere chiamata? No, in coscienza no, passo la vita a chiedere cose alle donne che stanno sopra, sotto, intorno, non è un problema chiedere. Ma ecco, il problema è che chiedere alla volta diventa pretendere. Abbiamo questo problema del genere dei sostantivi professionali e vogliamo che siano le donne a decidere. Tante volte mi sono sentito pensare: le donne dovrebbero finalmente mettersi d'accordo. Facciano la loro assemblea generale, la costituente, decidano una volta per tutte se il rettore o la rettore o la rettrice o la rettora. Insomma si mettano d'accordo e decida il matriarcato, almeno su questo specifico argomento.

Ma perché dovrebbero mettersi d'accordo? Perché dovrebbero avere sull'argomento opinioni meno contrastanti di quelle dei maschi? Abbiamo mai preteso dai maschi una simile compattezza? Abbiamo mai chiesto a un pilota se preferiva chiamarsi piloto, come se il fatto di essere bravo a guidare un'automobile gli conferisse una qualche autorità linguistica(*)? No, i maschi si sono trovati la lingua già tagliata a loro misura. Invece appena una donna si fa strada nella sua categoria, pretendiamo che s'improvvisi linguista. Ecco, se c'è ancora qualcosa di davvero patriarcale, in tutta questa faccenda, forse è la nostra pretesa di avere una risposta precisa, da un'entità collettiva femminile che dovrebbe cucinarci e servirci una soluzione bella e pronta, qualsiasi soluzione andrebbe bene. E quindi insomma donne, rispondete: il direttore, la direttore o la direttrice? (direttora non fa ridere), (e comunque il femminile di cantore è davvero cantora). 

Le donne però non sempre ne hanno voglia – è un problema? Ti rispondono: faccia lei. 

È una risposta tremenda. 

"Commissario o commissaria?" "Faccia lei".

Ma cosa devo fare, scusi. Perché mi tocca decidere una cosa così. Su che fondamenta linguistiche o storiche o sociali devo decidere lì per lì se sei un commissario o una commissaria, una figura che poi io spero sempre d'incontrare poche volte all'anno, mentre lei è commissaria/o molto più spesso, non può deciderlo lei? Anzi, non potete decidervi una volta per tutte?

No. 

No perché?

Perché non è così che funziona la lingua. Specie in Italia. Non c'è nessun parlamento che legifera, nessuna corte suprema che sentenzia. La lingua è libera, la gente s'immagina da qualche parte un consesso di grammatici occhialuti che borbotta su che misure adottare per respingere petaloso, e invece è tutto il contrario, i grammatici sono naturalisti estrosi in giro per i prati ad acchiappare neologismi effimeri e pittoreschi col retino di farfalle. Ti verrebbe voglia di agguantarne uno per il collo, senta adesso lei mi dice se il mio boss è un dirigente o una dirigente, e se mi denunzia mi devo trovare un avvocato o un'avvocato con l'apostrofo o un'avvocata o un'avvocatessa. Ma niente, quelli alzano le spalle, non spetta a noi, sarà l'uso a prevalere come sempre, e cioè?

Cioè continueremo a litigare su questa cosa per generazioni e generazioni, e a usare questo argomento come pretesto polemico persino quando a Sanremo non c'è un Morgan a dare di matto. E qualcuno continuerà a scrivere "dentisto" 🤣🤣🤣🤣 voglio morire. 

E quindi, ricapitolando: il femminile di direttore non può deciderlo una donna tra tante (con che autorità?), e sarebbe ingiusto pretendere che lo decidesse una comunità femminile (forse che abbiamo aspettato che si riunisse una comunità maschile per i nomi maschili)? Si può chiedere ogni volta a ogni singola professionista come vuole essere chiamata, ma è faticoso per noi e anche per lei, anzi è proprio quella piccola fatica che ti fa sospettare che il mondo del lavoro non sia a misura delle donne, come le forbici non sono a misura dei mancini. C'è una soluzione? Continuare a discuterne finché un'opinione prevarrà sulle altre. Sì, ma quale opinione dobbiamo avere noi? Quale opinione devo difendere io?

Non lo so. 

Mai detto di sapere tutto, eh.


(*) "Un'automobile" a quanto pare si scrive in italiano con l'apostrofo perché Agnelli non sapeva bene come scriverlo e lo chiese a D'Annunzio, il quale lì per lì decise che siccome il pilota è un uomo, l'automobile aveva da esser femmina; ecco, di tutte le persone al mondo alle quali potevamo concedere di legiferare in materia linguistica, proprio Agnelli e D'Annunzio, certe volte io dico "macchina" dalla rabbia.

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Rosa l'autoreclusa

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23 agosto - Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima., via Wiki.

[2016]. Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

(No a voi del burqini non frega più niente, forse non sapete neanche di cosa si tratta) (è in sostanza una muta per nuotare, come quelle che indossano molti surfisti nei mari più freddi, ma siccome è pensata per un pubblico musulmano che vuole andare in spiaggia senza spogliarsi, ha preso questo nome che francamente ripensandoci è agghiacciante: burqa+bikini=burqini) (nel 2016, quando mi misi a scrivere questo pezzo, da più di due settimane non si parlava d'altro, che nostalgia) (vi ricordate di quando negli aeroporti avevamo paura dei bagagli e non della gente).

No, avete ragione. Il burqini è senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

chitarra
Ah vabbe' ma si era portata la chitarra. Anch'io probabilmente sono rimasto tappato in casa qualche anno con la chitarra (poi per fortuna hanno inventato l'internet).
D'accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l'era fatto costruire su misura.

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? Se le vieto di bagnarsi, in un colpo solo avrò ammesso che il loro abbigliamento mi fa paura, e che la *nostra* spiaggia non le vuole. Se ne staranno in casa, magari si radicalizzeranno, non un gran risultato. Se invece la tollero, le do la possibilità di passare un po' di tempo con tanta altra gente che ha costumi diversi dai suoi. Questo non le cambierà necessariamente idea, però io non sottovaluterei l'effetto che ti può fare una spiaggia libera e aperta a tutti, che ti accoglie e non ti giudica. Certo, sappiamo che in altri Paesi (quelli sulla frontiera della radicalizzazione) l'introduzione del burqini ottiene l'effetto opposto. Tre anni fa ce n'era un paio, poi quindici, e ora chi non si copre da capo a piedi preferisce stare a casa. È il rischio che corri se credi nella tolleranza.

Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città c'erano, uhm, i filosovietici e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Universitarie a Kabul negli anni Ottanta - quando in città governavano, uhm, i filosovietici, e Reagan, ehm, sosteneva i mujahidin di Bin Laden.
Avete mai discusso con una donna che porta il velo – esclusa vostra nonna? (La mia lo metteva sempre per uscire di casa, salvo che lo chiamava "foulard") (non lo metteva per una questione religiosa, o per tranquillizzare suo marito che, per quel che mi ricordo, era l'uomo più tranquillo e buono del mondo) (lo metteva perché era una signora sposata e quello era il costume. Era la Bassa, era il 1980) (quando pubblicate le foto delle studentesse di Kabul a capo scoperto negli stessi anni, che sono in effetti molto interessanti, ricordate che l'Afganistan è molto grande e che la condizione delle donne sposate nelle regioni montuose era probabilmente molto diversa). A causa della mia professione io ho un approccio piuttosto particolare all'Islam femminile, insomma, ne discuto soltanto con studentesse minorenni, un campione abbastanza bizzarro. Intorno al velo c'è un equivoco strano: siccome a noi occidentali evoca il monacato, diamo per scontato che le ragazze si velino per una questione di umiltà (in certi casi è davvero così).

Poi in seconda le vediamo contemporaneamente imparare a sistemarsi un nijab elegante e fare i primi esperimenti col rossetto, e rimaniamo interdetti (giuro, io ho visto preadolescenti in pantaloni di pelle e nijab). Non ci viene in mente che l'indumento, prima ancora dell'Islam e del patriarcato, rappresenti il passaggio all'età adulta – e che quindi una tredicenne lo possa sbandierare con orgoglio. Tengo alle mie radici! Credo nel mio Dio! Ma soprattutto, raga, ho avuto il ciclo. Io a tredici anni ho fatto cose più cretine. Per farmi notare? Anche. Per sentirmi diverso? Mi sono sempre sentito diverso. Mi sembrava che qualcosa o qualcuno mi spingesse fuori dal mucchio, mi obbligasse a trovare una mia identità. Leggevo libri, bevevo cose, giravo di notte, scrivevo cose orrende sui muri, pregavo e adoravo il mio Dio. Se mi ritrovassi davanti, mi prenderei certo a schiaffoni. Prenderei tutti a schiaffoni: chi si copre il capo e chi vuole abolire i copricapi; scorticherei i tatuatori nelle pubbliche piazze. Ma siccome non posso prendermela con me stesso, siccome con quel tredicenne cretino devo convivere, non posso nemmeno prendersela con gli altri. Per me la tolleranza è questo. Non è detto che funzioni. Le crociate, per contro, si è visto molto bene che non funzionano.

Rosa da Lima era considerata la prima santa sudamericana, finché non attecchì la leggenda di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, l'atzeco che avrebbe fotografato la Madonna della Guadalupe.
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Gesù e la colf

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29 luglio - Santa Marta e San Lazzaro, amici di Gesù, I secolo.

 Se abbiamo bisogno di qualcosa
ti chiamiamo noi, grazie.
[2012]. Comincia tutto nel vangelo di Luca, con una episodio che sta in cinque versetti (10,38-42): Gesù predica in casa di due sorelle, Marta e Maria. Quest'ultima resta seduta ai suoi piedi ad ascoltarlo, mentre Marta attende ai lavori domestici, finché non sbotta: ehi, Gesù, lo vedi come sono messa? di' a mia sorella che mi aiuti.
Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Luca, lo abbiamo visto, è l'evangelista liberal: ha un debole per i poveri, gli extracomunitari, le donne. Forse, come ogni liberal si rispetti, a casa aveva pure dei domestici, che trattava con molta gentilezza, versando i contributi e usando la frusta solo in caso di estrema necessità. Chissà. In ogni caso ogni progressismo ha un limite, e quello di Luca riguarda i lavori domestici: tutti possono seguire Gesù, tutti possono entrare nel Regno dei Cieli, però gli sguatteri in seconda fila, grazie. Non è che il loro lavoro non sia utile, anzi. Però qualcun altro si è scelto la parte migliore: un modo educato per dire che a voi è rimasta la peggiore. Luca non immaginava forse che la religione che stava contribuendo a fondare avrebbe attecchito nelle metropoli proprio presso quel ceto sradicato senza tradizioni e senza prospettive, la servitù. Gli schiavi che venivano comprati e venduti nei porti del mediterraneo si mescolavano tra loro, cercavano un'identità comune e un riscatto almeno ideale: lo trovarono in una fede religiosa che implicava l'uguaglianza di schiavi e padroni davanti a Dio, ma a quel punto l'episodio di Marta cominciò a creare difficoltà. Per ogni vergine che si consacrava alla vita contemplativa, all'estasi e alle rivelazioni mistiche, dovevano esserci una o più Marte che continuassero a rigovernare le case. Tra la sorella incantata ai piedi del Salvatore, e quella indefessa e brontolona che continua ad andare su e giù tra cucina e lavatoio, lo zoccolo duro dei fedeli ha sempre istintivamente tifato per la seconda. Anche personaggi insospettabili, come Agostino e persino Teresa d'Avila, hanno lasciato scritto che la "parte" di Marta è fondamentale, irrinunciabile, complementare a quella di Maria, eccetera. Però alla fine se torniamo alla lettera del vangelo, vediamo che il Gesù di Luca la mette giù molto più semplice e brutale: Marta è una che si agita per molte cose inutili. Nel vangelo c'è scritto così, se non vi va scrivete un altro vangelo.

Sì, vabbe', miracolo, ma che puzza.
Ciò è stato fatto. In quello di Giovanni, il più tardo dei quattro, scopriamo che la sorella di Marta è la donna che unge i piedi di Gesù e li asciuga coi capelli: la Maddalena, dunque? Giovanni non lo dice. Non sembra considerarla nemmeno una peccatrice: l'unico a sdegnarsi per la scena è Giuda, il disonesto tesoriere degli apostoli, che si lamenta dei 300 denari buttati via per l'unguento, invece di darli ai poveri. Non solo, ma Maria e Marta hanno anche un fratello, Lazzaro, che Gesù risuscita al capitolo 11, creando qualche imbarazzo nei sommi sacerdoti che deliberano di far crocifiggere il sedicente Messia. Le due sorelle da comparse sono promosse insomma a personaggi di rango, e Marta è quella che parla di più. Però c'è sempre il sospetto che Giovanni stia scrivendo una fan-fiction, utilizzando personaggi e nomi già noti per imbastire una storia coerente, ma che non ha riscontri negli altri vangeli, e a ben vedere li contraddice (nei sinottici i sacerdoti decidono di sbarazzarsi di Gesù dopo l'incidente del tempio). Persino il nome di Lazzaro non è una novità: nel vangelo di Luca era il nome di un mendicante. Giovanni insomma sembra conoscere Luca, ma non lo cita. Del breve alterco sulla "parte migliore" non c'è traccia, però le due sorelle sembrano modellate proprio su quel precedente. Quando Gesù arriva, Marta è quella che si muove di più, mentre Maria in un primo momento resta ferma. E se il momento di commozione più pura, in cui si scioglie in lacrime, Gesù lo vive con Maria, è Marta quella che dice le parole che devono esser dette:
«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell'ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Guardandosi bene dal pretendere un miracolo qui-e-ora, Marta pronuncia la professione di fede necessaria a ottenerlo. È l'ultimo dei sette "segni" che nel vangelo di Giovanni attestano la divinità di Gesù; è anche quello che ne causa il martirio: siamo insomma al centro di tutta la buona novella, e al centro c'è una sguattera.  Dai tempi di Luca sono passati venti o trent'anni, ma ormai i servi hanno preso il sopravvento, e si stanno forse plasmando un Salvatore a loro uso e consumo: più gentile di quello dei sinottici, più umano, un amico che piange i fratelli morti, e che si fa intenerire dai discorsi di una colf. Perché Marta dentro è rimasta una colf, come si vede bene qualche versetto più giù, dove ribadisce la sua essenza di donna pratica nell'esatto momento del prodigio. Qui, senza apertamente dubitare della divinità del Cristo, si permette di far notare che se si scopre la tomba dopo quattro giorni probabilmente ne uscirà un cattivo odore.
Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni».
Dopo il miracolo Gesù torna nel capitolo 12 a trovare la famiglia e a farsi ungere i piedi da Maria (Marta serve in tavola). Lazzaro a quel punto è una celebrità, vengono da lontano per vederlo; però di lui e delle sue sorelle nessuno parla più. Successivamente le leggende li localizzano qui e là per tutto il Mediterraneo: Lazzaro sarebbe diventato il vescovo di Kittim, Cipro, oppure di Marsiglia, Francia. Quest'ultima ipotesi è compatibile con lo sbarco di Marta e delle tre Marie tra Provenza e Camargue, dove avrebbero compiuto varie imprese. A Marta ovviamente è assegnata una delle più pedestri: sconfiggere il Tarasque, uno di quei mostri medievali dal fiato mefitico che rendevano malsani gli acquitrini. Alla fine si trattava di fare pulizie, come al solito. Marta è la protettrice delle casalinghe, delle collaboratrici domestiche, degli albergatori, dei ristoratori, dei cuochi, delle cognate, di tutte le donne e gli uomini che si lamentano perché non li stai aiutando e allora tu ti alzi e loro ti dicono che tanto ormai è troppo tardi e hanno già finito e dopo un'ora sono ancora lì che passano qualcosa sul pavimento e brontolano ma non puoi più alzarti perché contamineresti il pavimento, e poi non c'è proprio niente da fare, è la parte peggiore, se la sono scelta.
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Maria12 perdona tutti

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6 luglio - Santa Maria Goretti (1890-1902)

Uno dei due ritratti autorizzati dalla madre
(tra loro non si somigliano).
[2012]. La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d'estate, col caldo che fa, c'è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c'è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio – sarà che hai caldo anche tu – sei in un'altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all'inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c'è Maria Goretti: l'ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po' arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile: se scavi un po' ti accorgi che sotto c'è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c'è chi compra.

Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall'altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell'uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un'altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano. [D'altro canto anche oggi non serve alcuno sforzo per includerla tra le martiri del patriarcato femminicida].

Negli anni Ottanta, in un momento di relativa bonaccia ideologica, un appena trentenne Giordano Bruno Guerri sceglie di compiere seriamente quello che in questo blog si fa per burla: irrompe nella stanza dei palloncini, prende quello già un po’ ammosciato della Virtù Eroica di Maria Goretti… e lo fa esplodere, bang! spaventando chi sonnecchiava nei paraggi. Il suo libro, Povera santa povero assassino, fa il botto: è una ricostruzione storica affidabile, vende bene, viene respinto dal Vaticano come blasfemo e sacrilego, ma costringe la Congregazione per le Cause dei Santi a convocare una commissione, che risponderà ribadendo le tesi del processo di canonizzazione: la Virtù Eroica di Maria Goretti è una Virtù Eroica, punto.

Guerri era di un altro parere. Nel giochino scemo destra-sinistra, G. B. Guerri non può che andare dalla parte di chi ha scritto tante cose su Mussolini e sul Ventennio, tiene una rubrica sul Giornale, ha organizzato celebrazioni per il centenario del futurismo, dirige il museo del Vittoriale. Però rileggere un suo libro degli anni Ottanta ti fa lo stesso effetto di guardare le prime vignette di Forattini degli anni Settanta: dalla distanza sembrano tutti di sinistra estrema. Probabilmente è vero il contrario: siamo noi che ci siamo spostati dall'altra parte, in moto rettilineo uniforme, tanto che a un certo punto Montanelli è diventato un compagno, semplicemente perché restava fermo mentre noi ci muovevamo. A rileggerla oggi, l’anti-agiografia di Guerri sembra costruita su un solido impianto marxista: prima di essere vittima del suo assassino, Maria Goretti è insieme al suo assassino vittima della miseria, del contesto socio-economico che la produce. La prima metà del libro è tutta appunto concentrata sul contesto, e fa spavento: Guerri documenta una povertà dickensiana, una barbarie alle porte di Roma, in una palude in cui il fatto di sangue è l’esito logico di una catena di circostanze inesorabilmente determinate: il vero responsabile, lo si legge più volte tra le righe, è il padrone che affama la santa contadinella e il contadino allupato. Quanto alla Chiesa, se a un certo punto riscopre la martire è ad uso propaganda: per Guerri è cruciale che, dopo tanti ritardi, il processo si sblocchi durante l’occupazione angloamericana, nel momento in cui la virtù delle fanciulle di Roma e Napoli veniva facilmente scambiata al mercato nero. Bisognava trovare un esempio di eroica resistenza al mercimonio della carne, e Maria Goretti era lì a immediata disposizione.

"Dio non vuole. No! Alessandro, tu vai all'inferno. Sì. Sì. Sì".
Quando finalmente si tratta di parlare di Maria come persona, Guerri non nasconde di aver poco da dire: Maria non ha identità, non può averla: non ha studiato, non sa leggere, non aveva le facoltà intellettive necessarie a comprendere i rudimenti della sua stessa religione: sarebbe morta ubbidendo a un Dio che non capiva. Togliatti, lo abbiamo visto, non sarebbe stato d’accordo: Dio o non Dio, Maria non voleva acconsentire a una prepotenza, e questo significa che aveva una coscienza, un coraggio da additare ai giovani. Ma ce lo ebbe davvero, tutto questo coraggio? Scartabellando tra gli atti del processo, Guerri scopre che di fronte al punteruolo Maria aveva esclamato Sì, sì, sì. Quel triplo sì, certificato dal suo assassino (ormai pentito, quarant’anni dopo il fattaccio) aveva creato non pochi problemi ai cardinali durante il processo di beatificazione. Avevano cercato di girarlo in vari modi: “sì” poteva essere considerato la ratifica della frase precedente, “vai all’inferno”? O magari Maria stava acconsentendo a essere accoltellata? Oppure (ci fu chi lo propose) non era proprio un “sì”, magari uno strillo isterico, un “hi hi hi”? Il grido tipico di chi viene minacciato di violenza con un punteruolo…


A distanza di trent’anni la ricostruzione di Guerri sembra ancora solida: eppure c’è qualcosa nel libro che lo fa sembrare in un qualche modo datato, espressione di un periodo felice in cui si potevano ancora scoppiare palloncini per il gusto di farlo. All’inizio pensavo che fosse un problema di scarsa empatia con la vittima, ma non è così: Guerri prova sincera pietas per la “povera santa” (ma anche per il “povero assassino”); il che non gli impedisce di indagare sulle frustrazioni sessuali del secondo e su uno dei pochi misteri della prima: perché faceva la Comunione così poco spesso? (Risposta: perché fisicamente non avrebbe retto il digiuno eucaristico). A mancare è piuttosto un certo tipo di impostazione che negli ultimi trent’anni è diventata lo standard, quando si parla di vicende di questo tipo. Per Guerri i motivi che portano Maria sul calendario sono complesse circostanze storiche, sociali, politiche, e anche diversi colpi di fortuna (fortuna per i parenti, e persino per l’assassino: smisero tutti di far la fame). Oggi, se una Sarah o una Yara diventano improvvisamente famose, noi non ci chiediamo il perché. La fama si spiega da sola, è autoevidente: una persona diventa famosa perché tutti ne parlano, e tutti ne parlano perché è famosa. Se in un primo momento ancora ci sforziamo di imputare la morbosità dei media, appena sorgono i primi altarini ci arrendiamo: c’è un inconscio collettivo da qualche parte, e i media non fanno che sondarlo; ogni tanto invece è lui che sbuca sotto la crosta sottile della modernità, e si mostra per quel che è: un beghino del Seicento, tale e quale. Ma non andò così anche con Maria Goretti?

Secondo Guerri no, non ci furono altarini né una particolare devozione popolare, prima della beatificazione. La notizia di cronaca anzi rischiava di non essere nemmeno pubblicata sui quotidiani clericali, che la ripescarono in chiave polemica (qualche giorno prima erano morti due amanti suicidi, e qualche quotidiano ne aveva approfittato per lamentare il mancato diritto al divorzio). Per molti anni gli unici miracoli, le uniche apparizioni, Maria le fece ai suoi famigliari. Insomma tutto il carrozzone della piccola Santa sarebbe stato imposto dall’alto: solo quando dall’alto arrivarono le prime agiografie, i primi santini, il popolo rispose dichiarando i primi miracoli, le prime grazie ricevute. Magari è andata così davvero. Ma gli altarini che nascono spontanei alle cancellate delle giovani protagoniste di fatti di cronaca mi fanno pensare che potrebbe essere andata diversamente: che un culto di Maria Goretti, sotterraneo, popolare, potrebbe avere tenuto viva la memoria della bambina fino all’inizio della causa di beatificazione; in seguito gli stessi alfieri della causa avrebbero avuto interesse a cancellare questo tipo di devozione dal retrogusto pagano, che potevano creare difficoltà nel dibattimento.

Alla fine sto gonfiando anch’io per quel che posso il mio palloncino: secondo me le religioni esistono prima delle Chiese, che sono un tentativo più o meno goffo, più o meno elegante di dare un’aria strutturata, consequenziale, a qualcosa che nasce già spontaneamente. Per pensarla così mi basta accendere la tv al pomeriggio, c’è la Vita in Diretta e mi sembra una cerimonia. Parlano di qualche bambina scomparsa, e all’improvviso sembra scomparsa anche per me. Cosa voleva dirmi? Quale mio peccato sta espiando? Non è chiaro; Mara Venier fa il possibile per spiegarmi, ma forse certe verità sono accessibili solo a un ristretto cerchio di iniziati.
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La felicità di Felicita (e Perpetua)

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7 marzo – Sante Perpetua e Felicita (III secolo), non le solite martiri

Quando l’arrestarono insieme con la sua padrona Perpetua e altri cristiani (Saturo e Saturno), Felicita era triste, perché aspettava un bambino. Era all’ottavo mese. Quando la padrona, nell’afa e nel buio della prigione cartaginese, cominciò ad avere visioni in cui saliva una scala di bronzo ignorando le armi di tortura appese a ogni piolo, Felicita si intristì ancora di più, perché capì che avrebbero ucciso tutti i suoi compagni in quanto cristiani, ma lei no: l’avrebbero risparmiata, perché la legge impediva di mettere a morte una donna gravida. I padroni se ne sarebbero andati in cielo, e la serva sarebbe rimasta giù a badare ai figli. Ma poi, due giorni prima di finire nell’arena tra le bestie, i suoi fedeli compagni si misero a pregare per la sua salvezza, e così intensamente pregarono che Felicita ebbe le doglie, e non senza soffrire partorì. Immaginatevi allora la felicità di Felicita, quando capì che non l’avrebbero lasciata sola, che avrebbero martirizzato anche lei (il figlio lo allevò una sua parente).

Contro Perpetua e Felicita, invece del solito leone o toro, aizzarono una vacca (non fu così efficace; dovettero mandare giù un gladiatore a finire Perpetua con la spada).

La Passione di Perpetua e Felicita non è la solita leggenda di santi. Come ha già scritto qualcuno (qualcuno che stasera ovviamente non riesco a ritrovare), la Passione assomiglia alle leggende come un manufatto originale ricorda le copie industriali. Ovvero: nel giro di qualche centinaio di anni il bacino del Mediterraneo si sarebbe riempito di storie di santi divorati dalle belve, santi sgozzati bruciati squartati e cotti alla brace; storie abbastanza ripetitive elaborate da copisti mediocri, costretti ad abusare di effettacci di scena per attirare l’attenzione; ma è abbastanza chiaro che al tempo in cui fu scritta la Passione tutto questo grandguignol immaginario ancora non esisteva. Chi scrive la Passione ci mette la freschezza, la sorpresa, di chi queste cose le scrive per la prima volta, per un pubblico che non deve controllare gli sbadigli a metà di una funzione religiosa; un pubblico che potrebbe ancora sgranare gli occhi e stupirsi per queste novità atroci e incredibili, questa giovane donna che sogna di combattere il demonio come un gladiatore in un anfiteatro gremito di spettatori: e che in quello stesso anfiteatro qualche giorno dopo muore davvero, non senza essersi raccolti i capelli dopo l’assalto di una vacca feroce; non prima di aver guidato il coltello nella mano del carnefice che alla fine tremava più di lei.

La Passione dovrebbe essere scritta all’inizio del terzo secolo, quando i cristiani erano ancora una minoranza soggetta a persecuzioni. I suoi protagonisti non sono supereroi inflessibili e senza paura: hanno caldo, soffrono la solitudine, si preoccupano per i genitori e i figli, temono i denti delle belve; sono esseri umani. La loro storia non serve a dimostrare la superiorità del cristianesimo sulla barbarie antica, ma a infondere coraggio a persone normali a cui sarebbe potuta toccare davvero una sorte come quella di Perpetua e di Felicita. Perpetua che descrive la sua prigione è stata anche accostata ad Anne Frank, con la sensibile differenza che nessuno leggendo il diario di Anne ha probabilmente concepito il desiderio di recludersi in una soffitta, mentre migliaia di lettori della Passio potrebbero davvero aver sognato di emulare l’eroismo suicida di Perpetua.


“Quanto a Perpetua, perché gustasse un po’ il dolore, penetrata la spada sino alle ossa lanciò un urlo e si portò essa stessa alla gola la mano esitante dell’inesperto gladiatore”.

Anche per questo preferiremmo crederla l’invenzione di qualche chierico morboso, qualcuno che magari voleva spiegare ai fedeli l’origine di un’iscrizione latina su una parete, un augurio di cui dopo qualche secolo si era smarrito il senso: PERPETVA FELICITAS, felicità per sempre. Preferiremmo pensare che Perpetua non sia mai scesa ventenne in un carcere; che non abbia mai fatto fronte al padre disperato che la supplicava di rinnegare Cristo e salvare la vita; e che anche Felicità non abbia mai partorito un bambino in cattività, assistita da amici fanatici che non vedevano l’ora di morire tutti assieme, e guardiani che le dicevano: soffri? Pensa quando sarai gettata in pasto alle belve. È pur vero che la Storia è piena di episodi del genere, una galleria di orrori e sopraffazioni, e chi rifugge il dolore e la violenza farebbe meglio a dedicarsi ad altre discipline (non biologia). (Neanche astrofisica). (Matematica, forse). Ma perché non sperare che almeno queste due ragazze non siano mai vissute, non siano mai morte?
Perché la Passione è un piccolo capolavoro. Se poi le pagine centrali le avesse scritte davvero, in prigione, la nobildonna Vibia Perpetua, si tratterebbe di un documento ancora più eccezionale: l’unico brano di letteratura latina femminile. No, in effetti abbiamo anche qualche distico elegiaco di una sodale di Tibullo; certe iscrizioni di Pompei che per quanto ne sappiamo potrebbero anche essere i testi di canzonacce da spogliatoio; e questo è tutto. Straordinariamente poco. Non esiste una Saffo latina di cui imparare a memoria i versi; nemmeno un’Ipazia di cui immaginare i manoscritti perduti; niente. Come se le donne non avessero mai scritto, per mille e più anni. Perpetua però qualche pagina l’avrebbe composta: c’è fior di studiosi che onestamente lo pensa. Certo, per crederci dobbiamo ipotizzare che abbia scritto la sua memoria nel carcere di cui pure si lamenta per via dell’afa, del buio e dell’affollamento: probabilmente in quel “meliorem locum carceris” in cui i suoi protettori avevano ottenuto che potesse passare qualche ora al giorno, magari corrompendo i carcerieri. Bisogna immaginare che in una situazione del genere Perpetua si metta a scribacchiare su un rotolo, o su una tavoletta di cera, concludendo con “Hoc usque in pridie muneris egi; ipsius autem muneris actum, si quis voluerit, scribat“: “Questo mi è successo fino alla vigilia del martirio: quel che succederà dopo lo racconti qualcun altro, se vuole”. E infatti le pagine scritte in prima persona da Perpetua sono integrate da un anonimo narratore che la tradizione identificava col grande teologo Tertulliano, vivo e attivo a Cartagine proprio nello stesso periodo. Tertulliano però è un avvocato di formazione, e la sua foga oratoria non ricorda molto lo stile dimesso ma a suo modo orgoglioso della Passio. Allo stesso tempo chi, se non lui, avrebbe potuto tentare un’operazione letteraria così complessa e sottile, dando la voce a una o più vittime di una persecuzione?


“Ragazza che scrive”, affresco pompeiano che trovate ristampato un po’ dappertutto e che ci fa sperare che qualche donna davvero scrivesse.

Il punto è che la Passio è un testo talmente sui generis da autorizzare qualsiasi speculazione. Sta tra la leggenda eroica e l’agiografia, senza assomigliare troppo a nessuna delle due: racconta una storia agghiacciante con gli accenti inconfondibili del realismo, e come certe superfici troppo lucidate dal tempo, ci restituisce più la nostra immagine che quella dei personaggi di cui vorremmo interessarci. Chi coltiva la psicanalisi non può che desiderare che Perpetua abbia davvero vissuto un rapporto complesso col padre e un martirio, e soprattutto che abbia sognato quelle immagini intriganti di cui ci restituisce una trascrizione tanto vivida: quella scala adorna di simboli fallici, quel gladiatore egiziano che simboleggia il maligno, davanti al quale Perpetua afferma di essere diventata all’improvviso un “masculum”, (sì, l’unica donna della letteratura latina sogna di trasformarsi in masculum e sconfiggere un gladiatore). Chi studia il cristianesimo come fenomeno sociale ha un bel da obiettare che i sogni di Perpetua sembrano elaborati da un ideologo religioso con idee molto chiare da veicolare: in particolare quella in cui Perpetua ricorda il fratellino morto per un tumore al volto, anche lui recluso in un luogo oscuro e afoso, incapace di attingere acqua da una fontana troppo alta. Perpetua prega per lui giorno e notte, finché non lo sogna di nuovo: dell’orribile ferita è rimasta solo una cicatrice, la fontana gli arriva all’ombelico; sul bordo c’è una coppa d’acqua che non si esaurisce mai. Qui non c’è dubbio che i due sogni siano un racconto a tema, composto da un teologo che sta mettendo a punto il concetto di purgatorio. Così alla fine la mia opinione (se vi interessa) è che la Passione sia l’opera di un presbitero che aveva assistito ai fatti: che aveva pianto per Perpetua, magari invidiandone il coraggio; e che aveva deciso di riscattarla dall’oblio cedendo a lei la parola – qualcosa di forse mai provato prima da uno scrittore di lingua latina. Senza riuscire a levare del tutto dal racconto una certa proiezione virile (il sogno del combattimento), e aggiungendo al racconto dei sogni e delle privazioni quei significati teologici che gli premeva veicolare. Missione compiuta: due secoli più tardi Agostino sentiva ancora la necessità di ricordare ai fedeli di Ippona che la Passio, per quanto importante, non era da considerare sullo stesso piano delle Sacre Scritture.
Questa è la mia ipotesi; ma in fondo che ne so. Dopotutto domani è l’otto marzo, forse avrei più successo presentando Perpetua e Felicita come campionesse dell’empowerment femminile: due giovani donne che scelgono in perfetta autonomia il loro destino, rifiutando il ruolo di figlie devote e di madri sollecite; no, loro preferivano morire, e sono morte. Ok. Probabilmente qualcuno prima o poi lo farà, (senz’altro qualcuno lo ha già fatto secoli fa). Io, scusate, per stavolta non me la sento. Buona giornata della donna e felicità perpetua a tutti.
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Non è una scuola per insegnanti (maschi)

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"Scusami, sto cercando una maestra".
È un cattivo segno quando i genitori la prima volta ti danno del tu. Non è mancanza di rispetto. È proprio che non hanno capito che mestiere stai facendo. 
"Ci sono io".
"Sì, ma cercavo una maestra".
"Beh io insegno qui".
In questi casi la giacca può fare la differenza. Senza giacca è possibile che ti prendano per un bidello. Con la giacca puoi passare anche per un vicepreside. Ma un maestro no, non pensano mai al maestro.
"Ah, mi scusi, non avevo capito".
È una questione di istanti: alla sorpresa subentra il sospetto. D'accordo, ho davanti un insegnante di sesso maschile. Cos'è andato storto con lui? Perché non è da qualche parte a fare un lavoro meglio pagato? Che errori ha commesso? Che peccati sta scontando? Forse semplicemente non aveva abbastanza ambizione.

È difficile essere insegnanti di sesso maschile? Probabilmente non quanto essere ingegneri di sesso femminile. O vigili del fuoco di sesso femminile. O insomma avere il sesso femminile, in generale, in tutti i luoghi di lavoro dove è minoritario e cioè praticamente dappertutto tranne che a scuola e forse in qualche infermeria. Questo è più vero nelle scuole italiane che in quelle di altri Paesi; più nelle scuole primarie che nelle secondarie (all'università, man mano che aumenta il prestigio e il salario, il rapporto si inverte). È una di quelle disparità intorno alle quali ancora oggi è costruita la nostra società. Anche nei più avanzati Paesi al mondo, ci si aspetta ancora che la donna trascorra mediamente più tempo dell'uomo in casa e coi figli: l'insegnamento è un mestiere che lo consente. Certo, con l'aumento del benessere aumenta la fluidità: una donna può permettersi di dedicarsi alla carriera mentre il marito si accontenta di fare un mestiere che gli piace e che gli consente di gestirsi qualche pomeriggio coi figli. Proprio per questo è allarmante il fatto che nei prossimi anni in Europa il gap tra insegnanti maschi e femmine aumenterà. Evidentemente la società si sta irrigidendo, e la scuola non può che rifletterlo. Per esempio, quando i maestri australiani ammettono di avere difficoltà con il contatto fisico, è chiaro che sono vittima di uno stereotipo di genere: nessuno si spaventa se una maestra tocca un bambino, perché con un collega maschio dovrebbe essere diverso? Allo stesso tempo lo stereotipo si basa su un senso comune confermato da dati statistici: la maggior parte dei sex-offenders risultano essere di sesso maschile, e spesso gli individui con tendenze pedofile scelgono una professione che consenta loro di lavorare a contatto coi bambiniCerto, se ci fossero più insegnanti maschi, il sospetto si diraderebbe (ma aumenterebbe anche la possibilità che un maestro risulti davvero un sex-offender). Negli Stati Uniti i maestri elementari non hanno smesso di essere una rarità, ma stanno diventando una rarità ricercata: pare infatti che a parità di condizioni, ottengano mediamente risultati migliori delle colleghe. Ma se questo accade è proprio perché insegnare, per un uomo, è ancora uno stigma sociale, un potenziale disonore che dissuade dall'intraprendere la professione chiunque non sia fortemente motivato. I maestri, insomma, sarebbero buoni proprio perché sono rari: il che significa che diventeranno sempre meno buoni man mano che aumentano e forse ci accorgeremo di aver ottenuto l'uguaglianza quando cominceremo a trovarne di scarsi (continua su TheVision).

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Il maschio a un bivio

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In questi giorni mi piacerebbe scrivere qualche riga di solidarietà ad Asia Argento che non suonasse come un rimprovero o una presa in giro, ma mi sto rendendo conto che è difficile. Cioè io almeno non ne sono capace. Nel frattempo ho ritrovato un pezzo scritto a proposito di #MeToo in una fase di mezza primavera in cui succedeva di tutto, e soprattutto sembrava succedere tutto a persone che, come Asia Argento, avrebbero dovuto essere dalla parte giusta della cosiddetta barricata: Eric Schneiderman, Junot Diaz, Aziz Ansari... Non è mai stato (giustamente) pubblicato, però contiene uno spunto interessante che forse qualcun altro avrà evidenziato: tutte le vittime illustri di #MeToo, produttori, attori e registi (Asia Argento inclusa, a questo punto), sono di estrazione progressista: a scandalizzare non è tanto la condotta sessuale (Trump può fare di peggio senza soffrire grossi contraccolpi di immagine), ma il fatto che questa condotta sessuale smentisca la regole di condotta della società progressista: come se più che un problema di molestie fosse un problema di coerenza. A questo punto una via di salvezza potrebbe essere uscire dal progressismo. Perlomeno immaginavo che qualche maschio potesse essere tentato (ma perché le donne no in fondo). Vabbe', comunque eccolo qui, tenerlo in bozza all'infinito non ha senso. 



Sono un maschio etero, meglio avvertire subito. È senz'altro un privilegio, e allo stesso tempo c'è poco da andare orgogliosi. Molti degli anni teoricamente più proficui per lo studio e il lavoro, li passiamo a pensare ossessivamente a come riprodurci: a escogitare tecniche, trappole, trabocchetti che in 99 casi su 100 non funzionano – ma quella volta su cento, ce la racconteremo per il resto della vita. Sarà l'istinto, l'evoluzione, la pressione sociale; in ogni caso è frustrazione, è fatica, a un certo punto ti domandi se ne uscirai mai. Alcuni non ne escono mai. Da qualche anno ho deciso che ne sono fuori: ormai ritengo di essere in grado di discutere con persone di sesso diverso senza fare la ruota o mostrare un petto più rosso del mio collega. Addirittura lo scorso inverno avevo voglia di dire la mia sul movimento #MeToo, che trovavo positivo per tanti motivi e discutibile per altri motivi. Questo probabilmente mi avrebbe portato a confrontarmi con interlocutrici di un sesso diverso dal mio, ma ero convinto di poter gestire la cosa in modo adulto e senza far valere la mia oggettiva, e odiosa, posizione di privilegio.

Ma poi ho sentito in sottofondo una vocina che mi diceva Stanne fuori, e all'inizio non capivo. La voce dello stesso istinto che mi aveva messo in tanti guai a vent'anni, ora mi pregava di mantenere un basso profilo. Come se avessi avuto qualcosa da perdere. Ci ho messo dei mesi a capire. Mesi in cui è successo di tutto, almeno negli USA. Guardiamo anche solo all'ultima settimana: il magistrato Eric Schneiderman si è dimesso dalla carica di procuratore (attorney) generale dello Stato di New York. Quattro donne che hanno avuto relazioni con lui lo accusano di molestie (abusi fisici non consensuali). Schneiderman durante i rapporti le avrebbe spesso picchiate e insultate: circostanze non del tutto negate dal magistrato, che però sostiene che si trattava soltanto di role-playing consensuale. Insomma abbiamo un procuratore che picchia le amanti, quella più scura di pelle la chiama "schiava", magari è convinto che ci stiano per gioco e invece è abuso di potere. Non sarebbe una notizia così dirompente, se Schneiderman non fosse il magistrato che in ottobre aprì l'inchiesta su Harvey Weinstein. Anche prima che scoppiasse #MeToo, si considerava ed era considerato un paladino dei diritti delle donne. Per dire che cosa assurda che è il maschio (etero): in pubblico difendi le donne e in privato chiedi il permesso di picchiarle, o ti illudi di averlo ottenuto. All'apparenza sei il boss, c'è gente che nell'intimità è disposta a inginocchiarsi davanti a te; in pratica in qualsiasi momento possono decidere il gioco non è più consensuale e merita di essere divulgato ai giornali. E tu lo sai: non sei un novellino. Ma ci caschi lo stesso. Essere maschi è assurdo.

In questa stessa settimana è caduto in disgrazia anche Junot Díaz, l'acclamato autore di La breve favolosa vita di Oscar Wao, accusato di cattiva condotta da un gruppo di colleghe. Díaz in almeno un caso avrebbe cercato di baciare una giovane scrittrice che non voleva saperne, ma nella maggior parte dei casi più che di molestie si tratterebbe di abusi verbali: a leggere le interviste, l'impressione è che sia uno che si infervora rapidamente. Appena lo contrari su un punto, spiega Carmen Maria Machado, la patina di progressismo casca a terra e rivela il solito bullo misogino. Anche in questo caso, la notizia in sé sarebbe minuscola: c'è uno scrittore che si comporta male con chi non è lesta a fargli i complimenti. Ciò che la rende eccezionale è che da quello scrittore ci si aspetta una particolare sensibilità perché è il celebrato rappresentante di una minoranza, e soprattutto ha appena raccontato di essere stato vittima di una violenza sessuale a otto anni. Anche quest'ultimo dettaglio ora assume una luce diversa: alcune delle sue accusatrici suggeriscono che Díaz potrebbe avere deciso di rendere nota una circostanza così drammatica per mettersi al riparo dalle accuse che riteneva imminenti.

Nel frattempo a Stoccolma sta succedendo qualcosa di veramente nuovo – pare che quest'anno non sarà consegnato il premio Nobel alla letteratura. La spiegazione vulgata su diverse testate è abbastanza incongrua: un fotografo, nemmeno un giurato dell'Accademia, ma un marito di una giurata, avrebbe palpato diverse donne, tra cui una principessa. Fatto grave e increscioso, ma insomma non si capisce perché a pagarne le conseguenze dovrebbe essere la comunità letteraria mondiale che da più di mezzo secolo considera il Nobel il premio più prestigioso. In effetti a dare un'occhiata più da vicino si scopre che la situazione è molto più complessa, e che tra gli accademici è scoppiata una tipica faida accademica. Veramente niente di nuovo sotto il sole, e infatti un litigio per determinare quale organizzazione debba consegnare il premio non sarebbe una grande notizia. Un fotografo che palpa le principesse funziona molto meglio. Specie qui da noi, dove torme di opinionisti non vedono l'ora che l'ondata del #MeToo si ritiri per beccare qualche vongola lasciata dalla risacca: lo vedete che le femministe esagerano, adesso per colpa loro non si consegna nemmeno più il Nobel eccetera eccetera.

C'è un'ultima notizia che mi piacerebbe dare, ovvero che nella settimana in cui i magistrati in prima linea contro le molestie si dimettono perché accusati di molestie, e gli scrittori sensibili si dimostrano insensibili, la popolarità di un presidente degli Stati Uniti che paga per far tacere un'escort è ai minimi storici. Ma non è così: anzi sembra proprio che anche l'ultimo scandalo sessuale non abbia avuto nessun influsso sul gradimento espresso dai cittadini USA per Donald Trump. Conta molto di più un'esternazione sulla Corea o sull'Iran o sull'opportunità di armare gli insegnanti. Questo paradosso per cui l'elettorato repubblicano più bacchettone è disposto a perdonare a Trump qualsiasi disavventura extraconiugale non può stupire noi italiani: vent'anni di Berlusconi dovrebbero averci insegnato almeno che i conservatori sanno essere molto tolleranti nei confronti delle abitudini sessuali dei loro leader. Ma anche se fossimo americani a questo punto ci saremmo messi il cuore in pace: Trump è quello che prima delle elezioni spiegava che le donne vanno afferrate "by the pussy": gli americani lo sapevano e l'hanno votato così.

Un'escort in più o in meno non cambierà la sua immagine: se c'è qualcuno che può pensare di uscire indenne dall'ondata rivoluzionaria del #MeToo è proprio Trump. Non il procuratore Eric Schneiderman, che pure aveva cercato di metterlo sotto inchiesta; non l'Accademia di Stoccolma, faro del progressismo mondiale; non Junot Díaz, scrittore ispanoamericano vittima di abusi. Non Woody Allen, icona della New York intellettuale, su cui continuerà a pendere un sospetto orribile (benché giuridicamente inconsistente); non Louis CK, che prima di masturbarsi di fronte alle sue sottoposte chiedeva il permesso, illudendosi che non si trattasse di abuso di potere; non Aziz Ansari, attore e regista che ha dato la voce a una generazione di asiatici-americani che lottano contro gli stereotipi razziali, ma una sera ha sbagliato a versare il vino a una ragazza e si è ritrovato alla berlina sulle testate di tutto il mondo. Non fossero stati tutti a loro modo personaggi-simbolo, le loro piccole o grandi miserie non avrebbero interessato così tanti lettori e lettrici. Alcune di queste miserie sono reati, altre fantasie; non sta a me stabilirlo, per fortuna. Non sta a me nemmeno giudicare #MeToo, che come tutte le rivoluzioni non è un pranzo di gala: c'è chi la cavalca con le migliori intenzioni e chi ne approfitta, e a volte l'astuzia e il cinismo dei secondi è più efficace delle buone intenzioni dei primi. Io sono solo un maschio etero di fronte a un bivio, come tutti: posso scegliere di restare un maschio etero progressista, perché in un certo senso lo ero già, anche se gli standard si stanno facendo sempre più esigenti. Alcune tecniche che ho messo in pratica negli anni in cui riprodursi era un pensiero fisso e insopprimibile, da qualche anno in qua anche in Italia sono sanzionate dal codice penale. Se scelgo il progresso, sarò al sicuro dall'ondata? No. Ho comunque fatto degli errori, a vent'anni si è molto stupidi – nulla di eccezionale, ma sufficiente a farmi perdere la faccia – e chi li ha subiti ha tutto il diritto di rinfacciarmeli. Ma c'è un'altra strada.

La strada che ritorna indietro. Se scegli il progresso, ti esponi al giudizio delle tue contemporanee: ma se lo rifiuti? Se ti opponi al femminismo, se irridi il politically correct, perché dovrebbero prendersela con te? È come se scomparissi dal loro radar. #MeToo è una rivoluzione tutta interna al fronte progressista. I tuoi giochini sadomaso diventano notizie solo se sei un magistrato in prima linea contro i femminicidi. I tuoi incidenti relazionali sono interessanti soltanto se fai parte della tribù che rispetta le donne come esseri umani. Ma c'è un'altra tribù che continua a trattarle male, e non è così sfigata come tribù, dopotutto: negli USA elegge persino i presidenti. Quindi scegli: dove ti divertirai di più? Dove rischi di meno?

Essere maschi è assurdo. Forse lo è sempre stato, ma l'evoluzione della società non gioca a nostro favore. Certi istinti nel medio-lungo termine diventeranno più fastidi che vantaggi, come i denti del giudizio. Non ha più molto senso fare la ruota ma ci piace ancora farla. Molte femmine ci trovano fastidiosi e ridicoli e non si vergognano più a farcelo sapere. Ora la scelta è la seguente: sopprimere l'istinto che ci spinge a gonfiare il petto ed esporre i bargigli, oppure scegliere un pollaio meno progressista. Io una scelta del genere l'ho fatta tanti anni fa. Non fu nemmeno una scelta: le ragazze che mi interessavano erano tutte nella tribù a sinistra. Certo, avrei dovuto imparare una serie di buone maniere, e proprio nel momento in cui un istinto evolutivo mi spingeva a spargere più seme possibile: era una condizione lacerante, ma era comunque chiaro che ne valeva la pena. Ma se avessi vent'anni oggi? Dove mi guiderebbe il, il cuore?
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Il genere maschile non esiste

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(Considerazioni di una non-femmina)

Ho letto che in Francia qualcuno sta seriamente proponendo di cambiare la regola grammaticale più maschilista di tutte, la concordanza mista degli aggettivi al maschile plurale: in pratica quella regola per cui se in una stanza in cui siedono, diciamo, quaranta studentesse brave, entra un solo ragazzo bravo, il risultato è che in quella classe ci sono quarantuno studenti bravi. La regola non è così irragionevole - non sempre è possibile determinare l’esatto numero dei componenti maschili e femminili di un insieme - però è sessista, senza dubbio.

La cosa che più mi ha colpito è che a trovarla non più tollerabile siano stati gli ex studenti, che ricordavano la reazione bullistica degli studenti di sesso maschile: (“Siamo i più forti!”, ecc.). Un insegnante della generazione precedente, diciamo di 50 anni fa, avrebbe zittito tutti quanti: è solo grammatica, stronzetti, ora aprite il diario e scrivete i compiti di punizione. Risalendo ancora un po’ più indietro, il problema non si poneva: studenti e studentesse non frequentavano le stesse aule. È un’idea consolante: la sensazione di vivere in un periodo di ostilità tra i sessi è dovuta soprattutto al fatto che oggi c’è un dialogo, un confronto che pochi anni fa era impensabile.

Che fatica però.

Qualche anno fa durante una lezione di grammatica ho pensato di risolvere il problema così: ok, sul manuale c’è scritto che c’è un genere maschile e uno femminile, ma se ci pensate bene l’unico vero genere ben definito è il secondo. Lo uso ogni volta che sono sicuro che ogni elemento dell’insieme è di sesso femminile. Invece il genere maschile non esiste: fosse per me lo chiamerei non-femminile; infatti si usa ogni volta che in un insieme non sono tutte femmine. “Una classe di studentesse” mi dice con precisione chi c’è dentro. “Una classe di studenti” mi lascia il dubbio: alcune saranno femmine e alcuni no. Ecco qua. Ho detto una bugia? Non proprio. Diciamo che ho esercitato il mio diritto a fornire una spiegazione meno sessista dei fenomeni grammaticali. La regola alla fine resta sempre la stessa, e può darsi che sia sbagliata (ma mica spetta a me cambiarla). Però almeno evito la scenetta dei ragazzi che ridacchiano e festeggiano una presunta superiorità attestata sul manuale. Forse ho solo confuso le acque: forse è tutto quel che posso fare.

È più o meno lo stesso approccio con cui affronto tutte le polemiche che girano intorno al sessismo, e devo dirlo: non è che funzioni benissimo: ma che altro posso fare? Sono un maschio eterosessuale: o sto zitto o è mansplaining. Star zitto alla lunga è faticoso, tocca ascoltare gli altri e non dicono sempre cose intelligenti, allora provo a fare una mossa laterale - mi sgamano, eh, ma almeno ci provo.

Quando mi sento dire: voi maschi avete paura di questa ondata di denunce, della nuova consapevolezza che sta portando a chi fino a qualche mese fa poteva solo sopportare in silenzio, io rispondo che beh, forse sì, ho un po’ paura: ma non in quanto maschio (sapete, il genere maschile non esiste). Quando scopro che un produttore italiano è rivenduto al pubblico delle Iene come “il Weinstein italiano”, ma non c’è nessuna denuncia, e dieci accusatrici su dodici sono anonime mentre le altre due non fanno il nome del produttore, io sì, comincio ad avere un po’ paura. Perché sono un maschio e sento franarmi addosso il patriarcato? Oppure perché sono un cittadin*, e l’idea che in Italia i sospetti molestatori seriali vengano inquisiti non dai magistrati, ma dalla trasmissione che ha difeso per anni il metodo Stamina come una sana alternativa alla chemioterapia dovrebbe spaventare chiunque, maschio, femmina, transgender, polimorfo? Il “Weinstein italiano”, capite. L’Harvey Weinstein originale è stato accusato da più di cento donne, di cui solo una manciata sono anonime. Non si tratta di semplici voci raccolte da un cronista d’assalto: la maggior parte sono denunce circostanziate che risultano agli atti. In Italia per diventare un “Weinstein” ti basta trovare dieci fonti anonime disposte a fare il tuo nome. Non mi devo preoccupare? È solo il pisello in me che si preoccupa?


Qualcuno comincia a chiedersi: ok, magari c’è stata una sottovalutazione del problema, ma ha un senso combatterla dando credito a qualsiasi voce di corridoio? Vale ancora la presunzione d’innocenza? Qualcuna ha la franchezza di rispondere: no. Non ce la possiamo permettere. È un’emergenza, evidentemente (ma quanto potrebbe durare?) In Italia i limiti temporali per sporgere una denuncia sono troppo brevi, non è che possiamo sempre preoccuparci di essere garantisti con gente che forse, dico forse, molestava. Roviniamogli la carriera e non pensiamoci più. Funzionerà al limite come deterrente - potrebbe davvero funzionare. Ma avete riflettuto un attimo sugli effetti collaterali?

Anche su TheVision leggo che Woody Allen è ancora in libertà malgrado sua figlia lo abbia accusato di cose orribili: come possiamo perdonargli anche solo un sospetto di pedofilia? Oserei obiettare che non spetta a noi perdonargli niente, così come non siamo tenuti a credere a quel che racconta sua figlia: è la rielaborazione di una cosa messa in giro da sua madre (Mia Farrow) nel momento più critico di un divorzio. Il caso Allen però è particolarmente spinoso, perché ammette soltanto due possibilità: o Woody Allen è davvero colpevole di qualcosa di orribile (ma non ci sono prove), o Mia Farrow ha fatto qualcosa di quasi altrettanto orribile, alimentando fino a oggi una voce così infamante su di lui, al punto di crescere una figlia convinta di essere stata vittima delle attenzioni morbose del padre.

Quel che è davvero inquietante del caso Farrow/Allen, è che uno dei due è senz’altro colpevole di aver fatto male a una figlia: ma sono liberi entrambi. Grazie al cielo non spetta a noi scegliere: non siamo giudici - ma se lo fossimo, a quale criterio ci affideremmo? Se mi rispondete che una madre non può mentire in quanto madre, e una figlia non può mentire in quanto figlia, io mi preoccupo. Perché sono un maschio? Forse. Forse tutto il mio raziocinio non è che l’organo di autodifesa del mio pene, ok, non posso escluderlo. Figurati se a vent’anni non ho scambiato #anch’io per un cenno di intesa un semplice sorriso, figurati se non ho allungato una mano che doveva stare al suo posto o fatto qualche altra stronzata che adesso spero di far passare sotto silenzio. Onestamente non ricordo, a volte poi ero bevuto, ah, ma anche Kevin Spacey, no? Non può essere una scusa. No.

Non posso escludere di far parte di un insieme di creature naturalmente infide e prevaricatrici (i maschi), i cui vantaggi evolutivi negli ultimi tempi si sono talmente ridimensionati che non sembra poi così esagerata chi propone di farne a meno. Quel che voglio dire, dopo aver bevuto la mia coppa di bromuro fino alla feccia, è che se pensate di cambiare paradigma semplicemente invertendolo, potreste avere una brutta sorpresa. Se per schiacciare i maschi prepotenti voi calpestate il diritto, e reclamate la legittimità della delazione anonima, alla fine potreste restare calpestate anche voi, e da un piede non necessariamente femminile. Quando si comincia a dar credito a qualsiasi accusa, le donne finiscono per farne le spese quanto gli uomini - di solito anche peggio. Erano donne, non uomini, le maestre che furono accusate di pedofilia a Rignano Flaminio. Non erano famose come Woody Allen e fecero molta più fatica a difendersi. In quel caso non furono le Iene a mobilitarsi, bisogna dirlo: fu un altro programma. Giornalisti iscritti all’albo, in ogni caso. C’erano le testimonianze dei bambini, potevano sbagliarsi i bambini? C’era la rabbia dei genitori, che è sacra: come si poteva anche solo mantenere il beneficio del dubbio? Anche allora non si poteva andare per il sottile: c’erano i satanisti, là fuori.

A chi scrive, senza scherzare, che “gli uomini perbene non hanno nulla da nascondere” (una frase perfetta da incidere su qualsiasi videocamera di sorveglianza) posso solo rispondere: ok, magari anch’io non sarò 100% perbene, ma allora chi? Chi può essere sicuro di essere al di sopra di qualsiasi sospetto, di qualsiasi voce? Il primo che mi viene in mente - sarà che è novembre - è San Carlo Borromeo, che si vantava di non avere mai dato udienza a una donna in assenza di testimoni. Dovremmo probabilmente fare tutti così (organizzarci soprattutto negli ascensori). Non è una coincidenza che lo stesso San Carlo avesse separato uomini e donne nelle chiese e piazzato una vera e propria barriera tra le navate, affinché gli uomini non molestassero le donne con lo sguardo. Il momento in cui ogni sospetto diventa reato, in cui ogni voce diventa condanna, precede di poco il momento in cui ci si copre il capo, e ci si divide in navate diverse, in aule separate. E a quel punto non si litiga più, neanche sulla concordanza del genere misto: a qualcuno sembrerà un passo avanti.
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Nel giardino delle attrici castratrici

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L'inganno (The Beguiled, Sofia Coppola, 2017)


Al di là del bosco c'è la guerra. È lontana e in ogni dove, brontola tutti i giorni come un temporale che non riesce a sfogarsi. Un giorno ci troverà e sarà finita - in fondo siamo soltanto un collegio di signorine, o quel che resta di. Un giorno la guerra busserà ai nostri cancelli. O forse arretrerà sgomenta?

Niente All Star stavolta
A me dispiace che Sofia Coppola non abbia fatto la Sirenetta, alla fine. Se c'è un regista in circolazione che mi fa pensare ad Andersen, è lei. Quante principesse sul pisello ha già messo in scena, quanti sarti di abiti invisibili, regine di ghiaccio, brutti anatroccoli? Da come la racconta, pare che abbia rinunciato perché non riusciva a girare sott'acqua. Troppo complicato, troppo rischioso, eppure "la fotografia subacquea è così bella". La Universal le offriva un film ad alto budget, lei pensava più a un servizio fotografico. A me dispiace perché in fondo tutti i suoi film sono acquari, più o meno fragili: tutti i suoi personaggi nuotano verso il bordo, fissano perplessi una catastrofe che preme da fuori. Tutti sembrano ricordarli per la colonna sonora - che in effetti spesso è frastornante - eppure c'è sempre tanto silenzio, che riempie ogni spazio lasciato vuoto. È davvero come se la musica arrivasse da fuori, sempre attutita e poi riverberata dall'acqua. E poi c'è quel brusio, che in Marie Antoniette era la Storia che urlava alle finestre di Versailles, e qui è rumore di artiglieria che sembra non dover mai finire.

Dopo aver rinunciato e esprimersi in una grande produzione, la Coppola ha ripiegato sul remake di uno sfortunato film di Don Siegel in cui Clint Eastwood durante la Guerra di Secessione si nascondeva in un convitto di signorine - in Italia provarono a smerciarlo come un prodotto sexy, La notte brava del soldato Jonathan, ma era un film molto inquietante per l'epoca, in cui Eastwood metteva in discussione il suo machismo: un film che metteva in scena incesti e castrazioni, e che al botteghino andò male (pochi mesi dopo Siegel e Eastwood si inventarono l'ispettore Callaghan, riconquistando machismo e botteghino). Al posto di Clint c'è Colin Farrell; nel cast femminile la Coppola ha convocato Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning e altre ragazze più giovani e assai promettenti. Tutte bianche, il che difficilmente le sarebbe stato perdonato nel 2017, ma lei lo ha fatto lo stesso (non se ne è resa conto o se ne infischia proprio? Continua su +eventi!)

Nel film di Siegel uno dei personaggi più importanti era una schiava, ma la Coppola una schiava afroamericana non sapeva come gestirla, così ne ha fatto a meno. Mentre critici e femministe la facevano a pezzi, riscoprendo stereotipi razziali in Lost In Translationlei difendeva la sua scelta spiegando che aveva eliminato la schiava proprio perché aderiva a uno stereotipo razziale; in effetti era la classica schiava subdola e impicciona e - al contrario delle collegiali bianche - non parlava un buon inglese. D'altro canto perché una schiava non avrebbe dovuto essere subdola e impicciona, e perché mai avrebbe dovuto parlare un buon inglese? Così per evitare di essere accusata di razzismo, la Coppola ha diretto il primo film ambientato nel Sud secessionista in cui non viene mai, assolutamente mai, inquadrato un personaggio afroamericano. Come t'insegnano al collegio: delle cose scabrose non si parla, non esistono. Le donne di Siegel avevano scheletri negli armadi, quelle della Coppola ci tengono gli abiti da sera (e sono tutti perfetti). Le donne di Siegel tramavano per conquistarsi l'unico uomo, manipolandosi a vicenda; quelle della Coppola al massimo si rubano gli orecchini. Il punto è sempre lo stesso: non è che la Coppola rifiuti l'approfondimento psicologico, è proprio che non le interessa. Le piace mettere in scena signore di tante età e farle splendere a turno. Hanno tutte qualcosa di magico che solo un grande fotografo sa catturare, anche se di solito lavora per Vogue più che a Hollywood. C'è un momento per la Kidman, un momento per la Dunst, e se in un attimo di debolezza finisci per preferire la Fanning, è scontato che un po' ti meriti le disgrazie che ne deriveranno. Ma se cerchi il dramma ti sei proprio sbagliato, e dopo tanti anni è imperdonabile: dovresti saperlo che lei gira così. E vince pure dei premi, quindi insomma hai solo sbagliato sala. Di fianco fanno Valerian, fanno It, Blade Runner, ce n'è per tutti i gusti. La Coppola può essere irritante, ma ha un suo stile, un suo prodotto e un suo pubblico. Eppure.


Eppure a me dispiace che non riesca a uscire dalla sua comfort zone festivaliera, perché una regista con una visione così personale, una cura per il dettaglio inconfondibile e un'arroganza da autrice, mi sembra un po' sprecata per i servizi di moda. Se un giorno qualcuno riuscisse a convincerla, per esempio, a fare un horror, secondo me ne salterebbe fuori un capolavoro. I suoi film sono una specie di bolla sempre sul punto di scoppiare, immersi in una sensazione di sciagura imminente che non ti accorgi nemmeno di sentire, che dai scontata come quel costante rumore di fondo. A differenza di Bling Ring Marie Antoniette, stavolta la Catastrofe non entra in scena. Forse non entrerà proprio nessuno. Forse la guerra è finita da secoli e quei rumori sono basi registrate. Forse quel bosco è in una bolla di vetro in fondo al mare. L'inganno è ancora per una settimana al Fiamma di Cuneo alle 21:15.
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Wonder Woman nel Paese dei Mansplainers

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Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017)

Oltre il grande mare, figlia mia, vivono i Maschi. Un giorno li incontrerai. Da cosa li riconoscerai? Dalla barba, se va ancora di moda; da come si sbracano sui sedili dei mezzi pubblici - ma molto più probabilmente da come ti interromperanno mentre parli. Ti giuro. Non è una leggenda: magari stai raccontando la tua ultima battaglia, e loro, senza aspettare che tu finisca la frase, cominciano a spiegarti che le cose sono molto più complesse di quel che credevi; che non è tutto bianco o nero; pensa, esiste anche il grigio!; che certe volte un male è un bene, un armistizio serve a prolungare la guerra e un'arma chimica può servire a fare la pace. Figlia mia, il giorno che li incontrerai, tu magari ascoltali.

Poi menali tutti - neri, bianchi, grigi - non importa. Dagliene tante, figlia mia. Anche se non sai il perché: loro senz'altro lo sanno. Magari - se sopravvivono - te lo spiegheranno.

Il 2017 è un anno storico per l'uguaglianza di generi ed etnie al cinema. Dopo tanti cinecomics, finalmente ne abbiamo avuto uno al femminile, Wonder Woman - e in breve la Marvel ci darà il suo primo film concentrato su un supereroe nero, Black Panther! Non è incredibile, però, che ci sia voluto tanto? Mentre tutto intorno il nostro immaginario si faceva sempre più multicolore e multigenere; mentre i cast dei film d'azione riservavano sempre più posti alle minoranze, e sempre più spesso il ruolo della protagonista a una donna, non è curioso che i cinecomics siano arrivati a un risultato del genere così lentamente?

È incredibile come facesse ridere
già dal poster (quelle orecchie, dio),
No.

Non è incredibile e non è nemmeno così vero, visto che 13 anni prima di Panther e Wonder Woman, Halle Berry era già Catwoman in un film che nessuno ricorda volentieri; soprattutto a casa Warner. E può darsi che quel flop, neanche il primo (Elektra, Supergirl) sia in un qualche modo responsabile del ritardo con cui la principessa amazzone arriva sul grande schermo: buona ultima dopo personaggi molto meno iconici e meno popolari (Ant-Man...), in un momento di iper-inflazione del genere a cui sempre più gli studios reagiscono proponendo personaggi collaterali e bizzarri: il supereroe che dice le parolacce, i supercattivi tuttitatuati, i procioni parlanti. Ecco il primo cinecomic al femminile arriva nell'anno del secondo film su un procione parlante. Furries 2 - Femministe 1, palla al centro.

La cosa sarebbe molto meno rilevante di quel che sembra, visto che grazie al cielo al cinema non ci sono soltanto supereroi, e nemmeno quel segmento molto chiassoso, cialtrone e culturalmente rilevante che sono i film d'azione. Prendi una qualsiasi saga young adult, da Hunger Games in poi; prendi Jennifer Lawrence, prendi Charlize Theron in Mad Max 4. Prendi Scarlett Johansson, a cui la Marvel non ha voluto dedicare un film solista, forse perché sarebbe costato troppo, e nel frattempo è diventata protagonista di una saga giapponese e di una francese. Prendi Angelina Jolie e Milla Jovovich che nel 2004 (13 anni fa!) mentre Gal Gadot diventava Miss Israele ed entrava nell'esercito, erano già protagoniste di saghe sparatutto. Persino in Fast and Furious le donne sono sempre più rilevanti: persino nei Transformers. Eppure c'è davvero chi ha aspettato il 2017, e l'arrivo di Wonder Woman, per festeggiare un traguardo nelle pari opportunità. Non è solo la storia a rendere omaggio alla bella semplicità dei tempi andati (c'è un'eroina buona ma ingenua che deve sconfiggere un cattivo astuto): anche il dibattito critico sembra arrivare da un tempo lontano in cui poteva sembrare incredibile che una donna prendesse al lazo i nemici anziché rammendar loro i calzini.

Lei è perfetta e arriva da una piccola terra di fieri combattenti
che l'hanno forgiata e le hanno spiegato che il Bene è il Bene
e il Male è il Male. NO NON STO PARLANDO DI ISRAELE:
È LA TRAMA DEL FILM. Oh maledizione.
C'è persino chi trova molto femminista il fatto che ci sia una donna anche tra i cattivi! - malgrado a conti fatti sia una sgobbona che prende gli ordini dai superiori. (Forse, se uno avesse la pazienza di controllare, scoprirebbe che era più femminista la cattiva Sharon Stone in Catwoman) (ma in generale di cosa stiamo parlando? Di donne perfide il cinema è pieno credo dagli anni Venti).

A questo punto però devo rammentare che sono un maschio eterosessuale, e forse la mia posizione non mi permette di capire che enorme salto in avanti sia, un film su Wonder Woman, per tutte le ragazze e bambine del mondo: soprattutto nei mercati emergenti, dove forse la Jolie e la Jovovich non sono arrivate così presto e così bene. Forse tutto quello che ho scritto fin qui è un lungo e ponderato mansplaining. Forse.

Ma anche in quel caso che altro posso fare, a parte recitare fino in fondo la mia parte di noioso maschio che spiega l'ovvio? Per me parlare di femminismo per questo film è fare un torto sia al femminismo sia al film. Quest'ultimo è divertente: probabilmente il migliore prodotto fin qui dall'universo cinematico Warner - dopo due mostri senza capo né coda né senso come BvS e Suicide Squad. È una storia dedicata all'origine di un singolo eroe, e per quanto la formula sia inflazionata è comunque più fresca dei polpettoni a più personaggi che la Warner ci doveva assolutamente propinare.

C'è una periodizzazione un po' più originale del solito (la Prima Guerra Mondiale, in tutto il suo orrore che a un secolo di distanza sembra ancora fantascienza apocalittica); c'è un prologo mitologico un po' kitsch ma che si riscatta con una delle cose più assurde e divertenti che ho mai visto sul grande schermo: Robin Wright che guida un assalto di amazzoni a cavallo contro delle truppe di sbarco tedesche.


La profezia si sta realizzando.
C'è soprattutto una meravigliosa Gal Gadot che più che una donna è una bambina: uno spirito ingenuo e puro che difende le ragioni semplici dei bambini nel mondo complicato, deludente e orribile degli adulti. Diana fugge dalla sua isola con un'idea molto semplice - distruggere il Male - e lungo la sua strada non farà che trovare personaggi maschili che opporranno alla sua morale fanciulla le obiezioni degli adulti: sensate ma insoddisfacenti, com'è giusto che sia in un film che prima di pensare alle pari opportunità, pensa ai suoi spettatori bambini. Diana sa tutto tranne come ci si veste e come ci si comporta; in combattimento non ha rivali ma non sempre ha chiaro quali siano i veri nemici. Persino la personificazione (maschile) del Male, quando alla fine si rivelerà, avrà un paio di cose da insegnarle. Insomma tutto questo femminismo non lo vedo: non vedo nemmeno troppo maschilismo perché ho la sensazione che il film sia solo il primo capitolo di una storia, e che l'ingenuità di Diana abbia un senso narrativo, più che ideologico. La Diana odierna, già intravista in Batman v Superman, non sembra più avere bisogno che i suoi colleghi maschi in mantello le spieghino chi combattere e perché. Anzi, speriamo che nei prossimi film accada spesso il contrario, visto che ora Diana sembra il personaggio con più esperienza alle spalle. Ma soprattutto speriamo che siano guardabili: Wonder Woman grazie al cielo (e alla regista) lo era. Dopo tre settimane lo si vede ancora al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (19:50, 22:40) e al Multisala di Bra (20:00)

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C'è un giudice a Sana'a

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La sposa bambina (I Am Nojoom, Age 10 and Divorced, Khadija al-Salami).

Una bambina di dieci anni entra in un taxi. Chiede al conducente di portarla da un giudice. Quale giudice? La bambina non ne ha idea. Il giudice. Ce ne sarà almeno uno a Sana'a, Yemen. La bambina non può dirlo al tassista, ma sta andando a chiedere il divorzio.

La sposa bambina è il primo film di Khadija al-Salami, regista yemenita nata nel 1966 e data in sposa dalla sua famiglia nel 1977; ripetutamente violentata dal marito, riuscì a separarsene e alla fine vinse una borsa di studio negli USA. Trent'anni dopo, in Yemen ci sono ancora spose bambine: tra queste Nojoom Ali è diventata suo malgrado famosa in tutto il mondo per essere riuscita a divorziare a dieci anni. I Am Nojoom, Age 10 and Divorced è la storia agghiacciante del suo matrimonio, descritto da Nojoom stessa e dalla giornalista francese Delphine Minoui nel libro omonimo. La regista si trova insomma di fronte a una storia vera, tragica, necessaria, che è anche molto simile alla storia della sua vita: è un'occasione unica e non la spreca.

La sposa bambina è un film talvolta ingenuo, ma tutt'altro che banale... (continua su +eventi!) Paga senz'altro la scelta coraggiosa di girarlo completamente in Yemen - uno dei paesi più cinegenici del mondo - e di non lesinare in quanto a esterni. Sana'a è una metropoli infida e polverosa; le montagne terrazzate un mondo a parte dove ogni pietra, se spostata, può originare una disgrazia. Una gestione originale dei piani temporali scongiura il rischio (altissimo) di trasformare una storia tanto potente in una semplice didascalia: per quanto la distanza tra buoni e cattivi non possa che essere enorme e chiara sin da subito, il film riesce ugualmente a spiegarci che le cose sono più complesse di quel che sembrano, e addirittura si permette di dosare un po' di suspense. Allo stesso tempo, La sposa bambina è un film che non si vergogna di volerci indignare e commuovere con tutti i mezzi che ha - e il più potente forse è il volto così disarmante della sua protagonista, Reham Mohammed: una bambina qualsiasi che potremmo aver incrociato su qualsiasi marciapiede, anche davanti a casa nostra.



Femministe e islamofobi potrebbero restare delusi da un film sulla carta così promettente: ci sono donne che partecipano attivamente al meccanismo della violenza, e giudici apparentemente illuminati che però ci tengono a far notare che stanno semplicemente applicando i dettami della Sharia. La cosa più curiosa è il rilievo modesto dato ai personaggi positivi, un giudice tranquillissimo che non alza mai la voce nemmeno di fronte all'ingiustizia più palese, e un'avvocata esperta di diritti civili che dice dieci parole in tutto il dibattimento (gli imputati non riescono nemmeno a capire chi sia, e perché non si faccia i fatti suoi). Come se la giustizia non avesse poi bisogno di tutte queste parole o lacrime per affermarsi. Il film termina con una nota di speranza che purtroppo la cronaca si è incaricata di deludere: la guerra in Yemen ha di fatto bloccato l'approvazione di una legge che proibisca le nozze tra minorenni; coi soldi dell'autobiografia della figlia, il vero papà di Nojoom si è comprato altre spose.

La sposa bambina è all'Aurora di Savigliano mercoledì 7 e giovedì 8 giugno, sempre alle ore 21:00.

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Nello spazio nessuno può sentirvi pomiciare

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Passengers (Morten Tyldum, 2016)

Ti svegli un mattino su un'astronave generazionale e scopri che c'è stato un errore: tutto il resto dell'equipaggio dorme e non si sveglierà che tra 90 anni. Re-ibernarsi è impossibile, suicidarsi la prospettiva più logica. Mentre ci rifletti, inciampi nella cella criogenica di Jennifer Lawrence, che sulla Terra faceva la giornalista ed era (ovviamente) molto spigliata e simpatica. La svegli? non ci pensi neppure.

Ma il giorno dopo ti svegli e sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence congelata. Basterebbe ficcare un cacciavite nel circuito giusto, e potresti avere Jennifer Lawrence per tutta la vita, senza doverla dividere con nessuno, su un'isola deserta con tutti i comfort (per esempio sull'astronave c'è il karaoke e i ristoranti etnici e una piscina affacciata sullo spazio, altri comfort agli sceneggiatori non sono venuti in mente). Ma sarebbe un crimine, no? Una specie di omicidio, anzi forse peggio. Quindi non ci pensi più.

Ma il giorno dopo sei di nuovo lì, tutto solo, davanti a Jennifer Lawrence - non c'è rimedio a questa cosa. Del resto, se la svegli poi dovresti mentirle per tutta la vita. E convivere con questo orribile segreto (ma anche con Jennifer Lawrence). Che follia. Meglio pensare ad altro.

Ma il giorno dopo? E il giorno seguente?

Là dove l'uomo non è mai arrivato e forse neanche quelle famose foto che tenevo sul telefono.
A un certo punto Hollywood si è resa conto che la fantascienza sul grande schermo sarebbe sopravvissuta meglio di altri generi. Il passo successivo era cercare di allargare il bacino di utenza, che nel caso della fantascienza era perlopiù un sottoinsieme del genere maschile. Che vizzo stereotipo, vero? Però era così. Dunque  il problema era: come convinciamo le donne a sciropparsi film di astronavi?

Una delle strategie possibili era quella di mettere al centro dei personaggi femminili aspirazionali, magari un po' ribelli e atletici, ma femminili: ci facevi bella figura anche dal punto di vista politico. La letteratura giovanile negli USA aveva già inaugurato il trend. E così Jennifer Lawrence divenne l'arciere rivoluzionario di The Hunger Games. Nel giro di pochi anni ragazze eroiche hanno preso il controllo più o meno di tutte le saghe in circolazione - nonché dei lungometraggi Disney e Pixar, e di Star Wars. E finalmente quest'anno avremo Wonder Woman in un film tutto suo. Bene. Cioè. Siamo proprio sicuri che le donne vogliano vedere Wonder Woman al cinema? Cioè il motivo per cui a tante donne fin qui non interessavano le astronavi è che non c'erano donne ufficiali in plancia di comando? Siamo sicuri che queste eroine cazzutissime che abbattono avversari più grossi e armati di loro non siano un fantasma più maschile che femminile? Abbiamo davvero femminilizzato la fantascienza, o non abbiamo semplicemente costretto anche le donne a fare quelle cose odiosamente maschili come le guerre, le conquiste (e a indossare quei ridicoli pigiami da supereroi)?

Ora ti salto addosso in sala mensa,
così anche col femminismo siamo coperti
Un'altra strategia è quella di Passengers: se le donne devono proprio entrare in un'astronave, se è il Mercato che lo richiede, non si può almeno dar loro quello che vogliono? Perché a molte donne piacciono le storie coi sentimenti. Che stereotipo vizzo, già. Però è così (continua su +eventi!)

E quindi ecco Chris Pratt e Jennifer Lawrence. Il trailer parlava chiaro, la locandina ribadiva il concetto: questo è un film in cui Chris Pratt e Jennifer Lawrence si baciano, tutti soli su un'isola deserta - no, in realtà è un'astronave, ma è quasi la stessa cosa, anzi se volete può anche essere più romantico perché... perché... ci sono le stelle, ad esempio, tutte le stelle che vuoi... le nebulose, e ogni tanto cose ancora più incredibili come... le giganti rosse, ecco, il giorno del compleanno di Jennifer l'astronave passa davanti a una gigante rossa, una rotta economicamente suicida, ma vuoi mettere il romanticismo (qualche ora dopo la gigante rossa è già sparita, del resto vanno alla metà della velocità della luce).

Un film del genere, una crociera spaziale di Jennifer Lawrence e Chris Pratt, la puoi portare nei cinema anche a ridosso di un capitolo di Star Wars senza troppa paura di patire la concorrenza al botteghino; è tutta un'altra idea di fantascienza, di fiction, di romance. Probabilmente non è l'idea che venderà più biglietti; sicuramente è un'idea che farà inorridire molti critici e qualche femminist* - parliamo di un film in cui il maschio fa il meccanico e la donna la scrittrice. Persino io, che per le astronavi generazionali ho una specie di ossessione, ho avuto qualche difficoltà ad accostarmi a un film che sembrava più indirizzato al pubblico di Io prima di te. Ma devo ammetterlo: sono rimasto piacevolmente sorpreso. Forse perché, davvero, non mi aspettavo niente di più che un film in cui la Lawrence scopre che Chris Pratt è l'uomo della sua vita (nonché l'unico in tutto quel braccio della galassia) e gli dà due bacetti senza svestirsi, e invece ho passato una prima mezz'ora solo con Chris Pratt che mi ha fatto pensare a un vecchissimo film di astronavi e solitudine, Silent Running. Ho incontrato il barista Arthur (Michael Sheen), uno degli androidi più verosimili mai visti al cinema: cordiale, ragionevole, un ideale compagno di bevute, a differenza del sistema operativo di Her non acquisisce mai umanità e anzi contribuisce in modo determinante a farcene sentire la mancanza.

La mia scena di bacetti preferita 
è quando ci provano con le tute ma è complicato.
(Qui lei gli sta facendo notare che non può entrare nella tuta
col vestito da sera).
Ma soprattutto mi sono trovato davanti al dilemma su Jennifer Lawrence: svegliarla o impazzire? Ecco, per me la buona fantascienza deve fare questo. Isolare i dilemmi etici, gli argomenti che ci fanno discutere, inserirli in una cornice straniante - in questo caso lo spazio profondo, un'astronave di belli addormentati - allontanandoli da tutti quei dettagli localisti e vernacolari che ci distraggono dalla sostanza. Quando alla fine la Lawrence si sveglia, l'astronave diventa una pazzesca metafora di cosa può diventare un rapporto a due - amore e menzogna, devozione e manipolazione. Per dire, alcuni critici sono rimasti scandalizzati perché a Pratt, che ha commesso un delitto tanto sordido, il film offre una possibilità di redimersi. Ma come! Quello è uno stalker, un maniaco! La Lawrence non può perdonarlo, al massimo sarà vittima di sindrome di Stoccolma! Ok, son critici d'oggi, probabilmente avrebbero difficoltà anche con Rhett Butler - per tacere di quell'assassino di Romeo Montecchi, (Giulietta avrebbe dovuto ripudiarlo subito, altroché). L'idea che l'eroe di un film possa commettere un crimine, benché in una situazione di assoluta disperazione, fa sempre più fatica a passare. Ma quindi vere storie di redenzione non potremo più raccontarne, e quindi insomma che ci racconteremo? A parte le storie di ragazze predestinate che salvano l'universo, va bene - ma in un mese ne ho già viste due.

Con tutte le sue ingenuità, le sue giganti rosse e le gag involontarie, Passengers è un film che prova a raccontarci una storia diversa, che prende in prestito le suggestioni di tutti i successi fantascientifici degli ultimi anni (GravityInterstellarThe Martian) per ricordarci che anche nello spazio profondo continueremo a essere uomini e donne, ad attrarci e a respingerci per problemi altrettanto profondi. E poi, certo è anche un film in cui se Jennifer ha voglia di Chris, gli salta addosso in sala mensa. Migliore opera di fantascienza sentimentale del 2017, fin qui. Lo trovate al Vittoria di Bra (18:00, 20:10, 22:30), al Multilanghe di Dogliani (21:45) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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Ogni santa ha il suo burqini

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23 agosto - Santa Rosa da Lima, vergine (1586-1617)

Isabel da Lima, decima di tredici figli, ribattezzata "Rosa" per la tenerezza dell'incarnato che in America Latina più che altrove era indizio di origini europee e quindi di bellezza e nobiltà (anche se secondo un'agiografia fu proprio una serva india a chiamarla così) (secondo un'altra fu il vescovo che la cresimò) (chi le ha contate dice che in giro ci sono 400 agiografie diverse di Santa Rosa patrona di Lima) (e comunque il cambio di nome fu ratificato da una visione mariana) Isabel da Lima, dicevo, a vent'anni si fece costruire una casetta nel cortile di famiglia e non volle più uscirne.

Il volto di Santa Rosa, ricostruito dal grafico Cícero Moraes
 a partire dal cranio, custodito in un convento di Lima,
via Wiki.

Da bambina aveva letto di Caterina da Siena, che volendo restare sola con Dio, invece di entrare in un convento era rimasta a casa coi suoi: Isabel scelse di seguirne le orme. Caterina da Siena morì di digiuni e anche Rosa non arrivò a compiere 32 anni. È patrona di Filippine, India, Perù, Spilamberto (MO), giardinieri e fioristi: ma voi vi preoccupate del burqini.

No, avete ragione. È senz'altro un argomento più fresco. Cosa importa se da una parete vi pende ancora un calendario affollato di nomi di vergini anoressiche che spesso sfidarono l'autorità famigliare per autorecludersi a vita: ieri era ieri, oggi è oggi, e dalla Storia non s'impara mai niente. In questi giorni leggo molto discorsi che cominciano per "noi" o per "loro". Noi siamo quelli liberi di stare in ispiaggia come vogliamo. Noi il velo ce lo siamo tolto, salvo le nostre suore che però lo sono per libera scelta, mentre chi si infila un burqini no. Tra parentesi: voi l'avete mai vista davvero una bagnante in burqini? Io due o tre in Francia o in Turchia. In nessuno dei casi era accompagnata da un maschio barbuto e arcigno che la sorvegliava. Ok, tre episodi non fanno statistica. Ma insomma ho il sospetto che molti siano convinti che il meccanismo della prevaricazione funzioni sempre nel modo più banale: se qualcuno le costringe a portare un velo, noi le obblighiamo a togliersi il velo e saranno libere. Però se fossimo entrati con la forza nella casa di Isabel, se avessimo scardinato la porta della sua cella, lei non sarebbe uscita. Nessuno l'aveva rinchiusa con la forza: nessuno riusciva a farla uscire. Per Isabel la libertà era dentro la cella, la gioia era recitare maratone di rosari e strimpellare laude alla chitarra: evadere sarebbe stata una costrizione. Nel Giappone di oggi il fenomeno degli adolescenti che rifiutano di uscire di casa si chiama hikikomori.

D'accordo, Isabel-Rosa era una vittima dei tempi, del patriarcato, ecc.. Ma come la maggior parte delle vittime, aveva interiorizzato la propria condizione. Era stata condannata dalla società prima ancora che nascesse, ma il carcere se l'era fatto costruire su misura. Quando cominciò a manifestare i suoi propositi claustrali, era ormai chiaro che la famiglia versava in difficoltà finanziarie. Se sei la decima di tredici figli sai benissimo cosa significa: che i soldi per la dote non ci sono e per sposarsi ci si dovrà accontentare. Caterina da Siena aveva visto tante sorelle accasate a uomini brutali, aveva visto una sorella morire di parto. In famiglia già si chiacchierava di farle sposare il vedovo. Caterina preferiva digiunare. Fu una libera scelta? Visse poco ma divenne famosa, tutti gli alti prelati leggevano le sue lettere, un Papa avignonese si fece persino convincere a tornare a Roma. È sui libri di storia e nelle antologie di letteratura: altre avrebbero preferito scodellare figli al vedovo.


Ah vabbe' ma si era portata la chitarra.
Anch'io sono rimasto tappato in casa
qualche anno con la chitarra
(poi per fortuna hanno inventato l'internet).

A me piace che nelle spiagge ci siano persone molto diverse da me. La spiaggia è il luogo in cui ho imparato da bambino che esistono gli stranieri, esistono i mutilati e infinite altre forme di diversità. Ultimamente vedo molti tatuaggi, una forma di creatività per la quale ho una repulsione fortissima, pre-razionale, chi può mi perdoni. Se avessi passato gli ultimi vent'anni in coma, e se al risveglio mi avessero raccontato che il Pessimo Gusto è salito al potere e costringe la gente a tatuarsi contro la propria volontà, ci crederei: voglio dire, per crederci mi basta andare fare due passi in ispiaggia. Se poi qualcuno mi dicesse: no, guarda che queste frasette motivazionali o queste cornicette da diario delle medie me li sono iniettati sottopelle a mie spese, è stata una mia libera decisione che ho deciso di difendere finché campo, io scrollerei la testa: è quel che ti costringono a credere, dai. Sei solo una vittima, anche se non hai il coraggio di ammetterlo. Se una persona mi dice che si mette il velo per libera scelta, sono libero di non crederci. Ma se invece di manifestare il mio scetticismo le strappo il velo, o le ordino di non presentarsi più in ispiaggia o a scuola, cosa ottengo? Isabel, ti ordino di uscire dal convento.

Io credo che molte donne che si bagnano in burqini non sappiano cosa si perdono. Cosa posso fare per convincerle a cambiare idea e costumi? (continua sul Post!)
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Litigare con le femministe

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Qualche giorno fa, quando ho espresso la mia opinione sulla gravidanza surrogata, affermando che ogni donna è libera di gestire come vuole il suo corpo, e quindi anche di concedere il proprio utero affinché nasca un bambino che altri alleveranno come un figlio, qualcuno mi ha fatto notare che le femministe non sono d'accordo. In discussioni come questa, evocare l'opinione delle femministe equivale a scatenare l'inferno col napalm perché, insomma, chi è che ha voglia di litigare sull'utero con le femministe? Pare che ne abbia voglia io.


Non avessi niente di meglio da fare. Diciamo che potendo eviterei - infatti quando posso lo evito - però è innegabile che le mie modeste opinioni siano a volte, come dire, in frizione con quelle di alcune femministe. Ho detto 'alcune', e indovino già l'obiezione: stai tentando di dividerci. Sì. Le femministe sono tante, e non la pensano tutte allo stesso modo. Lo si è visto anche in questo caso: ci sono le femministe di Se non ora quando che fanno appelli contro la maternità surrogata; c'è Michela Murgia che risponde con obiezioni, a mio avviso, puntuali ed esaurienti - per cui se siete alla ricerca di un discorso serio, andate pure di là.

Tra i tanti femminismi, mi è comodo sintetizzarne un paio e immaginarmeli divergenti, se non proprio opposti. Il primo è libertario e pragmatico: quando dice "l'utero è mio" non intende un'idea platonica di "Utero" e un'altra idea platonica di "Mio", ma si riferisce in concreto all'utero che si ha in grembo, di cui si reclama l'immediato possesso. Una donna che ha il diritto di fare ciò che vuole col suo corpo, non potrà liberamente scegliere di metterlo a disposizione di una coppia che per vari motivi non può avere un bambino? Io dico di sì (altri dicono di no: impossibile che una scelta del genere sia "libera". Dev'essere per forza condizionata dalla miseria). Offrire in "affitto" una parte del proprio corpo non sarà sfruttamento? Se ne può discutere, ma questo vale per ogni prestazione lavorativa: non c'è una frattura mistica tra la mano che uso per lavorare alla fresa e l'utero che posso usare per dar vita a un bambino: entrambi sono sottoposti a usura, entrambi possono guadagnarmi da vivere, e in entrambi i casi il salario può essere da fame e configurarsi come sfruttamento.

Invece, sapete quando possiamo essere abbastanza sicuri che ci sia sfruttamento? Quando tutto avviene nell'illegalità perché una legge proibisce lo scambio. E questo a mio avviso è l'argomento finale contro il divieto - contro gran parte dei divieti: il proibizionismo non funziona. Non funzionò con l'alcol, non funziona con la droga, non risolve il problema dell'aborto, non si vede in che modo possa arginare il fenomeno delle gravidanze surrogate. Possiamo decidere di assisterle o normarle o possiamo chiudere gli occhi, definire il tutto immorale, e lasciare che chi può permetterselo corra qualche rischio in più. C'è un tipo di femminismo che preferisce questa seconda opzione. Un femminismo benpensante - possibile?

Tutto è possibile. Si parlava sopra del proibizionismo: è abbastanza antipatico ricordarlo, ma fu uno dei risultati dell'allargamento del voto alle donne (prohibition movements in the West coincided with the advent of women's suffrage). L'atteggiamento benpensante nasce di solito dall'impossibilità di adeguare il proprio mondo ideale alle cose che effettivamente accadono. In questo caso c'è un femminismo che reclama l'utero non come parte del corpo, ma come urna sacra della femminilità. Quel che accade lì dentro, spiegano, è una cosa che non può essere paragonata a nient'altro (e non è che abbiano tutti i torti: qualsiasi paragone è difettivo: ma in questi casi hanno l'aria di considerarlo una bestemmia). Le donne potranno anche cedere l'uso delle mani, degli occhi, dei piedi; ma l'utero è su un altro piano. Ci sono donne che consentono liberamente, senza compenso? Impossibile. Ci sono donne che volontariamente scelgono, in cambio di denaro? Sono state obbligate. Nessuna cifra, del resto, potrebbe valere una gravidanza. Sostenere il contrario sarebbe neoliberismo.

Le esponenti di questo tipo di femminismo, di solito, hanno una concezione abbastanza tortuosa del diritto all'aborto. Benché abbiano lottato per l'interruzione di gravidanza, non cessano di ricordare quanto essa sia traumatica, un male magari necessario, ma un male. E si capisce: se santifichi l'utero, poi non puoi ammettere che esista gente che abortisce semplicemente perché le fa comodo. No, devono tutte abortire tra le lacrime. Ora, sono il primo a incazzarsi quando leggo le puttanate del Foglio sulle tizie che abortiscono per andare in vacanza. Però l'idea che ogni donna debba sempre sentire ribrezzo per l'aborto è una proiezione morale. Ci saranno anche donne che hanno abortito senza grossi patemi, che non l'hanno vissuta "come tutta ‘sta tragedia che pare necessario continuare a raccontarsi". Dobbiamo far finta che non esistono?

Corriere.it

Col tempo ho trovato un altro parametro che mi sembra ormai infallibile. Di solito le femministe con cui vado d'accordo hanno un'idea abbastanza piana del fenomeno della prostituzione: sebbene in molti casi sia una forma di sfruttamento, reprimerlo non avrebbe senso. Peraltro se è un diritto della donna (e dell'uomo) disporre del proprio corpo come vuole, questo diritto contempla anche la possibilità di prostituirsi. Occorrerà quindi aiutare le vittime dello sfruttamento e sostenere i diritti delle sex-workers.

Invece per le femministe con cui non vado d'accordo è tutto un racket. Non esiste una prostituta libera: sono tutte sfruttate. Sempre. Una volta mi spiegarono che anche oggi, in Italia una qualsiasi donna libera che volesse tentare l'esercizio della prostituzione senza far parte di un racket sarebbe stata immediatamente raggiunta dagli emissari del racket medesimo, e fatta schiava. Perché non si dà prostituzione senza sfruttamento e schiavitù. Chi potrebbe mai acconsentire liberamente a pratiche così intime in cambio di denaro? La prima volta che ho sentito un discorso così ho alzato le spalle, vabbe', si vede che viviamo in due universi paralleli. Poi mi è caduto l'occhio sulla legislazione repressiva di alcuni paesi che eravamo abituati a considerare fari di civiltà - che so, la Svezia - paesi in cui un certo tipo di femminismo aveva avuto un po' di voce in capitolo. Anche in quel caso, si punisce il cliente perché non si ritiene una donna in grado di scambiare liberamente sesso in cambio di denaro. Qualsiasi cliente acceda a una prostituta la sta adescando, la sta corrompendo, la sta sfruttando. Affermare il contrario - affermare che una donna possa liberamente scegliere di affittare parti del corpo in cambio di denaro - significa cedere a una mentalità economicista, neoliberale.

Potrei obiettare, e l'ho già fatto, che l'economia almeno esiste, è un modo di descrivere gli scambi tra le persone: mentre questa mistica della femminilità, tra il romantico e il pagano, secondo me si adatta molto meno a descrivere il mondo in cui vivo. Ma devo anche confessare un sospetto. L'economia non è che spieghi tutto, ma potrebbe spiegare anche il fenomeno di un gruppo di donne che non sopporta l'idea che altre donne scambino sesso in cambio di denaro; né l'idea, ancora più estrema, che una donna possa dietro compenso mettere a disposizione il proprio utero. Quella che chiamate barbarie, altri potrebbero definirlo dumping.
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"Non pagherai per il sesso": la prostituzione nel mondo post-romantico

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Dunque secondo me (ne parlavo l'altro ieri) prostituirsi non può essere proibito, perché è qualcosa che si fa col proprio corpo: e la collettività non può impedire al singolo di disporre del proprio corpo. A questo punto l'obiezione è la solita: che libertà è, se si mette sul mercato?

E non è l'economia stessa una forma di costrizione, di coercizione, di violenza? Persino in inglese, la lingua del mercato globale, libertà e gratuità sono omonimi. E nei fatti, in molte epoche e spesso ancora oggi, mettere il proprio corpo sul mercato significa cederlo a uno sfruttatore.

Che posso rispondere? Immagino che il mercato debba avere dei limiti, fissati per legge, oltre ai quali diventa sfruttamento e schiavitù. Ma non credo che si possa abolire il mercato. Si può al limite negare che esista e voltare la testa dall'altra parte, come abbiamo fatto in Italia da 60 anni. Ma il mercato è fatto di scambi, e gli scambi esistono da quando esiste l'uomo. L'odioso modo di dire "il mestiere più vecchio del mondo" contiene questa constatazione: sia il sesso che lo scambio esistono da quando esistiamo noi, a differenza dell'amore romantico che, pur essendo il presupposto del matrimonio contemporaneo, è un'invenzione recentissima.

In passato il lato economico del matrimonio si considerava con più serenità. Un uomo offre un bene x a una donna in cambio di un rapporto: se il rapporto è occasionale, si chiamava prostituzione; se era continuativo ed esclusivo - se alla donna veniva impedito di avere rapporti al di fuori di quelli regolati da quel contratto, per tutta la vita - si chiamava matrimonio. Il primo scambio è sempre stato ritenuto "discutibile sul piano morale", ma non in quanto scambio: a turbare l'uomo pre-romantico era la natura occasionale e non continuativa dello scambio in questione; e soprattutto la non esclusività, che faceva la differenza tra uno scambio benedetto da Dio e uno scambio peccaminoso (c'era anche un'ovvia riserva di ordine sanitario, e c'è ancora).

Oggi la questione è più sfumata: facciamo fatica a intendere persino il matrimonio come contratto esclusivo. Forse la nostra difficoltà a incasellare l'attività della prostituzione è parte di una più generale difficoltà a capire come gestiamo, oggi, il sesso. Sicuramente abbiamo grosse difficoltà a considerarlo come un bene di scambio. Allo stesso tempo, nessuno nega che sia un bene. Forse viviamo in un mondo post-romantico in cui il sesso si è messo al centro di un gioco sociale: più un premio che una merce. Sono poche le pressioni sociali che avvertiamo tanto come quella a mantenerci il più possibile attrattivi e affascinanti, anche quando la biologia non lo richiederebbe più. Il grande sottointeso collettivo è che potremo avere accesso a tutto il sesso che vogliamo, se ce lo meritiamo.

Però non possiamo pagarlo.
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La prostituzione non è illegale (ma è tassabile?)

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A Rimini pare sia successa questa cosa curiosa: l'Agenzia delle Entrate, dopo aver rilevato che una signora si era comprata una mercedes, ha dato un'occhiata al conto corrente e ha stimato un reddito di 24.700€: poi ha inviato una cartella esattoriale. A quel punto la signora ha preso un avvocato, perché, benché ritenga giusto pagare le tasse, sostiene che lo Stato non le fornisca gli strumenti adeguati per farlo: in effetti l'attività professionale che esercita - la prostituzione - non è normata in nessun modo. Non è neanche illegale, come alcuni credono (tanto che ne chiedono la "legalizzazione"): una sentenza della Cassazione del 2011 afferma che essa, "seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, non costituisce reato". Un anno prima la stessa corte aveva affermato che i proventi della prostituzione dovrebbero "essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita". Insomma i giudici della Cassazione ci tengono molto a far presente che la prostituzione è contraria al buon costume, è trasgressiva, è discutibile: nel mentre che ammettono che no, non è illecita.

Dunque andrebbe normata e normalizzata: ma è una fatica enorme che probabilmente ci risparmieremmo, se la crisi non ci chiedesse appunto sforzi immani, anche di fantasia: così, mentre inseriamo nel Pil il fatturato delle mafie (che d'altro canto, è innegabile, sono inserite nel tessuto economico, offrono servizi, creano ricchezza), dall'altro ci riduciamo a tassare le escort. Se fin qui non l'abbiamo mai fatto - perlomeno dalla legge Merlin in poi - non è certo per distrazione, né per calcolo. Lasciare la prostituzione in un limbo normativo è stata una scelta che a un certo punto la società italiana ha deciso di fare. Ovviamente non eravamo tutti consapevoli, ma alcuni sì. Ogni comunità poi sviluppa le sue ipocrisie, ma quelle fiorite intorno alla prostituzione mi sono sempre parse affascinanti (molto più della prostituzione in sé, che invece mi ispira una certa repulsione). Faccio un esempio: dalle mie parti ogni tanto i carabinieri chiudono un bordello cinese, e la notizia va in prima pagina sui giornali locali. In fondo agli stessi giornali ci sono gli annunci di altri bordelli cinesi. Non c'è niente di strano, in fondo un giornale assolve a diverse funzioni e si rivolge a pubblici diversi. Però non riesco a non pensare a un lettore-tipo che in prima pagina esulta perché finalmente la città è stata ripulita, e una mezz'ora dopo sta già cercando un posto dove rilassarsi.

Quando si parla di prostituzione è molto facile litigare.
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Non nutrite il Langone (se potete)

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C’è una specie di tacita alleanza, tra chi come Camillo Langone ormai da anni non fa altro che spararle grosse, più grosse che può, e chi, all’ennesima sparata, proverà gusto a rispondergli: vergogna, Langone, che hai scritto? Che Samantha Cristoforetti invece di diventare astronauta doveva restare vicina al suo uomo? Ma vergognati, ma quanto sei retrogrado (e quanto sono io all’avanguardia se invece lo faccio notare... )

È un gioco delle parti, da molti praticato in buona fede. No, L. non è un retrogrado. Scrive su un giornale che ha anticipato di alcuni anni le dinamiche di Internet. Il Foglio era un blog di carta, prima che nascessero i blog: e sul Foglio, da troppi anni, Langone ci sta semplicemente trollando.

Dietro la sua maschera di viveur bigotto, c’è un tizio che si eccita in privato leggendo le vostre reazioni stizzite. Un po’ triste, a mio parere. Non ha mai scritto nulla che sappia davvero di cattolico al palato dell’intenditore; se qualche prete lo legge, lo fa per divertimento come dovreste fare voi. Credo sia l’ultimo al mondo a cui freghi davvero qualcosa dell’h del nome Samantha (un po’ fastidiosa, l’ammetto). Si nutre dei vostri contributi e della vostra rabbia: se i primi non c’è verso di interromperli, quest’ultima meriterebbe bersagli più sinceri.

D’altro canto capisco la tentazione: le spara così grosse. E se la intercetto io per primo, e rilancio a tono, poi tutti mi verranno a sollevare. Lo so, lo so come funziona. Non posso certo giudicarvi.
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Lady-chi?

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Chiedimi la canzone preferita, dai, provaci.
È norma di buon senso, oltre che di buona educazione, limitare il più possibile le espressioni in lingua inglese quando si conversa in italiano. All'anglismo si dovrebbe ricorrere soltanto quando ci si trova davanti a un concetto che nella nostra lingua non ha una definizione altrettanto felice e sintetica. Eppure questo sembra proprio essere il caso di "Ladylike". Il dizionario del Corriere traduce "da signora", espressione davvero poco felice (poco ladylike), o in alternativa "signorile, raffinato". C'è insomma in "ladylike" un'idea abbastanza definita di signorilità abbinata a femminilità a cui in italiano non corrisponde nessun lemma di dizionario. Vada per ladylike, anche se può lasciare un po' perplessi.

Ciò premesso, andiamo a verificare la ladylikeness dell'eurodeputata Alessandra Moretti. La videointervista del Corriere è un collage di pochi minuti, che danno l'impressione di essere estratti da un materiale molto più cospicuo. Sembra anche un blob, un'antologia di passi falsi. Intendiamoci: è stata lei che ripetendo tre o quattro volte il mantra brave-intelligenti-belle ha consegnato un tormentone ai giornalisti; ma è difficile che fosse questa la sua intenzione. Voleva soltanto ribadire il concetto, e il montaggio ha fatto sì che lo ribadisse fino al ridicolo. Possiamo chiamarlo un errore di ingenuità: lo definiremmo un errore ladylike?

Una signora non dovrebbe saper giocare d'astuzia coi suoi intervistatori? Alessandra Moretti spreca preziosi minuti a commentare una vecchia gaffe inutile di cui nessuno a parte lei si ricordava ("Massimo Travaglio"), ne commette un'altra ugualmente inutile ("Mimo Reitano no Rino Gaetano") e invece di smorzarla immediatamente con sprezzatura ladylike, ci ridacchia su. Ci rideremmo tutti su se ci capitasse, per l'imbarazzo; ed è uno dei motivi per cui non ci sentiamo molto Lady (nemmeno molto Lord). Una Lady probabilmente avrebbe prevenuto la gaffe rifiutandosi di rispondere alla domanda sciocchina: la mia canzone preferita? ma chi mi sta intervistando? Il Corriere o Cioè? Non abbiamo cose più interessanti da dirci?

Alessandra Moretti riceve i giornalisti con un po' di libri sullo sfondo. Annuncia allegra che "il Veneto è scalabile", e che si candiderà perché Matteo glielo ha chiesto telefonandole all'una del mattino "Io... cioè.... Ale abbiamo bisogno di te". (Matteo sì che sa come si parla alle ladies). Segue un must per tutte le lady moderne ed emancipate: la metafora calcistica, ma mi raccomando: bella grezza e spaccona.

"Quando tu devi vincere una sfida calcistica importante, nella nazionale chi è che mandi? Mandi i migliori".

Un attimo dopo magari si è già accorta di averla detta un po' grossina (in sostanza le elezioni del nordest le vince lei contro Zaia perché è la migliore): e il montaggio, perfido, evidenzia un ripensamento che sembra immediato. Una frazione di secondo dopo aver detto "Mandi i migliori", la Moretti sta già dicendo che

"Io non mi sento la migliore... non mi sento la fatina dalla bacchetta magica che risolve i problemi, attenzione... però credo di essere un'opportunità in questo momento".

Senz'altro c'è malizia nei suoi intervistatori; ma c'è un momento - quando la Moretti enuncia il suo proponimento di andare dall'estetista una volta alla settimana, e senza che nessuno glielo chieda (se lo chiede da sola) precisa che va a farsi "le meches", "la tinta", ecc. - in cui persino loro esitano, come il pesce di fronte a una preda troppo facile: qualcosa non va. "La massacreranno sui social". "Ma chissenefrega", risponde ladylikemente. "Devo venire coi peli? I capelli bianchi?" Tutta invidia. "Più fanno così più continueremo a essere più belle, più elegante, più curate, più brave, più pronte, più tenaci, più coraggiose. Ma che c'hai? Che t'ho fatto? Perché ci ho gli occhi blu?"

Così un'intervista, che nelle intenzioni di chi la concedeva probabilmente doveva essere un atto di solidarietà nei confronti della Madia e dell'indecente trattamento riservatole da Signorini, finisce per echeggiare qualche vecchio e indimenticato tormentone del tardoberlusconismo. Non manca neanche la schiacciata sulla Bindi, prontamente servita, che un'altra Lady avrebbe magari preferito lasciar sfilare a fondocampo: ma poteva la Moretti lasciarsi sfuggire un'occasione per marcare la discontinuità con Rosy Bindi, compagna di partito e, neanche troppo tempo fa, di corrente; per parlare di Rosy Bindi, classe 1951, al passato?

Sarà senz'altro invidia la mia, e nostalgia per altri tipi di femminilità che non saprei. Io credo di avere una certa passione per la bellezza, e un grande rispetto per l'eleganza, senza aver mai posseduto un granché né dell'una né dell'altra: sono contento se Alessandra Moretti è bella e si ritiene tale, e lo considera un'opportunità per sé e per il Veneto. Ma questa cosa di credersi lady, e di riempirsene la bocca, davanti a due emissari del Corriere di cui fraintende evidentemente la disponibilità, ecco questo mi spinge contro ogni convenienza ad aprire la bocca come il bambino alla parata dell'imperatore: no onorevole Moretti, non sei una lady, perlomeno non lo sembri: più una sciampista che parla di calcio e di meches invece che di cose importanti, si fa incorniciare il quadretto dell'oca che prende Reitano per Gaetano; e guarda che ciò non sarebbe nemmeno un male in sé perché agli italiani il genere piace. Ma la sciampista che si crede lady, ecco, è quello che mi preoccupa: la dissonanza cognitiva, chiamiamola così.
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Non te lo clicco il video, Beppe.

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Dieci giorni dopo aver esposto Maria Novella Oppo alla gogna, Grillo dimostra di non aver capito (o di aver capito benissimo, e di voler perseverare) lanciando su facebook una corsa all'insulto più sessista nei confronti di Laura Boldrini. Nulla da aggiungere a quello che ha scritto Marina Terragni; vorrei concentrarmi su un dettaglio secondario: il fatto che anche stavolta Grillo faccia saltare il tappo dicendosi "senza parole". La stessa espressione è una protesta di innocenza (Grillo è talmente indignato che non è in più grado di dire niente) e un invito al massacro (ditelo voi, commentatori inazzati! riempite il vuoto lasciato da Beppe!) E naturalmente c'è l'invito a cliccare un video. Sempre così: non ho parole, clicca il video. Sta diventando un ritornello.

Tra i motivi pre-politici della mia avversione per Grillo c'è il fatto che lui voglia farmi cliccare sui video. Anche il suo blog ha la colonnina destra morbosa, come tutti i siti che cercano di tirare due spicci. Per inciso: non è vero che Grillo faccia i milioni col blog. Se ci tenesse proprio ai milioni Grillo ricomincerebbe a farsi pagare i biglietti ai palazzetti invece di comiziare in piazza gratis: e scriverebbe più libri e inciderebbe più dvd. Coi blog, anche zeppi di inserzioni, ti rifai più o meno delle spese. Grillo non fa politica per guadagnarci, e però neanche vuole perderci troppo; ultimamente la sua colonnina si è fatta più agguerrita, con una strategia cattura-attenzione elementare quanto efficace. È tutto un 'Siamo senza parole! Clicca qui, guarda il video!' Non hanno mai parole. Hanno solo video. Adesso vado di là e copio-incollo i primi titoli che trovo, giusto per dare un'idea (continua sull'Unita.it, H1t#210)

MOVIMENTO 5 STELLE, CENSURATA PURE QUESTA NOTIZIA
Censurata anche questa notizia. Non ne parla nessuno. Abbiamo il video. Guardate cos’è successo. …
Non ho la minima idea di cosa sia, e un po’ di curiosità mi sarebbe anche venuta, però cliccando compare una pubblicità che dura 46 secondi e non si può chiudere. Anche dopo averla guardata per 46 secondi della mia vita, non si chiude lo stesso: forse pretendono che la segnali a qualcun altro via twitter o fb, c’è il logo sopra. Mboh, lascio perdere. In questo modo forse do una mano alla “censura”, ma d’altro canto immagino che se fosse una cosa davvero importante l’avrebbero messa nei titoli veri.
GIULIA INNOCENZI E IL SESSO 4 VOLTE AL MESE
Ecco cosa ha scritto Giulia Innocenzi a proposito del sesso 4 volte al mese: (Clicca…
Questa trovata è particolarmente penosa.  Di questo famoso contratto “sesso 4 volte al mese” ne hanno parlato un po’ tutti, oggi, ma solo a casa Casaleggio è venuto in mente di associarlo nel titolo al nome di una giornalista donna che è anche un volto televisivo. Ovviamente chi non ha ancora sentito la notizia assocerà la Innocenzi al “sesso 4 volte al mese” e correrà a cliccare: e ogni clic sono eurocentesimi, butta via. Immagino che dall’altra parte ci sia semplicemente un contenuto visuale o testuale in cui l’Innocenzi commenta la notizia, ma anche stavolta non sono andato oltre.
COLOSSALE FIGURA DI M…. DELLA RENZIANA!
Preparatevi perché questa è incredibile. Guardate cos’ha combinato la renziana Marianna Madia…
Ha sbagliato ufficio e ha parlato col ministro sbagliato, boh. Fossero questi i problemi della Madia. Poi per carità, è una notizia pure questa, però… “preparatevi perché questa è incredibile“. Ché io me lo immagino sempre questo lettore medio di beppegrillo che prima di ogni clic dà una controllata alla pressione per non sforzare troppo le coronarie.
MILENA GABANELLI SMASCHERA L’INGANNO
Ultim’ora direttamente da Milena Gabanelli. Governo smascherato. Ecco cosa stanno facendo: (Leggi…
Oh, per una volta si legge invece di guardare. Vado a cliccare e non finisco in una pagina di Report o comunque gestita da Milena Gabanelli, ma in un altro sito pieno zeppo di pubblicità video, dove si riporta una notizia (“la Commissione Bilancio ha stralciato quella parte della cosiddetta “web tax” che riguarda l’e-commerce”), segnalando che “lo scrive sul proprio profilo Facebook, Report, il programma di Milena Gabanelli”. C’è il link diretto? Certo che no.
TUTTO INTORNO A LEI!
Mariarosaria Rossi, assistente personale di Silvio Berlusconi. Diffusa questa imbarazzante notizia. …
Tutto così, sempre così. Incredibile, colossale, clicca. Siamo senza parole, guarda il video. Per molti questa è l’esperienza quotidiana con internet: tant’è che appena escono dal sito di Beppe cercano di riprodurla su altri siti. Ad esempio vengono qui nei commenti e si portano sempre delle verità importantissime che però ti possono comunicare soltanto attraverso i video. Guarda che ti sbagli, guarda il video.
Ora, per carità, sono sicuro di sbagliarmi tantissime volte. Ma i video non li guardo quasi mai. Niente di personale, ma mi annoio mentre si caricano. L’idea di restare fermo mentre i video mi spiegano una cosa, senza poter scorrere con lo sguardo e cercare i punti salienti (come faccio quando leggo un testo più o meno rapidamente) mi rende nervoso. Se proprio ci tieni al mio parere, fammi un riassunto. Sono abituato a leggere e a scrivere, e anche internet mi piaceva di più quando era tutta così: scrittura, lettura, di nuovo scrittura. A quel tempo lui i pc li spaccava, ricordate. Veniva dalla tv.
Poi un giorno è arrivato su interneta casa mia. E si è portato tutti questi noiosissimi video. E la sua corte di videoamatori. Perché la gente si annoia. La gente vuole vedere i video. Con tanta pubblicità intorno. Almeno Berlusconi se ne stava nell’altro scatolone, e per escluderlo bastava una pressione sul telecomando. http://leonardo.blogspot.com
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La scena cult

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Muore Mariangela Melato (la meravigliosa, magnifica, Mariangela Melato) e sulla home di Repubblica compare, accanto ai coccodrilli del caso, il link tutto in maiuscolo: VIDEO: LA SCENA CULT . Siccome hai un debole per i culti, specie quelli che sembra che tutti condividano tranne te, clicchi, e ti trovi di fronte a una clip brevebreve in cui Giancarlo Giannini, dall'alto di una rupe (e di una trucida superiorità antropologico-culturale) le grida, testuale: M'HAIRROTTO LAMMINCHIA!
IO FACCIO QUELLO CHE STRATACAZZOMMI PARE!
TROIA!
MA CHI TI CREDI DI ESSERE!
MAVAFFANCULO, VA'!

Che per carità, forse può essere davvero un modo divertente, intelligente, e soprattutto non snob (bisogna stare sempre attenti a non sembrare snob) di ricordare una grandissima attrice. Mariangela Melato fu Medea, lavorò con Ronconi e Visconti, però se ce la ricordiamo tutti per i film della Wertmüller un motivo ci sarà.

A questo punto viene in mente che quando compì ottant'anni l'altra grandissima, bravissima protagonista del cinema italiano di quegli anni, Monica Vitti, una delle prime cose che si vide in tv fu un montaggio di tutte le botte che aveva preso nelle commedie all'italiana. Botte tremende, con rumori che oggi userebbe soltanto Neri Parenti, ammesso che Parenti faccia ancora dei film, non so, magari ha smesso. Qualche ceffone con lo schiocco se lo prese anche la Melato, d'altronde la commedia all'italiana funzionava così: mostrava l'Italia per quel che era, un posto dove le donne finivano all'ospedale. Ci finiscono ancora adesso che i registi preferiscono mostrare altre cose, quindi forse le cose non sono così migliorate. Anche se, forse.

Forse il punto non è tanto che in Amore mio aiutami Alberto Sordi si vanti delle costole che è riuscito a incrinare alla moglie (anche se non è vero che mandò la controfigura Fiorella Mannoia in ospedale). O che Giannini in Travolti da un insolito destino violenti la sua datrice di lavoro. Il fatto è che entrambi i film sono congegnati in modo da stimolare la complicità dello spettatore - almeno dello spettatore maschio. Quando a metà del film Sordi chiude il pugno e decide di passare alle maniere forti, è come se quel pugno glielo piegasse telepaticamente lo spettatore, che ha visto la Vitti rendersi sempre più insopportabile e non la regge più, Quella lì ha scassato la minchia. Quando Giannini urla il suo proclama, siamo tutti con lui, finalmente qualcuno ha il coraggio di dire a voce alta cosa pensa delle insopportabili borghesi di Milano: troie. E scatta il cult. È lo stesso fenomeno che ha fatto sì che la frase più famosa degli ultimi trent'anni di cinema italiano (almeno in Italia) sia diventata La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca. Non è vero (d'altro canto chi l'ha mai vista, la corazzata in questione, da Fantozzi in poi nessuno ha sentito la necessità di verificare), ma dirlo era tantissimo liberatorio, e il sospetto è che i nostri padri andassero al cinema soprattutto a fare questo: a liberarsi. Un'esigenza tra il fisico e il morale che oggi si sfoga attraverso altre valvole, se siamo incazzati con Berlusconi o Monti o le donne fedifraghe e arroganti che non sanno stare al loro posto gliene diciamo quattro su twitter o facebook e poi stiamo subito meglio. Forse i cinema, quando erano pieni, erano pieni di gente che non avrebbe mai menato la moglie, ma che a vedere una donna menata, giustamente menata, si metteva di buon umore. Con l'alibi della commedia, del paradosso, della critica sociale eccetera.

È morta Mariangela Melato, e la scena a cui tutti pensano, la scena "cult", è quella in cui si sente dare della troia. Un ruolo come un altro in fin dei conti; e poi che senso ha prendersela, gli attori interpretano quello che la gente vuole. Si sarebbe probabilmente meritata film migliori, qualche ruolo meno macchiettistico, e un pubblico meno finto-progressista, meno intimamente devoto al culto del ceffone. Ma è un rimpianto senza senso, ognuno vive la vita che può, recita al meglio i copioni che la vita gli offre. Meglio di Mariangela Melato, qui da noi negli ultimi trenta o quarant'anni, poche. Forse nessuna.
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L'Aspesi inesplosa

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Questa è la storia di un putiferio che non è scoppiato. Credevo che sarebbe successo, e mi sbagliavo. È una buona notizia dopotutto.

Domenica mi ero convinto che il pezzo di Natalia Aspesi avrebbe scatenato un'orda di polemiche. Nell'articolo, che dopo un breve richiamo in prima proseguiva a pagina 23, l'Aspesi raccontava col garbo che tutti le riconosciamo l'emozione che "le libere donne laiche italiane" potrebbero provare di fronte a un film medio-orientale che racconta la vita di donne tutt'altro che laiche, tutt'altro che libere. Donne la cui vita consiste in "casa e lavoro domestico, sudditanza al barbuto uomo di casa il cui lavoro è pregare [...]"
da ragazze, una vita totalmente separata dai ragazzi, il matrimonio combinato possibilmente tra due coetanei vergini, e poi figli su figli: sottomissione, ubbidienza e preghiera.
Ecco, andando a vedere questo film, le libere donne laiche italiane (secondo la Aspesi) resteranno sedotte e turbate, di fronte a "un'oasi di grazia, in cui il destino di ognuno è già stabilito dalla fede, isolata dalla contemporaneità e dalle sue angosce".
Dovunque il film venga proiettato, conquista soprattutto le donne, per lo meno quelle che cominciano a sentirsi affaticate dalla loro indipendenza: capiterà anche in Italia [...]
Io il film ovviamente non l'ho visto, ma dell'Aspesi mi fido. Posso immaginare che un film del genere abbia il pregio di descrivere dall'interno situazioni che non solo non capiamo, ma più spesso ci vantiamo di non capire. Non trovo così scandaloso che una donna occidentale, libera, laica, possa trovare il tempo per andare al cinema a lasciarsi sedurre da un'oasi di reclusione; dopotutto qualche anno fa uscì un film sul monachesimo maschile che, almeno dalle recensioni, risultava altrettanto seducente, e allora in fondo perché una donna non potrebbe lasciarsi affascinante da qualcosa del genere? al limite ci si potrebbe chiedere se lo stesso diritto di andare al cinema e lasciarsi sedurre da modelli diversi lo abbiano anche le donne segregate di cui parla il film; domanda retorica da cui partirebbe la solita polemica a base di santanché e corani e le magliette antimaomettane. Ecco, appunto. Dove sono le santanché coi corani e le magliette? Io me li aspettavo già in edicola al lunedì. Niente. È anche vero che c'era il dibattito sulle primarie, il maltempo, il caso Petraeus. Però, accidenti, almeno il Giornale se la poteva un po' prendere, con questa Aspesi affascinata dalle donne segregate, no?

No. Anzi. L'unico riferimento all'Aspesi sul Giornale è proprio in un pezzo sul caso Petraeus. Dice che l'Aspesi ha sollevato un fondamentale dubbio. Giuro, dice proprio così:

Ieri Natalia Aspesi, dalle pagine di Repubblica e parlando di tutt'altro (del film La sposa promessa), sollevava un fondamentale dubbio in una piccola parentesi: «La sposa senza libertà che (forse) un po' invidiamo». Perché è vero che una certa dose di sottomissione ci mette al riparo da un sacco di cose: dall'apprendere di essere cornute, dal decidere di andarsene e di fare da sole, dall'allevare i figli col nostro stipendio, dal ricominciare quando avevamo pensato di aver finito, o quasi. Holly in realtà è la donna che ha il «privilegio» dell'orizzonte fisso, del mondo focolare che ti tiene alla larga dal mondo libero dei bilanci, quello che prevede il rischio delle vittorie e delle sconfitte.


Dove si capisce tra l'altro che la giornalista non ha la minima idea di chi sia "Holly", una che ha seguito il marito in 23 traslochi. Ma a parte questo. Dov'è finita tutta la retorica anti-burqa, anti-segregazione femminile, che ha contraddistinto il nostro centrodestra nei suoi anni ruggenti? Ora io una sbandata della Aspesi per la segregazione posso capirla; però se anche al Giornale ammettono di invidiare le spose senza libertà, mi viene quasi un po' paura.

Ma forse non c'è da aver paura. Forse è soltanto la fine della guerra al Terrore. Forse da qui in poi, anche quando leggeremo pezzi critici sulla condizione femminile nei paesi islamici (e nelle famiglie islamiche che vivono tra noi), riusciremo a cogliervi sempre una traccia di tolleranza, almeno il dubbio che si possa anche essere felici in un modo diverso dal nostro. Forse è così, forse Bin Laden è morto e ci stiamo tutti addolcendo, Giornale incluso. Forse.

O forse, semplicemente, La sposa promessa è un film medio-orientale, sì, ma israeliano. I protagonisti sono ebrei ultra-ortodossi. E allora va tutto bene, la Santanché manco se ne accorge, e sia alla Repubblica che al Giornale tutti e tutte possono lasciarsi sedurre impunemente. Ché chi l'ha detto poi che la segregazione femminile non possa anche risultare affascinante. L'importante è che non sia in nome di Allah.
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Maria 12 ci perdona, tutti.

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5 luglio - Santa Maria Goretti (1890-1902)

La modernità è una crosta sottile, ha scritto qualcuno, in cui vivono solo alcuni di noi, e solo in alcuni momenti del giorno; altre ere, anche arcaiche, sono a portata di mano, letteralmente: afferri il telecomando, accendi la tv al pomeriggio, e non sei più nella modernità. Sei da qualche altra parte, molto prima o molto dopo, comunque altrove. Vedi cose che in altre ore del giorno non capiresti: ad esempio, le file per entrare ai processi. Anche d'estate, col caldo che fa, c'è gente che a certi processi vuole proprio assistere, e alla sbarra di solito non c'è lo speculatore che si è giocato i loro risparmi coi bond tossici; più spesso si tratta di un tizio che forse ha ammazzato qualcuno di cui non sono nemmeno parenti. Ma in quel momento del pomeriggio - sarà che hai caldo anche tu - sei in un'altra era e capisci che il concetto di parentela è relativo, chi è mia madre? chi è mio parente? Se i parenti sono le persone che vediamo tutti i giorni, ormai Sarah Scazzi è nostra cugina.

Possibile persino che ce la sogniamo di notte. Prima o poi qualcuno verrà a riportare un miracolo commesso da Yara Gambirasio, una grazia ricevuta da Ylenia Carrisi. Non credo che diventeranno sante: il calendario della Chiesa cattolica e quello della cronaca nera sono trasmessi ormai su due frequenze diverse. Però su quelle frequenze si trasmettono cose non dissimili, e forse all'inizio la frequenza era una soltanto. Poco prima del bivio, dello switch, c'è Maria Goretti: l'ultima santa antica, la prima protagonista moderna di un fatto di cronaca nera. Le sue eredi non sono più protagoniste di lunghe cause di canonizzazione; però i fiori, e gli altarini, dopo pochi giorni crescono già, abbarbicandosi ai cancelli delle case, spontaneamente. Dopo un po' arrivano anche i primi biglietti, i primi rudimentali ex voto. La modernità è una crosta sottile, se scavi un po' ti accorgi che sotto c'è ancora un Seicento vivo e pulsante che se la cava benissimo. Non teme la tecnologia, anzi: è cablato, ha le antenne, le parabole, tutto quello che gli serve a produrre e vendere devozione. Evidentemente c'è chi compra.


Di Maria Goretti si sa tutto e niente, nel senso che quel tutto più volte scandagliato da agiografi e giornalisti è comunque poca cosa: è nata; è vissuta in un contesto di miseria profonda, in questo contesto ha resistito tre volte alle avances di un uomo (oggi lo chiameremmo ragazzino) che viveva nella sua famiglia allargata; la terza volta è stata trafitta con un punteruolo; è morta soffrendo orribilmente e perdonando il suo assassino, anzi, perdonando tutti. Siccome la storia era tutta lì, la si poteva gonfiare di ideologia come un palloncino. Maria poteva diventare il simbolo della purezza cristiana, la sua storia si prestava a racconti imbastiti sulla stessa trama delle antiche leggende di santi: uomo cattivo, vergine pura, punteruolo, perdono, resurrezione. Fin troppo facile (eppure il processo di beatificazione andò per le lunghe). Al punto che il palloncino a un certo punto qualcuno lo sgonfiò e lo rivoltò dall'altra parte, e Maria Goretti diventò il simbolo di come la Chiesa opprimeva le donne, attraverso la diffusione di figure sottomesse e sessuofobe come la bambinella illetterata. È il palloncino che abbiamo visto più volte sventolare a sinistra, ma non è sempre stato così: fino agli anni Cinquanta la Goretti poteva ancora passare come una figura protofemminista. Sì, la bambina che difende il suo corpo dalla prepotenza dell'uomo fu persino raccomandata da Togliatti come modello alle ragazze comuniste. Secondo un'altra fonte fu un giovane Enrico Berlinguer a proporla, insieme a un altro recentissimo prodotto mitologico, la partigiana sovietica Zoya Kosmodeminskaja: la lotta contro il nazismo e contro la prepotenza maschile erano evidentemente da intendersi sullo stesso piano (continua sul Post...)
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Sangue, politica e anoressia

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29 aprile - Santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, patrona d'Italia (1347-1380).

Tiepolo
Caterina Benincasa è la patrona d'Italia che gli italiani non conoscono. La schiaccia il confronto con la popolarità trasversale dell'altro patrono, Francesco d'Assisi, al punto che fuori da Siena molti la confondono con Chiara, l'amica e confidente di Francesco e fondatrice delle Clarisse. Caterina invece è tutta un'altra storia, un altro ordine (le domenicane mantellate), un altro secolo (il quattordicesimo), un altro mondo che non conosciamo. Per dire, la Rai non ci ha ancora fatto una fiction. Una fiction non si nega a nessuno, Filippo Neri ne ha avute già due. Caterina ancora niente. Uno pensa: per forza, è una contemplativa, non c'è niente da raccontare. Non è proprio così. Caterina una sua storia ce l'ha. Magari è un po' deprimente, ecco.

Tanto per cominciare, Caterina è figlia della peste nera, l'epidemia più orribile mai abbattutasi sul continente. Questo però spiega solo fino a un certo punto un dettaglio singolare della sua biografia, l'avere avuto cioè 24 tra fratelli e sorelle. Per molte famiglie la prolificità fu un modo di reagire a un morbo che svuotò interi villaggi e quartieri (a Firenze forse morirono quattro quinti degli abitanti). Ma quando arriva la peste Lapa Benincasa di figli ne aveva già messi al mondo 24: metà erano morti in giovane età, cosa perfettamente in linea con le statistiche (morì subito anche Giovanna, la sorella gemella di Caterina), ma per gli standard dell'epoca la famiglia era comunque numerosa.


Questo non significa che Caterina fosse destinata al chiostro per risparmiare i soldi della dote, come qualche malizioso lettore sta già immaginando. Va bene, lo abbiamo letto tutti Manzoni, ma molto spesso nelle vite delle sante si presenta l'esatto contrario: la famiglia vorrebbe destinare la figlia riottosa al matrimonio, e lei non vuole. Del resto giudicate voi, tra una vita di castità e meditazione e una spesa a rincorrere una decina di pargoli nella contrada dell'Oca, quale fosse la più attraente. Il caso della 16enne Caterina è reso più drammatico dal fatto che il promesso sposo fosse il vedovo della sorella più grande, Bonaventura. Caterina aveva cominciato a vedere Gesù a cinque anni, e aveva fatto voto di castità a sette, ma soprattutto aveva assistito all'agonia della sorella, morta di parto, e non doveva avere molta stima per il cognato. Memore dell'esempio di Bonaventura, che per punirlo delle sue scarse attenzioni si infliggeva lunghi digiuni, Caterina rifiutò di mangiare finché i genitori non cedettero e il matrimonio andò a monte.

Il disturbo alimentare di Caterina, quello che gli studiosi oggi chiamano anorexia mirabilis, nasce in questa situazione: Caterina non possiede nemmeno il suo corpo, ma sa come tenerlo in ostaggio, e detta le condizioni. Si taglia i capelli ed entra nelle domenicane, ma come terziaria, restando dunque nella casa dei genitori. Impara a leggere e a scrivere: le sue opere di misericordia e le sue prime lettere ai potenti del mondo attirano l'attenzione, chi è questa ragazzina che tratta i grandi uomini alla pari? I domenicani, che per farla entrare in un ordine di solito riservato alle pie vedove hanno chiuso un occhio, temono uno scandalo e la invitano al Capitolo Generale di Firenze per interrogarla. Là Caterina fa l'incontro che le cambia la vita: Raimondo da Capua, dottore in teologia, a cui la ragazza prodigio viene affidata una volta certificata la sua ortodossia. In principio diffidente, Raimondo imparerà ad apprezzare le doti di Caterina, soprattutto dopo essersi salvato dalla nuova epidemia del 1374, racconta, grazie alle sue preghiere. Raimondo sarà per tutta la sua vita il confessore di Caterina, il suo manager, e dopo la morte il suo biografo. Chissà se senza questo sodalizio con la santa avrebbe fatto tanta carriera. (Continua sul Post)
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La meretrice nel deserto

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Qui è ancora vestita.
1° aprile - Santa Maria d'Egitto (IV-V sec.), ex meretrice e patrona delle medesime.

Mettete a letto i bambini. Siamo nella Giordania del V secolo, ormai gli anni ruggenti dei martiri sono finiti, adesso vanno di moda gli eremiti. Gente che va nel deserto e ci resta per anni senza mangiare niente: la gente ne va matta, molti attraversano il Giordano alla ricerca di questi anoressici modelli di perfezione. Tra questi cercatori vi è un monaco palestinese, Zosimo (o Zozima), già stimato e riverito da tutti per la saggezza e la rettitudine. Un giorno una voce gli ha detto: Zosimo, o Zozima che dir si voglia, ma chi ti credi di essere, un Santo? Ma va', va', attraversa il Giordano se vuoi vedere quelli che fanno sul serio. Zosimo obbedisce, e si inoltra nel deserto alla ricerca di qualche "santo padre antico solitario". Dopo venti giorni di nulla, gli appare da lontano un'ombra, un miraggio, si direbbe... una donna, una vecchietta dai capelli d'argento e dalla pelle secca. Zosimo si mette a correre verso di lei, ma la donna gli sfugge. "Perché mi fuggi? Ti prego, fermati, parlami". "Zosimo, abbi pazienza, non vedi che sono nuda? Se vuoi che io parli con te, gettami il tuo palio, acciocché possa coprirmi". Accidenti, pensa Zosimo, questa sa persino come mi chiamo, è una santa seria. E adesso cosa fa? Si è inginocchiata a oriente, ma... per san Girolamo, sta volando! Ehi, ma siamo sicuri che non è un'allucinazione? Dopotutto è da venti giorni che vago nel deserto praticamente senza mangiare né...

"Zosimo, o Zozima che dir si voglia, non dubitare. Io non sono un'allucinazione o uno spirito maligno, ma una femmina peccatrice. Vuoi conoscere la mia storia? A dire il vero ho paura che ascoltandola fuggirai da me, non potendo il tuo cuore reggere tanta iniquità: ma se proprio insisti..."

Flashback! Quarantasette anni prima, su un dock di Alessandria d'Egitto, una donnaccia si accosta a un gruppo di dieci marinai: ehi belli, ve ne salpate di già? Che peccato, e dove andate? Portiamo un carico di pellegrini a Gerusalemme, sai, il Santo Sepolcro. "Ah, ecco cos'era tutto questo movimento in giro, i pellegrini. Sentite, ma mi portereste con voi?" "Se hai il denaro per il naviglio, volentieri". "Il denaro non ce l'ho, ma una volta a bordo sarò io il vostro naviglio, ah ah". Dice proprio così. Qualcuno dei marinai si allontana schifato, qualcun altro sorride magari perché l'ha riconosciuta: costei è Maria d'Egitto, non è una come tutte le altre. Lei, per dirla col poeta, lo faceva per passione:
Diciassette anni fui meritrice pubblica e sì disonesta e libidinosa che non m’inducea a ciò cupidità o necessità di guadagno, come suole addivenire a molte, ma solo cupidità di quella misera dilettazione; in tanto ch’io m’andava profferendo impudicamente e non volea altro prezzo da’ miei corruttori, reputandomi a prezzo e a soddisfazione solo la corruzione della lussuria: onde gli giuochi, l’ebrietadi, e altre cose lascive e induttive a quel peccato, io riputava guadagno; e spesse volte rinunziava al guadagno e ai doni per trovare più corruttori, sicché nullo si scusasse e lasciasse di peccare con meco per non avere che darmi; e questo non faceva io perch’io fossi ricca, ma avvegnach’io fossi indigente, sommo mio disiderio e diletto era stare in risi e in giuochi e in disonesti conviti e ‘n corruzione continova.
Piccola parentesi dotta. La vita di Maria d'Egitto ci arriva in tre versioni. La prima è di san Sofronio, patriarca di Gerusalemme tra sesto e settimo secolo, ed è forte il sospetto che se la sia inventata lui (e complimenti patriarca per la fervida fantasia). La seconda è un riassuntino di una nostra vecchia conoscenza, Jacopo di Varazze (o da Varagine). Varazze è un po' il Moccia del Medioevo, nel senso che come scrittore non lo si direbbe veramente un granché, un compilatore senza particolari abilità: senonché doveva avere intuito qualcosa che ancora non abbiamo capito, perché la sua Legenda Aurea divenne presto un best seller e lo rimase per tutto il medioevo, quel millennio famoso in cui i libri non li mettevano in vetrina, ma li ricopiavano a mano, se necessario raschiando via l'inchiostro di altri libri magari più interessanti. Ecco, fa un po' piangere il cuore che di tante opere celebri dell'era antica non ci restino che brandelli, e di una compilazione tutto sommato banalotta come la Legenda Aurea ci siano arrivate più di millequattrocento copie manoscritte. Cioè, almeno le teenager che leggono Moccia non stanno raschiando via Nabokov o Proust, anche se in un certo senso sì, lo stanno facendo. La terza versione è quella che sto citando, ed è già in volgare: avete notato come scorre bene, malgrado la patina medioevale? Perché è di Domenico Cavalca, un domenicano del Due-Trecento che scriveva benissimo. La vita di Maria Egiziaca è considerata il suo capolavoro: Gianfranco Contini la riporta nella sua antologia della Letteratura italiana delle origini, che è dove l'avete letta voi, popolo di laureati in lettere. Ma probabilmente non c'era bisogno di ricordarvelo, probabilmente di quel mattone è l'unica pagina che vi rammentavate, dopotutto Maria è la cosa più hard che succede nella letteratura italiana fino al Boccaccio, ma forse anche dopo. Diciamo fino a D'Annunzio. Ma forse anche dopo. Pasolini? Boh. (Continua...)
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Povera piccola infanticida

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Aborto aborto, sentimento e ipocrisia... 

In questi giorni sono successe tante cose incredibili, tra cui una che può essere passata inosservata: il direttore della rivista della diocesi di Trento, Marco Zeni, ha dichiarato di comprendere la decisione di una sedicenne che (su pressante invito dei genitori) ha interrotto una gravidanza. E non parlava a titolo personale: parlava per conto della Chiesa, con la C. “La Chiesa non può certo dichiararsi a favore dell'aborto, ma capiamo le difficoltà della famiglia”. A meno che Zeni sappia cose che noi ignoriamo, le difficoltà della famiglia consistono in un fidanzato albanese geloso e manesco.

Io la posizione dei cattolici sull'aborto la capisco. Non la condivido, ma la posso capire, se non altro perché è piuttosto chiara. Per i cattolici la vita comincia dal concepimento: questo non so se si possa considerare un dogma, ma possiamo tranquillamente definirlo un postulato, nel senso che la morale cattolica di oggi si fonda su questo assunto, non dimostrabile e non discutibile: dal concepimento in poi la madre non è sola, c'è un altro individuo con lei che ha gli stessi diritti che ha lei.

Quindi se lei decide di interrompere la gravidanza commette un infanticidio, punto. Il fidanzato manesco e geloso lo puoi lasciare, ma da che pulpito lo giudichi, se nel frattempo mediti di far fuori un bambino? È una posizione che ha almeno il pregio della chiarezza. Puoi contestarla, ma probabilmente stai semplicemente affermando che non condividi un postulato (la vita inizia dal concepimento) partendo da un altro postulato (la vita inizia qualche tempo dopo il concepimento, forse tre mesi, forse boh). Per inciso, io sono convinto che tutti i sistemi morali partano da assunti arbitrari, ma sono sicuro che non v'interessi una mia lunga dissertazione sull'argomento. Stasera a dire il vero non appassiona nemmeno me. Stasera sono solo curioso di capire come sia possibile che il portavoce di un prestigioso vescovado abbia dichiarato di poter capire le ragioni di un'interruzione volontaria di gravidanza. Capire un infanticidio? Al massimo si può perdonare, per esempio a Giuliano Ferrara gliene sono stati perdonati almeno tre; ma bisogna che prima il soggetto si penta.

Ho due ipotesi. La prima è che sotto sotto Zeni, e tutto il mondo intorno a Zeni, non ci creda per davvero, in questa storia della vita a partire dal concepimento. Non è vero che sia un postulato incrollabile; è solo la conseguenza un po' maldestra di un'ideologia che parte da altre premesse. Dalla determinazione della Chiesa a mettersi al centro della cura del corpo, soprattutto: per cui la cosa davvero importante non è che i poveri embrioni abbiano salva la vita, ma che la Chiesa sia consultata sull'argomento, che la Chiesa abbia voce in capitolo. Il vero scandalo della 194 non sta nel fatto che una ragazza possa abortire – come se non fosse mai successo – ma che possa farlo senza chiedere il permesso a un prete, che se magari è in buona, se conosce la situazione... ti può anche capire, via, lo sa anche lui come va il mondo, no? Insomma, tutta questa recentissima dottrina della sacralità della vita dell'embrione potrebbe essere semplicemente una reazione nervosa degli ecclesiastici al fatto di essersi trovati messi in un angolo dalla medicina e dalla cultura laica. Sta bene, però scegliete: o vi tenete la vostra rigida, arbitraria ma chiarissima legge morale, oppure mettete la maschera del padre comprensivo. Ma tutti e due no: non potete gridare 'infanticida!' e poi soggiungere 'povera ragazza'. O è povera o è infanticida, tertium non datur.

La seconda ipotesi mi è venuta molto più grezza: a sentire Zeni sembra che per la Chiesa di Trento nulla sia peggio dell'aborto, tranne una cosa, una sola cosa di fronte alla quale l'interruzione di gravidanza è un male minore: e che questa cosa sia dar figli a un albanese. Decidete voi.
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Sporco maschio guardami

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Io queste attiviste ucraine che si spogliano per protesta è da un po' che le vedo in giro – su internet e riviste, intendo, non pensiate che io abbia una vita altrove ormai – e devo dire che non mi convincono.

Non è che mi scandalizzi, però sono diffidente. È la mia educazione: diffido di chiunque mi si spogli davanti, sono convinto che abbia qualcosa da nascondermi (vedi com'è tortuosa l'educazione). Da una parte, posso capire, manifestare significa attirare l'attenzione, e da questo punto di vista spogliarsi funziona – basta andare su Repubblica.it in questo momento, ma quest'estate tennero l'homepage anche sull'Unità, insomma, l'attivista nuda tira. Non è soltanto una pratica funzionale, è anche una delle meno violente che si possano immaginare: invece di tirare estintori o bruciare SUV, mostrarci per quello che siamo. Salvo che non siamo quasi mai così belli come le attiviste ucraine che si vedono spesso in foto sulle riviste o su internet (le foto di oggi non rendono loro giustizia).

Non so esattamente quanto il loro attivismo abbia a che fare col movimento internazionale degli SlutWalk, i cortei in cui le femministe si vestono da “sluts” (traduciamo “sgualdrine”, via) per protestare contro la violenza maschile. Gli SlutWalk sono cominciati a Toronto la scorsa primavera e stanno andando piuttosto bene, tanto che anche in Italia c'è chi comincia a pensarci. Visti in foto sembrano un po' la versione femminista dei gay pride (un'affermazione che immagino mi farà amare tantissimo da femministe, gay e femministe gay), una gara a conciarsi peggio non indenne da una certa dose di esibizionismo che però, diciamolo, quando vai in piazza c'è sempre. In piazza ci vai per attirare l'attenzione, e il tuo ego di solito non lo lasci a casa. Io perlomeno non lo facevo, e se non mostravo il corpo era semplicemente perché non avevo tutto questo gran corpo da mostrare (altrimenti chissà).

Comunque: dietro agli SlutWalk c'è una filosofia controversa. Quando un ufficiale della polizia di Toronto dichiarò che ci sarebbero state meno molestie se le donne avessero evitato “di vestire come sluts”, le femministe canadesi sfilarono mostrando il loro diritto costituzionale a vestirsi come volevano, e quindi anche come sluts. Non fa una grinza. Salvo che poi sui giornali non ci va la foto dell'impiegata cinquantenne con la panzetta, alla quale conciarsi da slut costa magari qualche sacrificio. Ci vanno sempre tipe in forma come le attiviste ucraine, per la gioia di noi guardoni di internet (mi ci metto anch'io ma devo dire che ormai guardo pochissimo). Il messaggio che ne ricaviamo è un po' diverso da quello che forse prevedevano le femministe: non è più “sono una donna e non mi devo vergognare di avere un corpo”, ma più qualcosa del tipo “guardami, te lo sogni di spogliare un corpo così”. Insomma, un corpo nudo brandito contro di me, maschio guardone. Non è contundente come un estintore, ma si suppone comunque che debba ferirmi, frustrarmi nei miei desideri, nelle mie pulsioni. E ammettiamo pure per un istante che in quanto maschio io debba vergognarmi per i crimini di tutti i maschilisti del mondo – ma quello che finisco per provare è un po' la sensazione che qualcuno mi voglia farmi vergognare del fatto che guardo una donna nuda. Come ai bei tempi dell'oratorio, insomma. Ma almeno all'oratorio non me le squadernavano in faccia, le donne nude. Invece qui ci sono donne nude che mi gridano: vergognati maschilista delle tue pulsioni. Tutto quello che mi viene da rispondere è: no, non mi vergogno. E a quel punto mi sale pure in punta di lingua una parola che in generale non amo usare, la traduzione letterale di slut, diciamo. Qualcosa di becero, di maschilista davvero, ecco: l'effetto pratico dell'attivista-nudista è farmi sentire un po' più maschilista di prima. Dura solo pochi istanti, ma non credo che sia l'effetto voluto. O no?

La prima volta che sentii parlare di questo gruppo di attiviste ucraine che si spogliavano era su una rivista, non mi ricordo più se D o Vanity Fair, però le foto erano notevoli. Donne nude aggredite da poliziotti. Protestavano contro lo stupro mettendolo in scena, praticamente. Ho cercato di guardare quelle foto da una prospettiva non guardona, ma temo di non averla trovata. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno scenderà a stuprare una ragazza perché ha visto una scena di stupro attizzante su D o Vanity Fair.

Ma la cosa che mi lasciò più interdetto è che nello stesso servizio spiegavano che queste donne bionde e molto belle (magari non sono tutte belle, ma in foto ci vanno quelle più belle) in quell'occasione stavano protestando contro il turismo sessuale degli italiani in Ucraina. E così, grazie al loro attivismo, il risultato è che io lettore italiano stavo guardando bellissime ucraine nude su una rivista. Va da sé che non succede niente, non credo che nessuno correrà a prenotare un fine settimana a Kiev perché ha visto delle attizzanti ucraine nude su D o Vanity Fair o... o no?
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Dillo ancora che lo ami

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E ieri dunque si celebrava Monica Vitti, giustamente, e un tg (non mi ricordo neanche quale) ne ha approfittato per montare un'antologia delle sue pizze più celebri. Perché è vero, la Vitti ha lavorato con Bunuel e con Antonioni, è stata la musa dell'incomunicabilità, bla bla bla, ma noi la conosciamo soprattutto per le pizze che si prendeva in faccia nella commedia all'italiana. Con quel rumore classico di pizza in faccia che se ci pensi è impressionante – il cinema è tanto cambiato negli ultimi cinquant'anni, la resa del sonoro ha fatto passi da gigante – eppure continuiamo a sentire pugni e schiaffi con gli stessi rumori assurdi di quarant'anni fa, e non facciamo una piega. Voglio pensare che sia un buon segno: che il rumore vero dei pugni e degli schiaffi non lo riconosceremmo. Ma è innegabile che di pugni e ceffoni la Vitti ne abbia presi tanti, francamente troppi. Può darsi che a suo modo fosse un tormentone pre-televisivo: per dire, così come un artista finissimo come Totò per contratto doveva anche piazzare quattro o cinque smorfie per far ridere i bimbi piccoli; così come Sordi probabilmente avrebbe potuto essere molto meno macchietta di come gli chiedevano di essere da un certo punto in poi; può darsi che un certo pubblico da un film con la Vitti si aspettasse soprattutto una scena in cui strilla e si fa menare, una specie di madrina nobile di Bud Spencer e Terence Hill. E i rumori infatti erano gli stessi. Però Bud Spencer ci faceva ridere da bambini; la Vitti presa a botte da Sordi, o da Mastroianni, o da Giannini, era uno spettacolo per gli adulti.

Ripensandoci, non un gran spettacolo. Vale la pena di ricordarselo, ogni dieci o venti volte che i film italiani bruttini di oggi ci fanno rimpiangere la Commedia all'Italiana dei bei tempi che furono: non furono dei tempi così belli, dopotutto. In particolare per le donne, quasi sempre subalterne, in ruoli ritagliati a tavolino da sceneggiatori anche sensibili, anche geniali, anche anticonformisti, ma quasi sempre maschi, e anche abbastanza maschilisti. E fieri d'esserlo. A rivederla, quella scena di Amore mio aiutami, sorprende per il meccanismo di complicità che scatena: la Vitti procede a rendersi insopportabile finché lo spettatore maschio non riesce a piegare telepaticamente la volontà di Alberto Sordi, a serrargli i pugni. Era un film che prendeva in giro le coppie aperte, nel 1969: La donna ha appena messo il naso fuori dal sacro matrimonio e già gli autori della commedia all'italiana si affrettano a romperglielo – con tanta ironia, ovviamente. Poi c'è questa storia che Fiorella Mannoia facesse la stunt per la Vitti, e che durante la scena riportò ecchimosi sufficienti a convincerla a cambiare mestiere. Però è una cosa che ho letto solo su internet, non ho tanta voglia di crederci.
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Questo non è un orgasmo

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E basta, non è che devo fare altro per vendervi il pezzo. Ho già scritto nel campo titolo "orgasmo", sarà comunque il più cliccato dell'anno.
Eh, lo so, con tutti i problemi che ci sono al mondo.
Comunque oggi era la festa di Santa Teresa d'Avila, santa un po' meno orgasmatica di quanto si creda in giro, o no? No? Boh, sul Post se ne parla.

15 ottobre - Santa Teresa d'Avila (1515-1582), Vergine e Dottore della Chiesa

Il primo orgasmo della Storia dell'arte: quando pensiamo a Teresa d'Avila di solito pensiamo a questo. La Santa in questione ha scritto migliaia di pagine, è passata per il tribunale dell'Inquisizione, ha riformato un ordine religioso, fondato diciassette conventi, percorrendo la brulla Spagna del Siglo d'Oro a dorso di mulo. Nel frattempo probabilmente soffriva di epilessia e aveva nausea e malesseri tutti i giorni. Con tutto questo, è arrivata lucida a 77 anni. Poi è successo che nel secolo successivo il più grande architetto-scultore del barocco romano, Gian Lorenzo Bernini, le abbia dedicato il suo capolavoro, un vero film di marmo e luce, ispirato a una pagina della sua biografia. È un film di un solo fotogramma, ma chi l'ha visto non se lo dimentica. La Santa guarda l'angelo e si sente trafiggere il cuore. È una sensazione dolorosa e piacevole, la trasverberazione, che la pervade totalmente. È un orgasmo? Lacan non aveva dubbi (“elle jouit, ça ne fait pas de doute”), e per qualche tempo nessuno ha osato avere dubbi su Lacan. Come dire che Bernini (mica un qualsiasi pornografo, uno degli artisti più autorevoli della Chiesa romana post-tridentina, zelante lettore di Ignazio di Loyola), si sarebbe lasciato sfuggire un orgasmo di Santa così, per distrazione, come ad altri sfugge un sogno o una parola di troppo: un lapsus di marmo. Ma sul serio possiamo dire che orgasmo ed estasi siano la stessa esperienza? Sulla base di quali conoscenze? Abbiamo mai sperimentato un'estasi? (abbiamo mai sperimentato un orgasmo?)

Nel testo Teresa descrive un dolore-piacere che parte dal muscolo cardiaco. È una sensazione ineffabile che decidiamo di chiamare “orgasmo” perché non ci viene in mente niente di meglio. In effetti, non ci viene mai in mente niente di meglio di un orgasmo. Ma è un limite nostro, non di Teresa. Lei ha passato una vita a meditare e coltivare sensazioni che noi non abbiamo mai provato (quando non era impegnata a dirigere conventi e a litigare con altri direttori di conventi). Anche stavolta, più che di una suora carmelitana del Cinquecento, stiamo parlando di noi. Sul testo rimbalzano le nostre ossessioni. Ha scritto che le è piaciuto “un po', anzi molto”, quindi dev'essere per forza un orgasmo. Ora crederete che scherzo, ma leggete per esempio questo passo del catechismo di Odifreddi (Perché non possiamo dirci cristiani, p. 103):
L’esempio più tipico è quello in cui l’ipersensibilità e l’autoesaltazione di una giovane le fanno scambiare una fantasia autoerotica, sensuale o sessuale, per l’incontro con un vero essere, angelico o divino. È probabilmente successo nell’annunciazione di Maria, ed è certamente successo nella famosa Estasi di Santa Teresa, raffigurata dal Bernini nel 1652 in Santa Maria della Vittoria a Roma, sulla base del vivido racconto della stessa protagonista nella sua autobiografia:

"Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. Non è un dolore fisico, ma spirituale, anche se il corpo non tralascia di parteciparvi un po’, anzi molto. È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento".

L’abbiamo provato, Teresa, l’abbiamo provato. Solo che lo chiamiamo con un nome un po’ più prosaico di trasverberazione, “esperienza indicibile”, e lo celebriamo un po’ più spesso di una sola volta l’anno.
Va bene, Odifreddi, siamo contenti se celebri anche più orgasmi all'anno, ma ti dovrebbe comunque restare un po' di tempo per studiare le cose di cui parli. “L’autoesaltazione di una giovane”... Teresa aveva già quarant'anni. E sul serio: come fai ad affermare che si sia trattato “certamente” di una fantasia autoerotica? Sulla base di che studi, qual è la branca delle scienze che ti consente di trarre conclusioni “certe” dal resoconto di una mistica del Cinquecento? Perché io non mi fiderei nemmeno se me lo dicesse Freud. Per il quale del resto Teresa era un'isterica, il che non stupisce affatto, visto che Freud curava per lo più pazienti isteriche, e che i suoi metodi li aveva messi a punto studiando l'isteria, e si sa, se hai un martello in mano tutto ti sembra un chiodo. Oggi l'isteria neppure esiste: è stata tolta dall'elenco delle malattie mentali (DSM).

È rimasto solo il modo di dire, che ci ricorda quei tempi prefreudiani in cui si riteneva che disturbi del genere potessero essere originati da infezioni dell'utero o delle ovaie – per cui a fine Ottocento i malesseri psicologici di migliaia di donne si curavano con l'ovariectomia bilaterale. Questo forse non c'entra più nulla con Teresa, che nel Cinquecento, con tutta la sua isteria e le sue visioni (memorabile quella dell'inferno, che non durò più di un battito di ciglia e la terrorizzò per il resto della vita) ebbe una carriera di tutto rispetto, occupò posizioni di potere, e in un qualche modo riuscì a domare i suoi demoni e i suoi angeli interiori. Fosse vissuta a fine Ottocento, magari un medico le avrebbe strappato le ovaie per farla stare "meglio". Fosse in vita oggi, passerebbe lunghi pomeriggi catatonici davanti a una tv, prendendo tempo tra l'assunzione di un antidepressivo e un antiepilettico. E nessun angelo verrebbe a trafiggerla con un dardo dorato. Odifreddi ci direbbe che sta meglio così, ma per fortuna non dobbiamo necessariamente essere odifreddiani.

Per conoscere meglio Teresa si può partire dal Libro della sua vita, che è qui. Di Teresa si è recentemente innamorata la studiosa postmoderna Julia Kristeva, e questo è il suo poderoso romanzo di seicento pagine, che io non ho letto poiché la vita è breve. Invece le storie a fumetti di Teresa, disegnate da Claire Bretécher, si leggono in poche ore e sono molto divertenti.
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Un ministro entra in un cesso, plof

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Don't feed the clown

Anche ieri sera al tg7 provavano a rivendere la barzelletta di Sacconi come un diversivo tattico, l'indizio di una strategia comunicativa affinata con gli anni. Io, alla luce delle recenti mosse del Ministro, e del grado di lucidità mostrato da tutti i suoi colleghi in questa inutile estate, ho maturato un parere differente, un po' meno articolato. Secondo me il tizio è fuori. Come un balcone. Non so se si sia sporto di recente o sia lì appeso da generazioni, ma a questo punto poco cambia.

Sacconi, ricordiamolo, era nel pool di professionisti che a un certo punto, tra un ridimensionamento delle province e un ritocco alle aliquote, partorì l'idea probabilmente più geniale dell'agosto 2011: mangiarsi i contributi di laureandi e militari, ché tanto non li riscattano quasi mai, no? Per Sacconi infatti si trattava di danneggiare al massimo 4000 contribuenti, robetta. Nel giro di 24 ore si scoprì che invece erano 600mila, io dico che nemmeno il corvo Rockfeller, nominato ministro in sua vece, riuscirebbe a fare peggio di così. Perché a un certo livello non capire un cazzo non basta, bisogna passare a un livello ulteriore, dimenticarsi le tabelline, le addizioni, le schede con le frecce e gli insiemi che ti danno nella sezione dei cinque anni. Nel frattempo al Giornale bloccarono i commenti, in giro per le città semivuote si percepiva una vibrazione irosa ogni volta che ti avvicinavi a un professionista, un avvocato, un dentista, un operatore immobiliare, probabilmente è stato il giorno in cui Berlusconi ha perso più punti gradimento negli ultimi vent'anni.

Sacconi insomma è uno di quelli che in agosto doveva decisamente andare al mare, invece è rimasto tra uffici e conferenze, ed evidentemente ha sbroccato. Ora racconta le barzellette, ma potrebbe anche ruttare, recitare scioglilingua, cantare i successi dei Ricchi e Poveri quando erano ancora un quartetto, e Mentana con molto acume ci farebbe notare la sottile strategia diversiva. Seduto di fianco a Bonanni, che di tutti i sindacalisti al mondo è probabilmente l'unico ad appartenere a una setta cattolica radicale (i neocatecumenali), Sacconi per spiegarsi meglio decide di raccontare una storiellina, e di tutte le storielline si fa venire in mente proprio quella in cui stuprano delle suore. Cosa direbbe Freud? Mah, non saprei, mai sentito un ebreo austriaco bestemmiare. Ora dirò una di quelle cose che poi la gente s'incazza e scrive alla De Gregorio vergogna licenzialo (sì, è successo).

Ho sentito barzellette peggiori.

Certo, non c'entrava nulla. Era fuori dal contesto, surrealismo puro, era suggerita da una di quelle labili concatenazioni di idee che vi vengono mentre vi strofinate sul cuscino e vi consegnate a Morfeo (la CGIL può dire di no come... come... come la suora nella barzelletta in cui le stup...ronf...) Era l'ultima cosa da dire di fianco al cattolicissimo Bonanni, una palese dimostrazione di incapacità, e anche un patetico tentativo di scimmiottare il Caro Leader proprio negli aspetti più imbarazzanti. Però, se non fosse stata raccontata da un ministro durante una grave crisi internazionale, la storiellina in sé un mezzo sorriso poteva strapparlo. Una smorfia, via.

E' una barzelletta sulle suore, che fanno le santarelline, ma poi... E' una barzelletta sessista. Diciamo pure maschilista. E racconta di uno stupro di massa! Ma le barzellette sono così. Giocano sugli stereotipi. Nelle barzellette i neri hanno organi smisurati e barlano sembre gome dei devigiendi. Le donne non sanno guidare. Alle suore non spiacciono i rapporti illeciti. Gli italiani sono geniali e i francesi e gli inglesi rosicano, eccetera. Proprio per questo, potendo, sarebbe meglio evitare le barzellette nelle comunicazioni istituzionali, ma anche nella comunicazione tout court, e tenersele per le lunghe notti intorno al fuoco con amici fidati che sono sulla tua stessa lunghezza d'onda.

Non a caso nella sua replica Sacconi confessa (l'infame) di averla sentita da Guido Carli, che gliel'aveva raccontata "per sdrammatizzare un momento critico". E qui c'è tutta la differenza tra un grande professionista, che in un momento difficile fa la battutina scema per alleggerire un po' la tensione del gruppo di lavoro, e il discepolo che non ha capito niente del maestro, e crede che la battutina abbia un valore in sé, sia estrapolabile dal contesto, e si possa riprodurre anche davanti alle telecamere e di fianco a un sindacalista neocatecumenale, un exemplum retorico di raffinata fattura. 

Insomma, Sacconi ha fatto una piccola, immensa cazzata, che dimenticheremo presto soltanto perché lui e i suoi colleghi ne fanno a un ritmo vorticoso, insostenibile. Ma che per questa barzelletta debba "chiedere scusa alle donne", beh, mi sembra la solita esagerazione controproducente. Sacconi ha offeso tutti gli interlocutori, che meritavano un discorso serio, da parte di un ministro serio che rappresenterebbe un governo serio. Sacconi ha offeso la sua nazione, mostrando una spettacolare inettitudine nell'esercizio delle funzioni. Sacconi però non voleva dire che lo stupro in generale è un atto consenziente. Allo stesso modo in cui chi racconta la barzelletta del fantasma formaggino non sta dichiarando di credere ai fantasmi e alla vita dopo la morte. Sono barzellette. Sono paradossali, scorrette, razziste, scioviniste, campaniliste, sessiste, reazionarie. E' folle che un ministro della Repubblica le usi per comunicare. Ma è anche folle che qualcuno (qualcuna) lo prenda sul serio. Non stava incitando allo stupro delle monache, non stava negando il concetto di violenza sessuale; stava soltanto facendo il buffone, come ha visto fare il suo capo. Questa è la cosa grave. Poi le donne italiane hanno miliardi di motivi per sentirsi esasperate, ma per favore, non prendete sul serio una barzelletta idiota, non scandalizzatevi per una freddura da oratorio, non date al buffone questa soddisfazione.
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L'ombelico è un problema complesso

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(2004)
Chi crede ai sondaggi e alle inchieste, chi li fa, sembra affezionato a questa idea:
che la gente, interrogata, dica sempre la verità. Gratis. A degli sconosciuti. Quando è già così difficile dirla a sé stessi.

La verità, tutte le volte che mi sono trovato un microfono davanti, mi è parsa la più remota delle opzioni – ma basta parlare di me e del mio ombelico. Parliamo invece di quello di Calozza Clarissa, classe II C, tutta allegra sotto il burqa nero: il motivo di tanta eccitazione?

A domanda del cronista risponde che l'idea non è sua, ma della compagna e amica del cuore Bellei Wanna, che l'altroieri nel putiferio seguito alla circolare a un certo punto ha esclamato: ma perché non facciamo come quelli là di Avezzano? Sabato mattina tutte in burqa! I tradizionali veli afgani sono stati cuciti dalla mamma di Clarissa, sarta part-time. Ah, quindi la mamma è d'accordo… "Le abbiamo detto che ci servivano i costumi di Halloween".

L'amica Wanna in realtà si è già stancata del travestimento, scoprendo magliettina viola e piercing ombelicale di ordinanza. "Avevo un caldo…". Sì, come no. A metà ottobre è definitivamente autunno, qui: piove da tre giorni, ma di avviare le caldaie scolastiche non si parla. Sono effettivamente i giorni a maggior rischio raffreddore. Ma chi conosce Vanessa ha imparato a non sottovalutare il potere della sua melatonina mutante, che in agosto immagazzina su uno sdraio di Cesenatico il calore necessario a scaldare l'ambiente circostante da settembre ad aprile. Così che non è un caso che intorno a lei i ragazzini avvampino. L'ombelico di Vanessa non va in letargo nemmeno a Natale: al rinfresco dell'anno scorso si è presentato in aula magna adorno di un campanellino, jingle bells, jingle bells. Idea copiata da un catalogo sisley, ok, ma tutti abbiamo copiato qualcosa o qualcuno a 16 anni. È comunque probabile che pensasse proprio a quel campanellino il Preside, quando l'altroieri ha pensato bene di riciclare la circolare di Avezzano che vieta agli studenti i calzoncini a vita bassa, cambiare luogo e data e farla girare nelle classi. Una provocazione bella e buona!

Ora, siccome l'amica del cuore Vanessa ha detto che fa caldo, anche a Clarissa tocca aver caldo, e levarsi come minimo il cappuccio: ahi.

Lei pure, a suo modo, è una mutante. Non è brutta, no, non veramente: solo inguardabile, e lo sa. Ed ora è nervosa. È nervosa perché ha i brufoli. E ha i brufoli perché è nervosa. Chi può interrompere il circolo vizioso? Chi può impedirle di osservare la sua pelle, sottoporla a un micidiale cocktail di prodotti per l'igiene, massaggiarla compulsivamente, strizzarla, strizzare le strizzate, seguire diete sballate, interromperle con disastrosi abusi alimentari? Chiunque le passi vicino può distogliere lo sguardo, ma lei no: la sua pelle le è a portata di mano in ogni momento, ogni specchio è un'istigazione all'automolestia. Una camicia di forza?

Per ora si leva il burqa, ché alla sua amica non piace già più, e scopre anche lei una magliettina gialla, e tra la magliettina e il cinturone un budello roseo, concentrico: l'ombelico è da qualche parte lì in mezzo: il piercing, se c'è, non se la passa molto bene. Eppure Clarissa Colozza (La Cozza, per gli amici più fidati) ama il suo pancino: è la cosa più rosea gommosa e liscia che ha. Le lebbra bianca non ha ancora raggiunto il punto vita. Si massaggia teneramente e, interrogata, risponde.

"Sì, il burqa è un modo per protestare contro la circolare del preside, che vuole toglierci la libertà di vestirci come vogliamo, di apparire come siamo. Io credo che i vestiti facciano parte dell'identità di una persona, cioè, se scelgo di mostrare l'ombelico a scuola mica scandalizzo nessuno".

Questo è quanto ha da dirvi Clarissa.
E voi magari le credete.

Passiamo ora al prof. Esso, che stamattina già si è alzato male. Il sabato lavorativo non si addice al prof. progressista: in più, la prospettiva di imbattersi alle nove del mattino nell'ombelico nudo della Cozza gli ha chiuso la bocca dello stomaco a metà colazione.
"E dire", pensa lui, "che la ragazza avrebbe anche un suo stile. Certe acconciature… i golfini che portava l'anno scorso… la Bellei ha copiato un sacco da lei. Eppure…"
Sull'autobus Esso continua a riflettere sull'apparente mistero: ogni anno, 'ste ragazzine si scoprono un po' di più, e lo eccitano un po' di meno. Meglio così, però la cosa è triste, ti dà proprio l'impressione di invecchiare. "Quand'è l'ultima volta che mi sono eccitato per una ragazzina? vediamo…"
Poi gli viene in mente un film, non si ricorda neanche il titolo, ma inglese. Roba da ggiovani – era rimasto sulle poltrone in fondo per paura di imbattersi in qualche alunno suo. Il protagonista, appena disintossicato dall'eroina, andava in discoteca e si faceva immediatamente agganciare da una ragazza, che se lo portava in casa. La ragazza non era niente di speciale, la situazione non era niente di speciale, la scena di sesso niente di niente di speciale. Ma poi -
- Al mattino, quando il protagonista si sveglia, ha una visione abbacinante: la ragazza si sta vestendo. Una gonna blu, una camicia azzurra, e… forse persino una cravatta. Un'uniforme! L'uniforme di una scuola britannica!
In quel momento, il protagonista realizza che è stato sedotto da una minorenne.
E il prof Randolla, appeso al trespolo dell'autobus, ripensandoci ha un timido accenno d'erezione.

Ora che è arrivato sul luogo di lavoro, e ha assistito scuotendo la testa alla manifestazione finto-talebana, se gli mettete il microfono davanti vi dichiarerà:
"Guardate, io mi considero un progressista, ma stavolta mi sento assolutamente dalla parte del mio preside. La libertà non consiste nello scoprire un centimetro in più di pelle, come ritengono questi studenti. Sono loro piuttosto a essere schiavi di una moda sempre più esigente. Qui rischiamo di creare un nuovo tipo di emarginazione, non più sociale, ma estetica: chi non entra in una camicetta, chi non si può permettere di mostrare l'ombelico, resta fuori dal gruppo. Io, fosse per me, re-introdurrei le uniformi, come in Inghilterra. Le ragazze… e i ragazzi, anche i ragazzi, devono capire che a scuola sono tutti uguali, non c'è il ricco e il povero, e nemmeno il bello o il brutto. C'è solo chi si impegna e chi no. Essere uguali davanti a chi vi giudica: questo è il vero senso della libertà".

E questo è quanto ha da dirvi il prof. Esso.
E magari voi credete pure a lui.

FINE


*******

"Un... 'timido accenno di erezione', professore? Chiedo un racconto sull'amore carnale, e tutto quello che ottengo è un 'timido accenno di erezione'?" Questi sarebbe il mio spasimante che fa la ruota?"
"Mia signora, nella mia posizione quel timido accenno è già oltre i limiti della deontologia".
"Hai sbagliato turno: non si parla più di lavoro qui, ma di sesso. Voglio sperare che il tema sia più congeniale al tuo rivale, Bart Taddei... a proposito, Taddei, che notizie ci porti dalla palestra della mia residenza ormai deputata a lazzaretto?"
"Non buone, mia signora: nessun antibiotico sembra fare effetto sui malati, che..."
"Sì, beh, questo si era capito. Ma insomma in quando pensano di sgomberare? Dovevamo fare training autogeno. Non dovrebbero metterci molto ormai"...
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Storia di Carola e di sua sorella

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(Introduzione)

Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questa senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.

Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il diletto marito abbrancato a una robusta domestica circassa?

Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”

Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincronia il suo cuore intermittente.

Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.

Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.

Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma è il Tempo piuttosto a prendersi gioco di lui? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato... (continua)
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Ana contro Ana

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Adesso magari qui non si vede proprio bene, ma questa rivista sta fieramente conducendo una campagna contro l'anoressia, andando alla radice del problema. E alla radice non ci sono certo le riviste di moda (ci mancherebbe altro) ma nemmeno le famiglie (un po' passée anche quest'abitudine di incolpare le famiglie), bensì... indovinate cosa c'è alla radice di tutto il problema, indovinate.

Ci sono i blog. Vogue vuole la vostra firma per chiuderli. I dettagli sull'Unità.it. Commentate laggiù.

Se vi dicessi che qualche giorno fa mi hanno chiesto di aderire a una petizione di Bob Marley contro i fumatori di cannabis(1), mi credereste? E a una raccolta di firme lanciata da Valentino Rossi contro i motociclisti che fanno rumore e inquinano? Oppure una raccolta di firme contro la piccola criminalità, patrocinata da Matteo Messina Denaro? No, in realtà volevo dirvi che mi hanno chiesto di firmare una petizione contro i siti pro-anoressia; petizione lanciata da Franca Sozzani, gloriosa direttore di Vogue Italia. Non sto scherzando. Bob Marley che ti chiede una firma contro le canne, quella ero uno scherzo. Franca Sozzani che combatte l'anoressia on line è una cosa reale.

E siccome l'anoressia è cosa fin troppo reale, non ci scherzerò sopra ulteriormente. Quello che mi interessa è capire. Per molti anni, ogni volta che un esponente del mondo della moda (stilista o giornalista) veniva invitato a un dibattito televisivo su questa malattia, la sua linea di difesa era più o meno la stessa: la colpa non è della moda, la moda non c'entra, le modelle magre valorizzano i vestiti, ma quelle anoressiche vengono licenziate, è tutta colpa della famiglia, certi genitori sono pazzi. Le cause dell'anoressia risiederebbero nelle carenze affettive; il fatto che molte vittime dell'anoressia sfoglino riviste come Vogue sarebbe un sintomo, non una causa. L'ideale di una bellezza tanto ossuta quanto lontana dalle misure standard delle nostre adolescenti, propagato dalle riviste di moda, non avrebbe nessuna conseguenza sul fatto che alcune di queste adolescenti rifiutino il cibo e facciano diete estreme. Bene, questo è un punto di vista. Discutibile, ma rispettabile.

Però adesso saltano fuori i blog pro-ana, i siti pro-anoressia. Che esistono, per carità: sono anni che gli esperti li studiano. Sono i diari on line in cui si racconta con dovizia di particolari come fingere di mangiare, come vomitare, quali lassativi assumere, e così via. Ecco, per Franca Sozzani questi siti sono pericolosi, perché sono alla portata di tutti. Esattamente come le copertine di Vogue e degli altri magazine di moda. Ma i magazine di moda non dovrebbero avere alcun effetto sulle adolescenti; i siti pro-ana sì. Com'è possibile? Se sbatti in prima pagina un mostro ossuto su una rivista patinata con una tiratura di migliaia non ottieni nulla; se metti lo stesso mostro ossuto su un piccolo blog con cento lettori diventi un pericolo? Non è un tantino illogico?

Mi spiace, non firmerò la petizione. Anche perché non mi è chiaro in che modo migliaia o milioni di firme possano ottenere “l'obiettivo finale di chiudere questi siti”. Non è che su internet non valgano le leggi del mondo reale: se un blog commette un reato nel Paese in cui è stato registrato (il che equivale più o meno ad ammettere che in quel Paese esistano reati di opinione), può essere chiuso dall'autorità senza bisogno che nessuno ci metta la firma. Purtroppo abbiamo scoperto che in Italia un blog si può chiudere per molto meno, anche soloper il sospetto di un inquirente. Detto questo: difendere l'anoressia, in Italia, è un reato? Se sì, le firme non dovrebbero servire; se no, qualcuno ritiene che dovrebbe esserlo? Ogni tanto si potrebbero raccogliere le firme per proporre una legge, invece che per obiettivi un po' fumosi come quello di chiudere “migliaia di siti” (che possono benissimo riaprire il giorno dopo su server e con domini diversi).

E tuttavia bisogna ringraziare la Sozzani, non soltanto per l'attenzione che dedica al problema dell'anoressia, ma anche al piccolo mondo dei blog, che sembra sempre sul punto di passare di moda: e invece guardaci, siamo su Vogue. Eppure c'è sempre qualcuno che tira fuori quella vecchia storia per cui i blog sono out, i blog sono il passato di internet, il futuro è second life (nel 2007), twitter (nel 2009), facebook (adesso), eccetera. In effetti i blog sono un fenomeno ormai antico, eppure sono quelli che fanno più paura di tutti. Nelle prime righe della petizione sembra che la Sozzani voglia soprattutto scagionare facebook, nel momento in cui qualcuno comincia ad accusarlo di essere la “causa principale dell'anoressia”. Per lei non è possibile “che un network da solo possa prendersi carico della diffusione di questo fenomeno”: basta studiare e documentarsi per scoprire che sotto il network esistono “migliaia di siti e blog pro-anoressia”. Si potrebbe anche ipotizzare che la Sozzani decida di prendersela coi blog perché sono i più sfigati, ormai, mentre il popolo di facebook va tenuto buono...

Ma io preferisco pensare che il Direttore stia riconoscendo quello che altri non ammettono più: Facebook non può essere la causa scatenante di nulla, perché Facebook è solo una rete che socializza i contenuti; ma i contenuti sono altrove. Li fanno i blog (e quindi no, professor McLuhan, il medium non è esattamente il messaggio; perlomeno le due cose non coincidono). E di questo voglio ringraziare Franca Sozzani, a nome di tutta la categoria di blogger, compresi i diari on line delle anoressiche, dei bombaroli, degli erotomani e di quelli che sognano di avere storie sentimentali con animali pelosi immaginari (esistono): i contenuti, belli o brutti o pericolosi che siano, in rete ce li mettiamo noi. Certo, ormai dipende solo da facebook o da twitter se qualcuno li legge o no. Però chi li produce siamo noi. Grazie, direttore di Vogue, per avercelo riconosciuto.

Io poi resto convinto che qualche contenuto lo producano anche i giornalisti, e perfino quelli di moda; e che un contenuto preciso (grosso modo “magro è bello”) lo contenga anche un mostro ossuto in prima pagina su una rivista patinata. Che sta in edicola, o in sala d'aspetto, o sul tavolino di casa, dove anche un adolescente (con carenze affettive, certo) può dare un'occhiata. Ma questa resta solo una mia teoria.

(1) Courtesy of Livefast
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Barbie e Cleopatra

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Insomma, è successo: mentre l'Africa sanguina, io ho scritto un pezzo su Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis. Però leggetelo, è davvero bellissimo, come direbbe lui.
Barbie Ballerina contro Cleopatra a Sanremo è on line sull'Unita.it, e si commenta... su Facebook, come tutti i pezzi sull'Unita.it d'ora in poi. Tanto un account su FB ce l'avete ormai tutti quanti, no? Insomma, probabilmente è la soluzione più snella. Per stavolta comunque tengo aperti anche i commenti qui sotto, vediamo come va.

Una volta era davvero tutto più semplice. Per rappresentare le donne a Sanremo bastava la par condicio tricotica: la Bionda e la Mora. La coppia di vallette di quest'anno è stata scelta con una simbologia ben più raffinata, anche se probabilmente inconscia. Così, al primo sguardo, avremmo potuto dire: la Straniera e l'Italiana. In realtà il confronto è più complesso, stratificato: Belen Rodriguez è l'argentina che trova l'America in Italia; Elisabetta Canalis, la soubrette che dall'Italia si proietta verso Hollywood. Cominciamo quindi col registrare la minore benevolenza del pubblico nei confronti della compatriota che spicca il volo, rispetto all'aliena che atterra: quasi che le regole del desiderio e dell'invidia (i due sentimenti che ci hanno tenuto davanti al video a guardarle) seguissero leggi speculari a quelle del buon senso quotidiano, che ci portano ad aver paura degli immigrati e a esortare figli e amici a viaggiare, a trovare la propria strada anche fuori dal Paese. E invece siamo così grati all'extracomunitaria Belen di essere scesa tra noi, e così invidiosi che la Canalis abbia fatto il salto...

Se un giorno qualche studioso vorrà sintetizzare la condizione della donna nella società dello spettacolo in Italia a cavallo dei due millenni, probabilmente isolerà il caso di Elisabetta Canalis, anche solo per l'esemplarità del suo cursus honorum: proprio mentre la “velina che sta col calciatore” diventava un luogo comune delle conversazioni anni Novanta, Elisabetta Canalis ballava gli stacchetti di Striscia la Notizia e si fidanzava con Bobo Vieri. Il Sogno Italiano Standard, di milioni di fanciulle cresciute negli ultimi quindici anni, si realizza in lei, e al termine del sogno c'è il matrimonio con l'uomo-più-sexy-del-mondo. Tutto perfetto, salvo un orribile dettaglio: nulla è credibile. Sì, ormai ci siamo rassegnati e rassegnate: la Canalis sta davvero con George Clooney. Ma resta poco credibile lo stesso: sembrano fuori fuoco anche nelle foto di passerella, come se intorno a loro una bolla di sapone attendesse di scoppiare da un momento all'altro: tanto che quando Silvio Berlusconi consigliò a Ruby di spararle grosse, la panzana più enorme che venne in mente alla giovane incallita mentitrice fu proprio evocare l'incredibile coppia del lago di Como: cosa c'è di meno probabile di una cena a cinque con Silvio, la Santanché, George ed Elisabetta?

Insomma, non ci crediamo. Non perché non sia vero, ma perché non vogliamo crederci. Se Elisabetta è l'una su mille che ce l'ha fatta, noi siamo i 999 che tiferemo fino alla fine contro di lei, continuando a scommettere che la bolla scoppi presto, a gioire per gli infortuni di percorso. Anche a Sanremo, non ci bastava che presentasse le canzoni e sorridesse, come qualsiasi altra valletta professionale. No, lei era convocata per un esame: doveva dimostrare alla commissione del popolo italiano che aveva maturato una buona conoscenza della lingua inglese. Senza la quale, è sottointeso, resta una legnosa Barbie Ballerina che mai George potrà amare veramente. Elisabetta è l'Italia che si crede - chissà poi perché - migliore di noi, e quindi dev'essere umiliata, punita, messa di fronte all'inconsistenza delle proprie pretese: se ne devono mostrare in eurovisione tutti i difetti: solo allora spegneremo il telecomando, sazi e rassicurati nella nostra mediocrità.

Dall'altra parte c'è Belen Rodriguez: la donna straniera, che viene da lontano, a cui non si chiede che di essere quello che è: e quindi ballerà il tango, suonerà la chitarra perché lo ha imparato in famiglia; sarà docile e si farà abbracciare e rimirare da tutti. Sarà anche per il bombardamento televisivo degli ultimi mesi, ma è oggettivamente difficile anche per un telespettatore distratto come me vedere la Rodriguez e non pensare alle decine di sudamericane e nordafricane che negli ultimi mesi sembrano aver soppiantato, nel cuore del premier, le donne italiane. È solo una libera associazione del nostro inconscio, che non è mai innocente; in realtà Belen non fa parte di quel mondo, se non per una curiosa proprietà transitiva: ha legato il suo destino a quello di Fabrizio Corona, che lo aveva legato a quello di Lele Mora, che lo ha impigliato a Silvio Berlusconi. Sia come sia, scendendo sul palco dell'Ariston Belen finisce per rappresentare il supremo trofeo: e l'ombra che proietta sulla platea allude forse alla decadenza di una civiltà. Si sa che abbiamo puntato tutto sulla famiglia, noi italiani: altrove si aiutavano i figli a uscire di casa il prima possibile, noi abbiamo preferito mantenere sontuose pensioni ai genitori. In realtà lo spaghetti-welfare per un po' ha funzionato: bastava che i figli avessero un po' di pazienza e avrebbero ereditato le sostanze dei padri. La sabbia nelle macine del sistema l'hanno messa queste conquistatrici straniere bellissime e disponibili a prezzi modici, leste a intercettare i risparmi del nonno e a farsi intestare i beni che avrebbero dovuto spettare al nipotino.

Così, forse abbiamo tollerato che Berlusconi ci derubasse del nostro futuro, finché era implicito che prima o poi lo avrebbe reso ai nostri nipoti. Quello che forse non potremo perdonargli è che lo stia devolvendo alle straniere, buttandolo via: ora persino chi fino al Noemigate sosteneva di non voler fare il moralista, si domanda se non sia il caso di interdire il nonnetto che fa il bunga bunga con presunte nipoti di leader extracomunitari. Il personaggio Belen incarna tutto questo: è la Cleopatra che sedusse Cesare e travolse Marco Antonio, a cui il prossimo imperatore dovrà mostrare di saper resistere. Ma non se ne vedono, all'orizzonte. Solo una generazione di barbie ballerine, cresciute nel sogno cantare, recitare, sfondare, fidanzarsi con un VIP; mentre i loro coetanei su internet cercano la loro cleopatra, docile e sorridente, a un prezzo sostenibile. http://leonardo.blogspot.com
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Il peggio di Leonardo 2010 (2)

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Quello che sto facendo, disse il vecchio, è una cosa sommamente reazionaria. Parlare di contatori, di accessi, nel 2011! Molti lo hanno addirittura tolto, il contatore, o finto di. A un certo punto – più o meno verso il 2005, quando gli accessi hanno smesso di crescere in modo rettilineo – ci siamo convinti che i dati dei contatori non fossero attendibili, o comunque interessanti. L'unico modo di valutare l'importanza di un blog era il ranking, e siccome quallo lo decideva google senza spiegarci il perché, e non c'era insomma modo di specularci su – abbiamo iniziato a sviluppare ranking alternativi, classifiche basate sui link. Più uno era linkato, più era importante. Notate che essere i più linkati non significa necessariamente essere i più letti: i tumblr per esempio non fanno che linkarsi, ma portano pochi accessi; per contro ci possono essere personaggi più o meno sconosciuti fuori dalla loro cerchia che hanno comunque accumulato zoccoli duri di migliaia di lettori. Ma questo era abbastanza irrilevante. Stare in classifica significava semplicemente essere al centro della nuvola. Poi però secondo me la nuvola si è dissolta, oppure è entrata in un'altra nuvola più grande, insomma, la butto lì, ma secondo me da facebook in poi le classifiche hanno smesso di avere senso. Non segnalano più il vero traffico, che oggi passa per i social network ed è oggettivamente molto più difficile da tracciare. Ma insomma, il mio pezzo più linkato su blogbabel risale al 2007, votate Rosy Bindi alle primarie del PD, rendetevi conto. È possibile che non abbia più scritto nulla di altrettanto interessante? Voglio dire che l'altra sera, mentre mi addormentavo, ho scritto un pezzo praticamente con un occhio solo, mi è uscito un po' approssimativo, ebbene, nel giro di due giorni quel pezzo ha totalizzato più di tremila accessi, se fossimo ancora nel 2010 sarebbe a metà di questa classifica, e stavolta non è neanche servito facebook, sapete cos'è successo? L'ha linkato Ok No Virgilio, esatto, esiste ancora, e se ti trova qualcosa d'interessante ti manda tremila accessi in due giorni. Ma le classifiche non se ne accorgono. Ma a questo punto vale la pena, mi chiedo, accorgersi delle classifiche? Ci rispondiamo da soli: abbiamo smesso di leggerle, piuttosto andiamo su friendfeed a contare i like. Comunque secondo Google Analytics i cinque pezzi più letti del 2010 sono i seguenti:

5. Cattiva Giovanna
Io non ho cambiato idea: lo spot è divertente e autoparodico, e non offende il corpo delle donne più di quanto non prenda per il culo il desiderio maschile (le donne dello spot sono vestite, brave a verniciare, fanno tutto loro, il maschio è un pirla guardone). Però probabilmente in luglio non avevo idea della posta in gioco. Insomma, c'è una guerra, là fuori, e gli spot beceri sono campi di battaglia. Poi un bel giorno arrivo io, pretendo di fare il solito pezzo semiologo un tanto al chilo, fenomenologia del fernovus + abbasso qualsiasi censura, e scoppia il casino. Lì si è vista la potenza di facebook, perché un certo pubblico qui non c'era mai arrivato. Hanno lasciato cose fantastiche, una mi ha scritto che le donne non fanno più le serve, al sud ce ne sono che portano i camion. Mi hanno detto che non potevo costringerle a vedere questo spot – in effetti no, non posso e nemmeno ci tengo, ma forse vi sfugge il problema: al massimo siete voi che avete costretto me a non vederlo più in tv. Va bene, ho sbagliato, volevo far salotto nel bel mezzo di una guerra. Del resto avete ragione, tutti questi culi e queste tette sono una vergogna – però spiegatemi perché Brava Giovanna siete riuscite a rimuoverla mentre il sedere di Belem è rimasto sodissimo al suo posto. Ah, no, pare che lo stiano togliendo. Ok, state vincendo, mi arrendo.

4. Uno, cento, mille Cossiga
Non si sa mai cosa può decidere il successo di un pezzo, ma in generale non è quasi mai quello che c'è scritto sopra. Certe volte è il titolo. In questo caso piuttosto le foto. In margine a un articolo tutto sommato sensato in cui si ipotizzava la presenza di infiltrati alle manifestazioni studentesche, le foto di un manifestante ragazzino che durante gli scontri di Milano sembrava collaborare con la polizia, foto che anche grazie a questo sito hanno fatto il giro d'Italia. Di solito non cancello gli errori che faccio, mi sembra giusto che finiscano nell'archivio anche loro. In questo caso le foto le ho tolte, perché mi è sembrato che danneggiassero il messaggio. Si è saputo che quel ragazzo non era un infiltrato, ma appunto, il pezzo diceva che chiunque può essere infiltrato senza volerlo: basta fare esattamente la cazzata che si aspettano che tu faccia. Cossiga insegna, dobbiamo esser fessi per non voler imparare.

3. Nella polvere ci ritroveremo
In gergo si chiama OS war. Scrivere un pezzo anti-Apple, o filo-Apple (ma funzionano meglio i primi). Come sparare ai pesci in un barile, salvo che i pesci fanno un po' pietà, i fanboy Apple no, nessuna. Diciamo che è troppo facile così, diciamo che a ogni blog è concesso scrivere un pezzo del genere una volta ogni cinque, vah, dieci anni. È una promessa. NdB da un anno a questa parte ho rotto solo un laptop e un disco mobile.

2. Alle mie quotidiane verginelle
Pezzo di berlusconologia emotiva. Ve l'ho detto, questa roba invecchia in fretta, ma se la scrivi al momento giusto è irresistibile. È buffo, a distanza di mesi è difficile ricordarsi di cosa si trattasse – dunque, il PdL era stato escluso dalle elezioni della regione Lazio per un problema di timbri, ed era partita tutta una mobilitazione stile Repubblica, Noi Non Ci Stiamo, Noi Abbiamo Sempre Avuto Tutti I Timbri In Regola (che posso dirvi, beati voi), Fotografiamoci con il nostro certificato del  catasto in ordine. Insomma, si sentiva nell'aria la necessità di un pezzo cinico. Questo è stato anche segnalato dal New York Times, che deve avere un algoritmo strano; ho persino provato a tradurlo, non so se ci sono riuscito.

1. Eliminato
In un anno in cui ci hanno lasciato, tra gli altri, Beniamino Placido, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, Edoardo Sanguineti, Bekim Fehmiu, Lelio Luttazzi, Cossiga, Monicelli, Bearzot, l'unico coccodrillo a finire nella top 10 (ma al primo posto) è quello su Pietro Taricone. Anche in questo caso il titolo ha fatto discutere, per via del cinismo. Ecco, vorrei dire che a volte io faccio tutto il possibile per sembrare cinico, ma stavolta mi è venuto spontaneo, non me ne ero assolutamente reso conto. Il titolo l'ho trovato alla fine, era la conclusione di un ragionamento che stavo facendo: il vero show Taricone lo ha giocato dal 2001 in poi, quando uscito dalla casa ha smesso di “essere sé stesso” per cercare di diventare qualcosa di migliore. Ogni tanto ci capitava di ritrovarlo, al tv, o al cinema, e in generale si faceva il tifo per lui, sembrava che potesse farcela. E poi un giorno ha smesso di esserci, di colpo; e la cosa mi fa ancora, se ci penso, una certa impressione. Eliminato. Non volevo offendere nessuno, non mi pare ci sia niente di male nel prendere la vita come un gioco. Mi sembra perfino una bella epigrafe, “eliminato”, personalmente non la vorrei sulla mia tomba, ma solo perché non sento di meritarmela: mi sembra piuttosto (soprattutto se mi confronto con uno come Taricone) di essere un panchinaro storico. Fine della top10.

Non trovate che manchi qualcosa?
Io sì. I pezzi belli. Ecco, tra i dieci più letti, o segnalati, o visitati, non ce n'è nessuno che avrei votato io. Sembra proprio che abbiamo gusti diversi: a me piacciono i raccontini, ai lettori le parolacce. Veniamo a un compromesso: raccontini con più parolacce? Non so, ditemi voi.
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Ma quest'Africa, poi, dove sta?

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Professione Disastro

Quello che è riuscito a fare Walter Veltroni nelle ultime settimane è incredibile. Stupefacente anche per chi pensava di conoscerlo un po', Walter Veltroni; di essersi assuefatto, a Walter Veltroni. No. Veltroni ha questo, che riesce a essere sé stesso e a stupirti lo stesso sempre.

Vogliamo riassumere? Due settimane fa - Silvio Berlusconi era già discretamente a mollo nelle sue stesse secrezioni - Veltroni pensò bene di convocare un'adunata della sua corrente, un Lingotto Due dove lanciò, tra le altre, l'idea fantastica di una patrimoniale. Fantastica, sì, peccato che la presentò in un modo per cui praticamente la dovremmo pagare un po' tutti, la patrimoniale di Veltroni. A questo punto, ed è un'incredibile coincidenza, no? Un vecchio amico di Veltroni, praticamente uno di famiglia, Giuliano Ferrara, si è scrollato di dosso la polvere clericale che si era accumulata in anni di abbandono, ed è tornato a contare qualcosa nello staff berlusconiano. Esempio commovente di topo che non abbandona la nave che affonda, Ferrara ha scritto per conto di Berlusconi una commovente letterina in cui scongiura Bersani di non fare la patrimoniale. Bel colpo, no? Bersani (che ovviamente ha dovuto respingere la proposta) si è ritrovato cucito addosso una patrimoniale che non era nel programma del PD. La ha anche sconfessata pubblicamente a Ballarò - troppo tardi, tra un po' si va a votare e il PD sarà presentato come il partito che vuole carotare tutti gli italiani con una casa di proprietà. Tutto questo dimostra che Ferrara non è ancora un vecchio arnese, e poi? Che altro dimostra? Ah, sì. Che Veltroni è... Veltroni. Ma si può essere più disastrosi di Walter Veltroni? Si può fare? Qualcuno può superarlo?

Ma certo che si può. Veltroni stesso, ad esempio: lui può. Non c'è limite. No limits. Ieri è morta la dolce Maria Schneider, e voi direte vabbe' che c'entra. Cosa vuoi che c'entri. Assolutamente nulla, uff questi blog che saltano dal palo alla frasca. Sì, ma aspettate. Vi ricordate, vero, che Veltroni è uno studioso di cinema? Che ne conosce a mucchi, di cinema? Che scriveva le trame dei film in tv per il Venerdì, nello stesso periodo in cui faceva non so se il Ministro alla cultura o il Vicepremier o il segretario dei DS al minimo storico o tutte e tre le cose? Ebbene, Veltroni ha voluto scrivere il coccodrillo per Maria Schneider. Bene: è un esperto, scriverà cose belle su di lei. Bof. Cinque righe, non molto originali, senza un solo apprezzamento per le sue qualità di attrice.
Maria Schneider era bellissima. Di una bellezza assai rara. Era sfrontata, con il suo corpo rassicurante. Era angelica, con quello sguardo da adolescente impertinente. La sua sensualità era moderna, un impasto di solitudine e nevrosi. Era, esteticamente, figlia del ‘68 e della rivoluzione femminista. Era una ragazza del suo tempo. Un tempo giovane, per la vecchia Europa.
Par di capire che era bella e basta. Ma aspetta. Dove sta andando a parare?
Ci pensavo guardando in queste ore le immagini delle rivolte nel Nord Africa. In piazza sono tutti giovani, segno di società dinamiche. Ma, in piazza, sono tutti uomini. Indice di comunità che negano diritti fondamentali e protagonismo alle donne.

No, ma sul serio? Quindi insomma Walter "Vado-in-Africa" Veltroni non ha la minima idea di quello che sta succedendo al Cairo? E ci tiene comunque a dircelo? A lanciare il suo messaggino di ignoranza benpensante ad usum del lettore della Stampa, affinché tutti noi possiamo, domani, al bar, sentire più forte e chiaro il tizio che Signora mia, se va via Mubarak quelli metteranno le donne sottochiave? Roba che neanche Christian Rocca, ormai?

Via Lia, allego una gallery di foto di donne che stanno manifestando al Cairo. Adesso. Si trovano su Internet, una rete di condivisione delle informazioni di cui forse Veltroni non ha sentito ancora parlare. Va bene, non importa, è ancora un giovane, diamogli tempo, ne abbiamo così tanto.
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Secoli di secoli di frrrrrrrrrrrr

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Attenzione: Questo pezzo contiene lessico piuttosto esplicito. I minori possono leggerlo solo se accompagnati.

Toc toc.

“Chi osa bussare alla Cripta del Creativo?”
Dunque, ecco io... avevo un appuntamento, rappresento un consorzio di pellai...”
“Parola d'ordine”.
“Chi mi ama mi segua”.
“Puoi entrare”.
“Grazie. Dunque, non so se ci siamo presentati al telefono, io... vengo a nome di questo consorzio di pellai che vorrebbe rilanciare la propria immagine e così... avevamo pensato di rivolgerci al Sommo...”
“Guarda, personalmente a me non fotte una sega di chi sei e cosa vuoi. Basta che tu abbia portato ciò che ci occorre. Hai il sangue?”
“Ma certo, ecco qui. Sette litri di sangue di vergine”.
“Bella tanica. Sicuro che è di vergine?”
“Eh, mi fa una bella domanda”.
“Perché se non è di vergine poi succedono i casini. Gruppo sanguigno?”
“Ecco, appunto, io... non volevo rischiare, e così ho preso un misto”.
“Mmmh. Ce lo faremo andar bene. Seguimi nel fondo della cripta, occhio al...”
“Ouch!”
“...Terzo capitello a destra, vedo che lo hai già incontrato”.
“Certo che fa freddo qui”.
“La temperatura ottimale per la conservazione. Eccoci arrivati. Il Sommo è lì, oltre la soglia di questo portale funerario. Sei pronto a incontrarLo?”
“Ho i brividi”.
“È comprensibile. Dunque, per prima cosa: non parlare e non Lo guardare negli occhi finché non Gli avrò somministrato il sangue. Solamente dopo, forse, potrai parlare. Ehi, ma ti senti bene?”
“Io... cerchi di capirmi, l'immagine del mio consorzio dipende da questo meeting”.
“Fidati di noi, sei in buone mani. Ora entriamo”.


Screeeeeeeeeeeeeeeeak


“Dio mio”.
“Dio non c'entra molto, come puoi ben capire. Non guardarLo!”
“Ma... non mi sembra che respiri”.
“Sssssssssssssst! Non ne ha bisogno! Ora Gli apro la bocca... uff, non viene. Certi giorni è proprio duro... Senti, dammi una mano”.
“Eh? Cosa devo fare?”
“ReggiGli la testa mentre cerco di aprirGli la bocca... su”.
“Ma non morde?”
“In linea di massima no”.
“Dio mio, chi potrebbe crederci, io sto... sto tenendo in mano la testa del Maestro”.
“Dio non c'entra niente, ribadisco. Ecco, ora infilo l'imbuto, tu versa pure dalla tanica”.
“Sette litri di sangue? Ma non sborderà?”
“Eh, anche a me sembrava strano le prime volte. No, è insaziabile. Guarda come va giù, non ne lascia un goccio”.
“Certo che è una dieta costosa, eh”.
“Vale tutti i soldi che è costata, come ben sai. Ecco”.
“Sta... sta cambiando colore!”
“Allontanati, adesso può mordere”.
“Si sveglia?”
“Non è mai veramente sveglio, e non è mai veramente... in sonno”.


Wrgrwgrgrgrggrgrg”.


“Sta parlando! Cosa dice?”
“Nulla di intellegibile per ora. Parla tu”.
“Ma cosa Gli devo dire?”
“Adulalo. È assai sensibile ai complimenti”.
“Sì, dunque, ehm.... O Maestro, o Luce dell'italico ingegno”.


Wgggrrrgrgrgrgrgrgr


“Vado bene?”
“Vai, vai, ti ascolta”.
“O Creativo dei Creativi, anzi, unico Creativo Italiano, del passato del presente e del futuro; nulla esisteva prima di Te, nulla sussiste dopo di Te, se non copiato da Te...”




Wgrrgrgrgrgrgccccucucucuc”.


“O Sommo Maestro, fosti tu e tu solo a rivoluzionare la pubblicità italiana, con quel cartellone di cui ancora oggi tutto il mondo parla, la campagna per i jeans... tu solo sapesti trovare l'immagine adatta al prodotto”.


WrrgrgrgrgrgrgrgrgcccccCULO!


“Vai bene, vai bene, lo hai svegliato.”


“CULO! grgrgrgr CULO! CULO!”


“O Maestro, come possiamo ricordare una per una le tue geniali innovazioni... le centinaia di campagne in cui tu mostrasti al mondo le...”


wrgrrgrgrggrg PUPPE!”


“Le nuove frontiere del comunicabile”.


“TETTE!”


“...Sì, anche quelle, sì”.


CHIAPPE! Werrghgewheg. CHIAPPE!”


“O Maestro, passano gli anni, eppure il tuo sguardo puro sul mondo non si appanna e ci regala sempre nuove...”


TETTE!”


“...Formidabili campagne, tra le quali vorrei ricordare quella meravigliosa elaborata più di dieci anni fa per Famiglia Cristiana”.


“CHIAPPE!”


“...E quella ancor più geniale, elaborata dieci anni dopo, per l'Unità”.


CHIAPPE!”


“O Maestro, così pura e originale è la tua arte, che tu riesci a trasformare in un capolavoro anche un'affissione di cibo per cani, mostrando...”


PUPPE!”


“Che il tuo genio non decade con gli anni. Ebbene, è a te – e a chi altri? – che ha pensato il mio consorzio, o Sommo”.


CU-LO! TET-TE! CU-LO! CU-LO! TET-TE!”


“Maestro sì, forse siamo stati troppo impudenti a ricolgerci a Te, che hai lavorato con i più grandi maestri del....”


“CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE CULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTECULOTETTE


“...d'altro canto, o Sommo, che dovevamo fare? Rivolgerci a un giovinastro? a un cialtrone dilettante che senz'altro avrebbe copierebbe una Tua idea?”


“IDEA?”

“Ehi, ha detto Idea, hai sentito?”
“Sì, capita”.


“TETTE!”


“... e quindi insomma, Maestro dei Maestri, Tu solo hai parole di successo sempiterno, ed è Te pertanto che prostrati supplichiamo di rinnovare la nostra immagine”.


“IMMAGINE?”


“Sì”.


“TETTE-TETTE-TETTE-TETTE!”

“Sento che stai già elaborando qualcosa, o Maestro. Vedi, noi del consorzio pellai, stavamo pensando a un calendario, e così...”


“TETTE!”

“Sì, maestro, ho capito, le tette, un'idea senz'altro interessante, però... Maestro, noi vorremmo qualcosa di nuovo”.


“PUPPE!”

“...perché francamente, adesso, non vorrei offenderTi, però... un calendario con le puppe, da qualche parte... s'è già visto”.


“CHIAPPE!”

“Ecco, Maestro, sì, le chiappe, che idea brillante, perché no... e tuttavia...”


“CHIAPPE-CHIAPPE-CULO-CULO”.


“Insomma Maestro, io non so se ti rendi conto di quanto mi costa questo meeting, in termini di sangue di vergine al litro”.


“WRG? RGR?”


“Ops”.


“GRGRGGRGRGRGRGRG!”

“Ehi, attento a dir così. Lo ecciti”.
“Il fatto è che... insomma, Maestro, io credo tantissimo in Te... Possibile che Tu non abbia un'altra idea, qualcosa di veramente nuovo? Sono realmente venuto qui soltanto per sentirti dire Culo e Tette? Per carità, non dico che siano brutte idee, ma...”


“Wrrrhgrgrgrggrrgrgrgrgrf f ff f ff”

“E adesso cosa fa?”
“Non lo so. Mi sa che lo hai offeso”.
“Ah sì?”
“Nessuno gli aveva mai osato rispondere come gli hai risposto tu. Hai avuto del coraggio”.


“Rrgrgrgrgrf f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”


“Si sta addormentando, forse”.
“No. Mi sembra piuttosto che... elabori”.
“Elabora?”


“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff”


“Sicuro che non stia per esplodere?”
“No”.


“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fff”.


“Maestro, ti scongiuro, perdonami per la mia impudenza... non esplodere... non lasciare il mondo orbato di Te, unica fonte di creatività... che mondo triste resterebbe... un mondo senza colori, senza culi, senza tette, senza...”


“f f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f ff f fRRRRRRR! FRRRRRRRRRRRR!”


“Maestro, stai forse cercando di dirci qualcosa?”


“f f ff f fFFRRRRRRREGNA! FREGNA! FREGNA!

“Mio Dio! È successo!”
“Dio non c'entra niente. Dio non c'entra niente”.


“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”


“Ha avuto un'idea. Nuova. E io c'ero. L'ho visto”.


“FREGNA! FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

"C'ero mentre la concepiva, mentre la portava alla luce! Ho assistito al parto, all'illuminazione!”
"Sei davvero fortunato. Non è capitato a molti".


“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Sommo Maestro, se mi è concesso interpretare le Tue parole oracolari, Tu vorresti che nel nostro calendario noi mostrassimo una fregna, è così?”


“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“Geniale. E gennaio è sistemato. Ma, o Sommo, a febbraio che si fa?”


“FREGNA! FREGNA! FREGNA!”

“Fantastico. Uno dopo gennaio si aspetta un'altra cosa, e invece... tac, uno-due, irresistibile. Maestro, Tu sei l'unico vero genio creatore della postmodernità, ma perdonami... a marzo?”


“FICA!”

“Ecco! È chiaro! Due mesi fregna, e poi fica. Devo prendere appunti. E ad aprile?”


“PATONZA!”

“Ma come Ti vengono. Come Ti vengono. Incredibile. Beh, a questo punto è maggio e si potrebbe anche mettere, che ne so, un unicorno che scorrazza in un prato fiorito, che ne pensi?”


“PASSSSSERA!”

“Ma sì, è chiaro, che sciocco che sono. L'effetto sorpresa, chi si aspetterebbe che a maggio mostriamo una passera, e invece noi... e a giugno?”

“FREGNA! PELOSA! FREGNA! GLABRA! FREGNA! NEGRA! FREGNA! ALBINA!”

“E io che ho osato dubitare di Te. Maestro, sei davvero l'Unico e il Sommo”.

“FICA GRINZOSA! FICA SPANATA! FICA QUALSIASI!”

“Penso già ai lanci di agenzia. Le polemiche. I giornalisti. Le femministe. Boxino del Corriere e Gallery di Repubblica assicurati”.

“FICA! FREGNA! FICA! FREGNA!”

“E mediante questa accorta strategia mediatica, noi presto raggiungeremo la...”

“FREGNA! FREGNA! FRFRFRRRRRRRRRRRRRR!”

“L'attenzione del nostro target. Maestro, vale ogni goccia del sangue che ho versato, questa idea che...”

“IDEA?”

“Sì, Maestro, una grande, grandissima Idea.

“FREGNA!”

“Appunto. Lunga vita a Te, Maestro”.

“VITA?”

“Se così si può chiamare, non lo so”.

“FREGNA!”

“Mi auguro comunque che possa durare nei secoli dei secoli”.

“SECOLI!”

“Sì”.

“FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! FREGNA! SECOLI! SECOLI NEI SECOLI DI FREGNA! FREGNA FREGNA FRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr
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Bunga bunga bufala

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Alla fine, se prendi una marocchina scappata di casa e diventata quasi maggiorenne tra la mensa della Caritas e i privè, e le chiedi di raccontarti una storia, lei che ti fa? Che ti può fare? Ti mette insieme quel poco che sa del mondo per averlo letto sotto le foto di Chi: Clooney, la Canalis, la Santanchè, e per regalo Silvio mi fece... boh, un'Audi r8, diciamo. E noi ci caschiamo.


Ho una teoria #47 (il Bunga-bunga è una bufala) è solo sull'Unita.it, e si commenta qui.

Ognuno alla fine è libero di credere in quel che vuole: io, per esempio, in Karima "Ruby" El Mahroug non ci credo. Non credo al bunga-bunga, né ai 7000 euro o all’Audi di Silvio-Caritas. Non credo a nessuna delle versioni che ha fornito, e diffido preventivamente anche in quelle che fornirà di qui in poi. Le sue ex compagne di classe messinesi, intervistate ieri dall’Unità, suggerivano di non credere al 90%: io mi cautelo e getto anche il restante 10%. A farmi dubitare di ogni parola mi basterebbe il racconto del suo terzo incontro con Berlusconi (già abbondantemente ritrattato, ma ci fa capire chi ci troviamo davanti): una cena di sogno in cui Ruby si mette a tavola con Silvio, Daniela Santanchè… George Clooney ed Elisabetta Canalis. Non mi dilungo sui vari motivi per cui un adulto un po’ informato non dovrebbe trovare plausibile una tavolata del genere. Mi domando, piuttosto: a chi può venire in mente di inventarsi una patacca così? A una escort di lusso? No. A una cortigiana di alto livello? No. A una ragazza sotto stress, costretta ad attingere a quel poco che ha imparato del mondo sulle rivistine di gossip? Più probabile. 

In fondo tutto quello che ci restituisce Ruby non è che un collage di foto sforbiciate da un’enorme rivista. La foto di Clooney-con-la-Canalis è quella che stona più delle altre, anche se Ruby è un po’ troppo piccola per farci caso. L’Audi R8 è presa di pacca da qualche pubblicità: il regalo più incongruo che si possa fare a una minorenne non patentata, ma tanto ci beviamo di tutto: inquirenti, giornalisti, lettori; non avremmo nessun motivo per credere in tutto questo. Anzi, in fondo sappiamo che probabilmente di vero non c’è quasi nulla: ma ci piace lo stesso. Ci riconosciamo. La rivista che sta sfogliando Ruby è anche la nostra. 

E il bunga-bunga? Possiamo realmente immaginarlo nei dettagli forniti da Ruby? Tutti nudi tranne lei, che serve un Sanbittèr a Berlusconi? Se davvero il bunga-bunga è una pratica diffusa da almeno un paio d’anni nell’ambiente degli scambisti, è molto più semplice pensare che Ruby ne abbia sentito parlare in quell’ambiente. Per quel che sappiamo dei gusti del presidente (e da un paio d’anni ne sappiamo molto più di quanto dovremmo), l’uomo, memore della sua antica carriera di talent-scout, ama seguire i primi passi in società di ragazzine non necessariamente maggiorenni; quando però si tratta di andare al sodo preferisce l’esperienza di donne "vissute" come la D’Addario. In realtà, se Ruby è mai stata una sua protetta, lo è stata per un periodo molto breve. Prova ne è che a pochi giorni da quel famoso arresto, Ruby si sia trovata di nuovo in questura; e che nessuna telefonata, stavolta, nessun consigliere o igienista siano intervenute per salvarla. Ecco, questo è interessante: cosa è cambiato tra il primo arresto e il secondo?

Ho una teoria: la donna veramente interessante in questa storia non è Ruby, ma la sua amica/nemica, Conceicao Santos Olivera Michele, nata in Brasile, classe 1978. Ruby è importante per il premier soltanto finché Michele si preoccupa per lei. Quando viene arrestata per furto il 27 maggio, Berlusconi viene avvisato prontamente: forse addirittura da Michele, che avrebbe un numero d’emergenza per conferire direttamente con lui. (Questa, se confermata, sarebbe la vera notizia, altro che bunga-bunga: c’è una signora brasiliana che ha un numero d’emergenza a cui risponde Berlusconi). Michele riuscirebbe a convincere Berlusconi alla follia di una telefonata in questura, per far consegnare Ruby a Nicole Minetti. Questa a sua volta la riporterebbe immediatamente a Michele. Finché Ruby è con Michele, non corre alcun pericolo: è intoccabile, come la figlia di un Presidente.

Ma quando Ruby litiga con Michele, la "figlia di Mubarak" ridiventa una minorenne scappata di casa come tante. Il 5 giugno in un appartamento della periferia milanese la polizia interviene per interrompere "un litigio tra donne che si ingiuriavano reciprocamente accusandosi di meretricio" (gli stralci del verbale sono stati pubblicati ieri dal Corriere). Ruby riporta "arrossamenti su braccia, schiena e volto", oltre a un labbro gonfio. Sostiene di essere stata malmenata dalla brasiliana, "che indica come sua affidataria". Quest’ultima nega: l’affidataria sarebbe "una cara amica di nome Nicole…", "all’estero e non rintracciabile". Nessuno chiamerà più Berlusconi sul numero d’emergenza per salvare Cenerentola. Se Ruby ha avuto una vera possibilità di entrare nell’harem, se l’è giocata venendo alle mani con la sua vera protettrice. Ma ora che è sotto i riflettori, nessuno può impedirle di immaginarsi a un passo dal presidente, mentre gli serve da bere durante un complesso rituale orgiastico: e poi tutti in piscina, lei "in pantaloncini e top bianchi, che Silvio mi cercò". Può essere vero? Non ha nessuna importanza. Quel che importa è che sia verosimile. E purtroppo per Berlusconi (ma anche per noi) lo è.

Ammesso che cada, Berlusconi non cadrà per il bunga-bunga. Cadrà perché ha promesso miracoli, e non ne ha esaudito uno. Cadrà perché i padroncini della Confindustria si sono davvero stancati; perché il problema della monnezza napoletana è strutturale, e certi interventi dell’ultima ora sono peggio del male. Cadrà perché Fini da anni sta cercando il momento buono, e un momento migliore del bunga-bunga sarà difficile trovarlo. Cadrà perché, se andasse avanti, Bossi dovrebbe vedere il bluff del federalismo fiscale: il solo pensiero ha fatto venire al Senatur voglia di tornare all’opposizione, dove può rimettersi a vendere ai suoi elettori secessioni e rivoluzioni impossibili. Ammesso che cada, Berlusconi cadrà per centinaia di motivi, tutti buoni. Ma tra qualche anno forse ci rammenteremo soltanto il bunga-bunga. Perché è facile da ricordare, come tutte le barzellette. E perché assolve tutti i suoi complici.

Hanno creduto in Berlusconi per quindici anni. Lo hanno sostenuto. Quando c’era una torta da spartire hanno avuto la loro fetta. Hanno finto di non vedere gli abusi, le leggi ad personam e quelle ad aziendam. Hanno voluto credere alla bufala del Silvio Statista (una balla credibile quanto quelle di Ruby), e continueranno a crederci. Non è colpa nostra, diranno, se alla fine si è rimbecillito con le ragazzine. Qualcosa di simile successe al re Salomone: il più saggio, il più grande, eppure il suo regno non gli sopravvisse; crollò quasi di schianto. Possibile che il grande re non avesse nemmeno un difetto? Pare che negli ultimi anni avesse esagerato con le concubine. Ma guarda un po’. http://leonardo.blogspot.com
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Il sexgate di San Martino

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Sarà che anche il cielo è tornato pulito, ma questo rigurgito di sexgate mi ricorda i bei giorni di primavera in cui si scherzava su Noemi e il misterioso tassista di lei padre. Com'eravamo giovani, e ingenui, pensavamo che su argomenti del genere B. potesse perdere le elezioni... beh, a dire il vero qualche punto in percentuale lo ha pure perso, tempo al tempo... mi piacerebbe scherzarci su con l'energia di un tempo, ma la verità è che non è aprile, è Novembre, ho un sacco di roba da fare e vi mando in onda le repliche. Questo pezzo è del 29 aprile '09. Spero sia ancora divertente.

Ma Berlusconi, chi lo scuote più?
Una scossa magnitudo 7 gli fa il solletico: va persino a farsi fotografare tra le macerie; regala la dentiera alla vecchietta, e tutti gli vogliono più bene che prima.
Contro il nuovo blocco al potere, nemmeno l'emergenza rifiuti può nulla. Ve la ricordate? Sembrava che dovesse inghiottirsi Napoli. Ma è bastato spiegare ai leghisti del nord e ai masanielli del sud che gli inceneritori andavano rimessi a regime, e voilà.

No, non sarà un terremoto, né lo smaltimento di rifiuti. In questo momento l'unico punto debole del Pdl, il tallone vulnerabile che potrebbe costargli qualche punticino alle Europee, è

lo smaltimento della gnocca.

Perdonate il sessismo – anzi, no, perché mai dovreste perdonarlo? Accusatelo, fatelo risuonare nei lobi frontali come gesso spezzato alla lavagna, saggiatene la volgarità ottusa alle ironie. La gnocca è un annoso problema di questa maggioranza, di questo premier. Ne consumano troppa, non sanno più dove smaltirla. La spatolano sui palinsesti tv fino all'esaurimento, e ancora ne avanza. Ne hanno stoccata un po' a Monte Citorio, ma adesso per cinque anni il sito è pieno e non possono riaprirlo – e quindi? Si sente parlare di un convoglio che dovrebbe partire, un treno per Bruxelles. Ma non sarà facile spiegare agli europei che il loro parlamento è stato individuato come sede di stoccaggio.

Il principale responsabile, una volta tanto, è lui. Berlusconi adora la gnocca, è cosa nota: ma la passione che fino a qualche anno fa poteva ancora avere un significato virile, a settant'anni suonati ha assunto aspetti parossistici, inquietanti. Un uomo che da molti anni dovrebbe aver soddisfatto qualsiasi desiderio, realizzato qualsiasi fantasia, si circonda di gnocca, ci si avvolge, se ne fa schiacciare. Non è più *sesso* nel senso che diamo alla parola noi monogami malsicuri. Berlusconi sembra aver trasceso da un pezzo il regno animale, per approdare a una dimensione vegetale in cui la gnocca gioca il ruolo di fertilizzante: si sparge tutt'intorno, e la pianta riprende vigore. Tutto bene, anzi no, perché il fertilizzante esaurisce in fretta le sue proprietà, e va sostituito costantemente. In mancanza di dati certi, è ragionevole supporre che la stessa portatrice di gnocca non possa essere riutilizzata che tre, quattro volte: dopo basta, fine, non serve più, andrebbe sbattuta via. Ma lo smaltimento comporta grossi rischi.

Non importa che sia ancora giovane, bella e ambiziosa. Importa molto di più che sia in grado di parlare, di comporre un banale numero di telefono e contattare questo o quel giornalista incauto. Tra qualche anno forse il problema non si porrà più, i giornalisti saranno tutti sul libro paga giusto e capiranno che non è cosa: ma fino a quel momento la possibilità di alienarsi qualche voto (e la simpatia dei preti) è concreta, più concreta delle polemiche sulla Costituzione. Da qui la necessità di uno smaltimento compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle signorine. Per esempio, hai sempre sognato di fare l'attrice, la presentatrice, la soubrette? E come si fa a negare una carriera tv a chi è stata adoperata per fertilizzare Berlusconi (o per comprare uno dei suoi collaboratori, succede pure questo)? Lo scambio di favori tuttavia è estremamente sproporzionato. Se devi assicurare dieci o più anni di carriera a tutte le signorine che hanno passato un week end col capo, o coi suoi alleati più influenti... ti rendi conto rapidamente che sei, sette frequenze nazionali non ti bastano. E si arriva a programmi-monstrum, come Bellissima.

Bellissima era un programma del Bagaglino senza i due comici del Bagaglino, ma con... quattro quintali di gnocca in più. Cioè, muore il grande Oreste Lionello? Compensiamo con la gnocca. Il grande Gullotta dà forfait? E noi ci sbattiamo dentro altra gnocca, non importa se over 40 e un po' fanée. Si capisce che tutta questa gnocca crea problemi strutturali, ovvero: prima tra un balletto e l'altro ci stavano le scenette, ma adesso? Adesso ci mettiamo la lapdance, in prima serata, per la gioia di vecchi e bambini. Il tutto nella settimana del terremoto, perché ci sono priorità che vengono sopra ogni considerazione di audience, e una di queste è l'allocazione di gnocca in surplus. Poi hai voglia a dire che è stato un flop – non credo che si aspettassero un successo di critica e pubblico. Hanno tagliato una puntata su quattro, ok, ma intanto per tre serate abbiamo potuto rifarci gli occhi con, con, con... Pamela Prati. Dico, voi ce l'avete presente Pamela Prati? Piantatela di dire che Berlusconi è immortale, concentratevi su Pamela Prati. In una soffitta di casa sua deve custodire il ritratto di un cadavere purulento. Io non mi ricordo di averla mai vista giovane, era una milf quando frequentavo le elementari, e adesso guardala, dà punti alla Novic. Se davvero non vogliamo più programmi come Bellissima la dobbiamo abbattere, non c'è altra soluzione.

No, una soluzione ci sarebbe: riconvertirla in parlamentare. Un vero uovo di Colombo, anche perché di solito le onorevoli portatrici di gnocca sono docili e non creano problemi. Certo, qualche caso imbarazzante c'è stato e tuttora c'è (ex presentatrici che vogliono chiudere internet, ecc.), ma di solito attirano l'attenzione di un pubblico di nicchia e non provocano nessuna crisi di governo; nel contempo, accrescono l'immagine di Berlusconi-galletto nel pollaio, che piace ai giovani. In questi casi, più che di smaltimento della gnocca, si potrebbe anche parlare di riciclaggio: le scorie della gnocca vengono riconvertite in consenso politico. A Bruxelles questo potrebbero anche capirlo, e provare a venirci incontro. In fondo Berlusconi sta facendo quel che può in direzione di un consumo della gnocca eco-sostenibile...

...ma non ci cascheranno. Nessun tipo di riciclaggio politico, cinematografico o televisivo, può davvero reggere i ritmi attuali di consumo. Pensate a quella ragazza che ha appena avuto Berl. al suo 18mo compleanno. Non so cosa B. abbia fatto o intenda fare con lei o la di lei mamma, e nemmeno m'interessa, ma facciamo due conti: questa vorrà essere sistemata prima o poi, e comprensibilmente. È convinta di essere brava ("perché io so fare tutto"), una nuova Cuccarini, e chi si prenderà la briga di dirle di no? Va messa a contratto. A Cologno, a Saxa Rubra, Monte Citorio, Strasburgo, vedete un po' voi, dipenderà anche dalle inclinazioni. Ma non hai fatto in tempo a sistemarne una così che tutt'intorno te ne sono spuntate altre cinque, è una gara persa in partenza.

E allora? Che fare? Si potrebbe semplicemente attendere che Berlusconi ci resti – in fondo non c'è fine migliore da augurare a un nemico. Ma l'impressione è che la gnocca, lungi da indebolirlo, lo tenga in vita. È il bromuro che lo schianterebbe. Il che vuole anche dire che l'uomo che ha comprato l'Italia, in fin dei conti non sa che farsene. Non è mai veramente riuscito a sublimare in brama di potere le sue banalissime pulsioni carnali. Qualcuno ha detto che comandare è meglio di fottere, ma non pensava a lui.

L'unica soluzione in vista è l'irrigidimento. Quel che rende instabile il sistema non è l'insaziabilità di B., ma i margini di libertà e di espressione che ancora vengono concessi ai cittadini, comprese le portatrici di gnocca. Bisognerà concentrare un po' di più l'editoria, ed educare le giovani generazioni a darla a B. per il gusto di farlo, senza pretendere contropartite televisive o parlamentari. Tempo al tempo, e intorno al Palazzo fioriranno leggende: il mostro che vi abitava pretendeva due vergini ogni primo giorno del mese.
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Le nostre parole, la vostra pelle

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Safiya Husaini e Amina Lawal vivono in Nigeria. Quando sono state condannate a morte, l'opinione pubblica si è indignata. I politici hanno recepito. Il governo si è mosso. La diplomazia italiana ha fatto tutto il possibile per salvarle. Se fosse servito, magari le avremmo anche offerto asilo, come prevede la nostra Costituzione. Un posto per loro lo avremmo trovato. O no?

...no, temo di no. Per Faith, per esempio, non c'è più posto (sull'Unita.it, i commenti sono qui).

Quando nel 2001 una corte islamica nigeriana condannò Safiya Husaini alla lapidazione per adulterio, la politica italiana non rimase a guardare. Una cinquantina di senatori sottoscrisse una mozione che impegnava il governo Berlusconi “a promuovere un'azione diplomatica diretta ad impedire l'orrenda esecuzione; più in generale ad adoperarsi affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all'asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Al di là dei discorsoni è difficile ricostruire cosa abbia fatto in concreto il governo: magari un richiamo all'ambasciatore, questo tipo di cose. Alla fine comunque la Husaini fu assolta.

Un anno dopo un'altra corte nigeriana condannò Amina Lawal Kurami alla stessa pena capitale per lo stesso reato. E anche in questo caso la politica italiana non si tirò indietro. Il nostro ambasciatore andò a parlarne col Ministero degli esteri nigeriano. Come riferì poi alla Camera il Sottosegretario di Stato, Margherita Boniver, il Ministro si dimostrò “molto comprensivo dell'interesse riservato al caso da parte dell'opinione pubblica, della società civile e delle istituzioni del nostro paese”. Nel frattempo a Roma l'incaricato d'affari della Repubblica federale di Nigeria veniva convocato alla Farnesina, che gli comunicava “l'emozione enorme suscitata nel nostro paese dalla vicenda giudiziaria della signora Lawal”. Anche questo diplomatico volle rassicurarci, confermando che “che il Governo federale è ben consapevole delle reazioni suscitate in Italia e nel mondo dalla sentenza e della necessità che la Nigeria rispetti i suoi impegni internazionali in materia di diritti umani”.

Ma non significa che non siano importanti. La diplomazia si fa con le parole, la politica è fatta di chiacchiere, e la vita di Safiya Husaini e Amina Lawal è stata salvata anche dall'enorme volume di chiacchiere che l'opinione pubblica e i politici hanno prodotto sull'argomento. Se tutto quello che puoi fare per salvare la vita a una persona è parlarne, tu ne parli. In parlamento, alle ambasciate, ovunque puoi.

Nelle prossime settimane un'altra donna nigerianaFaith Aiworo, dovrebbe essere processata. Il suo caso è un po' diverso (Faith avrebbe ucciso un uomo che cercava di stuprarla), ma il rischio di una condanna a morte è comunque concreto. I giornali italiani ne hanno parlato – non tutti, per la verità. Ora si tratta di vedere cosa farà la politica, come si muoveranno le istituzioni. Il Senato produrrà un'altra mozione, com'è successo con Safiya? Convocheremo i diplomatici, come successe con Amina? Arriveremo al punto di disturbare il Ministro degli esteri nigeriano? Possiamo sperarci, ma per come si sono messe le cose è difficile che accada. E questo non perché Senato e Camera siano assorbiti dalle scissioni e compravendite degli ultimi giorni. Il problema è un po' più grave.< Per salvarsi dal boia, Faith era scappata in Italia. Un Paese storicamente molto sensibile al problema dei rifugiati, anche perché molti antifascisti sopravvissero rifugiandosi nei Paesi vicini. Quando tornarono, e il fascismo fu sconfitto, vollero iscrivere nei principi fondamentali della nostra Costituzione il diritto d'asilo, per “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (art. 10). Ma Faith è entrata in Italia da clandestina, e con i clandestini sembra che la Costituzione non funzioni più. A un certo punto abbiamo stabilito, senza dirlo troppo in giro, che non sono esseri umani; e quindi possiamo impacchettarli e renderli al mittente senza preoccupazioni.

Per questo è difficile che stavolta la politica italiana faccia qualcosa per “promuovere un'azione diplomatica diretta ad impedire l'orrenda esecuzione”; che si adoperi sul serio “affinché cessi ogni prevaricazione a carico delle donne, là dove ancora le stesse sono considerate schiave, incapaci di intendere e di volere, scambiate e messe all'asta come carne da macello, assoggettate e segregate in casa, senza diritti e senza dignità”. Del resto cosa potrebbero fare, ormai, parlamentari e diplomatici, a parte produrre un po' di chiacchiere. Certo, ogni volta che chiacchierando potevamo contribuire a salvare una donna condannata a morte, non ci siamo risparmiati. Ma stavolta occorreva qualcosa di più: l'ospitalità. Safiya, Amina, più che donne per noi erano teorie. Si potevano tranquillamente salvare da lontano. Ma Faith viveva tra noi, occupava un posto; e un posto per salvare una donna schiava, senza diritti e senza dignità, in Italia evidentemente non c'è più.
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Cattiva Giovanna

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Gabbia per uccelli

Divento più tollerante ogni giorno che passa. Sarà l'età? Per esempio non ho mai nutrito dubbi sul basso livello dello spot Fernovus Saratoga. Finché non ho scoperto che era stato censurato, anzi, “non censurato, è più esatto dire represso”, dall'Istituto di Autocontrollo Pubblicitario. “Perché erano arrivate molte proteste dal pubblico”. E ancora una volta la mia mente vacilla nel tentativo di immaginare questo pubblico che dopo lo spot Fernovus Saratoga, invece di farsi una risata, scrive lettere all'Istituto di Autocontrollo per annunziare che si sente offeso. O fax. È quel tipo di gente che manda i fax, ci scommetto.

Siccome poi sono sempre i migliori che se ne vanno (è un po' una regola di questo blog, ve ne sarete resi conto) anche lo spot Saratoga, ora che è stato represso, mi sembra molto migliore di come lo dipingevano. Me lo riguardo e lo trovo perfetto, non c'è un'inquadratura che non sia funzionale al risultato finale – sì, c'è un blooper, ma è funzionale persino quello. L'avevo sempre liquidato come un omaggio veramente ritardatario al cinema italiano scollacciato anni '70, ma riguardandolo devo correggermi: è un omaggio al porno, forse anni '80, forse no, non me ne intendo. Quel che ha fatto il regista è stato allestire un set da porno, girare il primo minuto di una scena porno, e poi tagliare. In sé l'idea mi sembra originale e persino... coraggiosa: omaggiare il porno in tv senza esibire il corpo delle donne.

Perché, e questa è la cosa importante (tutto il resto potete saltarlo), lo spot Fernovus Saratoga non esibisce il corpo delle donne. Non lo fa. Forse lo farebbe in Afganistan, in Iran, dipenderà dai contesti. Ma in Italia secondo me no. In Italia la situazione odierna è più o meno rappresentata dagli spot della Tim con la Rodriguez in costume o in bikini, il cui raffinato messaggio più o meno corrisponde a: “Ehi, avete visto che stragnocca è la Rodriguez? Questa sequenza in cui corre in costume al ralenti ve la offre la Tim”. In Italia abbiamo tanga in prima serata, e ci vuole persino impegno per accorgersi del décolleté e della coscia di Giovanna. Ecco, questo spot chiede al suo pubblico un certo tipo di impegno. Il punto di partenza è il porno, ma quello d'arrivo è l'erotismo. Un piccolo passo per l'uomo, un enorme passo per la Saratoga.

Storicamente questa azienda ha sempre avuto un'idea molto chiara di come attirare l'attenzione del suo target: tette. Anche qualche culo, ma in buona sostanza tette. Probabilmente la raffinata associazione mentale col silicone era un invito che nessun pubblicitario poteva rifiutare. Vorrei anche approfittare per dire che questa strategia di buttare lì due tette nello spot che interrompe un Gran Premio era rozza, offensiva nei confronti delle donne, ecc. ecc., ma nella sua totale rozzezza in un certo senso più onesta delle trasgressive campagne di Oliviero Toscani, uno che se gli danno da vendere il cibo per cani e gatti, prende un quintale di modella nuda e ci sbatte sopra le maschere da cani e gatti. Se l'anno prossimo gli daranno lo spray antizanzare, lui se ne uscirà con la maschera delle zanzare, e sarà un'altra geniale e oltraggiosa trovata. Per di più, a parità di sfruttamento del corpo femminile, le donne nude di Toscani sono ben più tristi di quelle Saratoga.

***Qui c'era una foto della campagna di Alma Nature, ma un giorno Google mi ha chiesto di rimuoverla perché non tollera immagini di nudo integrale nei siti che usano google ads.***

Il punto è che mentre Toscani usa il corpo perché non ha mai saputo usare altro, col solito alibi di scandalizzare ecc. ecc., la Saratoga ha in mente un target preciso: gli artigiani. E con gli artigiani le tette funzionano. Potrà dispiacere alle donne, e magari anche a qualche artigiano, però evidentemente le cose stanno così. Però se qualche donna (o qualche artigiano) avesse scritto una letterina per protestare contro uno spot Saratoga a base di tette e culo, io non avrei trovato nulla da eccepire. È giusto pretendere più rispetto, è sensato alzare la soglia dell'intolleranza nei confronti dello sfruttamento del corpo. Il punto è protestare proprio quella volta che la Saratoga aveva provato a fare uno spot senza capezzoli: la prima volta che invece di sbattere un paio di chiappe in faccia ai muratori stava cercando di far funzionare un dispositivo erotico. Che può sembrare ridicolo, ma è sempre meglio di un culo in un box doccia. E invece no, non va bene. Ma a quel punto cosa può andar bene? Sarebbe interessante leggere quelle letterine, capire le motivazioni. È offensivo mostrare una domestica un po' lasciva, o una moglie compiacente? A me sembrano fantasmi maschili, esibiti come tali (la scena è assolutamente irrealistica, girata in un mondo a parte sospeso sul mare). Lo so che c'è del sessismo nel messaggio “è una vernice così facile che può usarla anche una donna senza sporcarsi”, però mi sembra un sessismo innocuo: credo che anche il giorno in cui le donne avranno raggiunto l'assoluta parità continueremo a raccontarci barzellette su donne che non sanno parcheggiare e uomini che non riescono ad accendere la lavatrice. Peraltro l'uomo dello spot (una faccia da culo perfetta, complimenti al casting) ha un ruolo piuttosto passivo: sono le due donne ad avere in mano, oltre al pennello, il controllo della situazione. Il fatto che stiano rimettendo a nuovo una voliera, ovvero una gabbia per uccelli, lo trovo sottilmente inquietante, una metafora da stampa erotica cinese.

C'è poi da tener conto dell'autoironia. Ciao, siamo la Saratoga, quelli che insistono a portare il sesso in ferramenta, ben oltre la soglia del ridicolo. L'autoironia investe anche i clienti, le loro libido cresciute a vhs porno. Ed è oggettivamente divertente: il tormentone Brava Giovanna strappa sempre una risata. Uno spot che invece di mostrarti il culo o 'scandalizzarti', prova ad eccitarti e poi ti fa ridere di te stesso e dei tuoi sogni erotici non è poi così male. L'ironia è una prova di consapevolezza, e quel che definitivamente mi piace dello spot Fernovus è il proprio il suo essere un congegno non raffinato, ma funzionale. Si capisce che dietro c'è un cervello, laddove dietro a molti spot ormai si riesce a immaginare soltanto una stanza piena di scimmie vestite da ex studenti di scienze della comunicazione, che battono i piedi a caso sui loro Mac. Un giorno scriveranno lo spot perfetto: nel frattempo se ne escono con ciofeche inguardabili come la campagna dell'anno scorso di Nastro Azzurro. Dove non c'è un grammo di ironia, né di consapevolezza, né di nulla: si riesce soltanto a immaginare questa scimmie che zompano disperate nella stanza mentre un altoparlante grida parole incomprensibili: “Made in Italy!”, “Design!”, “Azzurro, nel senso di Blu!”, “Opera lirica, nel senso di donne che fanno versi incomprensibili!”, Modelle!”, “Eleganza!” Il risultato finale è la cosa più volgare che mi è mai capitato di vedere su una tv in chiaro. Persino alle tre di notte su Telesanterno potevi trovare delle tipe allusive che mangiavano molto lentamente una banana, ma un facial no, un facial non l'avevo mai visto, e ai creativi della Nastro Azzurro è scappato così, per caso, senza nessun intento parodico o scandalizzatorio: il volto di una modella come carta assorbente, perché no. Sarei curioso di sapere se qualcuno ha protestato all'Istituto di Autocontrollo – direi di no, visto che lo spot è ancora in giro. Mi sembra logico: per capire quanto sia volgare e offensivo questo spot bisogna avere un minimo di cultura pornografica. Ovvero: noi uomini sappiamo offendervi in maniere che voi donne non riuscite nemmeno a immaginare. Quando ve ne renderete conto, forse l'idea di rimettere a nuovo la vecchia gabbia non vi sembrerà così sbagliata.

Quanti Brava Giovanna riesci a guardare senza impazzire? (io sono arrivato a 1:42)
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Qualcuno che può capirla

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Il ministro è occupato

“Pronto Telefono Rosa, Sono Lucia. In cosa posso aiutarla?”
“Ecco, io volevo sapere... questo è il numero per le donne vittime di violenza, vero?”
“Certo. Ha un caso da segnalarci?”
“Ecco, io... non so esattamente se...”
“Non si preoccupi. Ci racconti. Non deve per forza dirci chi è. La chiamata è anonima”.
“Ma forse è meglio se chiamo un'altra volta, adesso starei al lavoro e...”
“Va bene, ma posso dirle una cosa? Una cosa soltanto”.
“Sì”.
“Ci sono donne, come lei, che dicono così, e poi non richiamano più”.
“No, no, io poi vi richiamo”.
“Se mentre era al lavoro ha sentito l'impulso di chiamarci, è chiaro che in quel momento sentiva di avere davvero bisogno di aiuto”.
“No, ma io non chiamo per me, chiamo per... per una mia amica che... lei non ha il coraggio e allora io...”
“Va bene, va bene. Nel momento in cui ha fatto il numero, lei si sentiva veramente in pena per questa sua amica”.
“Sì, è così”.
“E ha avuto il coraggio di chiamarci”.
“Sì”.
“E ha fatto benissimo! Ma chissà quando le tornerà il coraggio. Magari tra un'ora, magari domani. Magari tra una settimana”.
“Ecco, io...”
“...e intanto la sua amica sta male, e magari è in una situazione a rischio. Perché non comincia a parlarcene adesso?”
“Ma vede, non è proprio una situazione a rischio, voglio dire, non è che la picchiano questa mia amica, non c'è nessuno che le alza le mani, però...”
“Però la fanno soffrire”.
“Sì... tantissimo. Però non lo può dire, perché...”
“A noi lo può dire”.
“Sì, ma è come se non esistessero parole per questa cosa che fanno... oppure magari forse esistono, ma io non le so... lei non le sa...”
“Provi a spiegare a me. Magari le conosco io le parole. In fondo è il mio mestiere”.
“Ma non è una cosa... normale. Voglio dire che non è una cosa che succede a tante donne. Forse non è mai successa prima, non lo so”.
“Eh, signora, lei non ha idea... a proposito, posso chiederle come si chiama? Solo il nome, non voglio il cognome”.
“Mi chiamo M... Maria”.
“Maria, la posso chiamare così? Non si preoccupi, Maria. Io ascolto le storie più strane, tutti i giorni”.
“No, ma strana come la mia... voglio dire, come la mia amica... insomma, lei... a un certo punto cercava un lavoro”.
“Sì”.
“Era... è una donna molto bella, ma... voleva anche essere apprezzata per il cervello, mi sembra giusto, no? E allora ha lasciato un lavoro che aveva, di... nel ramo immagine, ecco, e ha provato a fare... no, non posso dirlo”.
“Allora non me lo dica, Maria. A un certo punto ha cambiato lavoro”.
“Sì”.
“Un lavoro di tipo intellettuale”.
“Una specie, sì”.
“Ma per essere accettata nel nuovo ambiente di lavoro, ha dovuto sottostare a dei... compromessi”.
“Sì! Però... (snif)... però non è come dice la gente!”
“Perché, la gente cosa dice?”.
“La gente pensa che sia una profittatrice, che abbia... alcuni addirittura pensano che abbia fatto dei ricatti, non è vero! Non è vero niente! Vorrei dirlo al mondo che non è vero! Ma non mi danno il permesso”.
“Le impediscono di parlare?”
“E' come se... mi hanno messo in un posto troppo importante... non so neanch'io più bene cosa faccio, ma da allora... sono sorvegliata a vita. Giro con la scorta armata, e va bene. Ma dentro la scorta armata c'è un'altra scorta di persone con le cuffiette e i blecbèrri che mi circonda e controlla ogni cosa che dico, ogni cosa che faccio! È un problema anche se sorrido troppo! Mi cazziano se sgrano troppo gli occhi! Lo sa dove sono adesso?”
“E' in bagno”.
“Come fa a saperlo?”
“Io parlo con tante donne, Maria”.
“Sono nel bagno di un posto... non ho neanche capito dove sono esattamente, è un posto che mi hanno mandato a visitare... ormai non mi spiegano niente, m'imbarcano con la scorta armata e la scorta con le cuffiette e mi scaricano qua e là con un discorso da imparare a memoria, ormai sono un pacco postale”.
“È questo che la fa stare male, Maria?”
“Ma non è questo, è che... mi odiano”.
“Quelli delle scorte?”
“No, loro... loro mi trattano male quando mi blocco in mezzo a un discorso, ma... no, a me mi odiano proprio tutti. Tutti. Io sono la persona più odiata del mondo”.
“Maria, questo è impossibile. Perché tutto il mondo dovrebbe odiarla?”
“Perché ho un lavoro che non mi merito, perché tutti pensano che se sono così importante è perché ho fatto la puttana. Io non sono una puttana”.
“Maria, spesso gli uomini sono invidiosi... e anche le donne”.
“Quelli che mi hanno dato questo posto, loro sì, loro mi hanno trattato da puttana. Ma questa cosa come faccio a dirla”.
“Me la sta dicendo, adesso”.
“Lei penserà che io sono solo una matta”.
“Ma no, Maria, no. Posso darti del tu?”
“Sì...”
“Maria, io non penso che tu sia matta. Penso che tu stia molto male, e che non riesci a trovare una soluzione per il dolore che provi. Allora a un certo punto hai visto il nostro numero e ti sei detta: proviamo. Ma questo è un comportamento razionale. I matti non fanno così”.
“Sì, ma voi magari... magari c'è una ragazza coi lividi in faccia che vi vuole chiamare e trova occupato perché...”
“Non ti preoccupare, Maria. Abbiamo tante linee”.
“A me i lividi in faccia non me li ha mai fatti nessuno, però...”
“Però stai male ugualmente”.
“Mi vergogno a dirlo... io...”
“Non ti devi vergognare con me”.
“Ho i brufoli! Lo so che è ridicolo!”
“Non è ridicolo. È un segno che stai male”.
“I brufoli a trentatré anni... e quando m'inquadrano i fotografi io... io...”
“Ti senti in gabbia”.
“Io... mi odio”.
“No, Maria, no”.
“Perché è colpa mia alla fine. Se non avessi...”
“Non ti devi sentire colpevole per il male che ti fanno gli altri. Non è giusto”.
“...”
“Maria?”
“...mi sento così stupida!”
“Non sei affatto stupida. Sei una persona che hai una difficoltà, e hai avuto il coraggio di ammetterlo. Non è da tutti, sai. Soprattutto quando si è in una posizione importante, e tu, se ho capito bene, sei in una situazione importante”.
“È meglio che metto giù. Ho parlato anche troppo. Se se ne accorgono, io...”
“Aspetta, Maria. Vorrei che tu capissi che non sei sola, che ci sono tante donne al tuo fianco”.
“Seh (snif), magari”.
“E per convincerti, vorrei passarti una persona. Sai, tu ci hai chiamato proprio mentre era venuta a visitarci una donna molto importante”.
“E chi sarebbe?”
“Il Ministro delle Pari Opportunità”.
“Ah, ed è una donna?”
“Sì, e vorrei passartela un momento. Se non ti dispiace”.
(Toc toc)
“Mah, non saprei cosa dirle...”
“Lascia che ti parli lei. È una donna in una posizione molto importante, chi meglio di lei può capire i tuoi problemi?”
(Toc toc)
“Non so... e poi scusa, mi stanno chiamando...”
"Ministro, scusi eh, ma è lì già da un quarto d'ora, la visita dovrebbe andare avanti..."
“Non ti preoccupare, Maria. Aspetta solo un attimo, l'abbiamo chiamata e sta arrivando”.
"In più, pare che ci sia una telefonata per lei. Non si è capito chi sia, le vogliono passare una donna in difficoltà, boh. Mi raccomando, la saluti, s'informi sui suoi cazzo di problemi e cerchi di non dire niente di personale".
“Io... mi dispiace, mi stanno chiamando”.
“Solo un attimo, Maria. Davvero”.
"E soprattutto mi raccomando non improvvisi, onorevole. Che quando improvvisa poi è sempre un casino".
“Arrivo, arrivo. Mi dispiace, devo mettere giù”.
"Onore', ma che le è successo, ha pianto?"
“Fatti i cazzi tuoi. E allora, dov'è questa donna in difficoltà?”
"Momento... stanno trasferendo la chiamata al portatile... ecco".
“Pronto... sono l'onorevole Carfagna... pronto... ma qui non c'è nessuno”.
"Come nessuno?"
“Suona libero. Avrà messo giù”.
"Auff. Certo che 'ste donne, non si sa mai cosa vogliono, eh".
“Già".
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Mamma! Mamma!

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Se tutto è troppo facile

Monsignore, è un grandissimo onore per me averLa qui.
Prego, s'accomodi.
(Lara, vammi a prendere i ferri buoni. C'è il Monsignore!)

Colgo l'occasione per confessarLe che l'altro giorno ho goduto di un piacere autentico, e d'intensità rara, leggendo il suo ultimo pezzo contro la pillola assassina. Soprattutto là dove dice

Rendendo tutto più facile, la nuova modalità abortiva certamente aumenta una mentalità che sempre più induce a considerare l’aborto come un anticoncezionale.
Si', quando una citazione mi piace davvero, la imparo a memoria. Adesso apra la bocca, per cortesia.
Mi sono anche permesso di riportarla sul forum della FOdCA, che mi onoro di rappresentare. La conosce? La Federazione Odontoiatriche Cattoliche. Qui è meglio fare una lastra.
(Lara, vammi a preparare una lastra).
Beh, in effetti non è molto conosciuta, la Fodca. Potremmo essere molte di più... sapesse quante professioniste non si attentano a uscire allo scoperto, dichiarare la loro fede... Ma Lei c'insegna che bisogna dare l'esempio. Adesso stringa. Ma no, non fa male. Appena un po' di fastidio, che sarà mai... Stringa, su. Ecco, abbiamo fatto. Un attimo che il computer rielabora l'immagine.

Vede, io credo che lei abbia colto l'essenza del problema. Fossero tutti come lei... invece di tirare fuori la bufala della pillola pericolosa per le madri, una cosa a cui non crede nessuno... no, il punto è quello che ha trovato lei: la banalizzazione. Con la Ru486 abortire non diventerà più pericoloso o meno assassino. Ma diventerà una cosa facile, banale, alla portata di tutti. E' questo l'abisso morale che si spalanca davanti a noi. Lara, questa immagine arriva o no?

Ah, ecco.
Eh, beh, capisco che le facesse male a masticarci sopra. C'è una carie che si è infiltrata sotto l'otturazione. E ce n'è un'altra... qui, vede? Sotto il colletto. Ma da quand'è che non ci vediamo?

Monsignore, è un discorso che abbiamo fatto spesso. Caffè, fumo, zuccheri tra un pasto e l'altro, non sono amici dei suoi denti. Poi è inutile che Se la prenda con me. In tre anni è la quarta volta che rivediamo quell'otturazione. Le dico con tutta franchezza che a questo punto la maggioranza dei miei colleghi Glielo avrebbero già devitalizzato - se non cavato via, semplicemente. Ma noi della Federazione Odontotecniche Cattoliche abbiamo un'idea diversa. Per noi la vita del dente viene prima di tutto. Lara, per favore, preparami dieci cc di zertyupol.

Monsignore, so che mi capisce. Lei ha un problema col Suo dente. Banalizzando, si potrebbe pensare che il problema consista in un paio di carie. Ma io e Lei sappiamo che il problema non coinvolge soltanto lo smalto: esso penetra la dentina e il cemento e raggiunge l'essenza, come dire? spirituale del Suo premolare. Banalmente, io potrei raschiarle via l'ennesima macchia scura; molti miei colleghi laicisti lo farebbero, ben contenti di rivederla tornare poi di qui a pochi mesi. Ecco, noi della Fodca abbiamo deciso di lavorare in un'altro modo. Lara, per favore, allaccia le cinghie al Monsignore.

Se ora Lei non avvertirà la solita sensazione di intorpidimento alla mascella, c'è un motivo. Quello che Le ho iniettato non è un sedativo. Viceversa, è qualcosa che L'aiuterà a sentire meglio quello che sto per farLe. Perché alla Sua età, Monsignore, non vorrei mai che perdesse i sensi mentre... apra la bocca, da bravo, ecco. Dicevo, ma puo' sentirmi? NON VORREI MAI CHE LEI PERDESSE I SENSI MENTRE LE TRAPANO UN PREMOLARE SENZA ANESTESIA. Non provi a chiudere la bocca mentre ho il trapano in mano. Non ci provi davvero. Si concentri su qualcosa. Su quello che Le sto dicendo, magari. Ora riprendo. C'è parecchio lavoro da fare qui dentro, lo sa.

Vede, quello che è successo a noi dentisti negli ultimi 50 anni, gli enormi progressi fatti in tutte le direzioni, ma soprattutto nella terapia del dolore, hanno in qualche modo degradato l'essenza morale della nostra professione. Noi dentisti sappiamo nell'intimo della nostra coscienza che la migliore terapia contro la carie è la prevenzione: una dieta corretta, l'astensione dalla nicotina e via dicendo. Ma d'altro canto è molto più lucroso curare i milioni di carie figlie delle cattive abitudini che ci guardiamo bene dal combattere. Tanto più che levarsi una carie, o un dente intero, è diventato sempre più facile e indolore... banale, in una parola. Ora, noi della Fodca abbiamo deciso che non puo' più essere cosi'. Siamo ancora poche, è vero, ma decise a dare l'esempio. Lara, tieniGli stretta la fronte, cosi'. Ecco, adesso va meglio.

Non si spaventi se vede le stelline, a questo livello è normale. Ma ci pensi bene: ha mai vissuto un'esperienza del genere nella sua vita? Pensa che potrà mai scordarSela? No, non muova la testa, mi risponda roteando le orbite. Bene. Ogni volta che scarterà un cioccolatino, che Si accenderà una sigaretta, lei Si ricorderà di questo dolore. Questa è la vera cura contro le carie, mi capisce? Quella non facile, quella che coinvolge il paziente anche sul piano spirituale. Noi Odontoiatriche Cattoliche ci crediamo fermamente. Ora se vuole puo' urlare.

Lara, hai notato che urlano tutti la stessa cosa? Che vorrà dire?
Mamma, mamma, come se il dolore più lancinante potesse capirlo solo la madre. O forse è solo la sillaba più facile da pronunciare.
Si sciacqui, Monsignore, abbiamo finito.
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Tempo di tacere, di recitare una parte

Ieri al collegio i soliti psicodrammi – in realtà io le mie colleghe le capisco. Dopo due ore di discussione smetto forse di sopportarle, ma le capisco ugualmente. La Gelmini ci ha in pratica costretto a trasformare i cinque in sei politici. È una vergogna, ok, ma si sapeva. Non dico che non ha senso lamentarsene pubblicamente, ma che senso ha prendersela in giugno per una cosa di settembre? È tardi, fa caldo, ho fame, e comunque non è un problema che si possa risolvere qui. E non ditemi che la mia è una resa, perché non è così. Piuttosto è la vostra che è una sortita inutile. Non facciamo che lamentarci tra noi, c'innervosiamo, litighiamo, e non cambia nulla. Ho un problema con le mie colleghe.

Dico “colleghe” perché la maggioranza sono signore. Ma soprattutto perché non ho mai visto nessuno della minoranza maschia fare come fanno loro, che non si rassegnano, e cercano appigli legale in circolari che si smentiscono da sole, come prigionieri che a tastoni cercano fessure in celle buie. Non si arrendono mai. Però la guerra nel frattempo è finita. Però se glielo dici s'incazzano. Non so neanche se se sia un tratto specifico femminile, in fondo ho sempre e solo lavorato in ambienti a maggioranza muliebre. Chissà, forse anche i maschi quando sono in gran numero si comportano così, ma io ho sempre avuto colleghi rassegnati e di poche parole (e anche le donne più giovani di me, devo dire, entrano a far parte di questa minoranza silenziosa. Attenzione! La prossima generazione d'insegnanti sarà passivo-aggressiva).

Ho cercato di dimenticare il mio antifemminismo da collegio docenti andando al cinema, ma non potevo scegliermi un film peggiore. No, per carità, Vincere è un bel film, Bellocchio un grande mettitore in scena, la Mezzogiorno e Timi superbi. E prima o poi qualcuno doveva farlo un film sul giovane Benito, rivoluzionario senza scrupoli che tradisce il mondo intero per conquistare il potere. Già. Il punto è quello. Qualcuno prima o poi dovrà farlo quel film, ma nel frattempo dobbiamo arrangiarci con Bellocchio che fa un film sulla moglie segreta. Senza dubbio un personaggio di donna complessa e ricca di sfaccettature, no?

No. Perlomeno a Bellocchio non risulta. È una che ha un salone di bellezza a Milano, e Mussolini le fa un sesso incredibile. Lo ha incontrato a Trento quando faceva i suoi discorsi da guitto ateista, adesso non ditemi che v'innamorereste di uno che prova l'inesistenza di Dio col trucco dell'orologio, o che spunta sanguinante dalla nebbia e vi bacia solo per nascondersi dalle guardie – ok, va bene, può succedere alle ragazzine. Ma lei aveva un anno in più di lui. E quando lui rompe coi socialisti decide di vendere il salone per aiutarlo a metter su un nuovo giornale. Perché condivideva la sua decisione coraggiosa e scandalosa di abbandonare l'ortodossia socialista e tentare la carta della guerra rivoluzionaria? Mah, possibile, però non è che Bellocchio ci voglia mostrare questo. Ce la mostra soltanto mentre tallona Mussolini, lo spia dalle vetrate dell'Avanti, non si perde una mossetta del musone, perché le fa un sesso tremendo. E tutti quegli orgasmi nella penombra – voi mi darete del bacchettone, ma non è il punto, trovo giusto e appropriato mostrare un coito tra due amanti (e la Mezzogiorno è sempre un piacere), ma tre? Cosa volete che aggiunga il terzo? Non si poteva mettere qualche minuto di discussione, così, giusto per mostrare che aveva anche un cervello questa Irene Dalser? No, discutono solo trenta secondi, e in realtà è solo Mussolini che parla, e dice “Non sono realizzato”, e lei “ma no, guarda, dirigi l'Avanti, sei fighissimo”, e lui “non è abbastanza, voglio tutto”. “Come Napoleone?” “Ma chi è questo Napoleone?”, insomma, la discussione verte sostanzialmente sull'ego di Mussolini, che a Irene fa un sesso tremendo. Per dire che verso la fine del primo tempo cominci già a trovare più simpatico lui, che almeno ha delle idee, dei progetti, insomma una vita tra un coito e l'altro. Poi arriva il secondo tempo.

Nel secondo tempo la storia si riavvita un po' su sé stessa, come talvolta avviene con Bellocchio. Insomma Irene, essendosi accorta che Benito ha già la sua donna-base in Romagna, Rachele, tenta la solita carta e si fa mettere incinta; ma non funziona. Mussolini ormai ha scelto la chioccia romagnola, e durante la sua ascesa al potere farà il possibile per cancellare i documenti del matrimonio con Irene (che a tutt'oggi non è storicamente accertato) e del riconoscimento del figlio avuto da lei.

Però Irene non si rassegna. Questo è il fulcro intorno al quale gira il secondo tempo: Mussolini vince, ma Irene non si arrende. Lotterà fino alla fine – sì, ma per cosa? Lo dice lei ai suoi parenti, quando la riconfinano al paesello: Credete che io possa rimettermi a fare la vita di prima? Il mio posto è accanto a Lui. “Mi ama ancora, mi sta mettendo alla prova”. Va bene, insomma, è la storia di una che sogna di fare la principessa, e quando scoprono che non si può diventa isterica. La Bovary del fascio. E come Bovary, non vedi l'ora che si rovini con le sue mani; e soffri pure perché ci mette un po'. Certo, le fanno fare una fine orribile, ma non se l'è scelta lei? Bastava ammettere la sconfitta, e avrebbe potuto tenere il figlio – ma ci teneva veramente a quel figlio? Con quelle sue carezze nervose? O non le serviva semplicemente come prova del suo Primato? Quanto ci contava, sul record di avere dato alla Patria un erede maschio di Mussolini con 10 mesi di anticipo sulla romagnola? Ma se gli avesse voluto un po' più di bene, non avrebbe accettato la sconfitta per tenerlo con sé, invece di spappolargli il superego con tutte quelle storie sul Grande Padre?

Ora io non so se tutte queste domande abbiano un senso storico. Ma durante il film non riuscivo a non farmele. Forse è colpa mia, un residuo del mio antifemminismo da collegio docenti – ma in questa donna che non si arrende di fronte all'evidenza (e perde tutto) non trovo niente di non dico eroico, ma nemmeno simpatico; né in lei né nelle compagne, che quando non sono inebetite dalla religione o dall'isteria, sono comunque prigioniere della commiserazione o dall'invidia (“Davvero sei la moglie del duce? Come ce l'ha il duce?”) Gli unici sprazzi di luce del secondo tempo me li portano i personaggi maschili che cercano di condurla a più miti consigli: il cognato che vorrebbe tenersi il bambino, lo psichiatra di Venezia che prova a spiegarle i segreti della dissimulazione onesta... “Questo non è il tempo di gridare la verità. È il tempo di tacere, di recitare una parte”. Bisogna saper perdere, dicono i maschi del film. In certi periodi non si può fare altro, bisogna aspettare: i vincitori non vinceranno per sempre. Che davvero Bellocchio volesse dirci solo questo?
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L'annosa questione smaltimento

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Il re Davide era vecchio e avanzato negli anni e, sebbene lo coprissero, non riusciva a riscaldarsi. I suoi ministri gli suggerirono: «Si cerchi per il re nostro signore una vergine giovinetta, che assista il re e lo curi e dorma con lui; così il re nostro signore si riscalderà». Si cercò in tutto il territorio d'Israele una giovane bella e si trovò Abisag da Sunem e la condussero al re. La giovane era molto bella; essa curava il re e lo serviva, ma il re non si unì a lei.
Ma Berlusconi, chi lo scuote più?
Una scossa magnitudo 7 gli fa il solletico: va persino a farsi fotografare tra le macerie; regala la dentiera alla vecchietta, e tutti gli vogliono più bene che prima.
Contro il nuovo blocco al potere, nemmeno l'emergenza rifiuti può nulla. Ve la ricordate? Sembrava che dovesse inghiottirsi Napoli. Ma è bastato spiegare ai leghisti del nord e ai masanielli del sud che gli inceneritori andavano rimessi a regime, e voilà.

No, non sarà un terremoto, né lo smaltimento di rifiuti. In questo momento l'unico punto debole del Pdl, il tallone vulnerabile che potrebbe costargli qualche punticino alle Europee, è

lo smaltimento della gnocca.

Perdonate il sessismo – anzi, no, perché mai dovreste perdonarlo? Accusatelo, fatelo risuonare nei lobi frontali come gesso spezzato alla lavagna, saggiatene la volgarità ottusa alle ironie. La gnocca è un annoso problema di questa maggioranza, di questo premier. Ne consumano troppa, non sanno più dove smaltirla. La spatolano sui palinsesti tv fino all'esaurimento, e ancora ne avanza. Ne hanno stoccata un po' a Monte Citorio, ma adesso per cinque anni il sito è pieno e non possono riaprirlo – e quindi? Si sente parlare di un convoglio che dovrebbe partire, un treno per Bruxelles. Ma non sarà facile spiegare agli europei che il loro parlamento è stato individuato come sede di stoccaggio.

Il principale responsabile, una volta tanto, è lui. Berlusconi adora la gnocca, è cosa nota: ma la passione che fino a qualche anno fa poteva ancora avere un significato virile, a settant'anni suonati ha assunto aspetti parossistici, inquietanti. Un uomo che da molti anni dovrebbe aver soddisfatto qualsiasi desiderio, realizzato qualsiasi fantasia, si circonda di gnocca, ci si avvolge, se ne fa schiacciare. Non è più *sesso* nel senso che diamo alla parola noi monogami malsicuri. Berlusconi sembra aver trasceso da un pezzo il regno animale, per approdare a una dimensione vegetale in cui la gnocca gioca il ruolo di fertilizzante: si sparge tutt'intorno, e la pianta riprende vigore. Tutto bene, anzi no, perché il fertilizzante esaurisce in fretta le sue proprietà, e va sostituito costantemente. In mancanza di dati certi, è ragionevole supporre che la stessa portatrice di gnocca non possa essere riutilizzata che tre, quattro volte: dopo basta, fine, non serve più, andrebbe sbattuta via. Ma lo smaltimento comporta grossi rischi.

Non importa che sia ancora giovane, bella e ambiziosa. Importa molto di più che sia in grado di parlare, di comporre un banale numero di telefono e contattare questo o quel giornalista incauto. Tra qualche anno forse il problema non si porrà più, i giornalisti saranno tutti sul libro paga giusto e capiranno che non è cosa: ma fino a quel momento la possibilità di alienarsi qualche voto (e la simpatia dei preti) è concreta, più concreta delle polemiche sulla Costituzione. Da qui la necessità di uno smaltimento compatibile con le esigenze e le aspirazioni delle signorine. Per esempio, hai sempre sognato di fare l'attrice, la presentatrice, la soubrette? E come si fa a negare una carriera tv a chi è stata adoperata per fertilizzare Berlusconi (o per comprare uno dei suoi collaboratori, succede pure questo)? Lo scambio di favori tuttavia è estremamente sproporzionato. Se devi assicurare dieci o più anni di carriera a tutte le signorine che hanno passato un week end col capo, o coi suoi alleati più influenti... ti rendi conto rapidamente che sei, sette frequenze nazionali non ti bastano. E si arriva a programmi-monstrum, come Bellissima.

Bellissima era un programma del Bagaglino senza i due comici del Bagaglino, ma con... quattro quintali di gnocca in più. Cioè, muore il grande Oreste Lionello? Compensiamo con la gnocca. Il grande Gullotta dà forfait? E noi ci sbattiamo dentro altra gnocca, non importa se over 40 e un po' fanée. Si capisce che tutta questa gnocca crea problemi strutturali, ovvero: prima tra un balletto e l'altro ci stavano le scenette, ma adesso? Adesso ci mettiamo la lapdance, in prima serata, per la gioia di vecchi e bambini. Il tutto nella settimana del terremoto, perché ci sono priorità che vengono sopra ogni considerazione di audience, e una di queste è l'allocazione di gnocca in surplus. Poi hai voglia a dire che è stato un flop – non credo che si aspettassero un successo di critica e pubblico. Hanno tagliato una puntata su quattro, ok, ma intanto per tre serate abbiamo potuto rifarci gli occhi con, con, con... Pamela Prati. Dico, voi ce l'avete presente Pamela Prati? Piantatela di dire che Berlusconi è immortale, concentratevi su Pamela Prati. In una soffitta di casa sua deve custodire il ritratto di un cadavere purulento. Io non mi ricordo di averla mai vista giovane, era una milf quando frequentavo le elementari, e adesso guardala, dà punti alla Novic. Se davvero non vogliamo più programmi come Bellissima la dobbiamo abbattere, non c'è altra soluzione.

No, una soluzione ci sarebbe: riconvertirla in parlamentare. Un vero uovo di Colombo, anche perché di solito le onorevoli portatrici di gnocca sono docili e non creano problemi. Certo, qualche caso imbarazzante c'è stato e tuttora c'è (ex presentatrici che vogliono chiudere internet, ecc.), ma di solito attirano l'attenzione di un pubblico di nicchia e non provocano nessuna crisi di governo; nel contempo, accrescono l'immagine di Berlusconi-galletto nel pollaio, che piace ai giovani. In questi casi, più che di smaltimento della gnocca, si potrebbe anche parlare di riciclaggio: le scorie della gnocca vengono riconvertite in consenso politico. A Bruxelles questo potrebbero anche capirlo, e provare a venirci incontro. In fondo Berlusconi sta facendo quel che può in direzione di un consumo della gnocca eco-sostenibile...

...ma non ci cascheranno. Nessun tipo di riciclaggio politico, cinematografico o televisivo, può davvero reggere i ritmi attuali di consumo. Pensate a quella ragazza che ha appena avuto Berl. al suo 18mo compleanno. Non so cosa B. abbia fatto o intenda fare con lei o la di lei mamma, e nemmeno m'interessa, ma facciamo due conti: questa vorrà essere sistemata prima o poi, e comprensibilmente. È convinta di essere brava ("perché io so fare tutto"), una nuova Cuccarini, e chi si prenderà la briga di dirle di no? Va messa a contratto. A Cologno, a Saxa Rubra, Monte Citorio, Strasburgo, vedete un po' voi, dipenderà anche dalle inclinazioni. Ma non hai fatto in tempo a sistemarne una così che tutt'intorno te ne sono spuntate altre cinque, è una gara persa in partenza.

E allora? Che fare? Si potrebbe semplicemente attendere che Berlusconi ci resti – in fondo non c'è fine migliore da augurare a un nemico. Ma l'impressione è che la gnocca, lungi da indebolirlo, lo tenga in vita. È il bromuro che lo schianterebbe. Il che vuole anche dire che l'uomo che ha comprato l'Italia, in fin dei conti non sa che farsene. Non è mai veramente riuscito a sublimare in brama di potere le sue banalissime pulsioni carnali. Qualcuno ha detto che comandare è meglio di fottere, ma non pensava a lui.

L'unica soluzione in vista è l'irrigidimento. Quel che rende instabile il sistema non è l'insaziabilità di B., ma i margini di libertà e di espressione che ancora vengono concessi ai cittadini, comprese le portatrici di gnocca. Bisognerà concentrare un po' di più l'editoria, ed educare le giovani generazioni a darla a B. per il gusto di farlo, senza pretendere contropartite televisive o parlamentari. Tempo al tempo, e intorno al Palazzo fioriranno leggende: il mostro che vi abitava pretendeva due vergini ogni primo giorno del mese.
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Continuons le débat

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La guerra continua



Il terremoto invece è finito, direi.
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He-he ho-ho ahi-ahi-ahi

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Di tutte queste donne

“O, ma hai sentito Rihanna?”
“No, è da un po' che non chiama”.
“Intendevo: hai sentito di Rihanna?”
“Il suo ragazzo le ha spaccato la faccia, sì. È dominio pubblico da due settimane”.
“No, ma pare che lei lo ami ancora. Dico, ma queste ragazze di oggi...”
“Tu poi dove le scopri queste cose?”
“Nello spogliatoio. Dicevo, queste ragazze che si fanno picchiare...”
“Nello spogliatoio maschile si parla degli amori di Rihanna?”
“La radio parlava di Rihanna. Gli uomini parlavano di un programma di culturismo che c'è di notte su Italia1. Comunque: ma tutte queste ragazze che si lasciano picchiare dai loro uomini...”
“E tu lo guardi questo programma?”
“Ma secondo te. Mi hai mai visto guardare del culturismo?”
“Che ne so di quello che guardi quando vado a letto, scusa”.
“Niente. Non ne sai niente. Ma ti stavo dicendo di queste ragazze di oggi, che si lasciano picchiare, che poi chiedono scusa perché è colpa loro, sono state troppo gelose...”
“E quindi quando gli altri parlano di culturismo, tu cosa dici?”
“Io non dico niente. Mi faccio i fatti miei, cammino spalle al muro. Comunque: tutte queste ragazze che si fanno dominare, che si fanno fare di tutto e non denunciano mai, tutte queste ragazze...”
“In che senso spalle al muro?”
“Ne senso che... ma mi stai ad ascoltare? Sto cercando di finire un discorso”.
“Lo so, ma è una cazzata”.
“Come fai a saperlo, scusa, fammi finire. Insomma, tutte queste donne che...”
“Guarda, è inevitabile. A quest'ora, su questo divano, con questi argomenti, tu non puoi che sparare una cazzata. Lo so. La presento”.
“Cos'è che presenti?”
“Nooo, la pre-sento, con la esse sorda, senti? Presentire, non presentare. Io pre-sento la tua cazzata”.
“E allora dilla tu, vediamo se è proprio quella”.
“Perché dovrei dire una cazzata? È il tuo specifico”.
“Ma cristo santo, ma con tutte le donne che ci sono al mondo, che si fanno rompere la faccia e non sbattono ciglio, per anni e anni da parenti e marito senza denunciare, e che pare siano l'assoluta maggioranza al mondo, no, ma tra tutte queste donne...”
“Sì?”
“...Non ne potevo incontrare una anch'io? Una sola”.
“Vedi che era una cazzata?”
“Giusto per vedere l'effetto che fa, e poi statisticamente, voglio dire...”
“Ti senti meglio adesso che l'hai detta?”
“No. Ma forse un ceffone...”
“Ti accontento subito, toh”.
“AHI! Non da te a me, intendevo da me a te”.
“Scusa, non avevo capito”.
“Mi sembrava ovvio: io uomo, tu donna, io dare ceffoni tu prendere”.
“No, non credo. Ma prova con Rihanna, magari per lei è ok”.
“Cioè, mi autorizzi a provarci?”
“Con Rihanna? Sì”.
Cara Rihanna,
sono un tuo grande ammiratore. Mi piace il tuo stile, il modo in cui canti e i contenuti che esprimi. Mi dispiace per le tue ultime disavventure, e ti volevo dire che in qualsiasi momento, se ti servisse una persona su cui contare, uno che non ti manda all'ospedale, uno che al limite se proprio insisti ti rifila un paio di ceffoni dopocena e sta ben attento a non lasciare i segni, be', io sono qua. Tuo Leo
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Il Percome Delle Cose

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Per favore, non abradere tua figlia
(Questo mi è venuto un po' cinico, vi avverto).

L'edificio della mia vita assurda è fatto di tanti piccoli mattoni bizzarri, come questo: una pubblicità contro le mutilazioni genitali femminili a pranzo e a cena, da una settimana, con una voce che dice in un accento strano: “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Pagata del Ministero Pari Opportunità, cioè da me. Insomma, io sto pagando per farmi dire a pranzo e a cena che se qualcuno infibula la responsabilità è anche un po' mia di possibile padre o madre. O di mio padre, o di mia madre. Mamma, papà! E vergognatevi un po', no?

E di tutto ciò, io non rinuncio a chiedermi il perché, e soprattutto il per-come. Quest'ultimo in particolare è la mia maledizione. Mi disse l'indovina: Tu Passerai La Tua Vita A Chiederti Il Per-Come Delle Cose. (Sempre meglio di parlare con tutte le iniziali maiuscole, le risposi).

Primo Scenario:
Dopo mesi e anni di appostamenti e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha finalmente tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Hanno dai 20 agli 80 anni e guardano i canali nazionali, soprattutto i tg di pranzo e cena. A questo punto la geniale Ministro ha un'idea: invece di spendere soldi a pioggia in iniziative di sensibilizzazione, facciamo qualcosa di mirato: parliamo direttamente a loro, negli spazi pubblicitari in cui è più facile sorprenderli! Per dire l'altro giorno mi ero quasi risolto a infibulare la mia bambina, stavo giusto sterilizzando l'ago sul fornello del gas, quando è passata questa pubblicità che mi ha toccato il cuore e... “ho scelto: non condannerò mia figlia”. Certo che al Ministero ne sanno una più del diavolo, eh. Come hanno fatto a capire che quel Messaggio serviva proprio a me?

Secondo Scenario:
Dopo mesi e anni di indagini e ricerche, il Ministero delle Pari Opportunità ha tracciato l'identikit dei genitori-tipo che praticano le mutilazioni genitali femminili in Italia. Si tratta di famiglie giovani di origine africana, che difficilmente guardano i canali Rai in chiaro, e andrebbero dissuase attraverso un'azione capillare di assistenza sociale e medica che... costa uno sfruculione di soldi, non li abbiamo! Ci servono per gli sgravi alla Fiat e gli aiuti al digitale terrestre! Ma per un po' di spazi pubblicitari in Rai, per quelli sì, tanto è una partita di giro, e nessuno potrà dire che non facciamo niente per il problema. Per cui mi raccomando, commensali italiani, memorizzate: il Ministero e la Presidenza del Consiglio stanno facendo qualcosa di molto concreto contro: Escissione, Asportazione, Abrasione, In-fi-bu-la-zio-ne... ve ne siete persi uno? Non vi preoccupate, a ora di cena replichiamo. E se vostro figlio vi chiede di che si tratta? Ma voi glielo spiegate, tanto i rigatoni ormai li avete sputati comunque dal disgusto.

Terzo Scenario:
A un certo punto qualcuno avrà anche pensato che è senz'altro un peccato che tutti 'sti immigrati neri escidano, asportino, abradano, infubulino... ma soprattutto è un peccato che lo facciano senza che i loro vicini bianchi ne sappiano niente. Che c'è poi il rischio, tra un po', di trovarsi al prossimo linciaggio di un negro senza nemmeno sapere perché abbiamo voglia di ammazzarlo. Forse valeva la pena di investire in uno spot che facesse capire: Ehi, bianchi, ma lo sapete cosa fanno i neri alle loro bambine? Ehi, la vedete la bimbetta tanto carina che gioca col cerchio sottocasa? Beh, lo direste mai? I loro genitori sono dei mostri! Non sentite che è la loro voce che parla nello spot? “Noi padri e madri siamo responsabili, nessuno escluso”. Capito? Sono tutti uguali!
E quindi? C'è qualcosa che potete fare? No, no, niente, ci pensa il Ministero, voi dovete solo avere un po' più paura di loro, tutto qui. Fine dello spot. Digerite pure con ansia.
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La stagione fredda

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(Un'ipotesi)

Si sa come vanno queste cose: un primo caso 'buca' l'attenzione del pubblico; sull'ondata emotiva che ne segue viene dato risalto a casi simili che in altri momenti scomparirebbero tra le brevi di cronaca (ammesso che nei giornali ci siano ancora, le brevi di cronaca). Da questo deriva un certo ritmo stagionale dell'attenzione dei media, per cui si ha la sensazione (leggendo il giornale o guardando il tg), di vivere il mese dei cani feroci, quello dei bulli scolastici, o dei preti pedofili... mentre quest'ultimo è stato decisamente il mese degli stupri.

E non ha senso nemmeno augurarsi che finisca presto: tanto meglio se l'ondata serve a prendere consapevolezza di un problema che c'è da sempre. I media saranno anche superficiali, ma in alcuni casi la superficialità è già molto migliore del silenzio.

C'è però un'altra possibilità, e cioè che l'attenzione selettiva dei media sia giustificata da un'effettiva recrudescenza dei casi di stupro.
Io non ho elementi per affermarlo; ma nemmeno posso escludere a priori che da qualche mese a questa parte in Italia si stupri di più. In questo caso, oltre alle solite chiacchiere sulla sicurezza (che non si può garantire al cento per cento, come Berlusconi ha fatto notare con la sua consueta delicatezza) sarebbe utile domandarsi, semplicemente, cosa ci sta succedendo. È naturalmente vero che viviamo in una società violenta, maschilista ecc., ma non possiamo essere diventati più violenti e più maschilisti nel giro di qualche settimana. Ci dovrebbe essere, insomma, un fattore contingente, qualcosa che avrebbe portato alla violenza persone che fino a qualche tempo fa non ne sentivano la necessità.

L'unico fattore di questo tipo che mi è venuto in mente è il decreto Carfagna, che ha tolto molte (non tutte le) prostitute dalla strada. E quindi potrebbe aver tolto ad alcune persone (violente e maschiliste già da prima) un modo economico per concludere la serata. Questo non spiegherebbe tutti i casi, e di sicuro non quello di capodanno. Ma l'eventuale recrudescenza riguarda gli stupri extra-domestici, e in parte proprio quelli consumati in macchina, a tarda ora.

E quindi? E quindi niente, non ho mica soluzioni. Avevo solo un'ipotesi, piuttosto rozza, ma comunque era inutile che la tenessi per me: su un giornale non ci potrebbe nemmeno stare, su un piccolo blog sì.
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Una proposta concreta: sbattersi.

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Il prodotto (interno) più vecchio del mondo.

Lo avete sentito tutti: Berlusconi ha proposto a una ragazza di risolvere il precariato sposando un milionario. Ora naturalmente è facile denunciare la sua mancanza di sensibilità, il suo umorismo insipido, il fatto che è un cafone proprio, ecc ecc ecc ecc. In realtà basta fare due conti. Preso atto che in Italia, oggi, si diventa imprenditori ereditando l’impresa di papà, Berlusconi ha semplicemente fatto presente che nei prossimi anni, man mano la vecchia leva se ne tornerà al creatore (hanno tutti più o meno la sua età, ma Lui solo è immortale), l’Italia si popolerà di scapoli d’oro.

Quanti? Non ne ho la minima idea, dico diecimila giusto per buttare giù una cifra: dopotutto siamo un Paese di mini e micro-imprenditoria, diecimila fabbrichette mi sembrano un dato verosimile. S’intende che potrebbero essere il doppio o la metà. Fanno già diecimila posti di lavoro angeli del focolare belli e sistemati. Pensateci bene. Son tempi di vacche magre, i milioni di posti di lavoro non ce li offre più nessuno.

Direte che non bastano: sono d’accordo, però riflettete. Nessuno ha detto che l’Imprenditore debba sposarsene una sola. Lo stesso Berlusconi ha dato il buon esempio, sposandosene due. Se ogni mini- o micro-imprenditore si impegnasse a garantire lo stesso servizio, diciamo nei prossimi cinque anni, entro il 2013 avremmo già sistemato almeno 20.000 giovani donne, e cacciale via. È chiaro che ci sarà il povero fesso monogamo a vita e quello che se ne porta all’altare anche tre o quattro, ma statisticamente due matrimoni a testa mi sembrano uno sforzo sostenibile.
Le materialiste scandalizzate che preferirebbero fosse offerto loro un posto di lavoro dovrebbero rifletterci bene. Sotto l’aspetto degli ammortizzatori sociali sposarsi l’Imprenditore è assai meglio che lavorare per lui, perché in questo caso la liquidazione (gli alimenti) dura per tutta la vita. A meno che qualche divorziata d’oro non si sogni di re-immettersi nel circolo produttivo, puntando a risposarsi con un secondo industriale e rubando così risorse alle sue connazionali; ma penso che si possano varare leggi ad hoc per evitare il problema (divieto di risposarsi per le femmine, obbligo di sposare soltanto donne under 30, o magari vergini, ecc), e magari qualcuno nel PdL ci sta già pensando.

Mi direte, ancora una volta, che non basta: cosa sono in fondo 20.000 matrimoni davanti alla recessione economica? Ecco, da qui in poi bisogna leggere tra le righe, però andiamo, è evidente che un imprenditore, per quanto mini- o micro-, almeno un paio di amanti in 10 anni se le fa. Anche qui credo che Berlusconi abbia fatto il possibile (e l’impossibile) per offrire un esempio ai suoi seguaci. È chiaro che essere l’amante di un imprenditore non offre le stesse garanzie di sposarselo; in compenso è un po’ più divertente; e se la ragazza è spigliata e intraprendente, il concubinato può essere un trampolino verso una carriera di successo.

Pensate alla tv, per esempio: ti sbatti un imprenditore (o un politico, ancora meglio) per un paio d’anni, arrivi sul piccolo schermo, e se riesci a farti riconoscere dal grande pubblico, chi ti smuove più di lì? Certo, occorre darsi da fare. Nessuno vi ha mai detto che sarebbe stato facile, signorine. Bisogna impegnarsi, far palestra, rassodare i fianchi, magari qualche intervento mirato, ma è sempre meglio di iscriversi a ingegneria, studiare 4 o 5 anni e poi ritrovarsi disoccupata con la laurea in tasca, perché diciamolo: chi si fida di un ingegnere femmina?

Riassumendo: con una stima di 10.000 giovani imprenditori, abbiamo calcolato nei prossimi anni due matrimoni e due concubinati a testa. Naturalmente bisogna ipotizzare che tutti questi giovani di successo, invece di perdere tempo ad aggiornarsi, a viaggiare all’estero e a varare investimenti realmente produttivi, non facciano che scopazzare in giro. Ora io francamente non so quali siano i costumi degli imprenditori italiani (non ne conosco parecchi), ma se c’è qualcuno che li conosce bene è proprio Berlusconi, per cui tenderei a fidarmi. Insomma, siamo arrivati a 40.000 ragazze con vitto, alloggio e mensile assicurato. Concorderete che la cifra comincia a diventare interessante. Ma non è finita qui, oh no.

È chiaro che Berlusconi queste cose non può dirle, ma davvero pensate che un imprenditore italiano sessualmente attivo si contenti di quattro donne in dieci anni? Con tutto l’affare di escort e entraîneuses che c’è in giro? Fatemi un favore, andate a vedere sui forum quanto chiedono per una mezz’ora: io ho deciso che non ci vado più, perché m’incazzo. Senza moralismi, so benissimo che non siamo la prima civiltà in cui mezz’ora di sesso costa venti volte la cifra che pagate per mezz’ora di grammatica ai vostri figli, però la cosa mi fa incazzare lo stesso – se pensate a quanti anni ci vogliono per imparare seriamente la grammatica, e quant’è facile invece imparare a far sesso. Per cui, ragazze mie, invece di prendervela con Berlusconi (che ha il solo torto di dirvi la verità) riflettete, ragionate, fate due calcoli: chi non riuscirà a impalmare un titolare di fabbrichetta nei prossimi anni, può sempre portarselo a letto a tempo indeterminato (non è richiesta nessuna formazione, nessun titolo di studio, niente); e chi non riesce nemmeno a strappare un contratto di concubinato, può comunque riconvertirsi al meretricio, e probabilmente saranno quelle che alla fine della fiera guadagnano di più – attenzione, senza fatturare né pagare i contributi, ci siamo capiti? E vi lamentate pure?

Ma sul serio, chi ve lo fa fare di studiare legge o architettura? Se proprio dovete sbattervi, non fatelo per un praticantato o un apprendistato: sbattetevi e basta! Mettete fuori una tariffa, vedrete che più alta è e più fuori faran la fila, perché gli imprenditori son fatti così: amano le cose esclusive.

A che punto siamo? Mogli, amanti, escort… io direi che mezzo milione di posti li abbiamo creati, e senza toglierli a nessuno. Cioè, certo, sarà necessario attivare una politica di sicurezza – vale a dire risbattere in mare quel milione di nigeriane, albanesi, rumene, ucraine, brasiliani/e che per strada offrono un servizio di qualità anche superiore, ma a un prezzo imbattibile – contribuendo fra l’altro ad abbassare il prezzo dell’offerta interna. E vedrete che molti Vescovi saranno coi noi in questa battaglia di civiltà. È quello che dice anche Tremonti, no? Difendiamo il prodotto italiano. E il prodotto siete voi, signorinelle. Il più vecchio del mondo. E non ne andate fiere?
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Vizi italiani (2): pappagalli

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Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
– ops.

La ragazza automatica

Dopo tanto, il video originale di Frangetta non lo avevo ancora visto. È carino.
Per i non iniziati: il pezzo è stato diffuso su internet, mesi fa, col passaparola con i nuovi fenomenali mezzi di condivisione del web 2.0. L’intenzione degli autori viene subito intesa e apprezzata: si tratta di stigmatizzare le abitudini e i tic linguistici di un determinato tipo umano, la ragazza-con-frangetta che studia a Milano e passa lunghe serate appoggiata al muro dei locali, a togliere e mettere gli occhiali grossi. Il suo discorse è una semplice enumerazione di cose che si fanno e di persone che si incontrano; l’ironia è evidente, ma non viene mai esplicitata. Con voce d’automa la ragazza descrive un mondo di abitudini e passatempi che dovrebbero descrivere una personalità originale, e invece sono terribilmente omologati. Ottimo. Gran pezzo, tra i capolavori della misoginia contemporanea. Finché...


Scrivo-una-“Frangetta”
La-mando-a-Radio-DeeJay


...Finché non è piaciuto anche a Linus, di radio Dj, che lo ha trasformato in un tormentone del suo programma, ed è arrivato al punto di lanciare una simpatica iniziativa: “mandateci le vostre frangette. Come parlano le ragazze snob di Roma, Torino, Bologna, Catania, Castellamare di Stabia?”. Linus è simpatico, e quello che ha fatto è molto interessante, ancorché perverso. Da buon intrattenitore italiano, ha ragionato così: se una cosa è divertente, moltiplichiamola per cento e sarà divertente cento volte; non solo, ma occorre tener presente del localismo italiano, perché i romani non ridono come i milanesi o i fiorentini o i goriziani. Tutti si devono sentire protagonisti, tutti hanno una parlata divertente. E non va sottovalutato il risultato finale: un atlante d’Italia dei ritrovi delle ragazze snob.
Ne è nato un vero e proprio genere letterario, che se in realtà ha smesso subito di essere divertente, ha continuato a lungo ad essere interessante; vedasi per esempio questo intervento di Roberto Moroni che confrontando la versione originale con la copia romana, definisce i ritardi dell’ironia romanesca (ancorata al vernacolo) rispetto al cosmopolitismo milanese.

E allora che male c’è nella proliferazione di frangette? Beh, è un paradosso enorme. La canzoncina nasceva per irridere l’omologazione culturale di un gruppo di persone, e si è trasformata in un tormentone super-omologato, con tanto di bollino di radio dj e varianti regionali. Ora la ragazza automatica potrebbe concludere il pezzo così: Scrivo-una-frangetta. La-mando-a-radio-Dj.

Sarà che sono un ingenuo, che mi ostino a credere che la parola serva a cambiare le persone. Persino una canzoncina come questa, secondo me, avrebbe dovuto servire a smuovere la coscienza delle frangette. È la stessa folle idea che aveva Flaubert, mentre redigeva il dizionario dei luoghi comuni. Lui li enumerava tutti per consumarli, per impedire alla gente di usarli più. Ecco. Io credevo che la Frangetta originale servisse a far sì che le frangette smettessero di comprare Taschen come se fossero soprammobili. Ma in Italia non funziona così. In Italia le ragazze che ancora non si sentivano abbastanza frangette si sono messe ad ascoltare la canzone prendendo appunti sugli occhiali grossi e sui registi importanti da scaricare. Siamo un popolo di pappagalli. È sempre così.

Moretti-Ricci-De Beauvoir

Viene sempre in mente la stessa scena di Ecce Bombo: “Come campi?” “Faccio cose, vedo gente”. Il pubblico ride. Ma era una scena drammatica, di un film malinconico e moralista. La ragazza-automatica di quei tempi non portava la frangetta, viveva di espedienti e non aveva progetti per il futuro: Moretti la descriveva perché voleva consumarla, distruggere il modello, impedire che altre ragazze cominciassero a vivere così. E invece è stato ridotto a un tormentone, pure lui: ci siamo sorbiti trent’anni di ragazze divertenti che ti dicevano “faccio cose, vedo gente”, con la scusa dell’autoironia. L’autoironia. Ma essere autoironici a diciott’anni e un po’ come studiare sodo per diventare sfigati da grandi.

Poi mi viene in mente un altro italiano con la barba, Ricci. Lui secondo me ha cominciato con le migliori intenzioni. Voleva far ridere la gente sui fatti del giorno, non c’è missione migliore, anch’io ne sono convinto. Poi ha notato che la maggior parte del pubblico non rideva perché capiva le battute: rideva per simpatia, per imitare gli altri. La maggior parte in effetti non capiva nulla e rideva perché aveva paura che gli altri non se ne accorgessero. Al punto che rideva anche se lo sketch non era divertente, in effetti bastava una risata finta a farli scattare. Insomma, a un certo punto Ricci ha capito che gli italiani sono un popolo di pappagalli.

E ha tratto le sue conseguenze. Tormentoni facili da memorizzare e ripetere, e risate, risate finte ovunque. Se ogni tanto c’è anche una battuta, il comico te la spiega due volte. Se c’è una situazione buffa, te la ripete tre o quattro volte, perché è sicuro che la prima non ci arrivi. Se c’è una candid camera con un cane che salta per prendere un bastoncino e sbatte la testa contro un ramo, lui non si fida: qualcuno del pubblico potrebbe non capire che è divertente, meglio doppiare il cagnolino con una voce (dialettale, s’intende) che dice “Ahia che male”. Persino le tette devono essere molto evidenti, perché gli italiani fanno persino fatica ad arraparsi, e anche in quello si fidano molto del giudizio di chi hanno intorno. Persino il pupazzo è grosso, e di colore rosso acceso, perché i pappagalli reagiscono soprattutto ai colori.

Infine mi viene in mente qualcosa che non c’entrerebbe nulla con Ricci e Moretti; una vecchia prefazione a un romanzo della De Beauvoir che non ho in casa, e che diceva, se ricordo bene: state attenti. Voi questo romanzo lo leggete come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, e della questione femminile eccetera: ma al tempo serviva anche come manuale pratico sui locali da frequentare nel Quartiere Latino. Insomma, non c’è niente da fare. Ci sono persone – non necessariamente stupide – che leggono i libri, come noi. Che ascoltano la musica, come noi. Che vanno al cinema, magari con noi: ma tutto quello che ne tirano fuori è un campionario di vestiti da indossare, di locali da frequentare, di atteggiamenti da assumere. Esistono, queste persone. E molto spesso sono ragazze. Anche simpatiche. Ma un po' automatiche. Non so perché, ma accade, e me ne cruccio.
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Women from Venus, lizards from Mars

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L'invasione dei rettili

Oggi è la festa della donna, e le donne stanno male.
Questa è la copertina di Velvet, il super-inserto per donne truzze della Repubblica.


È talmente grosso che non ci stava tutto intero nello scanner. Velvet non ha nemmeno un sito internet: scelta oculata, perché se cerchi su google “Velvet repubblica” trovi solo blog e testimonianze di donne che hanno provato a prenderlo e si sono lussate una spalla, o sono andate in overdose di pubblicità patinata. (L’essere in copertina, per esempio, non riuscirebbe a sollevare Velvet; probabilmente pesa meno di Velvet). Insomma, non è un prodotto rappresentativo del genere femminile, questo no. Ma qualcosa, comunque, mi rappresenta.

Mi rappresenta, per esempio, la decadenza e la morte del senso estetico. Ed è fantastico, perché probabilmente non abbiamo mai lavorato sul senso estetico come negli ultimi trent’anni. C’è mai stata un’epoca in cui si è speso altrettanto non solo per le cose belle, ma per i sussidi, gli indicatori che ci aiutassero a capire cosa è bello e cosa no? E questo è il risultato. Trent’anni di corsi di bellezza (più o meno obbligatori, in Occidente) et voilà, non siamo in grado di distinguere una donna da un rettile in caschetto.

Dove siete in questo momento? In ufficio? Maledetti assenteisti, gettatevi sulla prima collega femmina che incrociate, fatele gli auguri e chiedetele se quella nella foto è una donna o no. Cercherà di scantonare, si metterà a disquisire sul vestito. (Il vestito tra l’altro è orrendo: un’accozzaglia di colori e idee che non quagliano e non si sposano con nulla; violare l’embargo sugli indumenti viola in copertina per esibire una simile ciofeca è l’affronto finale a quel che resta del buon gusto, ma qui si parla di ben altro). Se messe alle strette, le donne diranno che, beh, sì, quella nella foto è una donna. Insomma, è chiaro che è una donna, no?
Le donne stanno male. Ormai puoi far loro qualunque cosa.


La prossima volta metteranno un’iguana in completo nero e cappello da cow-boy, tanto ormai chi se ne frega. Anzi, pensandoci bene, probabilmente oggi è già domani: l’iguana è questa. Guardate che collo che c’ha. La cosa più grossa che ha è il collo. E se guardate bene l’originale, si intravedono le squame verdi sotto il cerone.

È chiaro che il fotografo non ama le donne. Ma probabilmente neanche gli uomini, chi vive in un immaginario così non ama i mammiferi tout court. Forse da bambino ha amato David Bowie (il suo inconscio continua a cagar fuori lo stesso video di Heroes da trent’anni), ma col cavolo che Bowie lo corrisponde. Lui esce con le modelle sode, lui.

È chiaro altresì che l’autore di questa offesa al gusto e al senso comune sta facendo tutto quello che è in suo potere di fare per accelerare l’estinzione del genere umano: così finalmente potrà accoppiarsi coi rettili senza che nessuno lo giudichi male. Ma se anche fosse? Il problema non è tanto che sulla copertina di un femminile (ancorché truzzo) ci vada un rettile che non ha più nulla di femminile o semplicemente umano: il problema è che le donne, le nostre donne, si berranno anche il rettile, come si sono bevuti gli ultimi dieci anni di merda patinata: sempre più patinata e sempre più merda. Messe di fronte all’evidenza (insomma, si vede che assomiglia più a Bowie eroinomane a Berlino che a una donna vera, no?) fanno sì col capo – ma nel loro cuore stanno già pensando a quanti pasti possono saltare per riuscire a entrare nel completo viola per iguana.

Ed è inutile metterla sul fisico, far presente che un uomo, con un essere così, non si accoppierebbe mai, perché non è l’accoppiamento in discussione, qui. La donna che sfoglia velvet non vuole, evidentemente, accoppiarsi. Non vuole nemmeno essere bella. Tutto quello che vuole, ormai, è sfogliare cataloghi patinati di rettili ancheggianti. Le donne stanno male.

Io l’invasione dei Visitors, da bambino, me l’immaginavo diversa. Così mi fa ancora più paura. Buon otto marzo.
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- venere di caucciù

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Just Tell That Kate Moss Ain’t Pretty

Ma al di là di ogni discorso serio in merito, a voi Kate Moss piace? sul serio? Ok, ve la mostrano in tutte le salse, la riconoscete, vi spiegano che è bella, più o meno la stessa trafila della Gioconda. Ma vi eccita? Vi ispira?

A me no. Kate Moss non mi piace. È secca, è cruda, è morta.
Se Kate Moss ci provasse con me, non ci starei.
Se Kate Moss insistesse con gentilezza, forse cederei; mai stato bravo a dir di no – ma chi l’ha detto che poi ce la farei? Forzato a commettere atti sessuali con Kate Moss, probabilmente mi sorprenderei a chiudere gli occhi e fantasticare sulla vicina di casa chiattona.
Se io e Kate Moss rimanessimo unici superstiti sul pianeta Terra, mi estinguerei. Meglio estinguersi da uomo.
Se smonti la vecchia Barbie di tua sorella, le riempi il bustino di ghiaccio tritato e le sbianchi il bel pigmento rosa, quello che ottieni è più o meno la proiezione plastica di quel che provo per Kate Moss.

E non me ne vergogno. Ci stamperei dei manifesti, se servisse a qualcosa. Maschi di tutto il mondo, ditelo forte e chiaro: Kate Moss è un mucchietto di ossa puzzolenti di Chanel che non ispira sesso a nessuno!

...Ma non serve a niente. Assolutamente. Alle bambine piace Kate Moss, Kate Moss è fatta per piacere alle bambine, e il parere del maschietto non c’entra. Non è il maschietto che costringe la bambina a mutilarsi a morte. La pulsione suicida che porta un’adolescente all’anoressia (sbandate bulimiche annesse) ha assai poco a che fare con l’altro sesso.
(Forse ha più a che fare coi bambolotti. Se passa di qui un esperto di età evolutiva, mi spieghi questa cosa: perché tra l’infanzia e l’adolescenza il bambino e la bambina devono trastullarsi con giocattoli e proiezioni omoerotiche? Perché il bambino deve passare dal bambolo di He-Man alle telecronache di wrestling? Perché la bambina deve diventare una stilista di Barbie e bambolotte consorelle? Era così anche in passato, o è una novità dell’era del caucciù? Non avrà per caso qualcosa a che fare col crollo demografico?)

Il percorso anoressico-bulimico è lastricato di caucciù, riviste patinate, corsi di danza. L’altro sesso è raramente interpellato: a volte è una proiezione remota, il più delle volte semplicemente assente. Del resto è noto: quando alcune di queste amebe ermafrodite, terminato il cursus honorum specifico (concorsi di bellezza, sfilate, ecc) tentano la strada della televisione (dove è ancora il maschio che comanda), devono necessariamente carrozzarsi con quegli attributi sessuali secondari che fino a quel momento erano inutili.

La donna “secondo il maschio” l’abbiamo sotto gli occhi da secoli: da Picasso a Giorgione su su fino alla Venere di Savignano. Se volete è un mostro deforme anche lei, una sovrastruttura maschilista, ecc ecc… ma non somiglia a Kate Moss. Kate Moss è un incubo tutto femminile, questo è il guaio. La prima generazione di donne ad affrancarsi dalle proiezioni maschili ha partorito Kate Moss. Teniamone conto, prima di chiedere ad altre bambine di altri mondi di togliersi il velo.
Non vorrei dover dire che c’è più libertà sotto un velo che in una strada tappezzata di Kate Moss. Sotto un velo fa caldo, questa è l’unica cosa che so dei veli. Ma immagino che possa fare comodo un riparo, quando Kate ti fissa dal cartellone.

***

Ciò che rende tanto angosciosa questa fine 2006, secondo me, è che ormai abbiamo sviluppato un’abilità spaventosa a discutere dei nostri problemi. Ma non abbiamo ancora sviluppato nessuna capacità di risolverli.
Passiamo da uno scandalo all'altro, e sono tutti gravi: la cocaina, il malaffare nel calcio, la camorra, il bullismo, l’anoressia. A volte arrestiamo anche i protagonisti. Qualche vittima sacrificale ogni tanto: Luciano Moggi, gli studenti di Torino. E qualcun altro che se la cava con un quarto d’ora di ignominia: la Gregoraci, Kate Moss. Però i problema li vediamo. Non siamo come gli struzzi, noi. Ci andiamo a sbattere in piena consapevolezza.

Parliamo anche di anoressia in tv! con Bruno Vespa e tre stilisti che garantiscono che la moda non c’entra per niente (“è un problema psicologico”). Gente che spesso in Italia si rifiuta di commerciare la taglia Quarantasei. Persone con nomi e cognomi su capi che non produciamo più, ma che vendono a peso d’oro. Alle nostre bambine. Li vediamo, li conosciamo, sappiamo l’entità del danno che ci arrecano, ma non riusciamo a fermarli. Del resto sono la nostra gloria, il Made in Italy.

Siamo cresciuti male, sarà questo. Da una parte la tv ci ha insegnato a cercare tutto il piacere nel nostro corpo: gonfiarlo, asciugarlo, trasformarlo nel nostro bambolotto di caucciù preferito. Dall’altra parte il Papa ci sconsigliava l’uso dell’unico pezzo di caucciù che ci avrebbe permesso di scoprire un po’ di piacere (protetto) in qualcun altro. Per fortuna le cose cambiano. O no? La tv si parla addosso, ma non cambia mai. Ormai fa quasi prima a cambiare idea il Papa. E ho detto tutto.
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- non smontare la Barbie di tua sorella

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Alla corte della Donna Ragno

- Attenzione: Andropausa

Più o meno fino ai 12 anni, un maschietto non trova nella femmina nulla di realmente interessante. È una creatura insensata che gioca morbosamente con le bambole e si fissa la punta delle scarpine. Non ci si capisce nulla. Forse non c’è nulla da capire.
Quel che accade dopo i 12 anni è materia per gli endocrinologi. L’ormone insorge, avvampa, intorbida la consapevolezza. Non si tratta tanto di cercar di capire quanto di cercar di toccare. Ci si illude nel frattempo d’esser bestie razionali, di progredire anche nella conoscenza, e forse è così, ma forse anche no. Nel bene o male si comunica, ci si scrivono le mail, si fanno passeggiate assieme, si ha la sensazione di capirsi. Fino a un certo punto è anche bello, eh. E poi finisce.

Quando? Mah diciamo che a un certo punto dei trenta, finisce. L’ormone ha scollinato; la donna, pur continuando ad essere appetibile, smette d’un tratto d’esser comprensibile (lo è mai stata?). Un giorno come un altro ti trovi davanti a una vetrina, o al cinema, e ti trovi davanti… una creatura insensata che gioca morbosamente con gli accessori e si fissa la punta delle scarpine. Et voilà, il cerchio della non-conoscenza è chiuso.


- Gli uomini e le donne sono uguali (ma sono diversi)

Non si tratta di superiorità, signore e signorine. Si tratta di alterità, pane per i denti delle professioniste dei gender studies. Del resto non sarà vero anche per voi? Per un certo periodo di tempo ci siamo trovati comprensibili, ma adesso è finita. Si può andare ancora d’accordo? Magari sì, ma sarà una contrattazione quotidiana: se tu mi accompagni a vedere Spider Man, io verrò a vedere Marie Antoinette. Tu fingerai di credere agli assunti intellettuali del mio ex bambolotto di plastica preferito (dai grandi poteri derivano grandi responsabilità) e io fingerò di credere agli assunti intellettuali della tua Barbie alla Corte del Re Sole; e non farò molta fatica, visto che più o meno è la stessa musica: dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sembra proprio che i nostri coetanei americani non sappiano dirci altro. Ehi, sveglia ragazzi, non siete sempre per forza così potenti: ogni tanto perdete anche le guerre. Sì, anche voi.


- Come dei simbolici Big Jim

Però su qualcosa avete ragione: in occidente abbiamo un problema coi nostri bambolotti. Piuttosto di separarci da loro, li intellettualizziamo. Per cui ok, Marie Antoinette è la versione intellettuale di Barbie e le 12 principesse danzanti: contiene tutta una serie di metafore politiche ed esistenziali che ci farà discutere per una settimana. Anzi, mi sbilancio. Questo film ci sopravviverà, e di parecchio.
Un giorno Marie Antoinette sarà materia di studio per un popolo di un colore e di una lingua diverso dal nostro. Un signore punterà il righello sull’acconciatura di Kirsten Dunst e dirà: vedete, all’inizio del Ventunesimo secolo gli Occidentali si sentivano così. Una casta chiusa, incipriata e segregata dalla massa degli oppressi. Vecchi ruderi, puttanieri o beghine; oppure giovani signori patiti di caccia e di biliardo, ma tutti assolutamente consapevoli della propria inutilità. Da qualche parte nella campagna d’occidente, masse di selvaggi incatenati coltivavano i pomodori e realizzavano i prodotti di haute couture che Marie e le sue amichette erano condannate a consumare in grande quantità. Per far girare l’economia. L’Altro, il Lavoratore, l’Operaio, è sempre più invisibile. Sofia Coppola non riesce nemmeno a inquadrarlo in piena luce. Solo il chiasso, un chiasso spaventoso, che sale lentamente, più forte di qualsiasi playlist, un muro d’odio che ci attende da qualche parte lungo questa strada. Lo sappiamo.

E siccome lo sappiamo, e non possiamo farci nulla, che si fa?
1-2-3: shopping!


- Quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni

Il limite dell’intellettualizzazione del bambolotto è appunto questa: puoi coprirlo di sfighe e autocoscienze finché vuoi, ma il messaggio di Spider Man resta sempre “wow, che figo arrampicarsi su per i grattacieli”. Allo stesso modo, puoi scalfire Marie con mille chiavi di lettura intellettualissime e concettualissime, ma l’unica che fa scattar la serratura è: “wow, che figo essere principessa! Quante scarpe, quanti dolci, quanti cortigiani chiacchieroni!” C’è anche Ken versione stallone svedese.

Eppure, sotto sotto, Marie sarebbe una ragazza alla buona (anche Peter Parker vorrebbe soltanto essere un nerd del dipartimento di chimica, come no). In un attimo di stanchezza rilancia la moda dell’Arcadia (il Twee del Settecento). Le dame di corte si travestono da pastorelle, mungono le vacche e leggono Rousseau. Ma è solo un attimo. Può Peter Parker ignorare il suo destino di salvatore del mondo? Può Marie realmente resistere a quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni? Ok, la mezz’ora di approfondimento è finita. Si riparte col bambolotto.


- She’s got the worst taste in music

E fosse solo un bambolotto, il problema dei trentenni. Il guaio è che col tempo i giocattoli si accumulano. Il più pernicioso è l’Ipod: ci ha trasformati tutti in dj solipsisti da strapazzo, non necessariamente bravi. Sofia Coppola, per esempio, sotto i colonnati di Versailles è libera di ascoltare gli Strokes, ma è una cosa sua e unicamente sua: perché vuole impormela? O devo, anche qui, pescare una metafora? Posso anche provarci, ma non rischio di intellettualizzare eccessivamente una selezione random? “Gli anacronismi sono voluti”, ci mancherebbe altro. Ma oltre a fare i pugni con ogni buon gusto, funzionano? Vent’anni fa a Milos Forman bastava giocare un po’ coi parrucchini di Amadeus per farlo sembrare una rockstar neoromantica; invece Marie Antoinette cosa sarebbe? Una punk, perché balla Siouxsie? A questo punto facciamo come al tempo delle mele: ognuno venga al cinema con le cuffiette sue. Libero di trovare ogni sorta di accostamento. Saranno tutti originali e ci assomiglieranno.


- “La morte di una persona è una tragedia”

Il bambino chiede “come va a finire?”, la bambina: “che numero portava la principessa?”
Se vent’anni dopo la bambina porta il bambino al cinema a vedere un film storico, quest’ultimo non riconosce la Storia. Ogni spunto narrativo sembra trasformato in tappezzeria. Tutto è superficie, atmosfera. La Du Barry (magistralmente interpretata da Asia Argento, l’orgoglio del cinema italiano all’estero) ridotta a mignottona figurante: ma come? era la principale protagonista del mobbing di corte, l’altoparlante che mise in giro tante frottole che la rivoluzione avrebbe amplificato.
E ancora il bimbo si domanda: perché chiudere il film proprio là dove la storia di Marie comincia a farsi interessante? Quella notte a Versailles, per esempio, il linciaggio fu sfiorato davvero di poco. E poi? La gente esce dal cinema con la sensazione che Marie sia già sul primo gradino del patibolo. Per niente: stava andando a regnare da sovrana costituzionale alle Tuilleries, nel bel mezzo di Parigi, dove senza dubbio si sarebbe annoiata di meno. Gli ultimi mesi di vita della regina sono un incubo, però Marie li vive da donna adulta. Non è una Claretta Petacci che segue l’uomo della sua vita fino in fondo; è una degna rappresentante dell’ancien régime che tradirà il suo giuramento ai francesi, venderà il suo popolo allo straniero (suo fratello) e tenterà la fuga travestita. Certo, se oggi ci commuove Saddam Hussein, figurarsi una madre di famiglia. A dimostrazione del vecchio proverbio: uccidere una persona è una tragedia (specie se la persona in questione è una principessa, un despota, insomma un Vip); affamare un popolo è solo statistica.


- Dopo di me, il diluvioMettiamola così: io non ho visto Marie Antoinette. Non ne ero capace. Probabilmente è un bel film. Il futuro è delle donne, che leggono di più, hanno più gusto per gli accostamenti e meno inclinazione per i giocattoli pericolosi, armi e motori. Tra due secoli qualche ricercatrice scoverà la cache del mio blog e non ci troverà niente di interessante. Le schiferà il template.
Nel frattempo io continuo ad aver bisogno di donne: amiche, fidanzate, mamme, non potrei vivere senza queste presenze che non capisco. Passo la mia vita in una tappezzeria incomprensibile, ignorando tutto quello che sarebbe importante sapere, chi lo sa? Forse Marie Antoinette sono io. Perciò m'inchino a tutte voi, abbiate pietà. Non sono cattivo. Sono solo cresciuto in un mondo un po' così.
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- ciabatte

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Le sedicenni sostano, e non sanno.

Ma le ciabattine che la nonna comprava al mercato, adesso stanno in vetrina a venticinque euro. Detto questo, il pezzo di oggi potrebbe finir qui. O dovrei aggiunger qualcos’altro?
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- 2025

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Casa, dolce casa

Caro Leonardo,
sono un po’ inquieto, un blecaut programmato di sei ore non accadeva da mesi. Non è che siamo di nuovo in guerra, per caso?
Te la raccomando, San Petronio al buio d’inverno. Con la nebbia. E senza filobus: tocca scarpinare fino a casa, a rischio che mi facciano la pelle mentre scendo dal ponte di Mascarella.
A casa, poi, il solito caos. Io sono un tipo all’antica, in fondo, e continuo a immaginarmi che almeno una delle mie due mogli mi stia aspettando a casa, magari con qualcosa di caldo in un piatto: è troppo? Evidentemente sì, è troppo.
Quando alla fine apro la porta, c’è solo Leti seduta al tavolo, che sgranocchia crechers al lume di una candela.
“Ciao papà Mac”.
“Ciao Leti, hai visto per caso…”
“Mamma Sunta è andata via”.
“Via dove?”
“Non lo so, è andata via di corsa col suo collega”.
“Ah. E mamma Conci?”
“E’ di là che disfa lo zaino di mamma Sunta”.
“Bene. Cosa ci metti sui crechers?”
“Ci metto altri crechers”.
“Ma ci sarà bene qualcosa in frigo”.
“Io ho paura ad andare nel nostro frigo quando è buio”.
“Povera Leti, hai ragione, adesso ci penso io. Ma aspetta un attimo. Hai detto che mamma Conci sta disfando lo zaino…”
“Di mamma Sunta”.
“Quindi mamma Sunta è tornata”.
“Nooooo! Se ti ho detto che è andata via! Sei il solito testone, papà”.
“Tesoro, sto cercando di capire. Di solito lo zaino si disfa quando si arriva, non quando si va via, a meno che…”
“A meno che?”
“Leti, cosa sta usando mamma Conci per disfare lo zaino di mamma Sunta?”
“Le forbici e…”
“E?”
“Il catter”.
“Grazie, tesoro, adesso è tutto chiaro”

Dalla camera da letto proviene un ansimare spezzato. Vorrei essere furtivo, ma naturalm inciampo in sei paia di scarpe.
“Concetta, sei lì?”
Concetta è distesa sullo scendiletto, in una mano il catter, nell’altra un brandello di zaino invicta, uno dei tesori della famiglia. Non ne fanno più così: una volta un vicino mi offrì cinque chili di caffè vero per quell’affare. Lo abbiamo usato in tre traslochi.. Ma questo era prima che mia moglie sviluppasse istinti omicidi.
“Concetta, senti, di là c’è tua figlia che cena a grissini. Mi spieghi cosa…”
“Quella troia”.
“Ssst!
“Lo ha portato qui, hai capito? Qui! In casa nostra!”
“E tu li hai mandati via”.
“A momenti la strozzo, stavo salendo con Letizia in braccio, e lei era qui con… con quel…”
“Senti, in fondo era il posto più sicuro dove andare”.
“Ma sei ammattito?”
“No, Concetta. Sono uno che si preoccupa se sua moglie è per strada con qualcuno al buio, in mezzo a un blecaut. Sono diventato apprensivo, con l’età”.
“Sei diventato anche cornuto, sai”.
“Concetta, non ci credo. Non ci credo che hai detto questa parola”.
“E’ la parola esatta”.
“No, Concetta, no, non è la parola giusta. Siamo nel duemilaeventicinque, porca puttana. Abbiamo fatto la rivoluzione. Abbiamo inventato il Trimonio. Abbiamo fatto il Teopop. Ci si aspetta da noi qualcosa di più interessante delle solite questioni di corna. Qualcosa di più creativo”.
“Allora io, creativamente, quella lì appena torna l’ammazzo. La strozzo con le bretelle del suo zaino del c… ti pare abbastanza creativo?”
“Ma proprio non ce la fai ad accettarlo? Se c’è una persona a cui vuoi bene, con cui hai diviso tante cose, che riesce ancora a vivere una storia con una persona: buon per lei, no? Mi spieghi in che modo ti offende, oggetivam? Non ti toglie niente, non ti nasconde niente…”
“Lei, lei farebbe bene a nascondersi, perché io entro domattina l’ammazzo”.

A questo punto c’è una parola, che mi è venuta in mente da un pezzo, una parola che non dovrei assolutamente dire, perché può trasformare questo dialogo al buio in una rissa condominiale, una parola che per quanto io mi sforzi di cacciar giù sta per emergere, e io in fondo sono un debole, non so che farci, io…
“Quando mi fai queste scene, sai cosa penso di te, Concetta?”
“Cosa pensi, sentiamo”.
“Che sei gelosa”.

***

“Ciao Leti”.
“Ciao Papà, tutto bene?”
“Tutto bene, certo”.
“Ma adesso mi guardi nel frigo?”
“Povera Leti, hai ragione, vediamo. Cosa vuoi di buono?”
“Il budino”.
“Il budino, giusto. Uhm”.
“Papà…”
“Letizia, qua di budino non ce n’è. C’è un flacone di… di… conserva, e poi…”
“Papà, ti sanguina la faccia”.
“Tesoro, ti piacciono le carote?”
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No, non è la Befana

(Tremate, tremate…”)

“Pronto, ciao, ti disturbo?”
“Insomma, sto guardando delle scarpe”.
“Ah, sei in città”.
“Sì. Ho anche preso delle spillette”.
“Mmm. Bene. Magari ti richiamo più tardi, eh?”
“Sì, magari sì”
“Va bene. Buon ottomarzo”.
“Ah, è l’ottomarzo! Ecco perché!”
“Perché cosa?”
“Era pieno di vecchie qui”.
“Vecchie?”
“Sì, sotto i portici, dappertutto, coppie di vecchie in pelliccia”.
“Coppie di vecchie in pelliccia”.
“Sì, infatti mi chiedevo: ma da dove saltano fuori tutte ‘ste vecchie…”
“Perché me le dici, queste cose”.
“Ma scusa, se è vero!”
“Ti richiamo. Anzi, no…”
“Ti richiamo io”.
“Ecco”.
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Maestri di vita (14): Gianna

Gianna in realtà non si chiamava così, ma facciamo finta che.
Gianna una volta disse una cosa che non mi dimenticherò mai. Ma andiamo con ordine.

Un giorno io cominciai a pensare che la solitudine è un destino, che una persona porta con sé dalla nascita. Non ha nulla a che fare coi vestiti che uno indossa, o col peso e l’altezza, e nemmeno con l’alito, per quanto uno possa lavarsi i denti; oppure invece no, ha a che fare con tutte queste cose, ma le determina: non si è soli perché si veste da sfigato, ma ci si veste da sfigati perché si è soli, e nessuno ci ha mai spiegato i vestiti da indossare e la corretta igiene orale. È un circolo vizioso che comincia alla scuola materna, forse anche prima, e non c’è modo di evadere. Neanche cambiando città: ovunque vai, la solitudine ti precede. È come un araldo che si fa strada suonando un campanaccio: “Udite, udite! Sta arrivando Davide, è un solitario, emarginatelo”.

Queste cose io cominciai a pensarle seriamente, una mattina del settembre 1987: era il secondo giorno nella nuova scuola, e in classe quasi nessuno si conosceva. Ognuno, quel mattino, aveva scelto il banco secondando l’istinto. Orbene, c’erano 26 banchi in coppie di 2, e 25 ragazzini. Come un ballo della scopa infernale.
Io però ero stato uno dei primi ad arrivare, perciò pensavo che da un punto di vista strettamente statistico avrei avuto meno possibilità di restare solo. Mi sbagliavo. Evidentemente il mio araldo mi aveva preceduto. (“Qui si sederà Davide: mi raccomando, lasciatelo solo, lui preferisce così”). Io credevo molto all’imprinting, guardavo ai miei compagni come a tante oche di Lorenz, così al suono di quella campana pensavo che le cose si fossero decise per sempre: sei coppie maschili, sei coppie femminili, e uno sfigato. Avrei passato cinque anni così, amen.

Poi, dopo cinque minuti, la porta si aprì ed entrò Gianna, trafelata. Borbottò qualcosa su un treno che era arrivato in ritardo, e senza neanche guardare venne a sedersi di fianco a me. Questo, capite, cambiava tutto: dodici coppie omo e una coppia etero. E l’unico maschietto con una femmina di fianco ero io. Ecco che il destino mi dava un’opportunità incredibile: avrei saputo sfruttarla bene? Avevo cinque ore per fare una buona impressione. Ma come si fa buona impressione sulle ragazze? Non lo sapevo. Non lo sapevo assolutamente.

Per la verità, non è che fossi vissuto sulla luna: alle medie di cose ne avevo imparate. Per esempio, sapevo come si fanno incazzare. Ma non era certo questo il caso. Sapevo anche come innamorarmi di loro, prendermi delle sbandate storiche in totale solitudine. Avevo anche imparato come reagire con assoluta indifferenza a semi-esplicite richieste di attenzione, cosa di cui mi rimprovererò per tutta la vita. Ma tutto questo ora non mi serviva. Ora dovevo cercare di convivere con una ragazza. Dovevo dimostrare che poteva trovarsi a suo agio di fianco a me. Come fare?

Gianna era sottile, scura di carnagione, e stava dormendo. Non le era bastato perdere il treno. Il caschetto castano basculava incerto sulle spalle, e rischiava di piombare sul banco da un momento all’altro. Quando finalmente si svegliò del tutto, ebbe fame. Ogni tanto dal suo corpo partivano strani brontolii udibili sin dalla cattedra, tanto che la prof d’inglese commentò. Io non avevo mai sentito lo stomaco di una ragazza brontolare. La scuola media superiore si stava rivelando densa di sorprese.

Quanto a me, non credo che riuscii a interagire con successo il primo giorno, ma scoprii presto che la cosa non era importante. Il mattino dopo le coppie erano ormai fatte, e io ero di nuovo l’unico maschietto solitario, finché Gianna non arrivò: aveva perso il treno di nuovo. Gianna continuò a perdere il treno per tutto l’anno, anzi, perse il treno per tutti i cinque anni del liceo sperimentale. Vorrei ringraziarla qui di nascosto per aver ignorato così sistematicamente le lamentele dei docenti, e aver continuato a scegliere le pigre ferrovie di Sassuolo invece di una più rapida autocorriera. Fu grazie a questa sua scelta di vita che io imparai come si condivide il posto di lavoro con una ragazza. Lezione importante, una delle più importanti che ho imparato quell’anno (molto più importante delle declinazioni del latino, per esempio).

Per prima cosa, è inutile strafare. Bisogna essere sé stessi, anzi, diventare sé stessi, perché a 15 anni uno non è ancora niente. Se lei non ha voglia di parlare, non disturbarla. Se si mette a scherzare col maschietto che sta davanti a te, ignora le punture che ti trafiggono al petto. Se si addormenta, scuotila, con dolcezza: te ne sarà grata. Se poi si riaddormenta, non insistere troppo. Se in aprile basta sbirciare dalle maniche della maglietta per vedere il reggiseno (coi cuoricini), non girarti: non puoi fare il guardone con una persona che hai di fianco continuamente.
Se invece ogni tanto ti viene in mente qualcosa di divertente da dire, aspetta, scegli il momento giusto, e dilla sottovoce. Se lei non la troverà divertente, non se ne accorgerà nessuno.
Ma se lei si metterà a ridere come una forsennata, con la risata che aveva Gianna, che sembrava svegliarsi in quel momento ed esplodere in una cascata sghignazzante: se riesci a farla ridere, sarai il maschietto più felice della terra, perciò, presta attenzione. Come si costruisce una battuta? Come si racconta una storia? Datti da fare, ragazzo. Non emarginarti, non farti mettere in un angolo anche stavolta.

Gianna fu la prima compagna di quella classe a mostrare di gradire la mia compagnia, e io le sarò eternamente grato. Dopo di lei vennero tanti altri: Gigi che mi disegnava piselli sul diario, Ghigo che in un giorno di sciopero mi portò dal mitico Notari a provare le chitarre elettriche, Mega così detto dalle dimensioni delle cazzate che diceva, Zanna con cui misi su un complesso, Alberto che fa il giornalista, Carol che in quarta m’invitò a prendere una pizza per discutere le rispettive scelte ideologiche, Silvia che adesso ha una bambina, e tanti altri, e alla fine scoprii che stavo bene più o meno con tutti. Con gli anni i maschietti vennero duramente selezionati, rimanemmo solo in sei. Era un liceo quasi totalmente femminile, e saper interagire con le ragazze era importantissimo. Tutta la mia vita, a dire il vero, si è svolta in luoghi a preponderanza femminile. Non so se sia un destino o un caso, e non sempre mi sono trovato così bene. Ma quei cinque anni sono stati davvero i più belli della mia vita, e le ragazze hanno giocato un ruolo molto importante.

Racconto questo perché è l’otto marzo, e volevo ringraziare in un qualche modo tutte le donne che in un periodo della vita hanno dovuto sedersi di fianco a me.
Può darsi che in futuro questa storia risulterà incomprensibile. L’idea di far lavorare insieme maschietti e femminucce nell’età della crescita non ha un gran fondamento scientifico: è una di quelle stramberie pedagogiche del tardo Novecento, che i nipotini della Moratti non tarderanno a smantellare. È giusto che i poveri stiano in classe coi poveri, i ricchi coi ricchi, i bianchi coi bianchi e i maschi coi maschi. È più sano, e anche per i prof è più facile lavorare. I ragazzi arriveranno a vent’anni senza aver mai interagito con una ragazza: no problem: stiamo già pensando di riaprire i casini, per il corso accelerato. Cosa c’è di strano? Una volta si faceva così, no? Siamo noi quelli strani, maschietti che non vogliono fare i maschioni e femminucce che non si rassegnano a fare le casalinghe. Uno scherzo della storia. Ma non durerà.

Non era più l’87, era già passato qualche anno, quando Gianna disse questa cosa, che non scorderò mai. Non la disse a me, ma a una nostra compagna nell’intervallo. Io passavo di lì per caso. Disse: “se penso che devo convivere con me stessa per tutta la vita…
Non ci avevo mai pensato, eppure anch’io sono nella stessa situazione. Ormai mi conosco, e tante cose di me non le sopporto. Ma le devo sopportare: ogni giorno devo portarmi in giro, ascoltarmi quando parlo, e tante volte non faccio che dire le solite cose. È una gran palla, Gianna aveva ragione.
Fortuna che ci sono le ragazze, che tollerano di sedersi al tuo fianco, che accettano la tua compagnia, che ti costringono a tirare fuori da te stesso qualcosa di nuovo e divertente: e che a volte ti spiegano la vita. Io sono un maschietto del tardo novecento, sono cresciuto con le ragazze e ci sto bene. A volte la mia donna non la capisco proprio. Ma quando ride, per una cosa che ho detto, io sono felice. Anche ora.
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Basic Culture Simulator special release – edizione speciale in occasione dell’8 marzo

Alle donne piace Klimt

Klimt, Gustav: pittore austriaco, ma che dico, mitteleuropeo. Fu uno degli artefici della Secessione, (secessione da cosa? Non si sa). Nei suoi quadri i dettagli anatomici delle figure si confondono con i motivi ornamentali dei lenzuoli e della carta da parati, creando un gradevole effetto patchwork. Alle donne piace un sacco. Ma perché?

Una sera io e il mio amico Ivo, non mi ricordo cosa avessimo bevuto, ma ci eravamo immaginati di essere agenti di un corpo speciale in cui vestiti tutti di nero con gli occhiali scuri si andava a bussare alla porta delle signorine dai 22 ai 30 anni:
Toc toc.
“Ma chi è a quest’ora?”
“Siamo il Corpo Speciale per la tutela del gusto, veniamo a requisire i suoi poster di Klimt”.
“Ma… ma io non ho poster di Klimt!”
“Hai sentito? Dice che non ha poster di Klimt! E magari non ha nemmeno una cartolina di Schiele”.
“Beh, una sì, ma piccola…”
“Appunto. Tu, Ivo, parti dalla camera. Io darà un’occhiata al soggiorno…”
“Come sarebbe a dire? Lei non può fare questo!”
“In base alla nuova normativa (srotolo un codicillo scritto in caratteri incomprensibili) posso farlo, sì. Mi dispiace… (Alzo appena appena i miei occhiali scuri lasciando filtrare il ghiaccio dei miei occhi) nulla di personale”.
“Ma non capisco perché…”
Arriva Ivo dal corridoio, con un quadretto in mano: “Ho trovato lo Schiele, e qui c’è anche una Lempicka.
“Peerò! È la terza questa settimana”.

Io la Lempicka posso anche capirla, perché i suoi quadri sono molto colorati e assomigliano a cartelloni pubblicitari (del Campari). Ma Schiele e Klimt? Grandi artisti, indubbiamente. Ma perché sono gli artisti più presenti nelle camere da letto femminili? Perché in tutte le cartolerie rispettabili ci trovi almeno due o tre Klimt e nessun Tiziano? Non è una questione di armonia, perché non sono pittori armoniosi, anzi. Un motivo ci dev’essere. Quando avrò capito questo motivo, avrò capito le donne.

Forse ha a che fare con le tette. Le tette piacciono a tutti, uomini e donne, perché tutti siamo stati allattati, o comunque ne soffriamo una cocente nostalgia. Ma appena scesi dal grembo materno le nostre strade si biforcano. Per i maschietti la tetta diventa un traguardo lontano, un frutto glorioso da conquistare con anni di ricerche, appostamenti, lotte. Così la tetta diventa racconto, e come tutti i racconti perde gradatamente contatto con la realtà, tracima nel favoloso. I maschietti sognano tette enormi ma leggere, morbide ma sode, che sfidano le leggi della fisica e che non sono mai state viste sulla terra, prima dell’avvento della chirurgia plastica. I maschietti attaccano alle pareti calendari di donne mostruose, campionesse mondiali di circonferenza, fenomeni da guinness dei primati (ma anche un po’ da baraccone).

Con le donne il discorso cambia. Con le tette ci devono convivere, e non dev’essere una convivenza facile. Come si può continuare a trovare piacevole qualcosa che si ha continuamente sotto gli occhi?
Le donne riescono a farlo. Le donne non hanno passione per i record, e forse non amano nemmeno troppo i racconti, ma riescono a trovare la bellezza nel quotidiano: nella linea di un abito, o nel motivo della carta da parati. Così alle pareti ci attaccano Klimt, quello che dipinge donne nude come se fossero motivi ornamentali.

Ma questa è semiologia da cialtroni, centounismo d’accatto, e sessista per di più. Perché mai dovrei ostinarmi a capire le donne? Cosa significa capirle? Non sono che un uomo, che pensa per racconti, e ha davanti sempre un record da battere. Per me "capire" significa "dominare", non è vero?

“Che bella casa che hai!”
“Ti piace?”
“Sì, è molto… è molto… elegante, ecco”.
“Perché ti guardi intorno in quel modo?”
“In che modo?”
“È come se stessi cercando qualcosa”.
“N-no, è solo che…”
“È come se tu stessi cercando se ho dei poster di Klimt alle pareti”.
“Come hai fatto a capirlo?”
“Non ho poster di Klimt alle pareti. A me piace il Cinquecento italiano”.
“Davvero! Anche a me, moltissimo. Eppure a dirlo in giro sembra banale”.
“È sempre il solito problema. Dici Cinquecento e tutti pensano alla Gioconda…”.
“…o alla Cappella Sistina…”
“Mai nessuno che si fermi a guardare un Parmigianino”.
“Non dirmi che ti piace il Parmigianino!”
“Moltissimo”.
“E Pontormo?”
“Adoro Pontormo”.
“Sul serio… E magari hai un debole anche per il Correggio…”
“È chiaro, no? Ma perché fai quella faccia?”
“No, è che… di solito alle ragazze piace Klimt, ma tu… tu sei diversa”.
“Senti, vuoi venire di là?”
“Eh? Di là dove?”
“Dove secondo te? Siamo in un bilocale… Ti voglio mostrare una cosa”.
“Ma io… non so”.
“Dai, facciamo in un minuto”.
“Dici?”
“M’interessa il tuo parere”.
“Se insisti”.

Lei apre la porta di camera sua e accende la luce.
Urlo.
Sulla testiera del letto c’è un puzzle ravensburger 1000 con i due puttini di Raffaello.
Fuggo via strappandomi ciocche di capelli ed emettendo latrati sconnessi.
“Peccato”, dice lei. “Sembrava così sensibile...”
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Ho visto un bel film l'altra sera
Perché non fanno più film come All about Eve?
Dove tutti i personaggi parlano come libri stampati, ma almeno dicono cose interessanti.
Forse oggi si ha pudore di mettere in scena tanti ricconi – forse i ricconi non sono più così squisiti nei modi – in ogni caso è un peccato.
Un microcosmo dove è tutto intreccio, tutto dialogo, tutto è causa ed effetto. Si sente che è stato tagliato tutto il tagliabile. Ogni fotogramma è uno sguardo, una battuta, un movimento necessario. Se Bette Davis, Margo, entrando in ritardo in teatro (e nel frattempo Eva le si è sostituita), passa davanti a una locandina, qual è il titolo della locandina? The devil's disciple: Eva è discepola del demonio (e anche di Margo). Ancora: se Margo imprigionata nell'auto accende la radio, che canzone si sente? Liebestraum, la stessa del party fatale di qualche giorno prima.
Oggi non si fanno più rimandi così. Al posto della locandina metterebbero uno spot occulto della cocacola. Se qualcuno accende un autoradio è per farti sentire l'original soundtrack che puoi acquistare nel negozio a fianco.
E poi, oggi i film ti devono rassicurare. Dai, spettatore, va tutto bene, le disgrazie succedono, ma prima o poi i buoni sentimenti vengono premiati.
All about Eve è una tragedia dove non muore nessuno, ma tutti ci rimettono qualcosa: i buoni sentimenti, appunto.
Oggi invece fanno film come Tutto su mia madre, dove le donne sono così buone e volonterose, e sì che le capita ogni sorta di disgrazie, ma alla fine vincono loro.
Invece in All about Eve le donne sono false, astute e intriganti (Eva). O narcise e isteriche (Margo). O al limite anche buone e brave, ma con effetti disastrosi (Karen). Sono anche – diciamolo – molto più affascinanti di quelle di Almodovar. Tutto su mia madre doveva vincere la palma d'oro a Cannes due anni fa. Gli sponsor erano d'accordo, i critici plaudevano alla citazione colta, gli spettatori non chiedevano meglio che di starnutire nei fazzoletti davanti al miracolo finale del bimbo che nasce con l'AIDS, ma poi gli passa. (Neanche in una sceneggiatura si può più far soffrire un bambino).
E invece, forse per lo zampino di Cronenberg presidente di giuria, Almodovar si vide soffiare la palma da un filmetto belga, Rosetta, girato con uno stile che faceva rimpiangere la mano ferma di certi dogmatici danesi. Con gran scandalo di sponsor, recensori, nani e ballerine. (Che tanto poi si sarebbero rifatti con l'Oscar). Ironia della sorte, Rosetta è una donna crudele e traditrice che rassomiglia a Eva molto più di qualsiasi madonnina infilzata almodovariana. La sua vita in una roulotte è a mille miglia da Broadway, e dove c'erano battute di teatro qui ci sono soltanto silenzi e insulti, ma la storia c'è. È un bel film che non ti consola e non ti guarisce. E allora a cosa serve? Mah. A cosa serviva All about Eve? Non lo so, eppure mi piace. Forse a dirci qualcosa di cattivo su noi stessi? (E la pietà per le donne, per i bambini?)
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