Storie di radio libere e indipendenti: dall’etere al digitale
19/11/2021Il ManifestoEventi. Seconda edizione a Padova del Gemini festival: tre giorni di incontri, workshop con il mondo delle emittenti. Un network che vuole essere sperimentazione di rete e condivisione di saperi
La radio con tutte le sue sfaccettature, dal podcast alla musica live, dalla diretta giornalistica al talk show, sarà la protagonista della seconda edizione del Gemini Festival che si svolgerà a Padova negli spazi del Centro Sociale Pedro da oggi a domenica 21. A far gli onori di casa, sarà la storica Radio Sherwood, fondata nel 1976, all’epoca dell’esplosione del fenomeno delle radio libere e alternative per dar voce alla contestazione. Quarantacinque anni dopo, Radio Sherwood non solo è sopravvissuta agli anni del cosiddetto «reflusso» ma si e ritagliata un ruolo sempre più da protagonista nella scena politica e culturale del nordest organizzando manifestazioni come lo Sherwood Festival.
DOPO LA PRIMA EDIZIONE svoltasi lo scorso settembre a Perugia, ospite di Lautoradio, il Gemini Festival farà quindi tappa a Padova con un programma ancora più ricco, forte di un crescente supporto di radio indipendenti che si sono aggiunte alle otto fondatrici del Gemini Network: Radio Sonar, Radio No Border, Radio Roarr, Radio Città Aperta, Radio Senza Muri, Radio Ciroma oltre alle già citate Lautoradio e Sherwood, che garantiscono la presenza di una sorta di «redazione diffusa» capace di coprire dal sud al nord l’intero territorio italiano, intrecciando storie ed esperienze. Il nome del festival e del network è stato scelto in ricordo di Corrado Gemini, attivista politico e teorico del copyleft e delle licenze Creative Commons sulle opere intellettuali. «Al contrario di quando credono alcune persone, oggi la radio è più viva che mai – ha spiegato Antonio Pio Lancellotti, direttore del sito Global Project, tra gli organizzatori del Gemini Festival – Il web ha spalancato nuovi spazi alle diffusione dei nostri contenuti. I nuovi strumenti digitali, come il podcasting, hanno allargato quegli orizzonti che prima erano confinati nell’etere. Un processo questo, che è in continua evoluzione ma che si sta dimostrando capace di aprire nuovi canali alternativi non solo di narrazione, ma anche di fruizioni di contenuti, di confronto e di organizzazione».
LA PANDEMIA e le conseguenti chiusure, hanno avuto un ruolo importante nell’accelerare questo processo. Non è un caso che la prima edizione perugina si sia svolta subito dopo la fine del primo lockdown. Ma se la prima edizione si era posta l’obiettivo di dare un segnale forte verso la ricerca di nuove forme di comunicazione in un momento difficile, l’edizione di quest’anno si colloca in una fase diversa, e per certi versi più contraddittoria della precedente. «Oggi ci troviamo in un momento in cui la comunicazione è completamente polarizzata – spiega Lancellotti -, e la stessa idea di “ripartenza” lascia meno margini a progetti come il nostro che fanno dell’indipendenza il proprio manifesto. Per questa ragione, le radio che si riconoscono nel Gemini Festival ribadiscono l’importanza di non fermarsi al singolo evento, ma di far emergere in esso l’espressione del lavoro che tutti i giorni, il Network svolge. Perché Gemini Network è innanzitutto sperimentazione di rete, vale a dire un costante scambio di competenze, condivisione di saperi, messa in circolo di pratiche ed di esperienze».
IL PROGRAMMA di questa edizione è ricco di eventi che spaziano dai laboratori ai dibattiti e alla musica dal vivo. La giornata odierna sarà dedicata al workshop sulla narrazione della crisi ecologica curato da Marco Stefanelli di Guide Invisibili. La sera appuntamento clou con le attiviste di Fem.In di Cosenza, che racconteranno le battaglie per il diritto alla salute vista da una prospettiva femminista e radiofonica. Sabato saranno due gli appuntamenti principali. Il primo con il dibattito sul diritto d’autore che avrà come protagonisti il giurista Simone Aliprandi e il fondatore di Patamu, Adriano Bonforti. Patamu è un registro online che genera una «prova d’autore» per qualsiasi opera creativa, tutelando gli autori e consentendo loro di pubblicare e condividere in sicurezza i propri lavori. Il secondo appuntamento avrà come tema l’identità della radio all’interno della cosiddetta «Era dei podcast». Tra i relatori Andrea Borgnino di Radio Rai e Jonathan Zenti di Internazionale.
Chiusura domenica con l’assemblea plenaria plenaria della rete di radio indipendenti per disegnare il percorso del Gemini Network e proporre i prossimi appuntamenti. Per accedere agli incontri sarà necessario il Green Pass o comunque un tampone negativo che potrà essere effettuato a prezzo di costo in una area predisposta del centro sociale.
Perché Bolsonaro voleva andare al Santo e perché era necessario rovinargli lo show
3/11/2021Global ProjectPer quanto riguarda la pandemia, il presidente brasiliano si è barcamenato sin dall’inizio dal negazionismo complottista ai famosi “trattamenti precoci” basati sull’uso di farmaci come l’idrossiclorochina e l’ivermectina. Trattamenti considerati inutili se non addirittura pericolosi dall’Oms e dalla comunità scientifica internazionale. Il risultato è che lo stesso rapporto sulla gestione della pandemia stilato dalla speciale commissione del parlamento brasiliano ha stimato che circa 606 mila brasiliani sono morti per una gestione definita criminale del Covid. Il senatore Renan Calheiros, tra i conduttori dell’inchiesta, ha dichiarato espressamente: "ho trovato le impronte del presidente nel malaffare” e Bolsonaro è stato ufficialmente incriminato per nove pesanti reati tra i quali figurano anche i crimini contro l’umanità. Come se non bastasse, Bolsonaro è ufficialmente indagato anche per altri due scandali relativi all’acquisto di vaccini, così come risultano indagati alcuni membri della sua famiglia ai quali il presidente, all’insegna del più puro nepotismo, aveva assegnato importanti incarichi.
La crisi sanitaria ha incentivato la profonda crisi economica che era già in atto ed ha causato un aumento dei prezzi che, su base annua, è stato stimato attorno al 10%. Intere fasce di cittadini che prima campavano con lavori precari o gestivano piccole aziende familiari, sono finiti ad ingrossare le file dei senza tetto.
Tutto questo ha infangato l’immagine di un presidente eletto in base alla promessa che, con l’aiuto di dio e di sant’Antonio avrebbe trasformato in nababbi tutti i brasiliani. Per non parlare del sostegno di una campagna di fake news come neppure Trump era riuscito a condurre. Cosa che, proprio come con l’ex presidente statunitense, ha portato ad una vera e proprio guerra tra lui ed i social, tanto che è stato approvato un decreto - non ancora convertito in legge - con l’intento di impedire la cancellazione dei suoi post sulle piattaforme che hanno accettato di moderare i contenuti col fact-checking.
È in questo contesto di profonda perdita di credibilità che Bolsonaro è venuto in Europa con l’intento di partecipare al G20 romano e successivamente alla Cop di Glasgow.
Per dirla come va detta, a Jair Messias del G20 non gliene poteva fregare di meno. E della Cop sul clima, meno del meno. Il vero motivo della sua comparsata europea era quello di recuperare credibilità nel suo Paese toccando i temi ai quali i brasiliani sono più sensibili come la migrazione e la religiosità. Per architettare l’operazione, Bolsonaro si è affidato all’amico Luis Roberto Lorenzato, deputato italiano eletto nella circoscrizione brasiliana (eh sì! L’Italia che è quel Paese dove non ti danno la cittadinanza e non ti fanno votare anche se ci risiedi e ci paghi le tasse da 10 anni, ma fanno eleggere onorevoli a gente che non parla neppure la nostra lingua ma ha un bisavolo italiano).
Tutto era stato orchestrato come la sceneggiatura di un film. Il presidente si fa vedere a braccetto con i “grandi” della terra, poi a spasso per le strade di Roma con la gente - migranti brasiliani ma anche cittadini italiani - che lo osannano come un campione olimpico. Le Tv brasiliane sparano questa spazzatura su tutti i canali. Nei social ufficiali del Governo, spopolano i post di Jair - che torna da vincitore nel Paese dal quale era partito, povero in canna, il suo bisnonno. Ai poster e alle consuete “mascherine” dedicate ai vari canali internet col presidente che sorride accanto alla scritta “il Brasile sopra tutto, dio sopra tutti” viene aggiunto: “L’Italia nel cuore”.
A questo punto, mancava solo la cittadinanza ad honorem. Per fargliela avere, Lorenzato si è affidato ad un altro deputato leghista eletto nel Veneto, Dimitri Coin, che si è fatto carico di perorare il conferimento dell’onorificenza all’amministrazione comunale di Anguillara. Incarico facile, perché il Comune è in mano alla Lega.
E proprio qui, arriva qualcuno a rovinargli la festa, al nostro Jair! E non è il presidio con tanto di sventolio di bandiere rosse in piazza De Gasperi, perché era già pronto a far da comparsa, nei pressi del municipio, un capannello di fedelissimi bolsonariani per permettere alle tv di filmare la “calorosa accoglienza” del ritorno a casa di Jair.
A rovinare lo show sono state solo e soltanto le attiviste e gli attivisti di Rise Up 4 Climate Justice che venerdì scorso hanno letteralmente smerdato la scena in cui il presidentissimo doveva esibirsi! Solo per questo la cerimonia non è stata svolta dove doveva svolgersi: nella sede del Comune di Anguillara. Bolsonaro e il suo seguito han dovuto saltare la tappa e passare direttamente al pranzo in una villa blindata. Nemmeno una passeggiata per una foto ricordo alla casa del bisnonno, ha potuto fare il "nostro" Jair!
E se l'avventura italiana è cominciata male, è finita ancora peggio. Il presidio indetto dal centro sociale Pedro e da altre realtà padovane a Prato della Valle, resistendo alle violente cariche ed agli idranti, ha completato l’opera, impedendo a Bolsonaro di entrare in un luogo famoso e venerato in tutto il Sudamerica come la basilica di Sant’Antonio che, ricordiamolo, è il veneratissimo patrono del Brasile! Anche i frati del Santo, va detto, ci hanno messo del loro, rifiutandosi di incontrare Bolsonaro e sottolineando in un comunicato “le strumentalizzazioni della religione, le devastazione ambientali e l’aggravarsi di una grave crisi sanitaria” imputabili al presidente brasiliano, ospite sgradito.
Una bella botta per un uomo che ha fatto della religione e di sant’Antonio i cardini della sua azione politica per giustificare, in nomine dei, il sacco dell’Amazzonia e il conseguente genocidio dei popoli originari! E dire che Bolsonaro ha espressamente evitato la Cop di Glasgow - dove pure era atteso - proprio per non essere contestato!
Non c’è che dire: il ritorno di Jair Messias Bolsonaro in terra patria sarà il ritorno di uno sconfitto. Tenuto anche presente che, intanto lui che cercava inutilmente di mettere piede in basilica per implorare l’aiuto del Santo, in Scozia i delegati brasiliani cedevano alle pressioni internazionali e firmavano l’accordo per mettere fine alle deforestazioni. Sì, certo, è il solito “bla, bla, bla” nel più puro e consolidato stile delle Cop, ma ai suoi amici latifondisti questa nuova presa di posizione non ha fatto piacere. Jair aveva promesso loro ben altro. Ma si vede che stavolta a sant’Antonio son girate le scatole!
Bolsonaro non è gradito, in Veneto show annullato
2/11/2021Il ManifestoLa visita. Ad Anguillara il presidente brasiliano costretto a disertare il comune. La cittadinanza onoraria della sindaca leghista consegnata in un ristorante. E poi va Padova senza farsi vedere
Niente passeggiata commemorativa per le strade del paesello che ha dato i natali a suo bisnonno Vittorio, emigrato in Sudamerica nel lontano 1888, per Jair Messias Bolsonaro. Il presidente del Brasile ha deciso all’ultimo momento di rinunciare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza, prevista nella sede del Municipio di Anguillara Veneta, per evitare di transitare in mezzo ad una piazza pronta a contestarlo.
GIÀ ALLE DIECI DI MATTINA, nonostante il freddo e la pioggia battente di una regione in allarme giallo, almeno 200 manifestanti si erano radunati in piazza De Gasperi per attendere l’ospite non gradito. Bandiere di Europa Verde, Cgil, Rifondazione, Anpi e anche tante bandiere dei Sem Terra e del Brasile, sventolate dai migranti provenienti dal Paese sudamericano. Dietro ad un grande striscione con la scritta «Bolsonaro vergogna del Veneto» che ribaltava quello dietro al quale si erano fatti immortalare i consiglieri regionali leghisti «Bolsonaro orgoglio veneto» nei giorni della sua elezione a presidente anche una rappresentanza di consiglieri dell’opposizione.
Senza bandiere e senza striscioni, ma non per questo meno rilevante, la partecipazione di alcuni frati comboniani che hanno ricordato i loro martiri come padre Ezechiele Ramin e don Ruggero Ruvoletto, assassinati per aver difeso le popolazioni originarie d’Amazzonia. Quella stessa Amazzonia che Bolsonaro ha consegnato ai latifondisti e alle multinazionali dei fossili, facendo degli indigeni carne da macello. «Conferire la cittadinanza a uno come Bolsonaro che proprio pochi giorni fa è stato deferito per crimini contro l’umanità da una commissione parlamentare del suo stesso Paese, è uno schiaffo ai valori della giustizia ecologica e sociale ha urlato Paolo Perlasca, portavoce di Europa Verde -. Soltanto con la sua gestione della pandemia, tra negazioni, false cure a base di idrossiclorochina e ritardi nella vaccinazione degli indigeni, ha causato 606 mila vittime! Magari la cittadinanza gliela potevano conferire domani (oggi, ndr) che è il giorni dei morti!».
IL PRESIDENTE BRASILIANO col suo seguito personale e i deputati leghisti Dimitri Coin e Luis Roberto Lorenzato, gli artefici dell’operazione, si è recato direttamente al ristorante di Villa Arca del Santo dove ha pranzato con la sindaca di Anguillara, Alessandra Buoso, e alcuni discendenti della famiglia Bolsonaro, suoi lontani parenti. Qui, «felice e onorato per l’onore ricevuto», Jair Bolsonaro ha ringraziato la sindaca per la cittadinanza e un gruppo di suoi entusiasti fedelissimi che lo hanno osannato davanti ai cancelli di Villa Arca.
Niente osanna per il presidente a Padova dove, nel primo pomeriggio, circa 500 attiviste ed attivisti dei centri sociali e di altre realtà cittadine, si sono dati appuntamento a Pra’ della Valle con l’intenzione di raggiungere il sagrato della Basilica del Santo dove Bolsonaro aveva annunciato che si sarebbe recato per pregare Sant’Antonio, patrono del Brasile. Il corteo è stato fermato da un cordone di forze dell’ordine. Manganellate, idranti, cariche violente, scene da guerriglia urbana e unattivista fermata è il bilancio degli scontri.
FREDDA COME L’ACQUA degli idranti, l’accoglienza che il presidente ha ricevuto dalle autorità civili e religiose della Città del Santo. Il sindaco, Sergio Giordani (a capo di un’amministrazione di centrosinistra), ha fatto sapere che aveva «altro da fare». Il vescovo Claudio Cipolla e il rettore della
basilica francescana, Antonio Ramina, hanno diffuso un comunicato in cui, proprio in virtù del forte legame costruito dai migranti che dalla terra veneta sono andati in Brasile, e «per la presenza missionaria diocesana e di diverse famiglie religiose che vivono il loro servizio in quel Paese, non possiamo dimenticare le testimonianze pagate con il sangue e neppure la sintonia e l’amicizia personale ed ecclesiale con i vescovi del Brasile, che proprio in questi mesi stanno denunciando a gran voce violenze, soprusi, strumentalizzazioni della religione, devastazione ambientali». La protesta trasversale di Padova costringe così il presidente brasiliano, che ieri ha snobbato l’apertura di Cop26 preferendo lo show veneto, a visitare la Basilica solo nel tardo pomeriggio e in forma riservatissima, entrando da un ingresso secondario per non essere visto.
Frati, centri sociali e ambientalisti: «Fora Bolsonaro»
30/10/2021Il ManifestoItalia/Brasile. Cittadinanza onoraria e sant'Antonio: il presidente brasiliano lunedì ad Anguillara Veneta e Padova. Ma ad accoglierlo c’è solo la Lega, che lo considera «orgoglio veneto». La mobilitazione è già partita
Anguillara Veneta, paese di poco più di 4mila abitanti sprofondato nella Bassa Padovana, si è trovata ieri mattina con il municipio ricoperto di vernice e con qualche carrellata di sterco davanti alla porta.
L’azione è stata rivendicata dalle attiviste e gli attivisti della rete Rise Up 4 Climate Justice che hanno tappezzato il paese di scritte «Fora Bolsonaro!». Un modo diretto e colorito per spiegare al presidente brasiliano che la sua visita, prevista per la mattinata di lunedì 1 novembre, non è affatto gradita a chi combatte i cambiamenti climatici.
E anche per far capire alla sindaca leghista del paese, Alessandra Buoso, che non era il caso di concedere la cittadinanza ad honorem a un politico contro cui è in atto alla Corte internazionale dell’Aja un procedimento per istigazione al genocidio delle popolazioni indigene dell’Amazzonia.
La notizia del conferimento della cittadinanza di Anguillara paese di nascita del bisnonno del presidente a un discusso uomo politico come Jair Bolsonaro ha sollevato il classico vespaio di proteste, non solo nel Veneto ma anche in tutta Europa.
La stessa sindaca ha cercato di smorzare le polemiche attenuando i toni entusiastici dei primi comunicati. «Conferendo la cittadinanza al presidente Bolsonaro ha spiegato Buoso intendiamo conferire idealmente questo onore a tutti i nostri migranti che hanno preso la via del Brasile».
Una lettura subito smentita dalle opposizioni in consiglio comunale che hanno fatto notare come nella delibera non si faccia nessun accenno ai nostri emigrati ma si citi solo ed esclusivamente Bolsonaro.
D’altra parte, l’esaltazione della Lega per il presidente brasiliano, bisnipote di un veneto doc, si è manifestata sin dal giorno delle sua elezione, quando i consiglieri regionali del Carroccio si sono fatti immortalare felici e contenti mentre reggevano uno striscione con la scritta «Bolsonaro orgoglio veneto» sullo sfondo del Canal Grande.
Orgoglio che oggi soltanto i leghisti continuano imperterriti a manifestare, rilanciando il tweet preparato dal loro deputato Luis Roberto Lorenzato, non a caso eletto nella circoscrizione estera del Sudamerica, che ritrae un Bolsonaro sorridente accanto alla scritta «L’Italia nel cuore, il Brasile sopra tutto, dio sopra tutti».
Lorenzato è il vero artefice di questa operazione mediatica che gioca sulle emozioni del ritorno alla terra degli avi e sulla fede religiosa.
Dopo Anguillara, il primo cittadino brasiliano raggiungerà Padova per pregare nella Basilica di sant’Antonio, santo di lingua portoghese molto venerato in Brasile. Ma, nonostante le pressioni di Lorenzato e dei consiglieri leghisti in Regione, l’amministrazione di centrosinistra di Padova ha già fatto sapere che considera il presidente un ospite poco gradito e che non sarà ricevuto in Comune.
Non solo. Anche i frati francescani hanno annunciato che, pur non potendo impedire a Bolsonaro di pregare nella basilica, non hanno la minima intenzione di accoglierlo, né in forma ufficiale né privata, e che, per dirla tutta, loro stanno dalla parte degli indigeni.
In Prato della Valle insomma, ad attendere il presidente brasiliano ci sarà solo la Lega. La Lega e gli attivisti degli spazi sociali del nord est, ma con fini radicalmente opposti. «Perché contestiamo Bolsonaro? spiega Rolando Lutterotti Perché è una sintesi perfetta di tutti i mali contro cui lottiamo: ha consentito le aggressioni agli indigeni, ha incendiato e deforestato l’Amazzonia consegnandola alle multinazionali del legno e dei fossili, nega i cambiamenti climatici, si dichiara razzista e omofobo, e come se non bastasse, la sua gestione della pandemia ha causato almeno 600mila morti in Brasile. Ce n’è a sufficienza, mi pare, per contestare questo Hitler del nostro secolo».
In piazza anche Europa Verde che lunedì mattina sarà ad Anguillara per distribuire volantini informativi sui crimini compiuti da Bolsonaro verso l’ambiente e le popolazioni indigene.
«La cittadinanza a un personaggio come Bolsonaro è uno schiaffo alla memoria delle molteplici vittime dell’azione politica spregiudicata di questo politico spiega l’ambientalista Paolo Perlasca -. Europa Verde è pronta a ricorrere in Tribunale per annullare questa decisione».
Droni, telecamere e riconoscimento facciale. L’intelligenza artificiale alla prova della democrazia
18/10/2021Global ProjectAlgoritmi intelligenti analizzano i dati raccolti da milioni di sensori, generando informazioni in grado di rendere efficiente qualsiasi città. In Spagna, alcune città queste telecamere hanno ottimizzato la raccolta dei rifiuti e migliorato la qualità dell’aria. Los Angeles grazie ai sensori intelligenti, ha ridotto del 15% il tempo di percorrenza in auto, applicando una diversa gestione dei semafori, diminuendo il traffico ed abbattendo l’inquinamento. Nei Paesi Bassi, le lampade intelligenti possono prevedere lo scoppio di una rissa analizzando i movimenti delle persone e il livello di “rumore” della folla.
Le stesse identiche tecnologie, tutto sommato molto economiche, però, possono essere applicate anche a scopi commerciali o per fini illeciti e consentire un facile controllo di massa diffuso.
“Ogni volta che un utente crea un account Facebook, aumenta esponenzialmente il valore della rete. La tutela dei dati personali, il diritto alla riservatezza, il diritto di espressione e di associazione pacifica e di riunione sono alcuni dei settori quotidianamente maggiormente coinvolti dall'arrivo dei sistemi di IA - spiega l’avvocata Maria Stefania Cataleta, legale accreditata alla Corte penale internazionale e specializzata nella difesa dei diritti umani -. Pertanto, una serie di diritti vengono messi in discussione online. Quando trasmettiamo informazioni sui nostri movimenti o abitudini tramite un telefono cellulare, il nostro diritto alla privacy viene messo in discussione. Quando partecipiamo a dibattiti pubblici online, esprimendo la nostra opinione, esercitiamo la nostra libertà di espressione. Quando utilizziamo un'applicazione per accettare di partecipare a una manifestazione pubblica, esercitiamo il nostro diritto all'assemblea pacifica. In tutti questi casi sono in gioco i diritti umani”.
Maria Stefania Cataleta ha affrontato la questione nel suo ultimo libro, “Diritti umani e algoritmi”, edito da Nuova Editrice Universitaria. “Il diritto alla privacy è tutelato da diversi strumenti internazionali - spiega l’avvocata - ma questo diritto è costantemente minato dall'uso di Internet, che viene alimentato da un numero sempre maggiore di informazioni. Questi possono essere forniti con il nostro consenso ma anche estratti in modo fraudolento e utilizzati da reti criminali per estorcerci denaro, dai governi per effettuare controlli di massa o attraverso modi più banali come ad esempio dalle aziende per modellare i loro annunci pubblicitari in base al nostro profilo personale”.
Un campo questo, in cui legiferare è difficile. Da un lato, l’Europa si è dotata delle legislazione più protettiva al mondo per la protezione e la difesa della privacy dei suoi cittadini, ma dall’altro, proprio in virtù di questa legislazione rischia di trasformarci in una “colonia digitale” di Paesi come gli Usa o la Cina i cui governi sono quantomeno riluttanti ad approvare leggi o regolamenti che limitino l’uso di tecnologie legate all’Intelligenza artificiale.
“Gli Stati Uniti usano i loro prodotti naturali del capitalismo, Wall Street e Silicon Valley, per guidare la carica nel progresso dell’Intelligenza artificiale. Diverso l'approccio della Cina, che supporta la ricerca in questi campi con larghi finanziamenti pubblici, ma non sembra prestare attenzione al diritto fondamentale alla privacy individuale”.
Un esempio sono i nuovissimi droni equipaggiati con telecamere di riconoscimento facciale. Un campo questo, in cui l'intelligenza artificiale sta compiendo passi importanti. La Cina, in particolare, legge nel riconoscimento facciale un vantaggio strategico da esportare in tutto il mondo, ma senza tener conto dei rischi per i diritti umani legati a questa tecnica che consento il tracciamento completo di ogni cittadino. Non solo negli spostamenti, ma anche nelle abitudini e nelle reazioni di fronte a tutte le situazioni.
Gli scenari che si prospettano sono degni dei più famosi e angoscianti romanzi dispotici. E senza bisogno di regimi esplicitamente totalitari in stile “Grande Fratello”, perché, grazie alla rete, il capitalismo sta trasformando in merce anche la nostra stessa libertà e la nostra privacy sta diventando un prodotto da mettere nel mercato come una saponetta o un paio di pantaloni. E, per di più, col nostro stesso consenso, come si dice, “informato”!
“Oggi le persone offrono i propri dati personali volontariamente - conclude l’avvocata Cataleta -. Se in passato l'obiettivo era quello di tutelare il privato cittadino dall'ingerenza dello Stato e dagli abusi di potere, la tutela contro l'abuso di informazioni personali oggi mette in discussione il ruolo dei soggetti che offrono volontariamente i propri dati personali a società private in cambio di vantaggi. Gli utenti di Internet, infatti, rendono possibile, volenti o nolenti, la ricostruzione del proprio profilo individuale attraverso i cookie, il tracciamento, ed il consenso alla vendita dei propri dati. I diritti umani perdono il loro significato, nel caso della privacy, dove il loro uso può essere scambiato come qualsiasi altra merce in cambio di denaro o altri vantaggi. La libera vendita della privacy finisce per consentire il controllo totalitario da parte di chi gestisce queste informazioni per conoscere, pilotare e guidare, perché gli strumenti di apprendimento automatico hanno la capacità crescente non solo di prevedere le scelte, ma anche di influenzare emozioni e pensieri”. Che è come dire, la fine della democrazia.
A Milano un Climate Camp per la giustizia climatica
1/09/2021EcoMagazineL’obiettivo della mobilitazione è quello di contribuire a costruire dal basso quelle azioni che i Governi intendono applicare solo a parole, evitando di affrontare l’unico cambiamento reale e necessario richiesto dalla situazione che stiamo vivendo: rinunciare cioè a quell’assurdità fisica che è il paradigma della “crescita infinita” e costruire una nuova economia sostenibile capace di portarci oltre il modello capitalista.
Un esempio tutto nostrano di questo agire ipocrita e gattopardesco, è il nostro cosiddetto Ministero della Transizione Ecologica. Ministero che di “ecologico” ha solo il nome. Proprio oggi, Roberto Cingolani in un suo intervento alla scuola di formazione di Italia Viva, ha definito gli ambientalisti dei “radical chic” che “sono parte del problema, peggio della catastrofe climatica”. Un insulto inaccettabile rivolto a tutto il pur variegato arcipelago ambientalista che ci ricorda tanto una divertente battuta della serie americana dei Simpson - “Maledetti ambientalisti! Sono loro che hanno rovinato l’ambiente!” - soltanto che quella del ministro non era una battuta.
A questo link, potete leggere l’appello del Climate Camp. Per prenotare il vostro posto in campeggio, cliccate qui.
A questo link si può prenotare il posto in campeggio.
La Riforma della Giustizia è un colpo di spugna per i reati ambientali
8/08/2021EcoMagazine, Global ProjectL'appello delle associazioni per inserire l'ambiente nella lista dei reati che non possono essere oggetto di prescrizione come quelli di mafia
Cominciamo subito con qualche esempio. Se la cosiddetta “riforma della giustizia” fosse già stata tramutata in legge, un procedimento penale tutt’oggi aperto come quello sui Pfas che hanno avvelenato le acque di mezzo Veneto non sarebbe neppure cominciato. Ugualmente potremmo affermare per processi come quelli delle tante discariche tossiche trovate in Campania, come la Resit di Giugliano. Oppure quello denominato dalla stampa “Ambiente Svenduto” che ha portato alla condanna di eminenti esponenti della politica e dell’imprenditoria pugliese per i fatti dell’ex Ilva di Taranto. La lista sarebbe ancora lunga, ma ci fermiamo qua. Velocizzare i tempi della Giustizia ponendo tempistiche stringenti in materia di prescrizione in casi come i processi ambientali che, per loro stessa natura, implicano attente ed approfondite analisi tecniche e scientifiche, non di rado molto complesse, su dati e rilevazioni che non sempre si possono ottenere in tempi limitati significa, in poche parole, concedere l’improcedibilità a tutti - o quasi - i reati connessi all’inquinamento. Un bel regalo per le mafie ambientali, questo promosso dal Governo Draghi!
Il problema di base di questa pretestuosa riforma della Giustizia è che pretende di velocizzare i tempi dei processi senza affrontare il vero motivo che è causa di questa lentezza. Ovvero la scarsità di personale e di magistrati. Per non parlare del bassissimo livello di informatizzazione di questi uffici dove si procede ancora a timbri. Nel caso dei reati ambientali, questa deficienza è ancora più grave perché il nostro Paese non si mai dotato di un apparato logistico e scientifico davvero in grado di valutare i danni e le conseguenze dei tanti episodi di inquinamento, e di portare a giudizio gli inquinatori. Non ci fossero state le Mamme No Pfas a rivelare quanto accadeva nel vicentino ed organizzare presidi, manifestazioni ed a raccogliere puntuali dossier di denuncia, la Miteni, o chi per lei, sarebbe ancora là a riversare i suoi veleni nelle nostre falde acquifere.
Un appello al Governo perché inserisca nella Riforma anche i reati ambientali tra quelli che non possono essere oggetto di prescrizione, come i reati di mafia, di terrorismo, di traffico di stupefacenti e di violenza sessuale, è stato lanciato da Legambiente, Libera Contro le Mafie, Wwf Italia e Greenpeace. “La storia del nostro Paese è segnata da disastri ambientali che soltanto dopo l'introduzione nel Codice penale del delitto 452 quater (quello concernente il reato di disastro ambientale. ndr) sono oggi al centro di importanti processi - si legge nell’appello -. Per queste ragioni e per la complessità delle inchieste necessarie ad accertare la verità, chiediamo al governo Draghi e alle forze politiche che lo sostengono di inserire il disastro ambientale tra i reati per cui non sono previsti termini che ne determinino l'improcedibilità. Sarebbe una scelta di civiltà, fatta con la consapevolezza che ad essere in gioco sono l'ambiente in cui viviamo, la salute delle persone e la credibilità stessa della giustizia”.
Tra le forze politiche, a denunciare questo che hanno definito “un colpo di spugna per i crimini ambientali”, sono rimasti solo i Verdì che hanno sottoscritto l’appello delle quattro associazioni sopra citate. “I processi che riguardano i disastri ambientali e sanitari sono odiosi come quelli di mafia e non possono portare a una prescrizione senza che prima ne siano state accertate le responsabilità - ha dichiarato Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi-. Rischiamo un clamoroso passo indietro nella difesa dell’ambiente e di cancellare, nei fatti, il reato di disastro ambientale”.
Nessuna risposta è ancora arrivata dal Governo.
La protesta dei lavoratori-schiavi in prefettura
4/08/2021Il ManifestoCaporalato. Dopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre
Sono scesi tutti in piazza, probabilmente per la prima volta in vita loro, a reclamare diritti e dignità. Una trentina di lavoratori ha pacificamente manifestato ieri mattina in piazza Antenore, davanti alla sede della Prefettura di Padova, sostenuti dagli attivisti dell’Adl Cobas. Sono i lavoratori schiavizzati dalla cooperativa BM Services: pakistani per di più, ma anche qualche somalo ed eritreo. Lavoratori senza stipendio, costretti a lavorare per 12 ore al giorno all’interno degli stabilimenti di Grafica Veneta di Trebaseleghe o di Barizza International di Loreggia.
Due colossi, il primo in particolare, nel campo dell’editoria internazionale che utilizzavano i lavoratori schiavi messi a contratto dalla BM Services. L’inchiesta che ha portato all’arresto di 11 persone, tra i quali l’amministratore delegato Giorgio Bertan e il responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton di Grafica Veneta, è partita dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano picchiato, derubato e abbandonato legato ai bordi di una strada dai connazionali della BM Services. «Questi lavoratori non potevano neppure protestare perché la BM teneva in ostaggio i loro documenti e li ricattava trattandoli come schiavi ha spiegato Stefano Pieretti di Adl Cobas Oggi finalmente hanno potuto fare sentire per la prima volta le loro voci».
Dopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre. «Abbiamo spiegato al prefetto che la proposta avanzata dalla proprietà è irricevibile spiega Pieretti -. Queste persone che hanno lavorato per anni, sfruttati e sottopagati, negli stabilimenti di Grafica Veneta non possono essere liquidate con un contratto a tempo di sei mesi ed un bonus di un migliaio di euro per gli stipendi non ricevuti».
L’Adl Cobas ha chiesto, sia per i 21 lavoratori delle Grafiche che per i 14 della Barizza, un contratto a tempo indeterminato e una liquidazione di 1500 euro per il mese di luglio che, a causa degli arresti che hanno praticamente azzerato la Bm Services, non gli è stato retribuito. «Abbiamo anche lanciato una sottoscrizione per consentire a questi lavoratori che sono letteralmente alla canna del gas di poter mangiare fino a che la loro situazione lavorativa non sarà stabilizzata. Teniamo presente che molti di loro si troveranno senza un tetto perché la BM non ha più pagato l’affitto della casa in cui li costringeva a vivere venti alla volta».
Una situazione, questa del caporalato diffuso nel mondo del lavoro che l’Adl Cobas ha denunciato i più occasioni. «Se il lavoro sporco del caporalato viene sempre lasciato ad altri, in questo caso la BM, non ci vengano a raccontare che i vertici delle aziende coinvolte non ne sapevano nulla! conclude Pieretti Grafica Veneta aveva stipulato un contratto da 270 mila euro all’anno con la BM per 21 lavoratori. Basta fare due conti ed appare evidente che questo non poteva significare altro che una retribuzione da 4 euro l’ora al massimo. Un bel risparmio per una azienda di punta nel campo dell’editoria che lo scorso anno ha fatturato un ricavo di 158 milioni di euro e che certo non si può definire in crisi».
Roghi in Sardegna, il sistema antincendio c'era, ma è stato dismesso
30/07/2021LaViaLiberaDopo le fiamme sul Montiferru, la procura di Oristano indaga per incendio colposo aggravato. Il presidente della Regione Solinas ha chiesto lo stato di emergenza, ma nessuno guarda alle cause
Raccontano ad Oliena (in provincia di Nuoro) che il santo più venerato in Sardegna sia tale S’Antincendiu. Il santo protettore del servizio antincendio che ha dato conforto e lavoro a tantigiovani disoccupati dell’isola. Santo del tutto sconosciuto all’agiografia cristiana, che si può anche leggere Sant’incendiu e che, in questa veste, ha permesso ad altrettanti proprietari terrieri di ricavare un bel po’ di denaro dai roghi appiccicati ai loro appezzamenti.
Oliena è una cittadina arroccata nel cuore della Barbagia, regione tristemente nota per i sequestri di persona negli anni ’70 e ’80. Cittadina famosa perché il giorno di Pasqua, che qui festeggiano col nome S’incontru, tutta la gente del paese si affaccia alle finestre per sparare in aria all’impazzata con doppiette da caccia, pistole 44 Magnum e mitra Ak 47. Neanche quando facevo il corrispondente da Beirut ho mai assistito a una sparatoria del genere. “Un territorio armato fino ai denti. Nuoro guida la classifica italiana”, titolava un reportage della Nuova Sardegna che sottolineava i dati allarmanti di questa provincia col più alto numero di possessori di porto di pistola e di fucile per uso venatorio. “Poi ci sono le armi illegali, ma quella è un’altra storia” concludeva il reportage. E se il nuorese è in testa all’hit parade delle armi, le rimanenti provincie sarde seguono da vicino. Il culto delle armi da fuoco, in quest’isola, è diffuso in tutte le generazioni ed è strettamente legato a termini come la “valentia” (una sorta di onore maschilista contornato di obblighi di vendette ad ogni costo) di cui si sono fatti scudo anche i (pochi) piromani che la magistratura è riuscita a mandare a processo.
Rifiuti in fiamme: il patto tra imprenditori, amministratori e mafie
L'incendio non ha cause naturali
Tre incendi, in sospetta contemporaneità, hanno fatto piazza pulita dei boschi di Oristano e compiuto una strage di animali. Si sospetta un'origine dolosa
L’isola armata sino ai denti oramai ogni estate viene devastata da terrificanti incendi. Incendi che, anche in virtù delle nuove e sempre più torride condizioni climatiche, si rivelano ogni volta più devastanti. Il Wwf nel suo ultimo report Il Mediterraneo brucia li ha definiti mega-incendi: “A partire dal 2017 una nuova generazione di incendi è apparsa nell'Europa mediterranea, superando per dimensione e portata i grandi incendi. Si tratta di mega-incendi che generano vere e proprie tempeste di fuoco, causate del collasso della colonna convettiva”. Anche questa è una conseguenza del cambiamento climatico. Sempre secondo il Wwf – che lancia un preoccupato e sino ad ora inascoltato appello ai governi per dotarsi di strumenti atti a difendere la biodiversità e il nostro patrimonio boschivo – solo il 4 per cento di questi incendi sarebbe dovuto a cause naturali. Il rimanente è imputabile a negligenza umana o a episodi dolosi.
Per quanto riguarda il disastro accaduto in Sardegna negli ultimi giorni, l’ipotesi delle cause naturali la possiamo escludere in partenza. La magistratura sta ancora indagando, ma i responsabili del corpo forestale sardo hanno già messo in chiaro che il rogo principale, quello che ha letteralmente divorato il Montiferru, è stato innestato a Bonàrcado-Santu Lussurgiu da una vettura incendiata. Anche per gli altri tre incendi che, in sospetta contemporaneità, hanno fatto piazza pulita dei boschi di Oristano e compiuto una strage di animali, si sospetta un'origine dolosa. La magistratura ha già aperto un fascicolo contro ignoti.
Fumi neri su Aprilia: un inquinamento ignorato
Il sistema antincendio dismesso nel 2005
"Si è privato in modo arbitrario e – per chissà quali secondi fini – il nostro patrimonio boschivo sardo di uno strumento fondamentale per la prevenzione e la lotta agli incendi"Michele Cossa - Consigliere regionale dei Riformatori sardi
La natura – in questo caso l’impetuoso vento di maestrale – ha senza dubbio accentuato la propagazione dell’incendio, ma direttamente (per dolo) o indirettamente (per cambiamenti climatici) la devastazione alla quale abbiamo assistito, è imputabile soltanto all’uomo. Anche nelle evidenti carenze nell’affrontare una situazione che si continua a definire “emergenziale” pur ripetendosi ogni anno con le stesse modalità. Com'è possibile che nella regione più colpita dagli incendi in tutto il Paese non fosse stanziato un numero sufficiente di Canadair (gli speciali aerei antincendio) e che questi siano dovuti arrivare dalla Corsica e dalla Grecia per fermare le fiamme? “Forse abbiamo comperato gli aerei sbagliati”: nel web si è subito scatenata l’ironia degli ambientalisti che hanno impietosamente messo a confronto le enormi spese sostenute dall’Italia per acquistare i cacciabombardieri F35 con quelle destinate al servizio di Canadair. Servizio che, tra le altre cose, in Italia è stato appaltato a una ditta privata, al contrario di altri Paesi europei dove è gestito, con ottimi risultati, direttamente dal corpo forestale.
Tutto vero. Ma si dimentica che un servizio antincendio funzionante e che aveva dato pure ottimi risultati, la Sardegna lo aveva già. Peccato sia stato completamente dismesso nel 2005. Una scelta condannata anche dal tribunale di Cagliari che nel 2018 ha obbligato la Regione a risarcire Teletron euroricer, la ditta che aveva messo a punto questo sistema basato su un’innovativa tecnologia di telerilevamento capace di segnalare immediatamente lo scoppio di un incendio e intervenire prima che le fiamme si propaghino incontrollate. Il sistema Teletron è attualmente adoperato in altre regioni italiane considerate a rischio ed è utilizzato anche in altri Paesi mediterranei come Spagna e Grecia. La Teletron aveva iniziato la sperimentazione proprio in Sardegna, nel 1984. Il sistema è diventato operativo l’anno successivo rivelando subito la sua efficacia e abbattendo dell’85 per cento il numero di incendi. Il sistema funzionava infatti anche come deterrente per eventuali piromani la cui azione criminale viene subito rilevata dal sistema.
Terra dei fuochi, bonifiche e riforme ferme da 13 anni
Ma nel 2005 la Regione ha preferito dismettere il sistema, dichiarando finita la sperimentazione. E il numero di incendi è subito schizzato verso l’alto. “Si è privato in modo arbitrario e – per chissà quali secondi fini – il nostro patrimonio boschivo sardo di uno strumento fondamentale per la prevenzione e la lotta agli incendi – ha dichiarato il consigliere regionale di opposizione Michele Cossa, dei Riformatori sardi –. Per realizzare le 50 postazioni sperimentali di telerilevamento, la Regione aveva investito 30 milioni di euro, senza contare i quasi 900 mila euro per gli aggiornamenti. Ma invece di implementarle, abbiamo speso altri soldi per dismetterle. E, come se non bastasse, la Regione dovrà spendere altri 230 mila euro per rispettare la sentenza del tribunale”.
Nel frattempo la Regione ha preferito continuare a investire ogni anno almeno 80 milioni di euro in campagne antincendio la cui efficacia è sotto gli occhi di tutti. Senza contare i cospicui finanziamenti a fondo perduto che, una volta raffreddatasi la situazione, arriveranno dal Governo centrale come conseguenza dello stato di calamità che il presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha prontamente chiesto. In una nota Solinas ha già assicurato che sono state accelerate le procedure per "abbattere tutti i tempi tecnici e burocratici e abbreviare i passaggi che ci consentiranno di erogare i ristori ai cittadini e alle aziende, per il risanamento degli edifici pubblici e privati, per una ripartenza che vogliamo tutti sia rapida". Ai fedeli di S’Antincendiu non resta che ringraziare il loro santo protettore.
Grafica Veneta, la Cgil: «Dall’indagine elementi sconcertanti»
28/07/2021Il ManifestoSfruttamento. Nell'azienda che ha stampato Harry Potter 11 arresti con accuse pesanti
«Mi domando che razza di paese sia quello in cui ci si lamenta della disoccupazione ma si rifiuta il lavoro. Su 25 posti aperti ne ho coperti solo 4 in tre mesi. Qualche ragazzotto che dà la disponibilità c’è ma poco dopo rinunciano per via dei turni che reputano troppo pesanti». Così, nell’aprile del 2018 si lamentava in un’intervista l’amministratore unico di Grafica Veneta, Fabio Franceschini. Una personalità di spicco nell’editoria nazionale, tenuto conto che l’azienda di Trebaseleghe (Padova) pubblica best seller come la saga di Harry Potter e la biografia di Barack Obama.
Già grande amico del governatore del Veneto Giancarlo Galan, prima della sua rovinosa caduta, Franceschini si era lasciato convincere a candidarsi al parlamento nel 2018 nel collegio di Vicenza con i colori di Forza Italia ricavandone però la classica trombatura per l’inaspettato balzo in avanti della Lega. Parole, queste del patron di Grafica Veneta sulla poca voglia di lavorare dei giovani, che assumono tutto un altro sapore dopo l’inchiesta dei carabinieri di Padova sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri in forza alla sua azienda che hanno portato all’arresto di 11 persone accusate, tra le altre cose, di rapina, estorsione e sequestro di persona.
Nove degli arrestati sono di origine pakistana. Secondo gli inquirenti, facevano parte di una organizzazione specializzata nello sfruttare i connazionali, obbligandoli a vivere e a lavorare in condizioni inumane negli stabilimenti della Grafica e utilizzando metodi violenti come pestaggi, minacce alle famiglie e sequestri. L’inchiesta infatti è cominciata dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano legato, picchiato e abbandonato ai bordi di una statale di Piove di Sacco (Padova). Gli ultimi due arrestati sono però due pezzi grossi di Grafica Veneta: Giorgio Bertan, amministratore delegato, e Giampaolo Pinton, direttore dell’area tecnica dell’azienda. Il patron, che non risulta indagato, ha comunque espresso parole di fiducia nei confronti dei suoi stretti collaboratori finiti in manette sottolineando «la piena stima e il completo supporto».
Diverso il parere degli inquirenti secondo i quali i due erano perfettamente a conoscenza dei metodi usati dall’organizzazione pakistana. Mentre la magistratura prosegue le indagini, emergono particolari raccapriccianti sulle condizioni di lavoro ai quali sono sottoposti i lavoratori, tutti assunti con contratti capestro interinali, costretti a turni di 12 ore, senza ferie e tutele, e obbligati per di più a versare parte dello stipendio all’organizzazione per pagarsi l’affitto in stanze dormitori fatiscenti riempite con una ventina di persone. Non sono mancate le reazioni sul piano politico e sindacale.
Cristina Guarda, consigliere regionale di Europa Verde, ha sottolineato in un comunicato la vicinanza dell’azienda con il presidente veneto Luca Zaia. In più occasioni infatti, il Governatore leghista ha espresso ammirazione e pubblicamente lodato la Grafica per aver fornito 2 milioni di mascherine ai tempi della prima ondata pandemica. «Vista oggi, quella di Grafica Veneta sembra solo una azione di ethics washing. Chiediamo alla Regione di valutare tutti gli strumenti idonei a tutela della propria immagine e della qualità del lavoro in Veneto. Anche per valutare se ci sono altri casi come questi nel nostro territorio».
Per la Cgil regionale, il caso di Grafica Veneta dimostra una volta ancora come il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni sia un sistema malato. Premesso che spetta alla magistratura fare luce sull’intera vicenda, Christian Ferrari, segretario generale della Cgil del Veneto, ha commentato: «Quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù. Lavoratori privati non solo dei diritti più elementari ma addirittura della loro libertà. Noi abbiamo molte volte denunciato che il fenomeno del caporalato è presente nella nostra regione nell’agricoltura, nell’edilizia e nella logistica. Ma sapere che nemmeno una azienda che è considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti. E deve far agire le istituzioni».